#magari vado più tardi così mi fermo perché la gente del posto ha detto che dovrebbero fermarsi per foto e autografi
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comunque il pessi è un raggio di sole anche dal vivo
#ha proprio un faccino simpatico#spero tanto di riuscire a salire di nuovo settimana prossima magari dopo l'esame di mercoledì 😅#magari vado più tardi così mi fermo perché la gente del posto ha detto che dovrebbero fermarsi per foto e autografi#e ci tengo ad avere un ricordo con il pessi quindi speriamo 🕯️🤞#è stato comunque molto bello vederlo dal vivo poi proprio oggi che sono due anni dalla vittoria dell'europeo
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Lo Scalpello
Quando piove, i miei occhi diventano imprevedibili. Aiutato dai riflessi causati dalla patina d'acqua, a volte noto particolari che non avevo mai visto prima, roba tipo lo stemma del comune impresso sui tombini. Più spesso succede il contrario: costruzioni, persone e alberi diventano forme indistinguibili, oggetti di pongo nero modellati da un bambino con qualche disturbo dell'attenzione. E quindi sono a Montecatini sotto il diluvio che cerco l'hotel, ma potrei essere benissimo a Mosca, Berlino o Busto Arsizio che tanto non me ne accorgerei. Tra l’altro è pure sera. «Ma non siamo già passati da qui?» dice Laura, smanettando con i comandi del riscaldamento per cercare di non far appannare il vetro. «Mmmh. Dici?» «Mi ricordo quel negozio.» «Quale?» mormoro distratto mentre cerco di puntare la bocchetta verso il centro dell'abitacolo. «Quello» fa lei indicando qualcosa nel vuoto davanti a noi. Guardo il dito proprio come nel famoso proverbio. «Hai delle belle unghie» dico. «Scemo. Guarda la strada.» «Tanto non vedo un cazzo.» «Gira a destra.» «Ma sei sicura?» «Non credo che da queste parti ci siano molti negozi che si chiamano "La Boutique di Katiusha"» Metto la freccia e imbocco una strada lievemente in salita. Un paio di lampi anticipano altrettanti tuoni, d'altro canto la luce si propaga più veloce del suono anche a Montecatini.
Fermo la macchina davanti a un cancello con scritto "Parcheggio". La scritta è bella grossa e la spazzolo cono lo sguardo facendo un sorrisetto, cioè non proprio un sorrisetto, piuttosto la stessa faccia da cazzo che ho fatto quando ho scelto un albergo con il posto auto anche se non era tra quelli consigliati. Tiro giù il finestrino, sporgo la testa, accendo pure gli abbaglianti ma non vedo pulsanti, diavolerie citofoniche o roba simile. Il cancello sembra uno di quei varchi che si trovano nei videogiochi, quelli che per aprirli devi raggiungere un posto remoto del livello per attivare un improbabile meccanismo. Allora comincio a tirare pugni sul cancello, a suonare il clacson, a mormorare frasi sconnesse del tipo "cazzo, cazzo, forse dovevo tirare la catena del cesso all'autogrill di Lucca per entrare nel parcheggio." Cercando l'ombrello da qualche parte dietro il sedile, Laura dice che scende e va alla reception per chiedere di aprirmi. Non faccio in tempo a dire qualcosa che lei è già scesa.
Dopo qualche minuto, Laura rientra in macchina. Si siede e poi dice: «È pieno.» «Come sarebbe a dire?» «Sarebbe a dire che è pieno» fa Laura mimando il pieno con la mano. «Cazzo, ma anche l'anno scorso era pieno» dico ripetendo il suo gesto e, mentre lo faccio, mi rendo conto che non vuol dire proprio nulla, è una specie di asterisco-punto-asterisco della comunicazione, vale per tutto, insomma. Ingranando la marcia dico: «Chi cazzo ci viene qui a novembre?» Mentre sparisco nel diluvio per cercare parcheggio, Laura dice che non ci viene nessuno, che è il parcheggio è un trucco, uno specchietto per le allodole. In questi momenti mi pento di aver smesso di fumare, però non mi manca la nicotina: mi manca la disponibilità di una fiamma libera.
L'interno dell'hotel sembra l'inferno. E non solo per il colore rosso che impesta tutto: moquette, carta da parati, cuscini, tendaggi, un divanetto con delle macchie che preferisco non sapere cosa siano e le finiture di un tavolino che sostiene una pila di volantini sul parco a tema di Pinocchio. Dicevo, l'hotel sembra un inferno per via della temperatura. In preda al sudore e alla gola che si secca, porgo i documenti al portiere, un tipo sulla cinquantina intento a guardare la partita. Senza distogliere lo sguardo dalla televisione dice che la colazione è dalle 6 alle 9. «Ma che cazzo di orario è?» dico girandomi verso Laura. Lei mi sorride e poi mi fulmina: è una specie di entaglement sentimentale, un paradosso per cui approva ammonendomi contemporaneamente. C'è un fallo al limite dell'area di rigore, quindi anche le mie parole cadono nel vuoto, falciate. «E il parcheggio?» dico alzando la voce. «Eh, purtroppo siamo pieni» risponde il portiere. Poi abbozza un gesto in direzione della vetrata che si affaccia sul diluvio e sulla notte. «Almeno c'è Internet?» «In tutte le camere.» «Meraviglioso. E la password?» «Di Internet?» «Già.» «È "internet".» «Quasi quasi vado a prendere la macchina e provo a entrare nel parcheggio urlando “parcheggio”» dico acchiappando il manico della valigia viscida per la pioggia. «Quando arrivano gli altri ospiti?» «Appena trovano un posto per l’auto» rispondo. Laura tossisce per finta così dico che arriveranno più tardi. Ci infiliamo nell'ascensore e dico al mondo che ci vediamo domani. Nessuno risponde, pazienza.
L'indomani mattina ci incontriamo nella hall. Il portiere è proprio come lo ricordavo dalla sera prima: faccia lievemente più stanca e ricrescita della barba ormai evidente. Le uniche differenze degne di nota sono la televisione che ora trasmette un telegiornale e la situazione meteorologica. In confronto ad ora, il diluvio della sera prima sembra un soffione della doccia incrostato dal calcare. I nostri occhi si scambiano un messaggio abbastanza banale: nessuno vuole bagnarsi. Ad un certo punto, Keit prende sottobraccio la ballerina, dice che ha la macchina a puttane e si dirige verso l'uscita. Io abbraccio Laura e faccio lo stesso. Invece Matteo zoppica così tanto da sembrare immobile. «Sta' qui che ti vengo a prendere» fa La-hùra mentre traffica con la cerniera di una giacca dalle finiture in stile K-Way. Scende rapida quattro scalini e si allontana emettendo lo stesso rumore della risacca. Aggiustandosi lo zainetto sulle spalle, Matteo dice che ieri a Lucca ha camminato troppo, e che l'Aulin non gli sta facendo effetto. Poi, indicandomi la gamba, dice che la prenderebbe a martellate. Vorrei dirgli che so chi potrebbe farlo, ma sono già arrivati a prenderlo perché La-hùra si è fatta tutta la strada in retromarcia per fare prima. La macchina inchioda proprio dalla scalinata che congiunge la hall con la strada. Zoppicando, Matteo avanza fino a uscire dalla tettoia che offre un riparo minimo e con fatica sale sulla macchina.
Apro l'ombrello sulla testa di Laura e le chiedo se le ho mai raccontato la storia dell'ortopedico olandese. Annuisce e con un fazzoletto di carta cerca di pulire le lenti degli occhiali piene di goccioline. «Però raccontamela nuovamente» dice. «Visto che insisti» faccio ridendo. Camminiamo verso la nostra macchina e ci troviamo a respirare assetati di aria fresca, lasciandoci alle spalle una breve vacanza, l'albergo e un parcheggio che non c'era.
Comunque, la storia dell’ortopedico olandese è questa: inizio anni duemila, sono in Germania ad una festa della birra. Ad un certo punto, al mio tavolo arriva un tizio che parla un italiano incerto e sembra una specie di sosia di Adolfo Celi quando era sulla cinquantina. Comincia a parlare e mi dice che è di Genova come me, che siamo dello stesso gruppo e che lui è olandese. Non lo ricordo ma non ho nemmeno il tempo di attivare qualche poderoso processo sinaptico impantanato nell'alcool perché il tizio comincia a parlare. Però non è una roba tipo chiacchiere tra amici: così, in pochi istanti, vengo travolto da una slavina di parole tempestata da qualche sputo. Per sfuggirgli, mi alzo fingendo di dover pisciare, cosa che tra l'altro mi viene facile, ma dico "ahi" e rimango bloccato da una specie di colpo della strega. Allora il tizio dice che sono fortunato, dice proprio "Caro mio sei fortunato" e io lo guardo e non capisco se sia ubriaco o genuinamente convinto. Provo a interromperlo ma senza successo. Adesso dice che è ortopedico, che lavorava in Olanda ma è dovuto venire in Italia per dei problemi. «Quali problemi?» dico massaggiandomi la schiena. Allora lui tentenna e abbozza che non è proprio un ortopedico, ma quasi. «Quasi? Non è che puoi essere medico un po'...» sbotto svuotando il boccale e pulendomi il labbro inferiore con il dorso della mano. La quantità di bava indica che la sbronza è imminente. E insomma, il tizio dice che no, non è un medico e che usa uno scalpello di silicone e un martello di gomma e poi mima dei movimenti gesticolando con le braccia. Per farla breve, salta fuori che questo immobilizza la gente e poi - bum, bum, bum - la prende a martellate, in pratica le scolpisce come se fossero dei blocchi di marmo per far rientrare ernie, distendere muscoli contratti, far assorbire ematomi e trafficare con chissà che altre sfighe. Scrollo la testa e provo ad alzarmi dalla panca. Lui coglie la mia impasse cinetica e dice che ha gli attrezzi in macchina, magari dopo mi tratta. Deglutisco rumorosamente poi parlo, ancora oggi non so animato da cosa. «Ma lo hai fatto già altre volte?» «Migliaia. Te l'ho detto, lavoravo in Olanda.» «Magari prima sento qualche tuo paziente, insomma raccolgo qualche parere...» e dopo essermi dato uno slancio per mettermi in piedi, con dolore dico «...però peccato che non conosca nessuno da quelle parti.» «Come no? Avevo in cura Van Basten.»
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