#ma sempre chiamato cancellino
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Alba, si va? — Francesca Petrucci
Alla mia età, che vuoi che sia non uscire. Come se uscissi tanto, a cose normali. Esco poco, però uscire mi serviva. Mio marito, pover’uomo, non ci sta più con la testa, e io la mattina presto, alle otto, andavo a fare la fisioterapia qui alla Asl, poi mi fermavo a comprare il pane, e il giornale, la spesa se serviva alla coppina. Un po’ di pensiero ce l’avevo, perché lui a lasciarlo solo in casa non lo sai cosa può combinare. Però la mattina di solito dorme, per via delle gocce che prende per stare buono la notte, che Dio solo lo sa quello che mi ha fatto tribolare prima che il dottore gli segnasse le medicine.
Si svegliava, si agitava, non capiva dov’era e a volte neppure mi riconosceva; si voleva vestire, uscire, andare a casa sua, e io cercavo di calmarlo, di spiegargli, ma dovevate vedere come mi si rigirava a cattivo. Più lo prendevo per le buone, più si imbestialiva. Una notte mi fece anche paura, non che abbia tante forze ormai, è tutto pelle e ossa rattrappite, ma insomma anche io non son più quella di una volta e un ginocchio non mi tiene quasi per niente. Mi prese per un polso che io quella forza lì non so da dove la prese, e mi chiamò brutta puttana. Non era in lui, e io non sapevo che fare. Se infilava la porta e usciva addio. I miei figlioli stanno lontani, di certo non li potevo chiamare nel cuore della notte per dirgli venite a fermare babbo che dà di matto e vuole scappare di casa. Me la dovevo sbrigare da sola, tanto per cambiare. Allora mi venne un’idea e gli dissi: “Va bene, Vasco, va bene, hai ragione te, devi uscire, non t’agitare. Vestiti e vai nel bagno che io ti faccio il caffè e poi vai, eh”. Funzionò, nel mentre che era nel bagno e che io preparavo la moka con le dita tremanti che non mi riusciva neanche chiuderla e il polso che ancora mi faceva male, passò un quarto d’ora. Quando uscì dal bagno mi guardò con quello sguardo annacquato come il vino che gli metto nel bicchiere: un dito appena, che gli garbava tanto e levarglielo mi piange il cuore. Mi guardava e stava zitto, tenendosi su i pantaloni del pigiama con tutte e due le mani, stringeva le labbra come un bimbetto e stava zitto. “Vasco, allora, tutto a posto, sei pronto?” gli dissi. Lui fece di sì con la testa, e m’arrivò un tanfo che mi strinse la gola. S’era cacato addosso, e della voglia di uscire se n’era dimenticato.
Lo spogliai tutto e lo infilai nella vasca, il pigiama dallo schifo lo buttai nel secchio, lo lavai con acqua calda e sapone, poi lo improfumati per bene con il borotalco e lo vestii bello pulito; quando si tornò a letto erano le quattro passate. Lui si riaddormentò subito, io non ci fu verso di chiudere occhio e alle sette ero già in piedi un’altra volta.
Da quando prende le gocce invece dorme, è più calmo, puttana non mi c’ha più chiamata, ma a parte me, non riconosce nessuno, neppure i figlioli.
La mattina quell’oretta fuor di casa mi ci voleva. Mi aiutava a non diventare matta come lui, che poi il dottore dice che non è matto, è solo demenza senile, per via degli anni, o forse anche Alzheimer, perché appunto spesso dice cose senza senso o che riguardano il passato, ha fatto la guerra, e di quel periodo prima non ne parlava mai volentieri, ora invece racconta, piange alle volte, scuote la testa, batte il pugno sul tavolo. Mi fa una pena che non ve lo posso dire.
Il pomeriggio, dopo il riposino lo portavo giù a fare una giratina, non quando è freddo e il tempo è brutto, ma appena arrivavano i mesi buoni si scendeva e si camminava fino al parco. Ci si sedeva sulla panchina, a guardare i bimbetti giocare fra loro, e io invidiavo sempre quelle nonne che badavano i nipoti. Io non me li son potuti godere, son cresciuti vedendo i nonni poche volte l’anno, troppo lontani, la scuola, il lavoro, e lo sport. Tempo per venire da noi ce n’è sempre stato poco e lo capisco, ora poi. Cosa vuoi stare dietro a due vecchi rimbecilliti.
Da quando non si può più uscire Vasco è peggiorato. Non me n’ero accorta, ma a lui il fatto di scendere a fare la nostra giratina gli faceva parecchio bene. L’aria aperta, camminare, la luce, guardare gli altri. Non diceva nulla, però si tranquillizzava, si stancava, a fare quattro passi, e le scale.
Ora tutti i pomeriggi mi fa la stessa domanda: “Alba, si va?”. E tutti i giorni gli rispondo allo stesso modo: “Vasco, non si può uscire”. Le prime volte gli dicevo che era ancora troppo freddo, poi che era tardi, sempre una scusa diversa, ma tanto lui se lo dimentica cosa gli dici. Sicché non gli sto più a dare una spiegazione, gli dico che non si può e basta. E lui diventa più triste, gli faccio la merenda quando si alza, poi lo metto in poltrona e accendo la televisione. Tutti i canali parlano di questo virus, di morti, di ospedali pieni, di negozi chiusi, di chi perde il lavoro…e mi monta l’angoscia. Vasco non si rende conto, almeno spero. Io dopo un po’ cambio, cerco qualche vecchio film, o telenovela, anche se non ci sono più quelle che mi piacevano tanto. Vasco andava matto per i film western, e quando ne danno uno lo guarda e sorride contento come un bimbetto. Perché ormai sembra proprio un bimbetto, come fosse andato indietro con gli anni, invece che avanti. Mi fa tenerezza, vedere quel che è diventato, lui che era un uomo allegro, sempre attivo, che non si dava mai per vinto e tutto si risolveva in qualche modo, anche quando non s’aveva una lira e di soluzioni ce n’erano poche, perfino per mettere insieme il pranzo con la cena e tirar su due figlioli.
Ora non si sa più cosa sperare. Che questo momentaccio passi, ma non per noi che tanto siamo vecchi e ormai il nostro s’è fatto. Certo, non si può uscire ma insomma, ve l’ho detto, è il meno. Penso a tutti quei giovani, che c’hanno da sfamare la famiglia e perdono il lavoro, è per loro che spero che passi presto e le cose possano tornare come prima. Per noi tutto quello che chiedo al Signore è che ci lasci qui boni boni, finché non passa la bufera. Vasco non c’è più con la testa, a volte me la fa perdere anche a me, ma si sta insieme da più di cinquant’anni, tutta la vita, senza di lui non saprei neanche da che parte scendere dal letto.
Da qualche giorno ha un po’ di tosse, gli dico che non si può uscire per quello, mi pare abbia anche un po’ di temperatura, quando stasera gli do le gocce gliela misuro.
Stanotte ha avuto la febbre alta, gli ho messo delle pezze bagnate sulle tempie, si agitava, delirava. E poi quella tossaccia secca maledetta che sembra gli voglia uscir fuori dal petto scheletrico, spaccarglielo in due; a tratti pare gli manchi l’aria.
Stamani mattina ho chiamato il dottore, ma quello non veniva neppure quando non c’era questo virus, figuriamoci ora se si scomoda per un vecchio.
“Gli dia lo sciroppo sedativo – ha detto – e la tachipirina, se tra tre giorni non passa la febbre gli segno l’antibiotico”.
“Ma non sarà il virus dottore?” ho risposto io.
“Signora, se avevo la palla di vetro facevo il mago, non il medico, le pare? Ad ogni modo virus è un virus per forza, come l’influenza”.
Bella risposta del cavolo, pezzo di imbecille. Se facevi il mago almeno avevano risparmiato per farti studiare, gli avrei voluto dire, ma son stata zitta.
Sono andata in farmacia, il dottore è tanto carino, mi ha dato un numero da chiamare, perché secondo lui è importante fargli fare il tampone.
Vasco a tratti sembra abbia perso conoscenza, ormai son tre giorni pieni che ha la febbre, ieri pomeriggio ho richiamato quel pezzo di cretino di dottore, non c’era verso di parlarci e alla fine ho lasciato detto alla segretaria: ha detto che mi lasciava la ricetta per l’antibiotico giù nella cassetta, con il suo nome sopra.
Un’altra nottata di tosse e affanno e febbre. Stamani mattina presto sono andata a prenderla, il farmacista mi ha chiesto se ho chiamato il numero, gli ho detto che era occupato e che il dottore gli ha segnato la medicina, speriamo vada meglio con quella.
Lui ha annuito dietro la mascherina e non ha detto nulla. Mi fa un effetto strano vedere la gente con la mascherina, e con i guanti, mi sembra di essere in una enorme sala operatoria, come se si fosse tutti pazienti da operare. E forse è così.
Forse questo maledetto virus ci ammazzerà per davvero, a cominciare da noi vecchi, che siamo i più deboli e tanto non gliene frega nulla a nessuno se ci si lascia le penne. Anzi forse qualcuno è anche contento: pensioni risparmiate. Il mondo dei vecchi non se ne fa di nulla, siamo un peso e basta, a partire dai figlioli in su.
Cerco le chiavi, mi trema un po’ la mano. Apro il cancellino, poi il portone del palazzo. Devo fare tre piani di scale, l’ascensore non ci si può mettere e l’amministratore ha detto che alle persone anziane fare le scale fa bene. Ti farebbe bena ma a te con quella pancia, ma tanto poi sto zitta e quel che penso non lo dico mai, alla mia età ho imparato che non conviene.
Mi pare che non regga neanche la gamba buona stamani, o che mi prende. Via Alba, mi dico, non ti fare impressionare. Metti un piede dopo quell’altro e porta a Vasco la medicina. Pover’uomo, quando sono uscita stamani m’ha fatto un’impressione, in quel letto pareva un ramo secco, gli occhi in fondo a due buchi che ci galleggiavano come palline in un pozzo.
“Torno subito Vasco – gli ho detto toccandogli la fronte che scottava ancora – ti vado a prendere la medicina che ha detto il dottore, vedrai che poi stai subito meglio”.
Lui mi ha fatto di sì con la testa, la bocca spalancata vuota di denti.
Sono uscita con l’uggia allo stomaco, forse anche perché ero digiuna, svelta giù per le scale per fare prima possibile.
Mi aggrappo forte alla ringhiera e conto i gradini. Lo faccio spesso, lo so che ce ne sono 52, mi sembrano troppi oggi, 52 scalini. Vorrei che qualcuno mi pigliasse sotto alle braccia e mi portasse su di peso. Al 34esimo scalino faccio una pausa, mi manca il fiato. Non mi verrà mica la febbre e la tosse anche a me? E se ce l’ha davvero questo virus, il mi’ Vasco, non è che è meglio se si va all’ospedale?
Riprendo con fatica a salire le scale, all’ospedale ti ci portano e poi resti solo. L’ho visto alla televisione come succede, tutti quei poveri vecchi sulle barelle per i corridoi attaccati all’ossigeno. No via, il mi’ Vasco non ce lo lascio da solo, chissà come fa da solo, loro non lo sanno mica prendere, e poi a lui gli ci vuole di stare a casa sua, tranquillo, il dottore ha detto che con l’antibiotico la febbre gli passa. Va bene che non sarà il più bravo del mondo, ma lo saprà, è un dottore.
Mi manca l’ultima rampa, o brava Alba, lo vedi che ce la facevi, invece di frignare muoviti e vai a vedere quel pover’omo.
Infilo la chiave nella toppa, la mano mi trema, o maledetta te! Ti sbrighi! Finalmente in casa. Mi levo il cappotto, appoggio le chiavi. Le mani, subito a lavarsi le mani e intanto lo chiamo: “VASCO! Sono tornata eh, ora arrivo!”.
Bene con acqua e sapone, per un minuto.
“Prendo l’antibiotico e te lo porto! – gli urlo dalla cucina – anche un pochino di tè, lo vuoi vero? Con du’ biscottini così non lo pigli a stomaco vuoto che ti da noia lo sai!”.
Metto sul fuoco il pentolino dell’acqua e mentre aspetto che bolla m’affaccio in camera a vedere come sta.
Bello tranquillo, dorme giù, menomale. Socchiudo la porta. Dorme. Bello tranquillo. Faccio il tè, lo verso nella tazza e prendo tre o quattro marie da inzupparcele e la pasticca dell’antibiotico. Mi dispiace svegliarlo, ma son le dieci e l’ora giusta è ora, così stasera poi lo ripiglia prima di dormire. Ogni dodici ore, ha detto il dottore e anche il farmacista, che mi fido più di lui che di quell’altro.
Metto tutto su un vassoietto e vado in camera per svegliarlo.
“Vasco… – mi trema appena la voce, appoggio il vassoio sul cassettone – Vasco”.
Mi avvicino, spalanca occhi e bocca come se avesse sentito uno sparo. Mi s’era gelato il sangue, Ossignore, mi giro a prendere il vassoio, lo tengo stretto perché oggi questo ginocchio proprio va per conto suo.
“Vasco, ora ci si tira su e si beve il tè eh”.
Fa di sì con la testa, o almeno mi pare, poi prende una gran boccata d’aria, mi guarda e resta così. Con la bocca spalancata. Mi cade il vassoio dalle mani e il mondo addosso, il tè bollente mi ustiona le gambe, ma non sento nulla, tutto prende a girare, intorno a me, un vortice che mi confonde la testa e me la svuota.
Guardo Vasco, cercando nel vuoto della sua bocca le parole che non escono dalla mia.
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Estetica cinofila
L’abbiamo chiamato Thor, perché devasta tutto - dice stendendo la prima passata di smalto. Quando ce ne andiamo da casa, la mattina, si sente abbandonato, si rivolta contro l’appartamento e distrugge tutto quello che gli capita a tiro. Ci tocca metterlo nella stanza dei matti, senza niente alle pareti, sì sì. Che poi non è nemmeno una stanza chiusa, c’è un cancellino di ferro per non farlo uscire però, altrimenti dopo il divano, la libreria e il tavolo non so che altro attacca. Ma non è colpa sua, è il trauma che si porta appresso, sì sì, come per gli uomini. Quando l’abbiamo preso al canile aveva cinque anni, sì sì, da tre lo tenevano in una gabbia, senza farlo uscire, perché avevano paura. L’ho visto, si è messo ad abbaiare. Ho capito che volevo lui, pure se il mio compagno era contrario. Non voleva aggredire, urlava solo il suo disperato bisogno di uscire. Lo avevano trovato su un campo, il padrone lo teneva lì con la sorella, gli portava da bere e mangiare una volta a settimana, se si ricordava. Ha vissuto da randagio, l’avevano segnalato, ma i vicini si sono mossi solo dopo che la sorella era morta per la lesmaniosi. Pure lui si è ammalato, sì sì, si è portato dietro questa carica batterica, va tenuto sotto controllo. E chi ci pensava mai ad avere un cane? Io sono una ex paurosa. Poi un giorno vado a prendere un caffè da un amico del mio fidanzato, mi trovo davanti cinque rotweiller. Cerco di restare calma, sì sì, perché i cani la paura la fiutano, poi è peggio. Ma dopo sono stati di una dolcezza, mi sono innamorata. Adesso ce ne ho due, che sorvegliano sulla nostra casa, ci hanno salvato dai ladri per tre volte. M’hanno vaccinato contro lo spavento per ogni animale, per sempre.
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