#loro che si spingono sono una delle cose più belle da guardare
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Bella raga oggi nostalgia portami via quindi ecco un pezzetto di una delle chissà quante prove che hanno fatto per l'esc 2022 (sotto il link per il video completo)
https://vm.tiktok.com/ZGeQMP7Wd/
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#belli#bellissimi#mi mancano un sacco#loro che si spingono sono una delle cose più belle da guardare#mahmood#blanco#blahmood#eurovision#esc 2022#brividi#🖤🤍🚲💎
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Guardaci: c'è tutta, tutta la guarnigione riunita.
Tu aspetti la tua guarigione. Ti analizzi: i piedi, le gambe, il piano della tua visuale destra.
Aspettavamo tutti assetati. Tutti impostati, tristi, agguerriti, stupiti. Non c'erano stati segnali.
Sì, invece. Ce n'erano stati. C'erano segnali avanzati, che avevamo buttati via come si scacciano le mosche. Erano stati ignorati, riposti, diffusi col passaparola e ancora ignorati nuovamente, assente qualsiasi bisogno di ricordare.
Avevamo più fame che sonno. In effetti, mangiavamo in continuazione.
Io ero lontana. Sentivo solo la tua voce che da bassa e vivace era di un metallo atroce.
Lasciavo tutto inespresso.
Ero addolorata ma di quel male sordo, che si agita in un angolo tutto strozzato e solo, e si consuma. Ne parlavo poco e con pochi. Tenevo tutto chiuso per i miei specchi e coprivo spesso anche loro.
si mangiava roba prelibata, al tavolo della cucina.
chi arrivava, portava. chi tornava a casa per cucinare.
chi arrivava a casa per capire, e chi, invece, per guardare.
chi guardava cercava di capire.
a volte taceva. a volte, invece, lo carezzava come si carezza il pelouche che hai sul comò, da piccino.
io mi ci arrabbiavo: 'non è un bambino, e nemmeno un pelouche. in vita sua lo avete mai accarezzato? ed allora, lasciatelo stare'.
c'era viavai in continuazione. si aspettava tutti.
si puliva, si cambiavano panni, lenzuola di lino bianco, belle lenzuola candide di percalle stese al sole ad asciugare.
chiesi: 'perchè, al sole? non si fa prima, a stendere nella sala accanto alla lavatrice?'. 'no' - mi rispondevano - 'c'è l'energia del sole, il profumo della roba stesa fuori'.
ci si muoveva un un loop veloce, costante. il divano cedeva, sotto il tuo bacino, se ti ci mettevi sopra.
il divano era come lì per assorbire, per farti riposare.
io non avevo immaginato che quel divano rosso di pelle un po' scuro, messo accanto all'ingresso e rivolto alla finestra, potesse servire un giorno a quello scopo.
la casa era lì, immensa. la casa stava lì, tutta enorme e compressa di cose da fare, di solitudini e di dialoghi, piena di conversazioni.
il divano rosso era pieno di voci. di volti seduti.
le tende bianche alle finestre si muovevano appena.
fuori c'era un bel sole e tra le piante del giardino c'erano un sacco di uccellini.
un uccellino si era incastrato nella stufa, al piano di sotto, e poi era uscito indenne dal tubo.
succedevano cose anche un po' strane, un po' magiche.
la cucina era piena di vasetti delle razioni e delle preparazioni alimentari. era pulita, ma durante quei giorni fu ordinata e assunse quasi un aspetto razionale.
io capii perchè la cucina era piena di vasetti e perchè erano troppi e perchè non volevano buttarne nemmeno uno.
venivano preparati cibi apposta in attesa della guarigione.
il cibo serviva per guarire. il cibo aiutava la guarigione.
il frigo era ovviamente grande e ben illuminato.
tuttavia era in attesa nell'aria qualcosa di trascurato, qualcosa... di indefinito.
si sapeva e non si capiva, si percepiva e non si vedeva.
si capiva che c'era qualcosa.
c'erano tracce. c'erano libri sul controllo del dolore.
c'era, in quella casa, chi non riusciva ad avere pace.
c'era, in quella casa splendente, chi si rintanava nel garage con poca luce del sole e progettava motociclette e altre cose.
c'era la solitudine, appollaiata sul tetto della casa, e una stanza assolata piena di documenti interessanti.
i documenti raccontavano la vita delle persone perchè quelle persone li ritenevano importanti. i documenti erano ritenuti più importanti delle parole nelle relazioni.
'ho sempre tenuto di più alle cose importanti, piuttosto che ai sentimenti'.
questa fu una considerazione che facesti ma successe che poi furono proprio i sentimenti, a portare a te le cose.
Erano i sentimenti, a muovere le dita che ti sventagliavano ed erano i sentimenti a portare a te coppette colme: fragoline di bosco e batuffoli di acqua inumiditi per bagnarti le labbra.
C'erano i tuoi cappelli, sparsi per la casa. In bagno, nel tuo bagno, c'erano le tue cinture. C'erano appesi ancora i tuoi asciugamani e c'erano tutti incasinati i tuoi prodotti per la rasatura. Erano nel mobile del bagno che era sempre quello di quando ero piccola, e anche il bagno era sempre quello, uguale. Eri così: facevi cose nuove ma poi ci mettevi le cose di tempo fa', le conservavi. A volte, le riparavi ed a volte, invece, ne fabbricavi di nuove.
Era la morfina a farti sognare, o più belli erano i sogni che la musica ti procurava?
Mio. Cosa c'era di mio, nella tua casa. Tutto.
Tutti i miei libri.
Ti circondavi delle mie cose, riposte come nuove tra gli scaffali.
il libro che ti avevo prestato e che ti era caduto nella vasca da bagno, che si era rovinato e che io mi ero arrabbiata, era ricomparso nello scaffale, nuovo. Lo hai ricomprato?
Mio, era il posto a tavola che rimaneva vuoto perchè tu non mi chiamavi, però sì che mi aspettavi.
Mio era quel posto, quel posto riservato.
Mi hanno detto che un giorno eri molto affaticato e ti è caduto il volto rivolto verso il piatto.
L'ho saputo dopo, perchè non mi avevano avvisato.
Sì, per un po' siamo rimasti taciuti, ma poi accadde: parlammo.
Parlammo.
Parlammo seduti e tu, con l'occhio bendato.
No forse non ero seduta. Tu sì, per forza.
Mi guardavi stranito ma ci tenesti subito a chiarire: non eri stranito per nulla, era solo l'occhio che se ne stava su una vista ad un piano diverso. Quindi se affrontavamo il problema, andava solo bendato e il problema vista era sistemato.
Chiaristi pure che non ce l'avevi più con tua madre.
Fu lunga: respirare e resistere senza perdere la rotta.
La definizione - la parola esatta - fu: mantenendo la testa ferma.
E' questa la parola esatta. La testa ferma resta lì dov'è. Non se ne va.
Ho imparato questa cosa, che non è una cosa, ma un atteggiamento, su un'isola, d'inverno.
Il tempo, su un'isola, scorre in un modo particolare e più semplice. Il tempo passa, e tu resti con te stesso, e pochi altri.
Eccoci. E' quando resti con te stesso, che succede tutto.
Succede che si vede dove va la tua testa.
Resta ferma? Passeggia?
Padre.
ti guardavo lentamente, disteso su quel letto bianco, con la coperta azzurra addosso, l'espressione stanca, viva, differente dalla sofferenza. Era un'espressione piena di pazienza.
Ti guardavo e cercavo di capire cosa mi aspettava.
Chi mi avrebbe portato e tutto l'azzurro della tua coperta.
Cosa avresti detto. Che cosa avresti fatto.
Quale parola avresti scelto, dopo tutto questo tempo che non parlavamo veramente.
Padre.
Quale parola avresti pronunciato, e quale sarebbe stato il suo significato - quale significato avrei dovuto attribuirle.
Ti osservavo inquieta ma me lo ripetevo: sei lì dentro e sei vivace, il resto non da' pace. Meglio scansarlo.
Scansiamo tutte le idee che si accavallano e spingono no, si affollano, no. Le idee che arrivano e si abbattono su quel tuo occhio coperto da qualcosa di bianco
Le idee che come un violento
No
Quelle onde che arrivano e si ammassano tutte insieme e ti devi proteggere
perchè lì sotto invece c'è la calma
sott'acqua, e cerchi di respirare
l'onda che arriva e poi tu sei fuori
Ecco. Mi serve questo.
Parlami tu, che io non so se ti dico cose che potrebbero farti inquietare. Quali parole devo scegliere. Che cosa devo dire e che cosa è meglio che ti dico dopo, no, ora, no, tra un po'
Mi serve guardare quel tuo respiro e quella coperta azzurra e capire che adesso sei così.
Ma io ti ascolto.
se resta tempo
certo che resta
no che non resta.
debbo uscire.
Esco dalla stanza.
Respiro.
Si piange in un corridoio.
Si resta lì e ci si calma.
Non ti si spaventa. Non ci si spaventa?
Si resta fermi, con la testa.
Si cerca un punto di guarigione da tutti quei pensieri messi uno sopra l'altro che poi diventano un pensiero solo, immenso, e ti arriva tutto addosso.
Arriva l'onda.
Caccio la testa sott'acqua: passa.
Ora passa.
Passa, e poi rientro in quella stanza.
Sono qui, son rientrata. Dai, riparliamo.
Ti ascolto.
Mi parli con la tua voce con la erre arrotata. Anche questa voce, la riconosco. Mi è familiare.
La voce dice e parla con sillabe nuove e sempre le tue musicali, di quando ero piccola e si girava in bici: sì, eravamo felici
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WINTER PHOTO CHALLENGE
- DAY 7 -
AMORE SBOCCIATO
L’aveva finalmente invitata in camera sua, in quel luogo che le aveva sempre precluso perché troppo intimo, perché in quella camera da letto era racchiuso tutto il suo mondo. Lo aveva accolto durante la sua infanzia, protetto mentre dormiva sereno nella culla, ascoltato tutti i suoi segreti, raccolto ogni sua lacrima e intrappolato ogni risata. Ma adesso stava per esplodere. Il rapporto che si era creato tra lui e la ragazza stava sgretolando tutto, come un muro che crolla colpito da un fulmine del temporale. Per questo non aveva più potuto tacere a quella vocina che sentiva nella sua testa che lo invitava a chiedere: “Perché non sali in camera mia?” E cosi era successo. E lei subito, con uno dei suoi sorrisi più raggianti, aveva accettato. E tu, di tutte le tue preoccupazioni precedenti te ne sei dimenticato. Le fai strada, senti i suoi passi, leggeri ma decisi, premere sugli scalini in truciolato, creando un rumore sordo che si accompagna ai tuoi, più lenti e titubanti, chissà cosa dirà appena la vedrà? Arrivate così in fretta davanti a quella porta anonima, ma che hai sempre imparato a riconoscere anche nel buio, come se i corridoi che conducevano a quella stanza in realtà fossero come le strade che conducono a casa. Giri la maniglia e apri la porta. Aspetti che lei faccia un passo avanti, e timoroso abbassi lo sguardo. Silenzio. È snervante. Vorrà andarsene ora? “Non ci credo! Quello è un telescopio!” Ed alzi gli occhi stupito. La bocca non ha potuto non aprirsi in un muto verso di meraviglia. Difronte alla porta difatti stava l’enorme finestra che guardava al cielo. E lei non ha visto altro che quella. Non ha visto altro che ciò che ti è più caro in quella stanza. Quel telescopio, davanti al quale tanto hai riflettuto, dentro il quale hai visto sogni e speranze, mondi lontani, antichi, dimenticati. Ad ogni costellazione affidavi una tua paura e sempre avevi pensato che nessuno le avrebbe mai scoperte. “Hey! Come si usa?”. Ed eccola lì, sprezzante, che ti chiede di ripercorrere insieme tutte quelle emozioni. Ti avvicini, ti ci inginocchi davanti, sul quel morbido cuscino verde mela ormai logoro. Regoli le lenti, cerchi di mettere a fuoco il più possibile l’obiettivo. “Che costellazione vuoi vedere?” “La padella” Ed eccolo lì il suo lato infantile che emerge nei momenti più assurdi. “La… padella?”. Ogni volta ti sconvolge e non sai cosa rispondere. La sua genuinità ti spiazza come sempre e ti chiedi a che cavolo di costellazione si riferisce. “Ma si! Quella che somiglia tanto ad un pentolino con il manico!” E tu sei ancora più confuso. E ti sorprendi di come sappia confonderti i pensieri con le parole più semplici, come sappia mandare all’aria ogni tuo progetto quando ti guarda negli occhi. Ci pensi su, ma nulla. “Sei sicura?” “Certo! È famosissima. La si vede ovunque quando viaggi”. Ed allora inizi a concentrarti, a decifrare quegli indizi suoi tipici di chi paragona ciò che vede, e non conosce, alla sua realtà. Dannati cuochi! Nulla. Fai passare nella testa tutte le costellazioni che conosci, che hai sempre studiato, ma non te ne ricordi neanche una simile alla sua. Allora lei si alza, forse l’hai delusa con la tua incompetenza, ma invece si avvicina alla tua scrivania. Sembra non far caso alla pliche di fogli che la ricopre. La osserva. Sembra cercare qualcosa. E poi, come se avesse pescato un pesce in un fiume, afferra una tua vecchia penna abbandonata lì da tempo. Cos’altro vorrà fare? Osservi tutto in religioso silenzio. Ti si risiede accanto e tira su la manica del suo maglione beige che, lo sai, dalla prima volta che lo hai visto, hai pensato che si abbinasse perfettamente ai suoi occhi scuri e i capelli nocciola. “Guarda. Te la disegno” Gira il polso sinistro verso di sé ed inizia, con finta precisione, a calcolare i punti della stella. Uno Due Tre Quattro Cinque Sei Ed eccola lì che compare la costellazione della padella, disegnata sulla sua pelle leggermente ambrata. Unisce poi i punti, come i giochi che i bambini fanno sulla rivista della madre quando l’abbandona sul divano. “Ma quello è il Grande Carro! Fa parte della costellazione dell’Orsa Maggiore” E finalmente capisci. Scoppi in una risata e lei ride con te. Tu hai sempre saputo che lei, in fondo, è rimasta ancora una bambina legata ai suoi ricordi e non ha perso quei suoi occhi innocenti che tutto interpretano a modo loro, in un modo che un adulto descriverebbe insensato. Ma tu ci hai fatto l’abitudine e quasi provi gelosia per quegli occhi che riescono sempre a guardare oltre le apparenze, a vedere le cose più complicate e spiegarle come le più semplici. Ma a te sono sempre piaciute le cose fuori dagli schemi. “Ho capito”. Ti sei avvicinato al telescopio quasi senza neanche te ne accorgessi. “Ecco, guarda. È quella” E lei ti si avvicina, siete spalla contro spalla, appoggia il viso allo strumento e la senti trattenere un verso di stupore. “E’ stupenda! Brilla tantissimo! Sembra così vicina che pare la si possa afferrare solo allungando la mano”. E tu sai cos’altro è stupendo, solo non hai il coraggio di toccarla, nonostante sia così vicina a te. Muove il telescopio, osserva ogni astro della sua costellazione ed ogni volta sorride, felice. Poi tutto d’un tratto si ammutolisce. Il suo sguardo si fa serio ed emerge la donna che alberga in lei. “E la tua?” La guardi interrogativo. “Qual è la tua costellazione preferita?”. Ti porge la penna. E tu sei ancora più confuso. Non potresti semplicemente dirglielo? Ovvio che no. Non hai mai avuto bisogno di parole per parlare con lei. Afferri la penna ed in quel momento noti il suo polso. Non è mancina come te, ma ti ha offerto la penna con la sinistra. Il “tatuaggio” era lì, visibile. Ed allora la imiti, come hai sempre fatto. Perché in fondo sai che, nonostante l’età, lei a volte è molto più matura di te. Ha già capito le cose da tempo. Uno Due Tre Quattro Ed ecco che sul polso compare la tua costellazione, più semplice, più ovvia. “E’ il Cancro” “E’ bella! Somiglia alla lettera K tutta storta, come quando la scrivevo alle elementari!” E ti sorride con gli occhi. Quelle due pozze scure ora ancorate a te. E credi di affogare. Ti manca il respiro. “Sai, quando ero piccola, quando facevo lunghi viaggi con i miei genitori, ovunque andassi quelle stelle non mi abbandonavano mai. Sono speciali per me”. E tu rimani in silenzio credendo di non aver capito. Chi era il soggetto della frase? Ti sei perso tra i lineamenti del suo volto ed hai lasciato che le sue labbra confondessero il messaggio come l’acqua che storpia l’immagine quando si muove. C’è silenzio fra voi, eppure sembra ci siano sussurri nell’aria. Sottili voci che non ti lasciano, che ti spingono sempre di più verso di lei. Poi la realtà prende il sopravvento, e il tuo cervello recepisce l’informazione. E tu perdi la poesia. Fanculo alla natura umana. Ci pensi su, poi rispondi. “Anche io quando ero bambino guardavo spesso le stelle quando i miei erano fuori per lavoro e rientravano solo dopo settimane”. E poi ti accorgi che quello è solo un ricordo. Ti rendi conto che quel momento, fra un attimo, non sarà altro che passato. Ed abbassi lo sguardo. Vorresti fermare il tempo. Ma non puoi. Sei solo un essere umano in confronto all’infinità dell’universo. La tua vita si misura in secondi rispetto a quella delle stelle. E ti senti debole. Poi alzi lo sguardo. E provi un’invidia infinita. Eccola lì, la stella, immortale, di fronte ai tuoi occhi. Quella che è riuscita a toglierti i battiti del cuore. Quella che ti ha rubato il respiro, la vita. Quella che ha fermato il tempo nel momento in cui i vostri sguardi si sono scontrati per la prima volta in quel giorno poco prima della Vigilia di Natale. Non dice niente. Ovvio, come potrebbe. Le stelle brillano, non parlano. E per te, lei, ha sempre brillato. Da quanto tempo ormai non aprivi più la finestra, la sera? Giusto. Da quando hai iniziato a credere che le stelle fossero molto più belle quando cadono. E tu, disgraziato, ne hai raccolta una. O forse è meglio dire il contrario? Perché è proprio quello che sta accadendo. Ti afferra gentilmente la mano e te la solleva, in modo che entrambe siano davanti ai vostri volti. Come un pianista accarezza i tasti prima di dare inizio alla sinfonia, lei intreccia delicatamente le sue dita sottili fra le tue, più ruvide. Poi il cambiamento. Preme col palmo e lascia che le vostre mani aderiscano perfettamente, come il fiore che ancora saldamente le sue radici alla roccia. E in quella posizione scomoda te ne rendi conto. Anche i vostri cieli si sono uniti. E tutto in te riprende a girare. Ti sorride, come sempre ha fatto in tutta quella serata. E tu ti senti scoppiare dentro. Non dici nulla. Non ci riesci. Non sai da che parte cominciare. Eppure… Eppure sembra che lei abbia capito ogni tua parola. E quel sorriso ascolta, paziente, l’esplosione del tuo animo. Crolli. Sei felice. Una lacrima solitaria si fa strada sulla tua guancia. E poi il tuo universo si rivoluziona. La storia incomincia. Non ti ha mai lasciato andare. E senti un calore, soffice, premere sulle tue labbra. È il bacio dell’Origine: Amore.
(Storia scritta da me. Non copiarla o ripostarla su altri siti per favore)
#winter photo challenge#vecchie fanfiction che non ho mai avuto il coraggio di pubblicare#photography#rosa#red#love#amore#primo bacio#first kiss#love story#costellazioni#orsa maggiore#cancro#stelle#i'm lonely....
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Odi et amo - 10 cose belle
Dire "quanto odio..." qualcuno/qualcosa è un po' estremo. L'odio è un sentimento profondo che richiede un certo impegno e una dose di fatica. Odiare qualcosa o qualcuno suppone una profonda conoscenza del soggetto in questione, un'analisi delle motivazioni che ci spingono a detestarlo e, soprattutto, essere in grado di provare sentimenti che vadano oltre il superficiale. Sfibrante davvero. Stesso dicasi per "quanto amo...". Anche in questo caso le parole vengono utilizzate con una leggerezza persino maggiore forse: a tutti piace amare, è una parola che riempie la bocca, dà un senso di importanza (al nulla, a volte), rende partecipi. L'amare racchiude tanta bellezza quanta dedizione, meravigliosa la prima, assai impegnativa la seconda. Ecco perché, invece di definirle cose che amo, le chiamerò cose che mi piacciono. Non hanno un ordine, forse non sono neanche le più importanti, ogni tanto mi piace ricordarle e basta. Mi piace il colore del mattino. Sa di possibilità, di riscatto e di sorpresa. Questo quando non piove. Perché se piove sa di umido. Mi piacciono i lunedì. Sono giorni come altri, hanno solo la "sfortuna" di essere all'inizio della settimana. A me, gli inizi piacciono moltissimo. Mi piace prendere il tè. Anche se non sa di niente, ha una gestualità semplicemente bella. Mi piace il coraggio e tutte le sue sfumature. Trovo che sia una qualità preziosissima e molto discreta, due caratteristiche che lo rendono irresistibile. Oltre al suo intrinseco valore. Mi piace il silenzio. Posso ascoltare i miei pensieri. Senza mai dar loro retta. Mi piace guardare il mare. Non è mai uguale a se stesso. Mi piace la libertà. Non solo quella di poter dire o fare. Ma di poter pensare. Un privilegio dato per scontato e reale molto meno di quel che si crede. Mi piace il dolce far niente. A mia discolpa non trovo nulla da dire. A volte mi piace leggere. La lettura fa riflettere e non sempre mi sento coraggiosa. Mi piace la verità. Amara, cruda, nuda, dura? Sono per i dolori intensi ma brevi, non per lunghe agonie morfinate. E voi? Quali sono le vostre cose belle? Annabelle Lee Read the full article
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Ritrovatomi dopo anni di militanza a girovagare gli stadi in cerca di belle partite, nonostante tutti i mutamenti del caso (leggi, repressione, stadi, barriere, generazioni e tanto altro) quest’anno la motivazione che mi sono dato per continuare a seguire il nostro fantastico mondo, che ancora affascina milioni di persone tanto da spingerle a percorrere centinaia chilometri, sono di riuscire ad essere presente in quegli stadi, e quindi paesi o città, che non sono mai riuscito a vedere prima. Ovviamente compatibilmente con il lavoro ma a volte anche all’importanza della partita stessa e soprattutto dal “portafoglio”, visto che comunque van via dei soldi.
Sono proprio queste cose che in questa domenica di fine settembre mi spingono fino a Gorgonzola (paese di ventimila abitanti alle porte di Milano) per assistere all’incontro Giana Erminio – Sambenedettese. Siamo appena alla quarta giornata ma le due squadre non stanno per nulla brillando in questo avvio di campionato, soprattutto la squadra marchigiana partita con ben altri obiettivi e ritrovatasi nella parti basse della classifica, ma nonostante questo mi aspetto una discreta presenza ospite.
Parto la mattina presto in treno ed alle dieci sono già a Milano, dove prenderò la metropolitana verde che in poco più di mezzora mi porterà direttamente alla fermata Gorgonzola. Lo stadio è ubicato a poco più di un chilometro dalla fermata, ma essendo in anticipo sul fischio d’inizio fissato alle 14:30, decido di farmi un giro per ammirare il centro storico. Dopo di che decido di dirigermi verso lo stadio comunale “Città di Gorgonzola”. Nei suoi pressi, una piccola stele vicino un ponte ricorda i tanti morti causati in zona dalla peste intorno alla metà del 1500. Una quarantina di ultras rossoblù appena arrivati invece, fanno il percorso inverso al mio e si dirigono tutti insieme verso il centro, visto che manca ancora più di un’ora alla partita.
Dopo un giro veloce intorno alla struttura, metto piede sul rettangolo verde per poterlo apprezzare anche dall’interno: ci sono un paio di tribune coperte, una grande e l’altra più piccola dove è ubicata la tribuna stampa e le postazioni per i giornalisti, tutte rigorosamente dotate di seggiolini blu con sopra impressa la scritta “città di Gorgonzola” formata da seggiolini bianchi. Dietro una delle due porte si trova il settore ospiti in ferro con seggiolini rossi, omologato per contenere fino ad ottocento tifosi.
Piccolo particolare è il nome della squadra di Gorgonzola, Giana Erminio, nome del sottotenente del reggimento Alpini caduto all’età di diciannove anni sulle trincee del Carso durante la prima guerra mondiale. Un omaggio che tutto il paese ha voluto dedicare al compianto milite, di cui anche una via del centro storico porta il nome. Poche società in Italia portano il nome di una persona e nessuna nel calcio professionistico.
Tornando alla partita odierna, i sambenedettesi entrano un quarto d’ora prima dell’inizio della gara ed una volta appese le pezze alla balconata, cominciano a farsi sentire con cori e vedere grazie allo sventolio del bandierone e di qualche bandierina, su tutte quelle del gruppo IRRIDUCIBILI. Dalla parte opposta, dopo la parentesi del gruppo HIGHLANDERS (ancora presente un grosso murales con il nome del gruppo all’esterno dello stadio), quest’oggi non ci sarà più nessuno a sostenere le casacche biancocelesti, anche se la tribuna sarà discretamente piena di spettatori che seguiranno la partita seduti.
Occhi ed orecchie dunque tutte per gli ultras ospiti, arrivati in oltre un centinaio di unità con furgoni e macchine private nonostante la distanza ed il poco felice avvio della squadra. Entrate le squadre in campo, i marchigiani le accolgono sventolando il bandierone e le varie bandierine a disposizione per poi iniziare a sostenere gli undici in campo senza un attimo di sosta: tanti sono i battimani ad accompagnare i cori ed è buono lo sventolio del bandierone.
Alla mezzora esultano per il momentaneo vantaggio siglato da Signori, accendendo una torcia per poi riprendere a tifare continuamente fino alla pausa, nonostante a due minuti dal quarantacinquesimo la Giana Erminio pervenga al pareggio con Perna.
Nel secondo tempo il gruppo rossoblù BANDA RAIA apre la sfida esponendo uno striscione per Piero Zazzetta, ex addetto stampa della società che dopo ben diciotto anni ha lasciato la Sambenedettese: “PER QUESTI COLORI HAI DATO ANIMA E CORPO, GRAZIE DI TUTTO PIERO!”, per poi riprendere a cantare sempre in maniera decisa con diversi battimani.
Dopo nove minuti i padroni di casa ribaltano il risultato segnando il gol vittoria del definitivo 2-1, ma dopo un attimo di smarrimento e qualche pausa, gli ospiti ripartiranno a tifare abbastanza bene, proseguendo con una discreta intensità corale.
Nonostante la squadra si appresti a tornarsene a casa a mani vuote, continuano ad incitarla come se niente fosse, ma anche per loro la pazienza ha evidentemente un limite visto che alla mezzora effettuano qualche coro contro i giocatori in campo, rei di scarso impegno.
Negli ultimi cinque minuti alternano pause a cori di contestazione, poi quando l’arbitro decreta la fine della contesa saranno costretti ad assistere ai festeggiamenti dei giocatori di casa che festeggiano verso la parte di tribuna dove una quindicina di tifosi più accesi, nel corso della partita, in tre – quattro occasioni avevano fatto partire il coro “Giana, Giana” seguita dal resto dei presenti.
Ovviamente restare a a guardare non è nell’indole dei marchigiani, che una volta chiamati i propri giocatori sotto al settore, evidenziano il loro lo scarso impegno che fin qui ha prodotto il deludente “score” di due pareggi e due sconfitte. A suffragare questa visione dei fatti, in settimana il presidente Fedeli rincara la dose esonerando l’allenatore Magi, ma addossando le maggiori colpe, come avevano fatto gli ultras, proprio a carico dei giocatori.
Marco Gasparri
Giana Erminio-Sambenedettese, Serie C: una stagione cominciata male Ritrovatomi dopo anni di militanza a girovagare gli stadi in cerca di belle partite, nonostante tutti i mutamenti del caso (leggi, repressione, stadi, barriere, generazioni e tanto altro) quest’anno la motivazione che mi sono dato per continuare a seguire il nostro fantastico mondo, che ancora affascina milioni di persone tanto da spingerle a percorrere centinaia chilometri, sono di riuscire ad essere presente in quegli stadi, e quindi paesi o città, che non sono mai riuscito a vedere prima.
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