#la cultura del piagnisteo
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Mi stupisco che qualche imbroglione non abbia ancora pensato di aprire una scuola di scrittura.
Arthur Cravan (1914 ripeto 1914)
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Underground: storia di una morte annunciata?
Dopo decenni di onorata militanza, operatività, e dopo anni di interviste, scambi, raccolta di commenti, mi sento di poter fare un piccolo punto della situazione dell’underground. O sarebbe meglio chiamarlo ‘underverso’. A livello di vitalità del nostro mondo, siamo decisamente competitivi. Ci sono artisti e band superpreparati, dischi più che ottimi, live perfomances che farebbero invidia a qualsiasi nome del mainstream.
Il punto dolente arriva quando si parla di attitudine e voglia di crescere. Qui abbiamo firmato per un suicidio assistito che sta lentamente avvenendo. La verità è che abbiamo tutte le carte in regola per poter essere un vero punto di riferimento, ma non le utilizziamo. La maggior parte delle difficoltà indicate dai più, sono in realtà dei falsi problemi. Preferiamo crogiolarci ripetendo sempre le stesse cose invece di cercare la strada per uscirne.
Anziché prendere atto dei muri che ci circondano e trovare il modo di abbatterli o aggirarli, ci fermiamo ad osservarli. L’aspetto peggiore è che li osserviamo senza vedere la porta che è accanto a noi. Continuiamo a lamentarci della difficoltà di uscire. Siamo tanti, tantissimi, ma non ce ne accorgiamo. Come non ci accorgiamo della nostra forza dirompente. Il sistema non ci considera? Facciamo in modo che ci noti, dovrebbe essere la risposta.
Invece noi mettiamo in campo un piagnisteo, una lamentatio infinita che ci blocca. Innumerevoli sono i casi di artisti emersi dal nulla che sono riusciti a farsi notare. Noi non ci riusciamo. Chiediamoci il perché. Onestamente non credo sia una questione di boicottaggio, di voler frenare una cultura scomoda. Siamo noi a non voler andare avanti. La domanda è la stessa che si ripete: vogliamo davvero uscire dal bozzolo?
In tanti hanno sottolineato come l’underground è, o, dovrebbe essere, solo un passaggio. La così detta gavetta da cui poi uscire verso il mondo. Ne siamo sicuri? Il fatto che la musica non è il lavoro principale, che non dà, per ora, da mangiare, non dovrebbe demotivare. Così come non dovrebbe rendere tutto amatoriale. Ci sono esempi altisonanti di gruppi e artisti che sono riusciti ad avere una carriera musicale affiancata a quella del lavoro che gli ha dato da mangiare.
Basti pensare agli Anvil, ai Twisted Sisters, o a ciò che hanno fatto band super affermate come i Van Halen o i Motley Crue. Per non parlare dei gruppi usciti con le ossa rotte dagli anni ’80 e che sono tornati in pista dopo anni di fermo. Sono i termini di paragone che sono errati. Certo, se io ho come riferimento ho i Police, Elthon John, come Metallica o PFM, sono fregato. Sono fregato fino a quando non faccio caso a cosa c’è sotto il loro livello.
Credere che tutti i musicisti di cui leggiamo sulle riviste riescano a campare solo di musica, è errato. Andiamo a scavare, andiamo a vedere se davvero è così oppure anche loro, come noi, hanno bisogno di qualcosa di extra che gli permetta di vivere. Il fatto di finire sulla copertina di qualche giornale specializzato non fa assurgere automaticamente al rango di rockstar che guadagna moltissimi soldi. Chi riesce a campare solo di musica lo si può contare, se non su una mano, certo non più di due.
Gli altri sono nella notra stessa barca. Io mi sono spesso chiesto, ma che cosa fanno i gruppi quando non sono in tour o non stanno registrando? Davvero tutti guadagnano così tanti soldi da potersi permettere di oziare? La risposta è stata no, non se lo possono permettere. Magari per questo motivo molti artisti, musicisti, ci mettono anni a fare i dischi. Guardando a casa nostra, tantissimi cantautori affermati svolgono altri mestieri.
Mi viene in mente Vecchioni che faceva l’insegnante. Pesino Lucio Dalla è finito ad insegnare all’università di Bologna. Se allarghiamo il concetto a chi fa arte in genere, abbiamo solo altre conferme. Pennac, che �� Pennac, insegna anche lui. E come lui moltissimi altri. Senza dimenticare chi è arrivato alla ribalta delle cronache solo dopo la morte. Quindi? Di che cosa stiamo parlando? Di un sogno? No, stiamo tirando in mezzo delle scuse.
E questo crea delle spaccature all’interno dell’underverso. Delle frammentazioni che ci danneggiano. Soprattutto quando non vogliamo ammettere di non essere tutti uguali e di non desiderare tutti le stesse cose. Il nostro problema è che non abbiamo un obiettivo comune. Se così fosse remeremmo tutti dalla stessa parte. Invece ognuno cerca di indirizzare la barca un po’ dove gli pare. Questo si riflette e si evince anche dalle proposte presentate.
Ci sono gruppi e artisti che ‘si accontentano’ di somigliare a, di suonare come, di riuscire ad imbastire dei brani con i cliche del genere per poi farne vanto. Noi siamo integerrimi. Suoniamo così e basta. Chi ci ama ci segua. Però se non li segue nessuno, si lamentano. È un errore, è sbagliato mettere tutti sullo stesso piano. Semplicemente perché non lo siamo. Chi studia in continuazione per poter migliorare e offrire composizioni sempre migliori, non è come chi suona solo la domenica.
Non è e non può essere sullo stesso piano. Quindi sarebbe bene prendere atto di ciò. È una questione di scelte. C’è chi decide di investire il proprio tempo, le proprie risorse economiche in un progetto ben preciso. Poi c’è chi naviga a vista. È inutile cercare di fare i puristi, gli integerrimi. Come artisti ciò che ci interessa è essere conosciuti. Diversamente non credo avrebbe senso spendere del tempo per scrivere canzoni, incidere un disco, mandarlo in giro perché sia recensito.
È probabilmente ora e tempo di far emergere queste differenze. Di prendere atto della scelta che abbiamo effettuato e regolarci di conseguenza. Si tratta di convinzione in ciò che si fa. Di equilibrio. Ci si deve guardare bene attorno e vedere davvero le cose come stanno, senza accampare scuse o millantare difficoltà che non esistono. Soprattutto in un mondo come quello attuale, con la base di potenziali seguaci che ci ritroviamo ad avere al di là dei passaggi radiofonici e televisivi. Abbiamo tutto nelle nostre mani, dobbiamo solo farlo fruttare.
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Il colore delle vele
Il colore delle vele
Non è tanto la matrigna disgraziata o quella povera figlia, né il senso di colpa di aver trattato come un utile mitile la paredra della retsina, a togliere il sonno all’eroe: volontà di Dioniso, un’incomprensione con Nettuno, è sempre colpa di qualcuno. Altro è la paura della distrazione, l’ottimismo della ragione e la cultura dell’ucronia o del piagnisteo che sono invece gli incubi…
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Una cultura che ha sostituito gli spettacoli dei gladiatori, come strumento per sedare le folle, con guerre ultratecnologiche teletrasmesse, che causano massacri enormi e tuttavia lasciano intatto il potere dei satrapi mesopotamici sui loro sventurati sudditi.
Robert Hughes, La cultura del piagnisteo
#robert hughes#la cultura del piagnisteo#letteratura#cultura#tradizione#america#australia#potere#guerre#gladiatori#umanità
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Piove, non ti pago: storie di schiavitù dall’estate italiana di Silvia Truzzi È arrivata l’estate, dunque la stagione turistica nel Paese più bello del mondo. E puntuale si è presentato il piagnisteo degli imprenditori del turismo che non trovano lavoratori stagionali (l’apripista è stato il compagno presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca). Non è incredibile che le persone si rifiutino di lavorare 12 o 14 ore al giorno per 3 euro all’ora? La settimana scorsa sul Fatto Roberto Rotunno ha ben spiegato la situazione: nel settore del turismo la domanda di assunzioni è di gran lunga più bassa rispetto al periodo prepandemico (per capire la misura: gli ingressi previsti in questo mese sono 26mila in meno rispetto a quelli di giugno 2019). Invece, e per fortuna, aumenta la domanda di personale dell’industria, delle costruzioni, del commercio e dei servizi. Dove, anche se ovviamente non dappertutto, le condizioni sono migliori. Per esempio la Sammontana cercava 350 stagionali per il suo stabilimento in Toscana e ha ricevuto oltre 2500 candidature. Tutti innamorati del barattolino al pistacchio? No, il motivo l’ha spiegato bene un sindacalista della Cgil di Lucca: “È un’azienda seria: riconosce i diritti ai suoi lavoratori e dà ai suoi dipendenti uno stipendio medio che consente loro di vivere in modo dignitoso. Non è scontato, di questi tempi”. Se non ci credete fate un giro sulla sezione che il sito del Fatto ha dedicato in questi giorni all’argomento, invitando i lettori a inviare le loro testimonianze via email. Il quadro che esce da queste lettere si può definire così: una situazione che travalica lo sfruttamento e si ferma un pelo prima dello schiavismo. Qualche esempio. Cameriere stagionale in Toscana: “Orari massacranti, specialmente nei fine settimana, con assicurazione per 4 ore al giorno e ne lavori 15, magari ti danno buste da 1.500 euro ma ne devi restituire 6-700. Non sali mai di categoria, sei sempre aiuto cameriere. Luglio e agosto senza giorni di riposo perché è il periodo che si lavora di più, se per caso ti fai male a mezzanotte devi fare in modo che ti sei fatto male nelle ore che sei assicurato o addirittura dichiarare che ti sei fatto male a casa”. Un lavoratore stagionale di Rimini spiega i trucchi della busta paga: “Sulla carta vengono riportate le classiche 26 giornate di lavoro con retribuzione secondo il grado e la mansione ricoperta (con paga base e contingenza secondo ccnl) ma le voci in busta riportano meno ore (nonostante si lavori 7 giorni su 7 almeno 8-10 ore al giorno), no straordinari (sebbene nel turismo si facciano sempre straordinari), no festivi, il Tfr viene compreso nello stesso stipendio (quindi non esiste), no 13/14esima”. I motivi per cui i lavoratori stagionali cominciano a ribellarsi sono, a nostro modesto avviso, più che evidenti. E non hanno niente a che fare con i sussidi e le altre cazzate con cui la cultura dei padroni (e dei loro giornali) ci ha rimbambito per anni. Viceversa ha dell’incredibile l’indignato stupore degli imprenditori: si aspettavano che dopo la crisi i lavoratori facessero a pugni per sgobbare gratis sotto il sole dei loro stabilimenti, magari solo per non farsi additare a giornali unificati come viziati fancazzisti? Prima o poi il gioco al ribasso sulla pelle degli ultimi dovrà finire: speriamo che il Covid possa servire almeno ad arginare la dilagante voglia di schiavitù che ha trovato a sinistra un terreno di crescita tanto fertile.
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⚠️ NOVITÀ IN LIBRERIA ⚠️
Roberto Pecchioli
VOLONTÀ D’IMPOTENZA
La cancellazione della civiltà europea
Al termine della Grande Guerra, Paul Valéry scrisse: “ora sappiamo che le civiltà sono mortali”. Un secolo dopo, il pronostico si avvera: l’Europa muore di consunzione, nichilismo e odio di sé.
Agisce – in Europa e in Occidente – una sconcertante “volontà di impotenza”: è il tenace desiderio di farla finita con tremila anni di identità, di cultura e di retaggi. La chiamano “oicofobia” ed è l’assurda condizione di chi disprezza, rinnega e rifiuta ciò che gli appartiene.
Questo libro è una ricognizione attraverso la Via Crucis finale di un’immensa Civiltà – la nostra – che sembra volgere stancamente al tramonto: dalla prassi dello sradicamento globale alle tentazioni del transumano, dall’individualismo edonista alle contraddizioni della “società aperta”, dall’attacco alla famiglia alla “guerra dei sessi”, dal dominio della tecnica alla negazione delle sovranità, dalla “cultura del piagnisteo” all’isteria “politicamente corretta”. Un saggio puntuale e coraggioso, che denuncia il cortocircuito del progressismo apolide e del pensiero unico dominante.
Per non dimenticare, per risvegliare, per lasciare una traccia. Per affermare che non tutti – nel crepuscolo dell’Occidente – vollero suicidarsi. Non tutti – insomma – si avviarono sorridenti alla “grande cancellazione”.
INFO & ORDINI:
www.passaggioalbosco.it
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This is my list for the #readingwithgwenandren2021 challenge! I still haven’t thought about a reward, but I have a couple of ideas... So!
Robison Crusoe (have to for school)
Gulliver’s Travel (have to for school again)
Pamela (guess what? Have to, for school, yes)
Frankenstein by Mary Shelley (technically I should read it for school, but I also want to read it because it’s a classic I don’t know enough about)
The Strange Case of Dr Jeckyll and Mr Hyde
The 42nd Parallel by John Dos Passos (an american classic that I didn’t even know)
Answered Prayers by Truman Capote
Raccontare by Alessandro Perissinotto
The Man in the Grey Flannel Suit by Sloan Wilson
Brideshead Revisited by Evelyn Waugh
Aristotle in Hollywood
La cultura del piagnisteo
Ok, let’s hope they are all decent :)!
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Tutta la stampa (...), i commentatori, la confindustria sono tesi nello sforzo patriottico, i cuore oltre l’ostacolo, Petto in Fuori – Pezze al Culo, minacce mafiosette da guappo e Cappello in Mano. (Europa) dateci i Soldi Senza Condizioni! Arrendetevi siete Circondati. (...) Non vi fa incazzare come bufali? Almeno voi del Nord rappresentati in Italia, in Europa, nel Mondo da un branco di diversamente ariani? Questi hanno elevato la cultura dell’assistenza, del piagnisteo, del vittimismo a politica ufficiale nazionale (...). Da vomitare. (...)Non so esattamente come finirà ma in ogni caso il vostro destino è segnato: Venezuela.
via https://funnyking.io/archives/6930
l’ex bancario ogni tanto la canta giusta, qualora opportunamente depurato dal suo noioso senso di inferiorità: il Nord, mentre continua ad esser depredato e segregato, viene “rappresentato” hahaha dai chiagni-e-fotti MagnoGreci, i quali alla fine grazie ai (più che giustificati) pre-giudizi dei Continentali, come i Greci solo lacrime e sangue otterranno.
Al proposito, ecco l’elenco dei “diversamente ariani” (cit.) che dirigono (dove?) l’Italì: can you see the pattern here?
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📕La #cultura del piagnisteo | The #culture of #complaint #hughes #reading #bed #bedroom #osteopata #wellnesscoach #alimentaction #instagood #instalike #healthylifestyle (presso Martinengo)
#hughes#bed#instagood#healthylifestyle#cultura#bedroom#reading#instalike#alimentaction#wellnesscoach#culture#complaint#osteopata
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La cultura del piagnisteo
I paraculi del femminismo a fasi alterne – Teresa Bellanova viene bollata come “zecca comunista” su un muro di Marsala e a Giorgia Melonia danno della “troia” a Ostia. Condanna unanime? Macché! - Se colpiscono la renziana si alzano i cori indignati e si grida all’attacco fascista, ma se colpiscono la “ducetta” di Fratelli d’Italia non scatta nessuna solidarietà…
Come al solito il femminismo, l’ambientalismo, etc vengono quasi sempre usati in funzione politica.
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L’appello al linguaggio politicamente corretto, se trova qualche risposta in Inghilterra, nel resto d’Europa non desta praticamente alcuna eco. In Francia nessuno ha pensato di ribattezzare Pipino il Breve «Pépin le Verticalement Défié», né in Spagna i nani di Velázquez danno segno di diventare «las gentes pequeñas». E non oso immaginare il caos che nascerebbe se nelle lingue romanze, dove ogni sostantivo è maschile o femminile – e dove per giunta l’organo genitale maschile ha spesso un nome femminile e viceversa (la polla / el coño) –, accademici e burocrati decidessero di buttare a mare i vocaboli di genere definito.
Robert Hughes, La cultura del piagnisteo
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Napoletani
Qualche giorno fa, con la consueta eleganza formale e sostanziale, il quotidiano Libero ha titolato in prima pagina Piagnisteo Napoletano, con annesso fondo di Francesco Specchia, che mettendo insieme le proteste dopo la partita di Coppa Italia Juventus -Napoli, l’indagine della magistratura che ha portato a scoprire medici assenteisti all'ospedale Loreto Mare, l’indagine Consip dove tra decine di indagati l’unico che viene definito secondo il suo luogo di appartenenza è l’imprenditore napoletano Romeo, fa il solito giochetto che i buoni e retti lombardi e veneti non ne possono più del malaffare del Sud.
La prima giusta obiezione è che non vale la pena scendere a ragionamenti con Libero, però cadrei anch’io nello stereotipo. Quindi con impegno, partendo da quell’articolo demagogico, cerco di ragionare su cose anche divertenti e che hanno a che fare sulla nostra Storia.
Steterotipo è una parola di uso comune che identifica un preconcetto, è in sostanza un'opinione semplicistica e precostituita che non si fonda su osservazioni concrete; è stereotipo il modello convenzionale che rispecchia l'immaginario comune. Dal punto di vista aletico ( del greco alēthḗs ‘vero’) la questione stereotipata è irrilevante sul sapere la verità su un fatto, mentre invece ha valore etico dato che viene usato come ragionamento comune. Deriva dal gergo tipografico, dal francese stéréotype, neologismo del tipografo Firmin Didot, che definisce il metodo di stampa da lui brevettato nel 1795; composto dal greco stereos duro, rigido e da typos impressione. Il metodo di Didot permetteva di stampare velocemente pagine sempre uguali, e da qui per estensione si intende come un concetto rimanga rigido, cioè fisso, nonostante l’evidenza dei fatti contraria.
Per lo stesso principio, l’aggettivo italiano ha sempre avuto una estensione di significato che porta al furbo, al guascone, al personaggio non ligio alle regole. Paradossalmente, la prima correlazione si ebbe con la parole lombardo, che nell’età dei Comuni definiva i banchieri, cioè i cambiavalute e i mercanti dei banchi delle fiere europee. Pur non essendo per forza della Lombardia, quindi anche senesi, modenesi, vercellesi e così via, venivano visti con un occhio di sospetto per le loro qualità sia oratorie che di convincimento, e soprattutto per il loro innegabile successo (ci sono pagine stupende nei libri di Jacques le Goff sul questo tema). Esistono ancora oggi nelle città dell’Europa centro-settentrionale di tradizione mercantile quartieri o strade che hanno il nome composto o rimandante a Lombardo\i, la più famosa delle quali è Lombard Street nel cuore di Londra.
L’eccezione italiano-furbo si accentua ovviamente dopo la riforma protestante, i cui autori senza giri di parole, si scagliavano contro la stupidità dei papisti e sulla ignoranza dei popoli cattolici. Nasce così un mito meridionalista, rispetto ai popoli protestanti, che li associa ad una ingenuità morale, ad una oziosità dei costumi e ad un indifferenza verso le leggi che perdura ancora oggi. E non c’era posto migliore da stereotipare come lo è stato nei secoli Napoli. Dal 1300 fino al 1750, periodo in cui si susseguirono a Napoli tre dinastie regnanti straniere, la città fu, secondo i dati riportati da Norman Davies nel suo Storia dell’Europa, la città di gran lunga più popolosa di tutta l’Europa, e nel periodo 1550-1650, anche la più ricca. Fernand Braudel faceva spesso notare come nella storia della civiltà europea, Napoli sia stata l’unica città a dare il nome ad un regno, e non viceversa. E, sperando di non dare un colpo personale a molti, coloro che vivono a Sud di Roma, dall’Abruzzo alla Calabria, con la sola esclusione della Sicilia, sono stati napoletani per secoli, cioè abitanti del regno di Napoli. La stessa natura della città è unica: nel Seicento era una megalopoli, per i tempi, che aveva tutte la caratteristiche interstiziali, per dirla con il moderno termine coniato da Saska Sassen, per attrarre a sé tutti i disperati, che nella peggior condizione di vita urbana vivevano meglio del posto in cui stavano. Tutto il Meridione viveva per far sopravvivere Napoli, e persino i Viceré spagnoli, quando prestavano giuramento, mettevano gli Interessi di Napoli addirittura prima di quelli della Spagna. Si destava agli occhi dei viaggiatori, numerosissimi vista l’importanza economica e strategica di Napoli, un brulicante miscuglio di uomini ricchissimi, borghesi ricchi più dei principi, e una massa di lazzari, termine spregiativo usato dai dominatori spagnoli per definire i rivoluzionari del 1647, quelli della sollevazione di Masaniello, da allora divenuto anche’esso aggettivo stereotipato di fannullone e mascalzone. Forse espressione più vera e spettacolare della Napoli del tempo è il capolavoro di Caravaggio, le Sette opere di Misericordia, conservata al Pio Monte della Misericordia, a Napoli.
Quello che contò nello stereotipo del lazzarone, che deriva appunto dal lazzaro popolano, sono i racconti di viaggi. Un po’ come il grande Edward Said spiega nel suo capitale Orientalismo quanto la letteratura degli stereotipi sia decisiva nella definizione che noi abbiamo dell’Oriente, la stessa cosa avvenne per Napoli. Una città che agli occhi di molti stranieri era orgiastica e dionisiaca per le clamorose folle che affollavano le processioni religiose, la più famosa delle quali era quella per San Gennaro a Maggio, dove la Testa del santo veniva fatta incontrare con il miracoloso sangue, che ribolliva all’avvicinarsi delle reliquie. C’è da dire che è la stessa urbanistica napoletana che lascia senza riferimenti: non esiste città in cui il palazzo più bello di Via Toledo, strada che prende il nome dal Viceré che la fece costruire, abbia la facciata sulla strada principale, ma l’ingresso posteriore sui famosi quartieri spagnoli, che si chiamano così perchè furono destinati come alloggi alle milizie spagnole, e che per natura ti tipo utilitaristico dei militari, finirono per diventare zona di prostituzione, spaccio, strani commerci. Ogni strada è un quartiere, con la zona ricca adiacente alla zona povera, in un susseguirsi di una connotazione centro periferia che non ha soluzioni di continuità.
Non serve far notare che Napoli fu una delle capitali europee dell’Illuminismo per tutto il ‘700, che fino al 1800 essendo capitale del Regno era sede delle più importanti Ambasciate, e che persino l’unica sede in Italia dei banchieri Rothschild era a Napoli, in uno stupendo Palazzo di via Riviera di Chiaia, Non serve ricordare che le pagine sulla sua misera sono moto inferiori a quelle sulla sua ricchezza, e ce per secoli non c’è stato aristocratico, inteleltuale o viaggiatore che si rispetti che non sia venuto a visitarla. Non serve ricordare che l’aggettivo napoletano si può riferire ad una scuola orafa unica al mondo, a quella artigianale (si pensi ai sarti, agli artigiani delle scarpe, agli ombrellai) o alla manifattura delle porcellane di Capodimonte. Per non dire della lingua napoletana, della cucina, della cultura generale di una città che ha tanti primati storici (la prima Università laica del Mondo, il più antico teatro d’opera del Mondo, il più antico osservatorio geologico, uno tra i Musei Archeologici più importanti del Mondo). Si perchè lo stereotipo quasi mai è positivo, lo è sempre in senso negativo. Quindi i napoletani sono furfanti e camorristi. Questo poichè la critica dei difetti umani è molto più complicata della lode dei suoi pregi, e la complessità è sempre meglio imbavagliarla nella fissità di pregiudizi.
Ovviamente non posso che non finirla alla napoletana ( la battuta è volutamente forzata). Nel bellissimo film Così parlò Bellavista (1984) di e con Luciano De Crescenzo, in un celebre dialogo, il Dr Cazzaniga, milanese sposato con una tedesca e che è nominato direttore dell’Alfasud, parla con il prof. Bellavista, finalmente a confronto causa incontro fortuito in ascensore, per di più bloccato causa guasto, dopo essersi odiati a distanza sulla base di ottuse supposizioni e preconcetti. La piacevole sorpresa di scoprire similitudini, scaturita da un’eguaglianza basata sulla diversità, si evidenzia in un famoso passaggio:
Cazzaniga: “No, no … Se mi danno il tè alla mattina è come se mi dessero una sberla! E’ mia moglie che ama il tè, ma, sa, lei è tedesca e i tedeschi, caro professore, non sono come noi …” Bellavista: “Si è sempre meridionali di qualcuno”.
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SERGI (UNITI PER CRESCERE) «Le ragioni del mio ritorno in Calabria»
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/sergi-uniti-per-crescere-le-ragioni-del-mio-ritorno-in-calabria/
SERGI (UNITI PER CRESCERE) «Le ragioni del mio ritorno in Calabria»
SERGI (UNITI PER CRESCERE) «Le ragioni del mio ritorno in Calabria»
R. & P. In questi giorni impazza, giustamente, un post di Gioacchino Criaco, che condivido in buona parte. Non mi piace, però, il solito limite degli intellettuali Calabresi, sempre voltati con lo sguardo al passato e senza la ben che minima idea di uno straccio di futuro. Sì, certo, le bellezze della Calabria, uniche al mondo. Ma non è opera mia, Gioacchino, né tua, né nostra. La parte che manca[U1] , che manca ai nostri figli che partono, era quella che spettava a noi. A me, a te, a tutti quanti i Calabresi che hanno in testa un’idea diversa di quello che, in definitiva, piaccia o non piaccia siamo voluti diventare. E allora, dobbiamo avere il coraggio e l’onestà intellettuale di ammetterlo: siamo noi ad aver fallito. Noi e non l’altra parte, in questa battaglia di contraddizioni che ci attanagliano. Qui vedo solo nicchie di Intellettuali che si fanno le citazioni a vicenda e a rotazione. Sempre gli stessi dovunque. Circoli e circoletti autoreferenziali nel quale affacciarsi è difficile per chiunque non parli un linguaggio che piaccia ai pochi affermati nella Cultura. Chi non scrive per lamentarsi dei torti subiti dai Piemontesi e chi non scrive volutamente di ‘Ndrangheta è emarginato, accantonato, perché non ha capito niente e non si vuole uniformare al mantra del vittimismo congenito e scrivere delle nostre grandi doti Culturali e delle bellezze paesaggistiche che, vorrei ricordare a me stesso, prima che a tutti gli altri, e ribadire: non sono merito nostro. Vedo solo fiumare bellissime infestate di materassi ed elettrodomestici; vedo solo consumismo sfrenato, sfoggio di lusso, disoccupazione alle stelle e chi potrebbe dare un apporto qualitativo andarsene…adesso neanche sognando, come direbbe Eugenio Marino. Magari ascoltando musica fuori moda, non sempre ragazzetti napoletani coi loro 1000 e passa CD di lagna neomelodica. Quelle bellezze paesaggistiche che da uomini di penna e sensibilità abbiamo iniziato tardi a raccontare, perché Corrado Alvaro ed altri illustri scrittori, allora, scrivevano e potevano scrivere di noi Calabresi, della nostra Cultura, di ciò che, bene o male, eravamo. Ora cosa potremmo dire di noi? Che in un Battesimo o Cresima vediamo parcheggiate fuori 20 macchine uguali, con quaranta ragazzi vestiti con le stesse scarpe griffate della stessa marca, quaranta paia di Jeans squartati e magliette simili come il taglio dei capelli e con spari d’artificio mandati al cielo ormai anche quando prendiamo a casa un cane?
La Cultura Calabrese è razzista. Non ammette variazioni sul tema imperante, non vuole che al suo interno vi siano slanci di fantasia o che vengano trattati temi differenti. Nell’ODG della Cultura Calabrese la voce “varie ed eventuali” non esiste, non viene mai contemplata. Oppure dove chi rinuncia a stare vicino alla famiglia per tentare di costruire qualcosa, con rinunce economiche importanti per qualcosa in cui crede non dovrebbe avere ambizioni personali. Che siano sane o malate, il perbenismo e il moralismo di una fetta di popolo Calabrese non trova le differenze. In una Regione dove il Nemo Profeta viene aggirato dall’autocelebrazione, dove l’impegno genuino viene guardato con sospetto e complottismo, dove noi stessi non abbiamo neppure una flebile idea di come poter andare avanti. Mai il cuore oltre l’ostacolo del piagnisteo congenito, per quanto suffragato dalla Storia, che da sempre ci contraddistingue. Siamo sempre pronti a giudicare, ignorare chi parla in modo leggermente diverso. Chi ogni tanto ricorda, oltre alle cose buone della nostra terra e della nostra gastronomia, che in definitiva siamo sempre stati un Popolo di “tocchimi gnura ca mi piaci”. In una Regione dove i Politici che contano non hanno mai valso un decimo del consenso preso. Dove si ciancia di cambiamento mentre ognuno tenta di costruirsi una nicchia, Cultura in primis e Politica subito a ruota con sfumature e connotati diversi. No, cari Intellettuali di quel che fu, non ci siamo. “Io sono qui” di ritorno, convinto che la prima cosa da fare è mollare la necessità di costruire nicchie. Sono qui e vedo benissimo come la lontananza degli uomini di Cultura dal Popolo sia maggiore di quanto lo siano i politici e la Politica. Io sono il “colibrì”…in Politica e in Cultura; e sono certo che gli uomini di Cultura conoscano la metafora dell’uccellino più piccolo esistente in natura. Non vidi nessuno stracciarsi le vesti quanto un uomo delle Istituzioni ebbe a dire che in Calabria non si deve prendere il caffè neppure con gli onesti. Fui io, scrittore di scarso successo con l’aggravante dell’impegno in politica a rispondere, non vidi levarsi altre indignazioni. E’ vero, non siamo stati abituati alla bellezza, ma nessuno ci ha neppure impedito di vederla e custodirla. Fate questo nuovo Movimento Politico, così magari per prendere qualche voto dovrete iniziare a parlare anche del futuro. Io l’ho già fatto.
Pietro Sergi
Presidente del Movimento Politico Uniti Per Crescere.
R. & P. In questi giorni impazza, giustamente, un post di Gioacchino Criaco, che condivido in buona parte. Non mi piace, però, il solito limite degli intellettuali Calabresi, sempre voltati con lo sguardo al passato e senza la ben che minima idea di uno straccio di futuro. Sì, certo, le bellezze della Calabria, uniche al
Gianluca Albanese
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Anteprima "Innovalp", il festival delle idee per la montagna
Anteprima “Innovalp”, il festival delle idee per la montagna
I temi dell’edizione 2018 di Innovalp, festival delle idee per la montagna che si svolgerà a Tolmezzo, in Carnia, dal 21 al 24 marzo saranno occasioni di confronto, dibattito e condivisione di idee sulle politiche per lo sviluppo della montagna, un contro canto alla diffusa cultura del piagnisteo, dello spopolamento e della crisi.
Evento Anteprima 16 marzo alle 17:30dedicata alle “Alpi ribelli”…
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La sinistra scomparsa non cercatela in un partito
di Antonio Padellaro Nella chiacchiera infinita, compulsiva, inconcludente che affoga la politica e noi tutti, fa da sottofondo il piagnisteo, quanto mai vuoto e insopportabile, sulla fine della sinistra. In effetti, questo dicono i risultati del 4 marzo che nella somma tra Pd (sinistra?), Liberi e Uguali, Potere al Popolo e frammenti vari (a malapena il 23%) ci mostra un triste rigagnolo in mezzo alle secche là dove soltanto dieci anni fa scorreva ancora impetuosa l’acqua della passione e dell’impegno. Poi però scopriamo l’esistenza di una sinistra sommersa che come un fiume carsico agisce in profondità, invisibile agli sguardi superficiali. Non la troveremo nei talk show perché non di parole inutili è composta ma di vita reale. Se non ci credete nel libro di Cannavò, giornalista e manager del Fatto, già parlamentare della sinistra (che parte dalle ragioni storiche che hanno portato alla fine del movimento operaio) troverete la lista “virtuosa” di cooperative e aziende nate o recuperate sui principi e valori della mutualità. Una costellazione del “fare insieme”, dell’“agire in comune” composta da operai, agricoltori, manager. Collettività di lavoro che non si piangono addosso, che si danno da fare e che hanno riscoperto “la stessa capacità d’inventiva e innovazione di cui diedero prova gli operai e gli intellettuali della seconda metà dell’Ottocento”. Solo qualche esempio. Rimaflow, la fabbrica recuperata di Trezzano sul Naviglio – alle porte di Milano – avviata nel 2013, diventata una nuova cittadella operaia che ha puntato tutto su riuso e riciclo (carta e plastica, computer e cellulari, più un liquorificio sociale che produce il “Rimoncello” e l’“Amaro Partigiano”, tanto per essere chiari). San Rosarno (distretto delle arance). Sfrutta Zero (raccolta e distribuzione del pomodoro). Mondeggi bene comune (uliveti). Ex Asilo Filangeri (arte, cultura, spettacolo). E così via. Una miriade di esperienze che si muovono secondo un programma che rivendica un salario minimo legale, un reddito di base, il diritto a un nuovo welfare comune, autogovernato e modellato sui nuovi bisogni sociali. Fondamentali, naturalmente, “il carattere multietnico e multiculturale e il riconoscimento e la valorizzazione del lavoro femminile”. Cercate la sinistra scomparsa? È qui.
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/10/16/giuliano-lecce-la-tormentata-lettura-sua-epigrafe/
Giuliano di Lecce e la tormentata lettura di una sua epigrafe
di Armando Polito
Un grido di dolore si leva ogni tanto, nemmeno unanimemente, dal mondo della cultura per lo sfacelo progressivo del liceo classico perpetrato da burocrati ignoranti, sedicenti esperti al soldo del potere politico che mira a gestire cervelli acritici con abbaglio intermittente di dati ISTAT utilizzati parzialmente per un’interpretazione ad usum delphini di quelli globali, con una spruzzata, un po’ più copiosa in concomitanza di appuntamenti elettorali, di dosi dopanti che già Giovenale quasi duemila anni fa stigmatizzò con il suo panem et circenses. Per tornare al classico: fra poco si proporrà lo studio del latino e del greco saltando la fase di acquisizione delle fondamentali norme grammaticali che a quel punto, debbo dire giustamente, sarebbe un’inutile perdita di tempo, visto che la meta finale è la lettura dei testi attraverso il riassunto della traduzione in italiano …
Da ex insegnante di queste materie debbo dire che io non sono indenne da colpe e ancora oggi mi tormenta il rimorso per non aver a suo tempo insistito sufficientemente nell’approvazione di mie, e solo mie, proposte in un periodo in cui il ministero competente si sciacquava la bocca raccomandando di privilegiare gli agganci con il territorio. Chissà agli occhi di quanti sarò sembrato un retrogrado e provincialotto quando senza mezzi termini ogni anno dichiaravo la mia disponibilità ad accompagnare i ragazzi solo in visite guidate e non nei viaggi d’istruzione, diventati col tempo viaggi-distruzione!
Si dirà che il nostro patrimonio culturale è tanto ampio che pone l’imbarazzo della scelta. Non mi pare una buona ragione per scegliere mete lontane quando conosciamo, se pure la conosciamo, solo una minima parte di quello che abbiamo in loco o nelle vicinanze più o meno immediate.
Forse sono un ingenuo e pure testardo e rincoglionito se, nonostante tutto, credo ancora oggi che una classe di un liceo classico salentino, purché preventivamente, tempestivamente e convincentemente preparata, potrebbe non trovare a priori più allettante una gita a Roma piuttosto che, solo per fare un esempio, a Giuliano di Lecce e, per restringere ancor più la meta, lungo la sua via Regina Elena?
Una scelta così mirata sarebbe dettata anche dalla scarsa, direi nulla, dispersività, nello studio grazie alla concentrazione, proprio in quella via, di numerose epigrafi latine. La gita a Giuliano di Lecce (qualcuno rida pure …) rappresenterebbe la prima fase di un lavoro più complesso che, giocoforza, deve partire da dati concreti, materiali, le epigrafi, appunto, da congelare in foto per le quali oggi anche la più economica delle fotocamere digitali garantisce un sufficiente livello di definizione. Se, poi, il docente accompagnatore si porta appresso quella telecamera O fotocamera costata alla scuola una barca di euro e la utilizza in parallelo al lavoro di prima documentazione dei suoi ragazzi, non fa altro che il suo primo dovere; il secondo sarebbe quello di controllare l’esatta ubicazione (leggi numero civico) di ciascuna epigrafe ripresa; il terzo riguarderà, una volta tornati in sede, lo studio dei dati raccolti e la loro sistemazione in una relazione scritta. Nell’ultima fase sarà di aiuto fondamentale l’utilizzo della rete (in sala pc, non con lo smartphone in classe …), quella rete che, se fosse stata utilizzabile al tempo in cui ho insegnato e nell’abbondanza di documenti digitalizzati che solo oggi essa può offrire, avrei perso meno tempo e sarei stato certamente più efficace a spiegare ai ragazzi, per esempio, come certi testi sono giunti fino a noi, che significa collazione dei manoscritti, come il principio obsoleto ma prezioso anche oggi (non per i profitti delle multinazionali …) dell’usa e riusa s’incarni in un palinsesto. Tutto ciò esibendo virtualmente (ma in questi caso il virtuale vale quasi quanto il concreto) l’oggetto da intendere, condizione primaria, nel metodo induttivo, per passare al concetto, dal fenomeno alla regola.
Dopo questo piagnisteo sulle occasioni perse, passo ad altri il ruolo di protagonista fin qui assunto.
Qualche settimana fa mi sono imbattuto in un piacevole (anche per la vista grazie alle immagini, ma non si tratta di donnine più o meno discinte …) reportage (http://www.salentoacolory.it/epigrafi-nel-piccolo-salento-antico/) dal titolo Le sagge epigrafi del Piccolo Salento Antico, uno dei tanti, tutti interessantissimi, postato da Alessandro Romano sul suo blog. Dopo aver detto, è il minimo che possa fare, che, se nessuno ha pensato di conferirgli una laurea honoris causa, il suo blog dovrebbe essere assunto a modello di amore autentico per la propria terra e di corretta divulgazione della sua cultura, passo a lei, cioè all’epigrafe che mi ha ispirato questo post.1 La riproduco nella foto di Alessandro.
Nella didascalia si legge: Qui invece c’è un’esortazione al disprezzo verso la vita oziosa, il lavoro è un rimedio efficace contro la povertà: “Non amare il sonno affinché la povertà non ti opprima. Ciò che hai messo da parte sia di guadagno per l’erede. 1778”.
Quella riportata da Alessandro è la traduzione italiana. E qui scatta in me la deformazione professionale che mi spinge, direi obbliga ad un controllo, questa volta. del testo originale che è in latino e che io leggo così:
Faccio osservare anzitutto che il supporto appare formato da due pezzi coerenti dal punto di vista dello stile e della scrittura epigrafica, nonostante la visibilissima diversa colorazione e l’asimmetricità delle due cornici. Ognuna delle sue parti contiene una citazione tratta dalle sacre scritture. La lettura risulta problematica per la prima linea, della quale, divise in due parti, restano tracce di scrittura nella prima e chiaramente leggibile solo M nella seconda.
Traduzione:
Confrontando la traduzione riprodotta da Alessandro con la mia, è evidente la differenza profonda del messaggio, per quanto saggio in entrambi i casi. Nel primo compare il concetto di povertà, nel secondo quello di bisogno. In latino povertà è paupertas, il bisogno è egestas e fra i due concetti la differenza è notevole perché la povertà comporta almeno il possesso del poco, il bisogno nemmeno quello. Una differenza abissale, poi, riguarda la seconda citazione. Nel primo caso cìè quasi l’invito ad accumulare beni, non per sé, ma per l’erede, strano concetto evangelico di elogio della ricchezza intesa come sistemazione della propria discendenza, quasi proiezione, tutta umana e per questo comprensibilissima, del proprio egoismo nel futuro. Non dico di non lasciare nulla ai figli e sperperare per sé tutto quello che si mette da parte, ma neppure dannarsi l’esistenza solo per loro e non augurarsi che, pur con il dovuto aiuto, si facciano da sé, il che, poi, è il modo migliore peché crescano spiritualmente sani …; nel secondo, invece, l’angoscioso interrogativo se valga la pena dannarsi l’anima per delle ricchezze certamente non traferibili nell’aldià (per chi ci crede, figurarsi per chi non ci crede …).
Se la differenza tra povertà e bisogno poteva apparire come una sottigliezza interpretativa, è la traduzione della seconda parte, tanto differente da quella del testo originale da me letto, che mi ha fatto venire il sospetto che provenisse da una lettura diversa. Sì, ma quale e di chi? Sarebbe come dire: qual è la fonte utilizzata da Alessandro?
La rete consente di scoprire, grazie alla sua disponibilità di una memoria quasi infinita e alla potenza dei motori di ricerca, di trasformare quel cretino velocissimo che è il pc in un formidabile strumento prima di controllo e poi di approfondimento della conoscenza.
Così è bastato solo qualche minuto per individuare la fonte della traduzione riportata e che qui riproduco dal link https://www.facebook.com/Liquilab/posts/1697621753611746:0 (da lì ho tratto pure la foto che segue).
Il post reca la data del 24 giugno 2017. Siccome quello di Alessandro reca la data del 26 dicembre 2016, è evidente è che non può essere stata la fonte, anche se la lettura del testo originale sembra avvicinarsi alla mia, a parte SOMNUM contro SOMNIUM, l’assenza del punto interrogativo dopo ERUNT, la penultima riga totalmente diversa e l’ultima, quella con la data, totalmente ignorata.
Un’ulteriore indagine mi fa approdare ben presto al link http://www.bpp.it/Apulia/html/archivio/1986/IV/art/R86IV027.html, dove leggo:
In via Regina Elena, sull’architrave di una porta secondaria, di proprietà Fuortes, si legge: “Noli diligere somnum, ne te egestas opprimat. Quae parasti, cuius erunt lucro sunto. A. D. 1778”. “Non amare il sonno per non essere oppresso dal bisogno. I beni, che hai procurati, siano di guadagno per l’erede”. E’ superfluo notare che in una società preminentemente agricola, in cui il lavoro massacrante, il labar improbus, (almeno per gli humili genere nati) era necessario antidoto contro la miseria, è superfluo, dico, notare che in tale ambiente doveva risuonare, ammonitore e pungolante, l’invito: “Non dormire”. La seconda parte, invece, molto profonda, anche se paternalistica, (ma in quei tempi il tono paternalistico non era scandaloso, com’è oggi talvolta anche il tono paterno), è un avvertimento serio all’erede a considerare un guadagno da custodire gelosamente ciò che formava la sua eredità. Ma in questo mondo “Perpetua vice hominum res mutantur”, con vicenda perenne cambiano le cose degli uomini, perché “Or puoi veder, figliuol, la corta buffa / del ben che sono commessi a la Fortuna” (Dante-inferno, Canto VII; versi 61-62), che “Permuta” a tempo li ben vani / di gente in gente e d’uno in altro sangue, / oltre la difension di senni umani” (verso 79-81).
L’articolo è a firma di Giovanni Prontera ed in calce si legge Banca Popolare Pugliese Tutti i diritti riservati © 2000. È la stampa dello stesso apparso in data dicembre 1986 in http://www.giulianodilecce.com/giovanni-prontera.php e, tal quale per quanto riguarda la nostra epigrafe, in “LA CAMPANA DEL VILLAGGIO” ed. 29/6/95.”STORIA” (così si legge in http://www.giulianodilecce.com/le-iscrizioni-di-giuliano.php).
Molto probabilmente Giovanni Prontera non potè leggere quanto pubblicato in A. Caloro, M. Monaco, F. Leonio, F. Fersini, Iscrizioni latine del Salento. Paesi del “Capo” di S. Maria di Leuca, Congedo, Galatina, 1998, p. 147.
Il lettore noterà la sostanziale coincidenza della mia lettura con questa, che, finalmente, dice la parola quasi definitiva, a parte quel poco che segue:
a) Non credo che nel 2000 o giù di lì fossero leggibili la D di D(EO) e la O di O(PTIMO). La lettura proposta è deduttiva perchè nelle epigrafi è normale trovare in quella posizione O. M. con le tre lettere uniformemente distanziate e nessun elemento, fregio compreso, che crei separazione. Qui bisognerenne immaginare D O a sinistra ed M a destra. Per questo nella mia trascrizione ho optato per il punto interrogativo.
b) Le parentesi quadre, che in epigrafia indicano le lettere illeggibili, non sono coerenti in un dettaglio la cui individuazione lascio al lettore.
Chi mi legge potrebbe pensare: – Ma che bravo ‘sto Polito! -. Se il pensiero è sincero lo invito a far controllare, comunque, da altri competenti quanto e più di me e di lui la fondatezza di quanto ho osservato (ad impedire, dunque, un’ulteriore proliferazione dell’errore, qualunque esso sia, tanto in rete che fuori), non senza aver prima spuntato una lancia a favore non solo di Alessandro, il cui rigore di divulgatore è fuori discussione, ma dello stesso professor Prontera che probabilmente avrebbe letto bene (e tradotto meglio, non fosse altro perché l’interpretazione sbrigativa, per usare un eufemismo, di quel cuius erunt con per l’erede e tutta la dotta consequenziale annotazione di natura sociologica non stanno né in cielo né in terra, e non solo grammaticalmente) se avesse potuto osservare l’epigrafe con un cannocchiale o fruire di una ripresa col teleobiettivo, che allora già esisteva). Se, invece, il pensiero è sarcastico, evito, per educazione, di aggiungere a questa protesi di periodo ipotetico la relativa apodosi …
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1 Un’altra epigrafe era stata oggetto di studio in http://www.fondazioneterradotranto.it/2015/01/23/unepigrafe-in-via-regina-elena-a-giuliano-di-lecce/
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