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pier-carlo-universe · 9 days ago
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AKRAGAS ALÉ: L'Inno Calcistico di Agrigento tra Passione e Identità
Il nuovo singolo di Alessandro D’Andrea Calandra unisce la cultura e l’orgoglio agrigentino al tifo per l’Akragas
Il nuovo singolo di Alessandro D’Andrea Calandra unisce la cultura e l’orgoglio agrigentino al tifo per l’Akragas. AKRAGAS ALÉ è il nuovo singolo di Alessandro D’Andrea Calandra, un inno dedicato alla squadra di calcio Akragas, simbolo della città di Agrigento. Con questa composizione, l’artista siciliano riesce a fondere l’identità della “Città dei templi” con la passione e lo spirito sportivo…
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cinquecolonnemagazine · 1 year ago
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Le più famose e recenti canzoni dell'estate: quali sono?
L'estate è la stagione in cui le melodie contagiose, i ritmi ballabili e le parole orecchiabili si fanno strada nelle nostre playlist e nelle nostre giornate. Ogni anno, alcune canzoni riescono a conquistare il cuore del pubblico e diventano l'inno ufficiale dell'estate. In questo articolo, esploreremo alcune delle più famose canzoni dell'estate che hanno lasciato un'impronta indelebile nel mondo della musica e negli animi di milioni di persone. Canzoni dell'estate, qual è la più famosa? Una delle canzoni dell'estate più memorabili di tutti i tempi è "Despacito" di Luis Fonsi e Daddy Yankee. Il brano, rilasciato nell'estate del 2017, ha spopolato nelle classifiche di tutto il mondo, diventando il primo video su YouTube a superare i 7 miliardi di visualizzazioni. Con il suo ritmo coinvolgente, i testi seducenti e le sonorità latine, "Despacito" ha incantato i fan di ogni età e ha segnato un punto di svolta nella popolarità della musica latina a livello globale. L'estate secondo Calvin Harris Un'altra canzone estiva che non può essere ignorata è "Summer" di Calvin Harris. Rilasciata nel 2014, questa traccia dance elettro-pop ha dominato le radio e le piste da ballo di tutto il mondo. Con il suo ritmo energico, le melodie orecchiabili e l'atmosfera festosa, "Summer" è diventata un inno per le notti estive di divertimento e spensieratezza. Chi ha detto che il country è fuori moda? Nel 2019, "Old Town Road" di Lil Nas X ha conquistato la scena musicale estiva con la sua fusione unica di rap e country. La canzone, caratterizzata da un beat contagioso e dal famoso ritornello "I'm gonna take my horse to the old town road", è diventata virale grazie al successo sui social media e al suo utilizzo nei popolari video di app come TikTok. "Old Town Road" ha infranto record di streaming e ha dimostrato che la musica può superare i confini dei generi tradizionali. Ed Sheeran e le colonne sonore estive Negli ultimi anni, l'artista britannico Ed Sheeran è diventato una presenza costante nelle playlist estive soprattutto con le sue canzoni romantiche e orecchiabili. Brani come "Shape of You", "Thinking Out Loud" e "Castle on the Hill" hanno catturato l'attenzione del pubblico di tutto il mondo, diventando la colonna sonora perfetta per le lunghe giornate di sole e le notti d'estate. Waka Waka e Shakira, tra le canzoni dell'estate recenti per eccellenza Non possiamo dimenticare soprattutto il fenomeno globale che è stato "Waka Waka (This Time for Africa)" di Shakira, la canzone ufficiale della Coppa del Mondo FIFA 2010. Questo pezzo coinvolgente e ritmato ha catturato l'attenzione di milioni di persone in tutto il mondo, trasformandosi in un inno di unità e celebrazione durante il torneo calcistico più amato al mondo. Foto di Steve Buissinne da Pixabay Read the full article
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diotifaboca-blog · 8 years ago
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Vi preghiamo di rimanere seduti: la storia di una nazione in mano a dei pazzi.. Se solamente la storia che sto per andare a raccontarvi fosse anche minimamente simile ad una delle tante che abbiamo trattato in passato, o anche a molte altre che ci sono state in generale nel mondo del calcio, adesso qua, al posto di questa frase un pó contorta, ci sarebbe la solita lunghissima introduzione con dentro le solite e noiosissime parole, gli stessi concetti e la stessa identica retorica. Tutto così dannatamente uguale. Stavolta peró purtroppo, ma direi anche per fortuna, la cosa è molto, ma molto diversa. Fidatevi. La storia di oggi non seguirà affatto un filo razionale. Ecco perché non c'è quella benedetta introduzione che, invece, è quasi sempre presente. Perché chi prova soltanto ad introdurre o cercare di spiegare la pazzia, è uno che di essa sa ben poco. Anzi niente. Solo un 'non pazzo' può cercare di immagazzinare prima e spiegare poi la follia con una qualche semplice combinazione di paroline messe a caso. Perché non si può spiegare ciò che viene dal mondo della 'follia', dal mondo dei matti, dal 'caffè della pazzia' dove tutti i 'senza rotelle' se ne stanno belli seduti a sorseggiare chissà cosa. Al massimo, se proprio si vuole, con la follia ci si può fare a pugni, rotolarci insieme verso un dirupo che porta all'inferno, e poi uscirci malconci e frastornati, arrampicarsi con le unghie e sentirsi distrutti, ma contenti, perché solo così si può conoscere ed assaporare il gusto della pazzia. Solo così, in un blog come questo, si potrà conoscere ed introdurre la squadra più cattiva e senza alcuna morale che il 'futbol' abbia mai regalato ai suoi seguaci. Già. Un regalo. Perché una squadra che riesce a cambiare il significato di una parola come Wimbledon che, nel giro di quattro anni passa, dopo secoli, da simbolo vero e proprio di eleganza e nobiltà a termine con cui si indica una accozzaglia disordinata di ignoranza e violenza, di rozzitá e scandali, questa squadra qua, quell'ammasso di matti e pirati moderni, non può che essere speciale. Non può che essere un dono che nella vita capita una sola volta. Una e una soltanto. Questa non sarà la storia di magie e colpi di tacco, non sarà la storia di poesie e rovesciate che lasciano senza fiato. Non ci saranno accenni a Pelé o Maradona. Non ci saranno discussioni sul calcio totale o profeti della pelota. No. Anzi. Sarà la storia di una manica di criminali, picchiatori, delinquenti e senza Dio che, un pó per caso, un pó per merito, si ritrovarono calciatori. Si parlerà di calcio ma non di piedi. Si parlerà di calci, ma non ad un pallone. Sarà la storia di una squadra che, come disse il grande Alf Ramsey, il ct sulla panchina dell'Inghilterra nel 1966 quando i leoni vinsero, tra le mura amiche, il loro unico mondiale "Se il calcio fosse lo sport dell'inferno, il Wimbledon le partite in casa le giocherebbe nel girone degli stronzi". Questa è la storia che andrò a raccontare. La storia di un pallone e di decine di gomiti. Quella di una squadra pazza e fuori controllo. Così come, ovviamente, i suoi interpreti. Quei maledetti giocatori senza un briciolo di cuore ed umanità. Usciti da chissà quale manicomio ma, sopratutto, perché. Siete pronti? Era la metà degli anni ottanta e l'Inghilterra, fino a quel momento casta e puritana, stava per perdere quella sua verginità e quella purezza che la contraddistingueva in campo, sia nel proprio campionato che in Europa, nelle coppe internazionali. Gli hooligans, purtroppo, in quegli anni spadroneggiavano sugli spalti, ma nel rettangolo di gioco, nessuno mai si era permesso di perdere quel tipico 'aplomb' britannico che l'ancora vittoriana societá inglese esigeva e pretendeva. La madre Inghilterra si aspettava un qualcosa che, però, molti dei suoi figli non erano, forse, più disposti a dargli. Era giunto ormai il tempo di cambiare. Londra e tutta la Gran Bretagna dovevano prenderne atto. Dovevano farse una ragione. I teppisti stavano per saltare i cartelloni ed entrare in campo. Gli hooligans erano pronti a raccogliere quelle poche cose che avevano, chiuderle in un sacchetto di plastica e traslocare sul rettangolo di gioco. Serviva una scossa. Quella definitiva. Ed arrivò. Da una squadra che non molti conoscevano. Il Wimbledon stava per cambiare per sempre la storia di questo sport. Beasant, Goodyear, Phelan, Jones, Young, Thorn, Gibson, Cork , Fashanu, Sanchez, Wise. Una filastrocca proveniente direttamente dall'inferno e che oggi l'Inghilterra ha scolpita nel proprio cuore. Nel bene o nel male. Da quale parte essa si trovi, non è dato saperlo. Perché il Wimbledon arrivò nel panorama calcistico inglese come una freccia, scagliata da chissá dove, arriva, trapassa e se ne va al di lá di un cuore: all'improvviso, senza avvisare e così brevemente che resta quel gusto dolce ed amaro in bocca che il tempo non potrà mai cancellare. E la squadra proveniente dal ricco quartiere inglese, non fu da meno. La squadra dei pazzi, infatti, fu fondata nel 1889 da un gruppetto di studenti che negli ultimi anni molti inglesi hanno maledetto, o benedetto, per la loro idea, dipende dai punti di vista, e che rimase nei bassifondi delle leghe britanniche per molto, moltissimo tempo. Quasi ottanta anni di inferi per l'esattezza. Un secolo scarso di serie dillentastiche. Perché il calcio da quelle nobili parti era visto come un divertimento e non come un mestiere. Questo era il pensiero di chi fondò quelle stupende maglie color blu e gialle. Un blu sovrano ed un giallo quasi impercettibile, ma stupendo, così acceso e così dannatamente simile al giallo usato da Gauguin nel suo, appunto, 'Cristo Giallo': folle e senza senso. Proprio come ciò che era il Wimbledon. Arrivò così la metà degli anni '60, e quella squadra senza nè arte nè parte iniziò lentamente a capire che era giunto il momento di fare il salto definitivo. Il Wimbledon è ormai pronto ed aprire le porte proprie al professionismo. Arriva così una nuova vita, nuovi campionati e nuovi avversari. Adesso le cose si fanno serie, e le partite vere e combattute. Inizialmente le cose non vanno benissimo per questa romantica squadra che solo pochi anni prima vedeva il calcio come un bellissimo hobby e niente più. Ma pian piano, stagione dopo stagione, fatica dopo fatica, risale dalle tenebre, e mentre lo fa, quel miracolo così lontano fino a qualche anno prima, sta, anche se impercettibilmente, prendendo forma. I piani alti del calcio inglese non sembrano così irraggiungibili. Arrivano poi gli anni ottanta e con loro l'allenatore che per primo ha reso possibile vedere quella luce che il tunnel prima di allora non mostrava: Dave Bassett, ex giocatore proprio del Wimbledon una decina di anni prima, ed adesso coach assetato di sangue e vittorie. Non portò grandi rivoluzioni tattiche il buon Bassett. Anzi. La sua idea di calcio era molto semplice, semplicissima. Al limite del basilare: corsa, grinta e tante, tante botte. "Più che potete. Non saranno mai troppe" amava dire il vecchio caro Dave. I suoi giocatori misero subito e perfettamente in atto i suoi diktat, così tanto bene che, perfino il vecchio e brutto 'palla lunga e pedalare' tipico del calcio inglese, al confronto del Wimbledon, divenne quasi un inno al calcio, una poesia, un qualcosa da insegnare nelle scuole calcio come modello di gioco, un po' come lo era stato il Barcellona di Cruijff per intendersi. Perché la squadra di Bassett era quasi un insulto al calcio ed al suo Dio. Il Wimbledon, francamente, non si poteva vedere. Non era presente neanche un giocatore con un minimo di tecnica ma, in compenso, tutti picchiavano come fabbri spiritati: dai difensori, che della palla non fregava assolutamente niente, agli attaccanti, che per recuperare il pallone (entrava anche lui ogni tanto nelle azioni della squadra), facevano valere i propri gomiti ed i propri pugni. Per non parlare del centrocampo: un agglomerato non urbano ma di 'mangia caviglie' e 'distruggi garretti', un gruppo di 'spacca ginocchia' e 'spezza tibie' che sbranavano le gambe di chiunque gli capitasse a tiro e che davano indietro ai genitori del malcapitato giusto l'osso con il piede attaccato, tanto per non esser denunciati per cannibalismo. Il Wimbledon incuteva timore e paura al solo nominare il suo nome. L'Inghilterra conobbe il suo lato più duro anche in campo. Era una squadra di mastini e sciacalli senza pietà e nella quale i piedi buoni non erano necessari, anzi, era visti quasi con occhio cattivo, perché, per Bassett e compagnia, se colpisci di tacco ma togli la gamba, vali meno di zero. Le trame di gioco nello scacchiere della squadra londinese erano praticamente nulle. Non c'era uno schema, non era presente un palleggiatore di centrocampo. Non c'era quasi nessuno che sapesse correre con la palla tra i piedi. La fantasia era stata da tempo sepolta sei metri sotto terra, infilata dentro una bara e chiusa per bene a chiave, per paura che prima o poi essa riesca a scappare e si possa impossessare dei piedi dei giocatori con la maglia blu e gli possa rammollire definitivamente. Il gioco del Wimbledon era 'non avere un gioco'. Tutto era affidato al caso più totale: appena un mastino, difensore o centrocampista che fosse, questo non era importante, recuperava la palla, doveva semplicemente lanciarla lunga, e si doveva solo sperare in una sponda od in una spizzicata degli attaccanti. Stop. Non c'era tanto da pensare o fasciarsi la testa. Dave Bassett amava poco le lavagnette e faceva risparmiare la sua societá per quanto riguardava fogli su cui disegnare inutili schemi che, magari, un allenatore avversario avrebbe annullato in quattro e quattr'otto. Meglio lasciare tutto all'improvvisazione del momento, a quel concetto di''effetto sorpresa' portato quasi al suo lato più estremo. Non c'era niente di programmato. E proprio questo faceva grande il Wimbledon: tutto affidato alla sorte ed al 'Dio Rimpallo'. Una volta, il grande Donald George Revie, che molti di voi conosceranno come Don Revie e come l'acerrimo nemico di Brian Clough nel libro capolavoro 'Il maledetto United', disse del Wimbledon "Il suo gioco è così brutto ed affidato al caso ed alla buona stella, che se la fortuna gli assiste per un paio di anni possano anche vincere tutto: Campionato, FA e Coppa Campioni. Sono l'antitesi del calcio. Del football non sanno niente. Ecco perché fanno paura. Perché è il caso che decide il loro futuro. Non loro. Se allenassi sempre preferirei incontrare il Real che quella manica di assurdi randellatori ". Come dare torto a quella vecchia volpe di Don? Le sue parole sembrano una profezia che di li a poco si sarebbe avverata. L'Inghilterra ogni domenica scopriva sempre più le caratteristiche del Wimbledon e dei suoi giocatori, quel gruppo di ragazzi che la nazione intera nominò ben presto come 'Crazy Gang'. Una banda di pazzi scatenati che facevano della violenza in campo e del bullismo fuori, le loro armi micidiali. Come lo hoolighans nel film di Fantozzi, quello che rimane in Italia anche ben dopo i mondiali del 1990, così i pazzi della gang disprezzano e odiano tutto e tutti, sputano ai muri, spaccano qualunque cosa gli capiti sotto mano e urlano in faccia agli avversari tutto il loro odio ed il disprezzo che hanno dentro. La Gang aveva in pugno l'intera nazione calcistica. Non c'era squadra che non si facesse il segno della croce ogni qual volta doveva giocare contro i ragazzi di "Plough Lane". Quanta strada aveva fatto quella società che fino a qualche anno prima arrancava per i campetti della contea, ed adesso è, invece, la squadra più discussa e temuta dell'intera nazione. Ma la svolta vera e propria per questa manica di figli di buona donna arrivó nel 1987, quando il manager Dave Bassett lasciò il Wimbledon per accasarsi ad un'altra squadra di Londra, anch'essa con la maglia che riprendeva quel giallo shock che aveva in minima parte anche la gang: il Watford. Bassett modellò la sua creatura e se ne andò. Così. Senza preavviso e senza batter ciglio. Quei ragazzi, così rudi in campo, nella vita privata, in realtà, ci rimasero molto male. Per sostituire il partente Bassett, venne chiamato Bobby Gould, un allenatore, se possibile, con ancora più rabbia e rancore del suo spietato predecessore. Con l'arrivo di Gould il Wimbledon non cambiò nè modulo nè modo di giocare: rimasero i lanci lunghi ed il pallone scagliato nelle mani del fato, rimasero i gomiti alti ed i piedi a martello. Rimase tutto ciò che Bassett aveva introdotto, ma, in compenso, arrivò una buona dose di cattiveria in più. Come se c'è ne fosse stato bisogno, no? Ed i giocatori, coloro che poi dovevano mettere in atto tante e tali scorrettezze e tanta violenza in campo, recepirono perfettamente tali direttive, e, se possibile, le misero in atto anche meglio. Quella banda di pazzi furiosi diventò ben presto un biglietto da visita che l'Inghilterra si vergognava di esibire, un 'non' fiore all'occhiello da mostrare. Una squadra della quali non andare fieri, se non solo i propri tifosi che se ne fregavano altamente di morali o cazzate del genere, e vivevano e vibravano con la stessa intensità con cui vivevano e vibravano Gould ed i suoi ragazzi. Il sogno era partito. Fermarlo era difficile. Molto. Il Wimbledon spaccò ben presto la nazione: o si ama o si odia. Quei giocatori, così cattivi e pericolosi, erano esempi che qualcuno osannava e consacrava, venerava e pregava, mentre, altri, invece, proibivano addirittura categoricamente ai propri figli di seguire quei modelli creati e forgiati dal male. Undici idoli più qualche riserva, ma l'ossatura della squadra era praticamente sempre la stessa. E l'inizio di questa follia collettiva senza precedenti era, senza dubbio, il portiere, David John Beasant. Un colosso di 193 cm che non per niente era soprannominato 'Lurch', vista la sua somiglianza con il maggiordomo della 'Famiglia Adams'. Un buon portiere con il ginocchio sempre alzato sulle uscite alte. Beasant ha legato buona parte della sua carriera al Wimbledon, e, nonostante tutto, le sue doti tecniche erano di tutto rispetto. All'estremità opposta del campo il centravanti della squadra era John Fashanu: una montagna d'ebano scuola Millwall che aveva il maledetto compito di buttarla dentro e di sbucciarsi i gomiti a suon di colpi proibiti. Ecco. Se analizzassimo solo il semplice e basilare gioco del Wimbledon, la presentazione della squadra potrebbe praticamente finire qua, visto che, uno, Beasant, lanciava, e l'altro, cioè Fashanu, colpiva di testa. Stop. Ecco come erano costruite la maggior parte delle azioni offensive del Wimbledon. Ma, visto che alla fase difensiva, la più amata dall'intera squadra, perché si poteva randellare come fabbri, prendevano parte anche altri giocatori, mi sembra giusto continuare la presentazione della 'gang'. In difesa, per esempio, c'era il 'Ninja', Eric Young, un pazzo di colore completamente fuori di testa. Egli era nato a Singapore ma decise di giocare per la nazionale del Galles. Tutto, ovviamente, assolutamente senza un motivo razionale: Young non aveva nessun legame di parentela con quella nazione, quella gallese appunto, e prese la decisione come il Wimbledon sviluppava il suo gioco, ovvero, 'a caso'. Oggi viene ricordato quasi più per la fascia marrone che portava sempre in testa, piuttosto che per le sue doti di difensore e di 'annienta attaccanti'. Al suo fianco c'era Andy Thorn, una roccia umana composta da un fascio di muscoli ben definiti, un viso rotondo tipico inglese ed un naso cone quello di un pugile. Clive Goodyear e Terry Phelan completavano il tutto, aiutando il reparto difensivo sulle fasce di competenza e portando a casa anche loro (come non farlo in una squadra così?) una buona dose e quantità di polpacci e caviglie avversarie. E dopo la difesa arriviamo così adesso al reparto più cattivo e pieno di galeotti e piantagrane dell'intera rosa, ovvero il centrocampo. Il primo che vado ad affrontare (solo a parole si intende) è Denis Wise. Qualcuno lo ricorderà come il capitano del Chelsea a cavallo tra il pre- e la prima era Abramovich vera e propria. Ecco, se proprio vogliamo essere buoni, si può definire Wise il più talentuoso giocatore che era presente nella squadra di Gould. Ma per essere chiari: Wise non era il più bravo con i piedi, era il meno peggio. Denis il pazzo. Una vera e propria testa calda che ringhiava sulla fascia sinistra e che giocava una partita si ed una no a causa del suo carattere facilmente infiammabile ed anche per l''amorevole' rapporto che lo legava con la classe arbitrale. I 'fuck' ed i 'suck' che uscivano dalla sua bocca da 'lord inglese' si sprecavano ogni partita. Una volta sir Alex Ferguson per descriverlo usó una frase che successivamente sarebbe entrata per sempre nel parlare comune britannico quando si vuole descrivere un attacca brighe, un Denis Wise appunto 'Riuscirebbe a scatenare una rissa in una casa vuota'. Alla sua destra, nel bel mezzo della mischia, c'era il nordirlandese Lawrence Philip Sanchez, uno dei giocatori più scorretti ed antisportivi che la storia del calcio ricordi, ed anche uno dei primi calciatori al mondo ad essere stato espulso per aver volontariamente e palesemente evitato un gol fermando il pallone con la mano. C'era poi Alan Cork, che giocava un po' più avanzato, quasi a ridosso di Fashanu. Era il giocatore con più esperienza, il simbolo della compagine, nella quale militò per ben quattordici anni, collezionando 430 partite e 145 gol, e stabilendo così il record sia di presenze che di marcature nella storia del Wimbledon. Sulla fascia destra c'era il motorino Terry Gibson, un uomo che aveva delle tibie così dure, che una volta, il leggendario allenatore del Liverpool Kenny Dalglish osò dire "Avevo perso la chiave della cassaforte. Pensai che solo due persone avrebbero potuta aprirla anche senza: o un artificiere con la sua dinamite o Terry Gibson con le proprie tibie". Questa signore e signori era la famigerata 'Crazy Gang', il terrore di tutta l'Inghilterra e di tutto il panorama calcistico. La squadra più antipat... Ah. Già. Scusate. Quasi dimenticavo. Nella concitazione e nell'ardore del momento, spinto dalla passione e dal raccontarvi questa incredibile storia, stavo quasi, imperdonabilmente, per dimenticarmi di colui che invece era anima, simbolo e sindaco della squadra. Il capo supremo della Banda e di tutti i figli di puttana che popolano questo mondo. Un uomo che è passato alla storia per decine e decine di record. Tutti ovviamente in negativo. Un mito del calcio e non solo, visto che adesso è anche uno star di Hollywood. Sua maestà Vincent Peter Jones, universalmente conosciuto come Vinnie. Per quelli che stanno leggendo questo pezzo e hanno la fortuna di non conoscerlo, vi consiglio di interrompere qua la lettura, spengere la luce ed infilarvi di corsa sotto le coperte, perché avete vissuto una vita felice nel segno della poesia del calcio e dei suoi interpreti più sopraffini, che fanno della delizia e della tecnica l'arte suprema del football. Siete cresciuti con una idea meravigliosa del pallone nella vostra testa. Avete immaginato calciatori fortissimi e leggende viventi. Avete assaporato la vera e bellissima essenza del calcio, ed un essere come Vinnie Jones non vi potrá mai entrare nel cervello se avete tale concetto filosofico del 'fùtbol'. Scappate e non vi voltate finché siete in tempo. Bene. Per tutti coloro che invece hanno giá avuto la fortuna/sfortuna di sentir parlare di lui.. Beh. Che dirvi se non: bentornati sul luogo di quel delitto che volevate cancellare dalla vostra mente. Bentornati all'inferno. Ormai non si torna più indietro. Vinnie Jones, l'uomo che ha subito 12 espulsioni in carriera, e, nella speciale classifica dei 'più cattivi', è secondo solo a quel 'King' di Roy Keane, che si è fermato a quota 13, ma che però ha anche dalla sua l'aggravante di aver giocato quasi il doppio delle partite di Vinnie. Ecco perché in proporzione Jones non ha mai avuto rivali. Nessuno. Vinnie il 'pitbull', l'uomo che detiene il record per la cacciata dal campo più veloce mai avventura su di un rettangolo da gioco: tre secondi. Solo tre fottuti secondi dopo il calcio di inizio. Non so se avete ben chiaro cosa significa essere buttati fuori con un cartellino rosso dopo soli tre miseri secondi dall'inizio della partita. Non è possibile fare niente in un lasso di tempo così ristretto. Niente. Neanche accendere un semplicissimo interruttore della luce o versarsi un banalissimo bicchiere d'acqua. Niente. Ma non Vinnie Jones, l'uomo che ha collezionato nella sua carriera più gambe avversarie spezzate che fili d'erba calpestati. Jones. L'uomo che strizzó i testicoli a Paul Gascoigne durante una partita contro il Newcastle. La scena in questione fu miracolosamente ripresa dalle telecamere e le foto dove avviene il fattaccio furono direttamente consegnate all'immortalità di questo stupendo sport. Grazie Vinnie. Perché il calcio è fatto anche e sopratutto da gente così. O almeno lo era. Primo dell'avvento delle pay tv e delle creste in testa, delle scarpe dorate e delle ciglia rifatte. Ecco che cosa erano prima i calciatori. Ecco come erano. Prima di tutto questo. Erano uomini. Veri uomini. Veri duri. Come Jones. Il calciatore che ha lasciato il segno dei suoi tacchetti su qualunque avversario incontrato, come se tutti loro facessero parte di una tribù ed avessero un tatuaggio comune di riconoscimento. Vinnie, l'uomo che sconsacrò e profanó uno dei templi del calcio inglese e mondiale come Anfield Road, la casa di un mostro sacro come il Liverpool. Senza nessuna remora. Senza la minima paura. Era la prima trasferta del Wimbledon in casa dei Reds, e nel mentre tutti i giocatori stavano passando sotto la targa che volle Bill Shankly per intimorire gli aversari, con su scritto 'This is Anfield', lui, Vinnie il teppista, invece di impaurirsi e di rendere omaggio a quel pregiatissimo pezzo di storia del calcio, ed inchinarsi come facevano tutti i calciatori in trasferta, che arrivano ad Anfield carichi di rispetto e timore, lui, nel mentre varcava quella soglia quasi sacra tanto quanto San Pietro a Roma, attaccó sulla targa un adesivo con su scritto 'Bothered', traducibile in uno schietto 'Non me ne fotte un cazzo'. Vinnie 'fottuto' Jones, un uomo una leggenda. Un giocatore che non conosceva, e mai ha conosciuto, l'indirizzo di casa nel quale alloggia la paura. Un giocatore che oggi avrebbe preso anche il tanto famigerato Pepe del Real Madrid e lo avrebbe messo al suo guinzaglio come un affettuoso barboncino. E magari non gli avrebbe neanche dato da mangiare se solo il merengues non si fosse comportato bene. Vinnie. Un uomo squalificato inizialmente sei mesi e poi per altri 3 anni perché ebbe la fantastica idea di presentare alla stampa un video, montato da lui, dal nome "Soccer's Hard Men" dove mostrava senza tanta vergogna gli interventi più duri mai fatti sia da lui stesso che da altri suoi colleghi poco ortodossi. Se solo 'france football', oltre al pallone, avesse inventato anche il 'tacchetto d'oro' o 'il randello di ferro', fidatevi che Vinnie e Keano se lo sarebbero conteso ogni fottuto anno, ogni maledetta partita, ogni benedetto pallone. Dite e scrivete ciò che volete su di lui, sul suo carattere e sul suo modo di intedere il calcio, ma questo giocatore rimarrà per sempre un'icona indelebile di un calcio fatto da e per uomini, da duri e da persone senza paura, sprezzanti del pericolo e non curanti di potersi rompere una gamba. Non come invece è adesso, con quelle centinaia e centinaia di femminucce che cadano a terra non appena l'avversario poggia su di loro il suo puzzolente fiato. Non il Wimbledon. Non Vinnie. Non la 'Crazy Gang'. Non il football passato che ormai non c'è più. Se oggi il calcio ha perso molto del suo fascino è anche perché ha perso uomini così, gente così, tempi così. Una squadra fantastica che il mondo ha avuto la fortuna di conoscere almeno per una volta. Almeno una. Una volta sola, ma dannatamente intensa. Una squadra che faceva dell'agonismo, delle intimidazioni verbali e delle minacce i propri punto di forza. Si narra che appena prima delle partite, lá, sotto il tunnel che porta al campo, succedessero cose inenarrabili nei confronti degli spauriti e malcapitati avversari. Sotto qualunque tunnel. Contro qualunque avversario. Sia in casa che fuori, la 'Crazy Gang' non è razzista e non fa distinzioni. Tutti erano il nemico. Tutti erano intrusi. Perché il Wimbledon si faceva rispettare sempre e comunque. Ovunque andasse ed in qualunque stadio entrasse. Va detto però che, se erano gli avversari a far visita alla 'Gang', gli atti di bullismo e di intimidazione nei loro confronti, quasi, si sprecavano: bagni ospiti intasati e senza carta igienica, magicamente sparita. Il sale veniva scambiato con lo zucchero. Volume della radio alla stelle per disturbare le riunione tecniche appena prima della partita (il Wimbledon non aveva bisogno di riunioni tecniche pre partita perché non aveva né tecnica nè tanto meno un gioco da discutere e limare). Telefonate nelle stanze d'albergo dei giocatori ospiti nel bel mezzo della notte per impedirgli di prendere sonno e riposare, mentre la gang non dormiva mai. Mai. Non ne aveva bisogno. Ruote dei pullman trinciate per far si che gli avversari arrivassero tardi alla partita e non effettuassero il riscaldamento. Tutto era lecito a Wimbledon. I tempi del bellissimo manto verde da tennis e della sua signorilità borghese ormai sono così lontani. Lontanissimi. Ora in questo quartiere di Londra vive una squadra che se ne frega del bon ton e delle frasi di rito, tanto in voga invece adesso nel nostro calcio. Una banda che distrubuisce rutti e pernacchie da dietro, a tradimento, mentre qualcuno dei suoi da componenti sta facendo un'intervista davanti alle telecamere. Che possa vedere anche la regina. A loro, i pazzi, interessa meno di zero. Che ci possa anchebessere il principe lá davanti a quella tv che rimbomba di gas naturali, alla banda proprio non passa per la mente. Viva la 'crazy gang', quel gruppo di matti che quando prende l'aereo per le trasferte se ne frega altamente delle raccomandazioni e delle minacce del pilota, che quasi perde la voce a suon di ripetere a quella banda di delinquenti le stesse identiche frasi mille e mille volte 'Vi preghiamo di rimanere seduti e di allacciare le cinture di sicurezza'. La gang neanche lo ascolta e mentre l'aereo decolla loro ballano sui sedili e cantano come hooligans ubriachi. Adesso a Wimbledon, prima patria di nobili ed altolocati intellettuali, c'è una banda di squinternati che, mentre il proprio pullman gli porta allo stadio, mostrano ai passanti le proprie pelose e sporche natiche, comprimendole contro i finestrini e lasciandoci la stampa. Sembra un film ma è pura realtà. Ecco con che ha a che fare adesso Wimbledon e l'Inghilterra intera. Ecco che cosa era veramente la 'Crazy Gang'. Ecco chi sono Jones e compagni. Ma se oggi ne parliamo, è anche perché, oltre ad essere una manica di buffoni simpatici e duri stronzi allo stesso tempo, un'accozaglia di bambinoni e delinquenti nello stesso momento, questa squadra passò alla storia anche per una delle più incredibili e straordinarie vittorie alla quale l'intero mondo dello sport abbia mai assistito. Perché il calcio, molte volte, è come l'amore: fa gli occhi dolci a chi lo tratta male. Come due innamorati. Come il pallone. Eccolo il football, quello vero, che toglie molto a squadre meravigliose, piene di fraseggi e passaggi spettacolari, e che, invece, consegna trofei nelle mani di gente che lo prendeno solo a calci, lo picchiano e lo maltrattano. Senza mai una carezza od una bella parola. Delle volte al pallone piace proprio essere 'violentemente sbattuto', come diceva il mitico Eric Cantona. Perché la palla riconosce gli uomini veri, e di loro si innamora, gli rispetta e gli fa pure l'occhiolino. E quel pallone, come lo ha maltrattato e sbattuto violentemente il Wimbledon, nella storia del calcio, sinceramente, credetemi, non lo ha mai fatto nessuno. Come quel giorno. Quel 14 maggio del 1988 quando a Wembley si giocava un'improbabilissima finale tra la 'Crazy Gang', arrivata fino a quel punto a suon di calci e testate, ed il superbo Liverpool, la squadra più forte d'Inghilterra, ed in quel momento, del mondo intero. Inutile scomodare la favola di Davide e di Golia, perché qua, in questa partita, la proporzione sembra addirittura ancora più ampia. Un abisso che scalare a mani nude sembra quasi impossibile. Quasi però. Perché se ti chiami Wimbledon e quelle mani per arrampicarti le hai piene di calli e cicatrici, niente ti fa paura, neanche un mostro che tutti chiamano 'Reds'. La follia avvolte toglie ossigeno e distoglie dalla realtà, da dove sei veramente. Ti fa fare cose che le menti sobrie hanno paura anche solo a pensare. Come quel pomeriggio di maggio di un po' d'anni fa. In un museo del calcio come Wembley, dove giocare a calcio è un piacere ed un onore. Ma quel giorno, il Dio del fùtbol, decise di lasciare a casa le proprie Nike ultrasensibili ed indossò le sue scarpe antinfortunistiche da operai. Così dannatamente rudi e essenziali, così sporche e consumate. Che Wembley si indigni pure. Che il suo bellissimo manto erboso vada pure a farsi fottere. Gould non cambia mentalitá neanche in serate di 'gala' del genere. Il Wimbledon non indosserá mai scarpette eleganti. Mai. Nonostante porti addosso uno smoking splendido, le calzature rimarrano sempre quelle. Neanche in giornate così saranno cambiate. Ne quel giorno. Ne mai. I mastini continueranno a lanciar su e randellare. Anche a Wembley, anche contro il Liverpool. Anche in finale di FA Cup. Quel giorno, come sempre, la sensibilità nei loro piedi sarebbe valsa a poco. Molto poco. Il sogno dei 'Dons' (così adesso si chiamano, ma questa è un'altra storia) era lá, ad un passo. Dopo quasi un secolo di dillettantismo, la squadra proveniente dalla nobile Wimbledon aveva l'opportunità di scrivere e riscrivere la storia, passando per la porta principale, quella FA Cup che altro non è che la competizione più vecchia del mondo e che in Inghilterra è importante tanto quanto la Premier, tanto quanto una Coppa del Mondo, se non di più. Uno Wembley gremito in ogni ordine di posto si prestava a prendere parte ad una partita che sulla carta non andava neanche giocata per risparmiare tempo e fatiche. Ma se c'è una cosa bella del calcio, è quella che la fine di una partita non è mai troppo lontana ne tantomeno troppo scontata. Tutto Wembley freme. Le squadre scendano in campo. La banda è lá ad un passo dalla storia. Ne sente pure l'odore. E non è il fetore che quel gruppo di ribelli sente sempre, ogni qual volta scende negli spogliatoi, tra decine di calzini sporchi e quel sudore nauseante di battaglia. No. La FA Cup profuma e trasuda storia, passione, immortalità. L'immenso Stanley Matthews, primo pallone d'oro della storia, una volta disse "Ho vinto tanti titoli e tante battaglie nella mia carriera, ma la FA Cup ha sempre avuto un gusto diverso. L'ho vista da vicino tante volte ma sono riuscito a toccarla una sola bellissima volta. Ogni qual volta era lì lei scappava, ma ne sentivo l'odore: un profumo mai sentito. Deve essere lo stesso odore che si può sentire in Paradiso". Adesso forse capite meglio cosa significhi la FA Cup nel mondo anglosassone. Ed il Wimbledon lo sa. La partita inizia. Ed il Liverpool, come da copione, parte subito forte, fortissimo, ma il portiere dei 'Dons', Beasant, riesce a fermare qualunque attacco gli si presenti davanti alla sua porta. E, quando lui non può arrivare, arriva l'arbitro, che annulla per fuorigioco un gol dei 'Reds', ad opera di Bearfsley. Passano i minuti, e più passano, più il Liverpool capisce che portare a casa quella coppa sarà dannatamente difficile. Difficile e faticoso. Perché il Wimbledon non scherza. Sente il profumo e lotta su ogni dannato pallone, in ogni maledetto centimetro del campo. Dovunque i 'Reds' si voltano, c'è un pazzo della 'gang' che dá la vita per recuperare il pallone. Lo stadio è una pentola a pressione pronta a scoppiare. Quel Wembley vestito a festa e così sacro. Così immenso che sembra non finire mai. Ma il Wimbledon se ne infischia e lotta con il sangue tra i denti. Senza paura. Adesso la paura ce l'ha tutta il Liverpool. Ed ancora di più dopo il 37esimo minuto del primo tempo, quando l'unico uomo degno di piedi del Wimbledon, Denis Wise, batte una punizione dalla sinistra, la palla arriva ad uno che invece i piedi li ha solo per scendere le scale, lo scorrettissimo Sanchez, che, però sa usare bene la testa, e con uno stacco imperioso tra due avversari infila un mito come Grobbelaar. Sacrilegio. La squadra che ha ucciso il calcio ed ogni sua morale ed ogni suo schema calcistico mondiale, è adesso in vantaggio, contro una divinità come il Liverpool, che invece il calcio lo canta e lo decanta, lo narra e lo fa gustare. Ma poco importa. La squadra di Jones è in vantaggio, a Wembley, contro i 'Reds' e nella finale più importante dell'anno. I tifosi del Wimbledon sono al settimo cielo, e molti detrattori di mister Gould stanno già scrivendo la loro lettera di scuse. Il Wimbledon è una vera e propria squadra, che ha si lasciato i colpi di tacco ed il gel per capelli a casa, ma in compenso ha portato tanta grinta, tante palle e tanto cuore. E con questi tre fattori puoi andare lontano. Molto lontano. Riuscendo anche a sopperire ad un evidente e sconcertante divario tecnico. Il Liverpool è scosso come un pugile dilettante sarebbe fracassato dopo i pugni di Jack La Motta. Il Wimbledon non perde la concentrazione e continua a fare ciò che sa fare meglio: non costruire calcio proprio, ma distruggere quello altrui. Beasant sembra insuperabile, Fashanu le dá che è una bellezza, e dalla parti di Vinnie Jones il pallone non arriva dal quinto minuto del primo tempo, perché da uno così è meglio stare alla larga, anche se ti chiami Liverpool ed hai vinto tutto. Ma la partita è ancora lunga, ed i 'Reds', dopo lo shock, si riassestano e provano a reagire. Houghton e Hansen ci provano, però 'Lurch' oggi è insuperabile e le prende praticamente tutte. Ma la gloria, per questo portiere nato e cresciuto nel Wimbledon, è ben lontana dal concludersi lá, in quel momento, su quei tiri, quel giorno. Anzi. La partita scorre, e a metà del secondo tempo Goodyear entra pulito sul pallone, ma l'arbitro, nell'unico episodio in tre anni dove il Wimbledon non commette una scorrettezza, vede, invece, un fallo su Aldridge. La 'Crazy Gang' accerchia l'arbitro e ci si aspetta da un momento all'altro un vero e proprio pestaggio da strada, in barba alla regina e Lady Diana presenti quel giorno a Wembley. Per miracolo, peró, tutto ciò non accade. Il Wimbledon si rassegna, e resta il fatto che il rigore è stato affidato e va battuto. Ed è lo stesso Aldridge ad incaricarsi della battuta. Sistema con cura il pallone mentre lo stadio, in maggioranza dei 'Dons', è una bolgia infernale che sputa insulti e fischi. Tutto pronto. Aldridge resta concentrato. Parte e tira. Ma è scritto nel fato che, quel giorno, quel tiro angolato, non può entrare. Il destino oggi non ha di certo simpatie per il Liverpool. Oggi la parola 'miracolo' ha le mani grandi e grosse di 'Lurch'. Così Beasant si tuffa alla sua sinistra e respinge il tiro, diventando il primo portiere nella storia della FA Cup a parare un calcio di rigore in finale dopo più di cento anni di storia. Wembley esplode ed il Liverpool capisce che è davvero finita. Adesso davvero. Anche dopo il rigore. Anche dopo il calcio d'angolo successivo dal quale non scaturisce un bel niente. La partita continua, ed il Wimbledon continua con le mazzate. Quel giorno i 'Reds' non avrebbero vinto neanche avessero giocato in quarantacinque. Il Liverpool è alle corde, ed il risultato non cambierà più. No. Per la prima volta nella propria storia, il Wimbledon si aggiudica un titolo. La FA Cup 1988. Il primo ed, allo stesso tempo, il trofeo più importante di tutti. La Gang scoppia in un delirio collettivo che regalerà scene di goliardia che difficilmente vedremo mai più su di un campo da calcio. Jones e soci ce l'hanno fatta. Il calcio ha dei nuovi 'kings'. Così lontani da quelli che ha avuto, invece, in precedenza. Così lontani da quei maestri spocchiosi che si vantavano di aver inventato lo sport più bello del mondo. Le bombette ed i monocoli, gli inchini alla Regina e le frasi di rito, oggi, sono così lontani che nessuno se li ricorda. Il mondo quel 14 maggio scoprì un nuovo modo di fare calcio. Magari non bello, ma efficace e proveniente dal cuore. Magari non idilliaco, ma dannatamente passionale. Il Wimbledon aveva inventato così un nuovo stile: distruggere il gioco altrui, lanciarla lontana e recitare qualche 'Padre Nostro'. Niente di più. Niente più lavagne e riunioni. Niente più allenamenti tecnici o fraseggi nello stretto. La 'Crazy Gang' aveva rivoluzionato il calcio. Nel bene o nel male, lascio a voi giudicarlo. E chissà cosa sará importato in quel momento a Bobby Gould essere eticchettato come 'il peggior allenatore della storia inglese' mentre vedeva il suo capitano, quello spilungone di Beasant, che divenne anche il primo capitano portiere ad alzare una Fa Cup, mostrare al mondo ciò che quella squadra, solo qualche anno prima praticamente inesistente, era riuscita a fare con il proprio modo di intendere il calcio. Con la propria passione. Con le proprie palle e con il proprio cuore. La leggenda era completata. Dopo quel magico giorno, il Wimbledon poi non vincerà più niente. Anzi. Andò incontro a delle vicissitudini che non tratteremo certo oggi. Posso solo dirvi che il destino aveva in serbo per questa squadra ben altri giorni, così anche solo lontanamente immaginabili in quel bellissimo 14 maggio. Quando tutto era affidato al caso, e quando qualunque bambino, per le strade della 'Union Jack', sognava di far parte della 'Crazy Gang', intimorendo e picchiando qualsiasi avversario gli si presentasse davanti sul campo. Anche sua maestà Liverpool. Poco importa. Perché se ti affidi al caso, un giorno puoi essere il niente, mentre il giorno dopo puoi banchettare con gli dei. Proprio come fece quella banda di pazzi criminali che alzò le proprie mani anche ben oltre quelle della regina. Tutti, in realtá, sarebbero voluti essere ed avrebbero voluto far parte di quella manica di matti, ribelli e fuori di testa, che la vita la vivevano attimo dopo attimo, senza pensare, così come le partite che affrontavano, così come se tutto fosse solo un fottuto e bellissimo gioco. Perchè con il cuore puoi far qualsiasi cosa, anche andare a casa del diavolo, andarci in aereo senza allacciarti le cinture, lottarci e tornare sulla terra con la sua testa. Basta crederci. Basta il cuore, bastano le palle e basta l'onore...e magari avere anche accanto a se quel maledetto di Vinnie Jones e la sua incredibile 'Crazy Gang'. 1: http://m.youtube.com/watch?autoplay=1&v=U9Kk3C_8sEE [dopo partita imperdibile] Questi sono il link di quella magica finale che consegnò la FA Cup alla 'Crazy Gang'. Una squadra favolosa che adesso non c'è più. E chissà come sarebbe andata la storia se solo in quella squadra avessero giocato altre teste calde magari con un po' più di esperienza: Cantona, Keane, Gascoigne.. e poi date sfogo alla vostra fantasia. D'altronde se la 'Crazy Gang' ci ha insegnato qualcosa, è proprio quella che tutto è possibile, basta volerlo ed immaginarlo. Il tutto condito da un pizzico di fortuna.. https://diotifaboca.wordpress.com/2013/11/22/vi-preghiamo-di-rimanere-seduti-la-storia-di-una-nazione-in-mano-a-dei-pazzi-2/
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sportpeople · 7 years ago
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Cosa vuol dire per un tifoso romanista giocare in Europa?
Se ripercorressimo a ritroso la storia di questo club non vedremmo certo decine di partecipazioni sfavillanti alle competizioni continentali. Incapperemmo in seratacce, passivi pesanti e sconfitte che hanno segnato per sempre intere generazioni di tifosi (mi vengono in mente Liverpool e Slavia Praga, ad esempio).
C’è stata un’era – quando probabilmente il calcio era più competitivo ed avvincente – in cui solo il pensare di disputare una partita della vecchia Coppa Campioni equivaleva al compiere un sogno recondito. Proibito a dirla tutta. Gli anni 2000 hanno facilitato molto la realizzazione di questi sogni. Le riforme alle coppe, le prime quattro squadre in Champions e una globalizzazione che giocoforza ha reso persino piccole realtà di provincia habituèe dei grandi palcoscenici europei.
Sempre a dirla tutta (e in virtù di quanto scritto sopra), difficilmente la Roma è riuscita a solcare un percorso netto oltre i confini nazionali e a regalare ai propri tifosi serate belle e soddisfacenti come questa. Certo, restano pur sempre ristrette in una vittoria, è vero, ma al tifoso lasciano comunque quell’alone di orgoglio in grado di cancellare i celebri “centoventi giorni stronzi” cantati da una nota band di Pavia.
Ho pensato, dopo il fischio finale, che avessi ancora avuto i miei sedici spensierati anni non avrei dormito per rivedere cento volte le due perle di El Shaarawy e la sassata di Perotti e pensare al ricordo che gli attoniti tifosi ospiti avrebbero portato a casa dell’Olimpico. Ci ho pensato perché ho visto la reazione di tanti attorno a me: felici, contenti, soddisfatti…ma non tronfi. L’epilogo di 90′ contrassegnati da un buon ambiente, senza dubbio, al quale però manca sempre quel qualcosa in più per risultare “cattivo”, tignoso. Consapevole di poter influenzare il risultato col proprio baccano.
Certo, sempre ad onor del vero e senza risultare offensivo, se il 40% dello stadio in simili occasioni viene riempito da turisti e gitanti è anche difficile avere un catino ribollente. Mai come oggi ho rimpianto quelli che, in gergo curvaiolo, vengono chiamati “cesaroni” o, un tempo, “bruchi”. Tifosi magari un po’ rozzi e con poca attitudine all’evitare lo stereotipo del romano/romanista. Ma almeno tifosi. Che poi è alla base di tutto. Sicuramente sono molto più utili alla causa rispetto a uno dei tanti battaglioni di nippoteutonici che ormai spuntano fuori come funghi di tanto in tanto. E non solo per le partite di cartello. Bada bene: nulla contro i simpatici (sebbene un po’ computerizzati) giapponesi o contro i perennemente scosciati (e abbronzati) tedeschi. Il mio è un discorso generale.
So anche di risultare un po’ petulante. Uno può dire: “E quando lo stadio è mezzo vuoto non va bene, quando si riempie non va bene, quando tifa non va bene…quando va bene?”. Sarebbe una corretta osservazione. Che sovente mi faccio da solo. Ma poi mi rispondo che andrà bene quando a dominare l’ambiente e i 90 minuti sarà non solo un buon tifo, ma anche un buon ambiente complessivo, coscienzioso di rappresentare un’identità e una storia. Senza dare nulla per scontato. Perché – come ci ha insegnato la vicenda barriere – di scontato non c’è nulla e soltanto l’esistenza di un fronte comune, unito dalla stessa passione e dalla stessa fede, malgrado le differenze interne, può mantenere in vita e dar futuro al movimento ultras. Parliamo di quello romano, ma è un discorso che si può davvero ascrivere a tutto il resto d’Italia.
A fronte di questa corposa introduzione direi che se ci si vuol davvero far il sangue amaro bisogna porre l’accento sulle ormai ataviche file che caratterizzano lo stadio Olimpico in fase di afflusso. Avendone parlato decine di volte non dovrei forse più tornare sull’argomento, ma siccome la ritengo una delle cose più incivili e disumane che vengano perpetrate ai danni dei tifosi capitolini, penso che occorra sottolinearlo ogni volta. Evidentemente chi di tanto in tanto punisce ragazzi rei di aver coordinato il tifo da una balaustra (veri criminali insomma), deve provare un perverso piacere nel vedere quella moltitudine di gente innervosita e contrariata che di tanto in tanto si scaglia verbalmente contro gli steward. E se va male accusa un qualche malore. Complimenti per lo stadio a cinque stelle!
Anche se, come spesso accade in occasione di partite europee, la palma dei più fantasiosi la meritano i giornali. Annunci di “2.000 hooligans del Chelsea in arrivo” e altri titoloni strillati per dare il là al più becero dei terrorismo psicologici. Posto che duemila hooligans i Blues forse non li avevano neanche nel 1973, il tutto resta a dir poco patetico. Verrebbe voglia di esser un titolista in queste occasioni. Almeno saremmo autorizzati a scrivere le prime idiozie che vengono in mente. E probabilmente più è inetto il concetto e più l’autore verrà premiato.
I tagliandi staccati sono circa 55.000. Tra limitazioni di capienza e prezzi a dir poco fuori da ogni logica la risposta è dunque più che buona. Anche se i dati di queste sfide lasciano il tempo che trovano. Ahinoi (plurale per indicare l’intero movimento calcistico) i numeri che contano sono quelli delle competizioni nazionali. E da troppo tempo ormai evidenziano un allontanamento congenito e inesorabile. Tuttavia è indubbiamente bello vedere uno stadio con meno vuoti del solito.
Un po’ meno bello è il posticcio inno della Champions League seguito dalle migliaia di flash degli smartphone provenienti da ogni settore dell stadio. Ecco, se vogliamo fare una critica al tifo di questi anni (peraltro trita e ritrita, ma oggi sono in vena di rompere i cosiddetti) non possiamo non evidenziare come questi aggeggi abbiano spesso distolto i frequentatori delle curve dal loro ruolo primario. Gente che si deve fare il selfie mentre parte il coro, gente che deve fare il video alla punizione di Tizio o al rigore di Caio, gente che deve postare una foto mettendo il luogo per poter poi passare i restanti 87′ a commentare lo stato si Facebook. Insomma, non solo l’anti ultras, ma l’anti stadio!
E purtroppo capisco anche che pure per il gruppo più oltranzista e volenteroso è davvero difficile combattere tutto ciò. Perché chi sa scindere il normale utilizzo dalla virtualità dalla dipendenza più becera diventerà sempre più una minoranza nella nostra società.
Nella fattispecie la Curva Sud offre una discreta prova, fatta di alti e bassi. Meritano sicuramente menzione le tre esultanze ai gol: autentiche, veraci e passionali. Mentre per quanto riguarda il tifo direi molto bene i due/tre nuovi tormentoni che trascinano spesso pure i Distinti, mentre in troppe occasioni continua a mancare quel collante tra parte bassa e muretti che dovrebbe essere costituito dalla parte centrale di curva. Oltre a quel pizzico di incisività che renderebbe i cori molto più potenti e intensi. E qua, per trovare le ragioni, bisogna rileggere le critiche precedenti (peraltro già espresse in diversi articoli quest’anno).
Da segnalare, anche quest’oggi, l’ingresso al quarto d’ora dei Fedayn per protestare contro le recenti sanzioni piovute su diversi lanciacori della curva.
In linea generale si può sicuramente fare di più, perché c’è il potenziale, ci sono le persone e c’è un amore incondizionato che anche dopo due anni di esilio ha saputo rimanere intatto e ricominciare a germogliare senza alcun dubbio. Del resto dalla Sud ci si aspetta tanto perché può dare tanto. Quindi l’esser a volte al di sotto delle proprie capacità è un handicap migliorabile e sui sicuramente si dovrà lavorare. Ovviamente con calma e con i pochi strumenti a disposizione. Oltre che con un mondo esterno che rema costantemente contro quella che è non solo la logica ultras, ma proprio il voler fare aggregazione.
Ora mi si lasci fare una battuta: queste critiche finiscono – e diventano insignificanti – laddove arriva il tifo degli inglesi. È quello il momento in cui ti accorgo che anche quel poco che è rimasto in Italia finisce per diventare oro colato al loro confronto. Si esagera, ma neanche troppo (sic!).
Come accennato ad occupare il settore ospiti arrivano circa 2.000 supporter del Chelsea, evidenziando la solita validità numerica dei tifosi britannici. Peccato che quasi mai queste presenze vengano seguite da un tifo indimenticabile. Eppure, almeno rispetto allo spettrale clima di Stamford Bridge, almeno nella prima frazione di gioco i londinesi ci provano ad abbozzare qualche coro. L’impostazione è lontana anni luce dal nostro modo di intendere il tifo e francamente continuo a non comprendere il loro modo di andare allo stadio, però almeno per 45′ dicono la loro e fanno sicuramente più bella figura di tanti altri connazionali venuti a scaldare i seggiolini dell’Olimpico.
Tanti “scambi d’opinione” con i gruppi della Nord alta, stasera in ottima forma, e molto bello l’applauso “a prescindere” riservato alla squadra nel finale, malgrado la pesante sconfitta per 3-0.
A match concluso l’Olimpico si lascia ovviamente andare a sfottò e festeggiamenti, nonostante l’odiosa musica ormai in voga in tutti gli impianti, copra inesorabilmente la voce dei tifosi.
Quando lo stadio si vuota completamente i tifosi inglesi sono ancora al loro posto, in attesa che le autorità italiane li lascino defluire nella notte di Roma che nel frattempo si è fatta fredda e umida.
Testo Simone Meloni
Foto Cinzia Lmr
Roma-Chelsea, Champions League: la rabbia comune trasforma sogni in realtà Cosa vuol dire per un tifoso romanista giocare in Europa? Se ripercorressimo a ritroso la storia di questo club non vedremmo certo decine di partecipazioni sfavillanti alle competizioni continentali.
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laearn · 11 years ago
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I 10 inni calcistici più amati di sempre
Sorgente: http://bit.ly/1rXmUWP
Musica e calcio. Intreccio di due arti sopraffine, magiche. Negli anni '60 per esempio si era soliti accostare il calcio alla poesia. Oggi, soprattutto per via dell'enorme business che gira attorno a questo mondo (forse non più fatato come una volta), la "poesia" ha lasciato spazio ad altre ...
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sportpeople · 8 years ago
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È una giornata di metà gennaio. In tanti si lamentano per il freddo che da qualche settimana attanaglia l’Italia mentre io, personalmente, detesto molto di più la pioggia che proprio in questa domenica ha deciso di scendere dalla Campania in giù.
Mi basta varcare il confine marcato dal fiume Garigliano per sentire le prime gocce infrangersi sui vetri del treno. Il classico Regionale della domenica mattina brulica di vita. Con i tanti pendolari che ritornano dai lavori notturni a Roma e le famigliole che hanno deciso di passare una giornata fuori casa. Viaggiare su questi convogli non solo è un’immersione veritiera e stimolante di un’Italia sempre più lontana e dispregiata dagli indaffarati e frenetici abitanti delle metropoli, ma è una vera e propria esperienza formativa. E mancando ormai da tempo da Napoli, avendola sempre lambito sterzando poi per destinazioni limitrofe, ho deciso di arrivare con lauto anticipo per concedermi un giro in tutta tranquillità.
La pioggia non mi aiuta, ma pian piano si attenua concedendomi una lunga passeggiata tra i Quartieri Spagnoli, il Centro Storico e, infine, il Lungomare fino a Mergellina, da dove prenderò la metropolitana per lo stadio. Napoli è una città particolare, dalle mille sfaccettature e contraddizioni (tendenzialmente tutte le città di mare hanno un qualcosa di atipico per chi viene dall’entroterra). Nei vicoletti che si ramificano da Via Toledo si sente forte l’odore del pranzo, mentre qua e là si scorgono murales che raffigurano Maradona in maglia azzurra e scritte inneggianti agli azzurri o contro le rivali storiche. Verrebbe da dire che quasi ogni angolo della città rappresenti un inno al legame tra la stessa e la sua squadra di calcio. E questo da molte parti è scomparso, ma qua, dove la tradizione e il vanto di ciò che essa rappresenta sono spesso delle vere e proprie ossessioni per le persone, non si può far a meno di immergersi in un clima profondamente retrò.
A chi segue il calcio da qualche anno potrà anche sembrare strano, ma quella contro il Pescara è una rivalità storica. Due città di mare. Due città dal mare diverso. Tirreno contro Adriatico, non c’è soltanto una semplice partita in campo. Ci sono due popoli a confronto. Lo dico tante volte nei miei articoli, ma in questo caso è particolarmente importante per comprendere bene questa inimicizia. Cadremmo dal pero se dicessimo che al di fuori dei propri circondari napoletani e pescaresi sono ben visti e ben voluti da tutti (ovviamente si parla di campanile, la vita reale con tutti i rapporti umani annessi e connessi sono ben altra cosa. Rilassatevi se vi state agitando, sic!). E poi c’è questa eterna battaglia tra Campania, Abruzzo e Puglia. Tutti rivali di tutti (o quasi). Un triangolo spesso pericoloso, che tuttavia ha offerto spunti e storie che oltre a perdersi negli anni sono state spesso fondamentali nella crescita delle tifoserie coinvolte. Rimanendo sulla sfida in questione, bene o male tutti ricordiamo le ultime due volte in cui le opposte fazioni si sono “pizzicate”. Sì tratta di due sfide del campionato cadetto: nel 2004 e nel 2006. Un’era geologica fa a pensarci ora. Cariche violente della polizia e lacrimogeni ad altezza uomo segnarono quelle due giornate. E se da un lato la veemenza delle tifoserie è drasticamente scesa, dall’altro alcuni modus operandi di chi è chiamato a gestire l’ordine pubblico sono rimasti a dir poco invariati.
Proprio mentre le nuvole cominciano a rifarsi più livide, avvolgendo curiosamente il cono del Vesuvio (per l’occasione innevato) mi avvio alla stazione di Mergellina riuscendo a salire sull’affollatissima metro. A Campi Flegrei la solita, chiassosa, folla scende dal convoglio per incanalarsi verso Piazzale Tecchio. Sembra incredibile (con i parametri odierni) pensare che fino ad almeno vent’anni fa le tifoserie ospiti scendessero proprio qua per raggiungere l’impianto di Fuorigrotta. Ora succede l’esatto contrario: Napoli è la classica trasferta in cui le tifoserie vengono prelevate alla stazione centrale o al casello e portate prima in tour per autostrada e tangenziale e poi fatte entrare a partita iniziata. Fa ridere (per non piangere) pensare che in questi anni ci abbiano annacquato il cervello con la storia della sicurezza, spendendo milioni per tornelli, steward, videocamere e restyling degli stadi e poi non sappiano garantire l’ingresso in tempo a chi paga un regolare (e spesso esoso) biglietto del loro mangereccio circo.
Un circo che non produce certo spettacoli edificanti. Basti pensare alla gara di oggi: di fronte una formazione in piena lotta per le prime posizioni ma difficilmente per la testa (non me ne vogliano i tifosi azzurri), visto lo strapotere di una Juventus che probabilmente trionferà agevolmente anche quest’anno e una (non me ne vogliano neanche i supporter abruzzesi) con un piede in Serie B quando mancano quattro mesi al termine del campionato. Il tutto in un torneo a dir poco noioso, brutto, scarso e privo di mordente. Il fantasma della Serie A che fu e degli stadi che furono: sempre pieni, colorati e festanti.
E qua apro il capitolo biglietti: i prezzi applicati dal club per questo match sono a dir poco popolari (10 Euro le curve e 15 Euro i Distinti), forse per far da contraltare al listino imposto per la gara di Champions contro il Real Madrid (curve a 50 Euro). Eppure, per una volta, mi preme fare l’avvocato del Diavolo: se pagare 100.000 delle vecchie Lire un biglietto di curva è (almeno per me) impensabile anche avendo tale somma a disposizione, il Napoli è almeno solito “deprezzare” alcune gare di campionato. La polemica legata al caroprezzi nata a inizio campionato ha sicuramente sortito il proprio effetto, così come il pesante contenzioso tra Comune e società sulla gestione dello stadio, ma almeno a queste latitudini si è voluto fare un passo indietro. Da altre parti (vedi Roma, sponda giallorossa) un settore parificabile a quello dei Distinti (quindi la Tribuna Tevere) si può pagare anche un minimo di 40 Euro anche in occasione di partite non di cartello. Colpa delle società, sia chiaro, ma anche dei tifosi che con il passare del tempo hanno somatizzato tutto questo. Ciò detto è lapalissiano che De Laurentiis non corrisponda al mio modo di vedere e fare calcio, ma mi sento altrettanto certo di dire che quasi nessun presidente di Serie A possa rappresentare questa figura.
Superati i controlli di rito assisto subito a una scena divenuta ormai classica negli stadi italiani: un signore sulla cinquantina, con il figlio per mano, inveisce contro uno dei capi steward, il quale dopo avergli requisito i biglietti lo sta conducendo senza rispondere dagli agenti di polizia. Non posso giudicare non sapendo il motivo di tale scelta, però prendo spunto da questa situazione per fare una domanda che mi pongo da tanto tempo: a cosa serve realmente la figura degli steward? Lo chiedo per esperienza personale. Quasi sempre questi ragazzetti buttati “nella mischia” con una pettorina addosso sono totalmente impreparati alla più innocua delle situazioni, riuscendo difficilmente ad aiutare gli spettatori e, anzi, peggiorando spesso le situazioni di criticità e avendo davvero scarso accesso al buon senso (concetto ormai totalmente bandito dagli stadi italiani), cosa che finisce con l’innervosire l’interlocutore (e non parliamo di ultras, spesso e volentieri ho assistito a furibonde litigate tra attempati signori della tribuna e steward che, in maniera a dir poco ottusa, alla criticità “x” rispondevano semplicemente con una sequela di divieti e prescrizioni degna del miglior Alcatraz). Gli esempi che potrei fare sono migliaia, sperimentati sulla mia pelle sia nel ruolo di tifoso che in quello di giornalista. Salvo rare eccezioni, di personale preparato, la domanda resta la stessa: a cosa servono?
Una volta individuato il mio posto, che fortunatamente posso scegliere in maniera casuale, do un’occhiata a 360 al San Paolo. Saprò a posteriori che il numero esatto dei paganti si attesta attorno ai 32.000, sicuramente non cifre da capogiro considerata la classifica dei partenopei e i prezzi dei tagliandi. È indubbio che anche a queste latitudini il pubblico abbia avuto quell’inversione di tendenza registrata in tutto il Paese (del resto se metti un divieto oggi, una restrizione domani, un controllo in più dopodomani e partite con un interesse calcistico pari allo zero ad ogni orario del giorno e della notte non puoi pretendere il contrario) e in più le condizioni climatiche (sebbene sia solito lasciare Giove Pluvio all’ultimo posto delle motivazioni per non andare allo stadio) non hanno favorito l’afflusso massiccio di quel tifoso medio ormai attratto più dallo show business calcistico (Napoli-Real Madrid docet) che dal “senso di dovere” di seguire il proprio club a prescindere da chi sia l’avversario.
“A prescindere” deve esser stato sicuramente il leitmotiv che ha condotto i 320 tifosi del Pescara (dati ufficiali) ad affrontare la trasferta alle pendici del Vesuvio. Con una squadra sempre più impantanata sul fondo della classifica e l’ennesima apparizione fugace in Serie A che si materializza man mano è soltanto il senso di appartenenza a poter guidare i sostenitori del Delfino. Se ci fermiamo a giudicare soltanto i numeri dobbiamo dire che trecentoventi non è certo una cifra altisonante, ma se la stessa si contestualizza credo che il giudizio debba cambiare radicalmente. Posto che, come detto poco fa, siamo nell’era in cui un Ministro dell’Interno, qualche anno fa, ci ha imposto una tessera parlando di fidelizzazione ma, de facto, è stato l’ultimo passo (il più consistente) verso lo svuotamento degli stadi e la “sfidelizzazione” di gran parte del pubblico “da tribuna” e in parte anche delle curve. Pertanto oggi è pressoché impossibile pensare che il tifoso medio pescarese affronti la trasferta di Napoli, che già di suo prevede una fisiologica scrematura essendo percepita come tra le più calde del campionato.
Quando le squadre fanno il loro ingresso in campo i tifosi ospiti, come da copione, ancora non sono entrati. A dire il vero quest’oggi lo faranno abbastanza presto. Nel frattempo le due curve del Napoli cominciano a incitare la squadra. Non è facile giudicare la loro prestazione. Perché su essa gravano, evidentemente almeno in parte, le scelte controverse e non condivise da tutti avvenute questa estate in relazione alla tessera del tifoso. Faccende su cui non posso (e non sarei in grado, non vivendo appieno la realtà napoletana) metter bocca ma che devo giocoforza considerare per giudicare l’andamento delle cose.
La Curva A, dopo i profondi cambiamenti di cui sopra, appare molto diversa dal recente passato. Non ci sono striscioni né drappi, ma solo un gigantesco bandierone blu, bianco e azzurro che avvolge tutta la balaustra e qualche bandierone sparso per il settore. Il tifo occupa principalmente il blocco centrale e ricalca il classico repertorio di un settore che (può piacere o meno) ha rappresentato storicamente un vero e proprio spartiacuque nella Napoli ultras. Dall’altra parte la Curva B fa sfoggio di un numero maggiore di bandiere e bandieroni impostando il tifo in maniera più “classica”, anche grazie all’aiuto del tamburo. Due stili sostanzialmente diversi, che complessivamente producono una prestazione continua ma spesso poco intensa e difficilmente in grado di coinvolgere gli interi settori popolari (salvo nei minuti che seguono i gol e nella parte finale del match, quando la B tira fuori i suoi cavalli di battaglia “Un Giorno all’improvviso” e “Siamo figli del Vesuvio” che si trascinando dietro buona parte dello stadio). Questo va detto al netto delle potenzialità comprovate e viste con i miei occhi di uno stadio in grado di mettere letteralmente paura a squadre e tifosi avversari. È un po’ quello che succede ormai in tutte le grandi curve italiane, detto che quelle del San Paolo sono sicuramente più grandi della media e di conseguenza più difficili da gestire.
Come detto i pescaresi fanno il loro ingresso pochi minuti dopo il calcio d’inizio, sistemandosi nell’anello inferiore e reggendo in mano i propri drappi (tra cui spicca quello dei gemellati vicentini). Al loro ingresso sono diverse le scaramucce verbali con il pubblico di casa, scandite da vicendevoli “attestati di stima”. Gli ultras abruzzesi si dispongono in maniera compatta e danno sfoggio a tutto il proprio repertorio, realizzando una bella performance nonostante l’ennesima, scialba, prova della propria squadra. Sbandierata iniziale, tante manate, una bella sciarpata nella prima frazione e un tifo costante per onorare una presenza importante più per l’orgoglio che per il fattore sportivo.
In campo infatti non c’è storia. Dopo un primo tempo che vede il Napoli sbattere sul muro difensivo del Pescara, i partenopei si sbloccano nella ripresa e calano il tris con Tonelli, Hamsik e Mertens. Il rigore realizzato da Caprari al 93′ serve soltanto alle statistiche, sempre più invise al club abruzzese quest’anno.
È ricominciato a piovere intensamente e in maniera alquanto fastidiosa. Decido di rifugiarmi dentro la stazione della Cumana, prendendo il treno per Montesanto e da là la metro per la stazione centrale. È giunto il momento di tornare a casa e sta terminando una giornata ricca di spunti e nel suo piccolo molto interessante. La Serie A resta un mondo in netta decadenza ma quel poco che rimane e non ho ancora visto (vedi sfide e rivalità storiche come questa) voglio viverlo per non avere rimpianti e poterne raccontare almeno una piccola parte.
Alle 18,34 il mio Intercity lascia Napoli Centrale sotto la pioggia battente. È calato anche il buio e il cielo di tanto in tanto si illumina con il bagliore dei fulmini. Non mi resta che pensare a come impostare il pezzo e salvare nella mia mente i frammenti più importanti di questa domenica.
Simone Meloni
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Frammenti di memoria, cambiamenti e appartenenza: Napoli-Pescara, Serie A È una giornata di metà gennaio. In tanti si lamentano per il freddo che da qualche settimana attanaglia l'Italia mentre io, personalmente, detesto molto di più la pioggia che proprio in questa domenica ha deciso di scendere dalla Campania in giù.
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