#immaginai
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tophe23 · 2 years ago
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AI Art - Prompt: Snowy day in Santa Fe, New Mexico in February.. - using the ImnaginAI app. #AIArt #SnowySantaFe #FebruaryInSantaFe #SnowyDay #ImmaginAI (at Santa Fe, New Mexico) https://www.instagram.com/p/CosRaWUulVr/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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elperegrinodedios · 3 months ago
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Ti vidi e ti regalai una rosa, ma in realtà volevo baciarti e fare l'amore con te. Mentre la rubavo lei mi punse e io immaginai una storia da pazzi.
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Pazzi che non mentono mai loro sono come gli ubriachi. Non portano mai la maschera, non ne hanno bisogno, non hanno timore di vivere soli, anche se preferirebbero di no, non hanno paura di spogliarsi perchè sono veri, come i bambini.
lan ✍️
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smokingago · 7 months ago
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L’ELEFANTE INCATENATO
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Quando ero piccolo adoravo il circo, ero attirato in particolar modo dall’elefante che, come scoprii più tardi, era l’animale preferito di tanti altri bambini.
Durante lo spettacolo faceva sfoggio di un peso, una dimensione e una forza davvero fuori dal comune… ma dopo il suo numero, e fino ad un momento prima di entrare in scena, l’elefante era sempre legato ad un paletto conficcato nel suolo, con una catena che gli imprigionava una delle zampe. Eppure il paletto era un minuscolo pezzo di legno piantato nel terreno soltanto per pochi centimetri e anche se la catena era grossa mi pareva ovvio che un animale del genere potesse liberarsi facilmente di quel paletto e fuggire.
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Che cosa lo teneva legato?
Chiesi in giro a tutte le persone che incontravo di risolvere il mistero dell’elefante; qualcuno mi disse che l’elefante non scappava perché era ammaestrato… allora posi la domanda ovvia: “se è ammaestrato, perché lo incatenano?” Non ricordo di aver ricevuto nessuna risposta coerente.
Con il passare del tempo dimenticai il mistero dell’elefante e del paletto. Per mia fortuna qualche anno fa ho scoperto che qualcuno era stato tanto saggio da trovare la risposta: l’elefante del circo non scappa perché è stato legato a un paletto simile fin da quando era molto, molto piccolo.
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Chiusi gli occhi e immaginai l’elefantino indifeso appena nato, legato ad un paletto che provava a spingere, tirare e sudava nel tentativo di liberarsi, ma nonostante gli sforzi non ci riusciva perché quel paletto era troppo saldo per lui, così dopo vari tentativi un giorno si rassegnò alla propria impotenza. L’elefante enorme e possente che vediamo al circo non scappa perché crede di non poterlo fare: sulla sua pelle è impresso il ricordo dell’impotenza sperimentata e non è mai più ritornato a provare… non ha mai più messo alla prova di nuovo la sua forza… mai più!
A volte viviamo anche noi come l’elefante pensando che non possiamo fare un sacco di cose semplicemente perché una volta, un po’ di tempo fa ci avevamo provato ed avevamo fallito, ed allora sulla pelle abbiamo inciso “non posso, non posso e non potrò mai”.
L’unico modo per sapere se puoi farcela è provare di nuovo mettendoci tutto il cuore… tutto il tuo cuore!”
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ros64 · 11 days ago
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Non posso dire che la stagione 7B non mi piaccia, trovo che qui siamo stati defraudati da qualcosa di magico!!!!
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Legami di sangue
Capitolo 24
«Non dirò che non m’importa di quello che è successo, perché mentirei. E non dirò che non scatenerò il caos, per questo, perché è probabile che lo farò. Ma ti dirò che non c’è niente in questo mondo, o in quello che verrà, che possa allontanarti da me... o che possa allontanare me da te.» Sollevò un sopracciglio. «Ti trovi in disaccordo?» «Oh, no», dissi, ardente. Prese un altro respiro, e abbassò appena le spalle. «Be’, meglio così, perché non sarebbe un bene, per te. Un’ultima domanda», aggiunse, «sei mia moglie?» «Certo che lo sono», gli risposi, attonita. «Come potrei non esserlo?» A quelle parole, il suo viso cambi��; inspirò profondamente e mi prese tra le braccia. Io lo strinsi, forte, e insieme ci lasciammo andare a un enorme sospiro, e ci tranquillizzammo, la sua testa che si chinava sulla mia. Mi baciò i capelli, e io girai la faccia verso la sua spalla, la bocca aperta sulla scollatura della camicia aperta, le ginocchia di entrambi che cedevano lentamente, in preda a un sollievo reciproco. Un attimo dopo eravamo in ginocchio nella terra appena rivoltata, aggrappati l’una all’altro, radicati come un albero, senza foglie e con tanti rami, ma con un unico tronco molto solido. E arrivarono le prime gocce di pioggia. Il suo viso era aperto, adesso, e i suoi occhi erano di un blu limpido, senza preoccupazioni... per il momento, almeno. «Dove possiamo trovare un letto? Ho bisogno di stare con te nudo.» La sua proposta mi trovò perfettamente d’accordo, ma la domanda mi colse alla sprovvista.
…….
«Troverò un posto.» Con un calcio sonoro aprì la porta del nuovo capanno degli attrezzi, e all’improvviso ci ritrovammo immersi in un’oscurità striata di luce, che odorava di tavole scaldate dal sole, di terra, di acqua, di argilla umida e di piante. «Cosa... qui?» Era chiarissimo che non stava cercando un po’ di intimità per altre domande, per discussioni o rimproveri. A tal riguardo, la mia domanda suonò parecchio retorica. In piedi, mi fece girare e cominciò a slacciarmi il corsetto. Sentii il suo alito sul collo nudo, e mi venne la pelle d’oca. «Sei...» cominciai, solo per essere interrotta da uno conciso «Shhh». Tacqui. E sentii quello che aveva sentito lui: i Bartram, che conversavano tra loro.
Erano a una certa distanza, sulla veranda posteriore della casa, immaginai, riparata dal sentiero lungo il fiume da una spessa siepe di tassi inglesi. «Non possono sentirci», dissi, anche se abbassai la voce. «Basta parlare», sussurrò lui e, chinandosi in avanti, mi morsicò delicatamente la carne del collo ora esposta. «Shhh», fece ancora, ma dolcemente. In realtà non avevo detto niente, e il suono che avevo emesso era troppo acuto per attirare l’attenzione di una creatura che non fosse un pipistrello di passaggio. Espirai vigorosamente dal naso, e lo sentii ridacchiare con la gola. Un risolino basso, profondo. Il corsetto si aprì, e l’aria fresca attraversò la mussolina umida della sottoveste. Si fermò, una mano sui nastri delle sottogonne, mentre l’altra mi sollevava delicatamente un seno, pesante e libero, e il pollice mi accarezzava il capezzolo duro e tondo come il nocciolo di una ciliegia. Emisi un altro suono, questa volta più basso. Pensai che era una fortuna che fosse mancino, perché era con la sinistra che stava slacciando abilmente i nastri delle sottogonne. Queste caddero in mucchio frusciante attorno ai miei piedi, e d’un tratto – mentre la sua mano sinistra mi sollevava il seno e la sottoveste saliva alle orecchie – ebbi una visione del Giovane Mr Bartram che all’improvviso decideva di aver bisogno di invasare una partita di pianticelle di rosmarino. Probabilmente lo shock non l’avrebbe ucciso, ma... «Se dobbiamo essere puniti», disse Jamie, che evidentemente mi aveva letto nel pensiero, dal momento che mi ero girata e mi stavo coprendo le parti intime come la Venere del Botticelli, «allora ti prenderò nudo.» Con un sorriso si tolse la camicia sporca di terra – la giacca se l’era levata quando mi aveva presa – e si calò i calzoni senza fermarsi a sbottonare la patta. Era abbastanza magro da poterlo fare: i calzoni gli stavano appesi alle anche, e non gli cadevano per miracolo; e intravidi l’ombra delle costole sotto la pelle, quando si chinò per sfilarsi le calze. Si tirò su, e gli misi una mano sul petto. Era umido e caldo, e sotto il mio tocco vidi rizzarsi i pelli rossastri. Sentii il suo profumo caldo, avido, nonostante l’odore agricolo del capanno e il perdurante tanfo di cavolo. «Non così in fretta», sussurrai. Emise un verso scozzese, interrogativo, tese le braccia verso di me e io affondai le dita nei muscoli del suo petto. «Voglio un bacio, prima.» Mise la bocca sul mio orecchio, e le mani sulle mie natiche. «Credi di essere nella posizione di avanzare richieste?» mormorò, stringendo la presa. Non potei non cogliere il tono pungente di quella domanda. «Sì, maledizione», dissi, spostando la mia mano un po’ più in basso. Lui non attirerebbe mai i pipistrelli, pensai. Eravamo occhi negli occhi, avvinghiati, respiravamo l’una il respiro dell’altro, così vicini da vedere le più piccole sfumature di espressione, nonostante la luce debole. Notai quanto fosse serio, al di sotto delle risate... e capii che la sua spavalderia celava un dubbio. «Sono tua moglie», gli sussurrai, sfiorando le sue labbra con le mie. «Lo so», disse sommessamente, e mi baciò. Teneramente. Poi chiuse gli occhi e mi passò le labbra sul viso, senza baciarmi, ma tastando i contorni di zigomo, sopracciglio, mascella, e la pelle morbida sotto l’orecchio. Cercava di conoscermi di nuovo al di là della pelle e del respiro, di conoscermi fino al sangue e alle ossa, fino al cuore che batteva là sotto. Emisi un piccolo verso e cercai la sua bocca con la mia, premendomi contro di lui, i nostri corpi nudi freschi e umidi, i peli che raspavano dolcemente, e la deliziosa solidità di lui che rotolava tra di noi. Ma non si lasciò baciare. Afferrò i miei capelli legati, alla base del collo, mise la mano a coppa attorno alla mia nuca, mentre con l’altra giocava a mosca cieca.
Un rumore sordo, seguito da un tintinnio; indietreggiando, ero finita addosso a una panchina per l’invasamento, e avevo fatto vibrare un vassoio di minuscoli vasetti; le foglie speziate del basilico dolce stavano tremando, agitate. Jamie spinse il vassoio da una parte, poi mi afferrò per i gomiti e mi sollevò, facendomi mettere sulla panchina. «Adesso», disse, senza fiato. «Devo averti adesso.» Mi prese, e io smisi di preoccuparmi del fatto che potessero esserci delle schegge. Lo avvolsi con le gambe, e lui mi fece sdraiare e si chinò sopra di me, le mani appoggiate alla panca, con un verso a metà tra l’estasi e il dolore. Si mosse lentamente, dentro di me, e io ansimai. Il ticchettio della pioggia sul tetto di lamiera lasciò il posto a un rumore assordante, che copriva qualunque verso uscisse dalla mia bocca – ed era una buona cosa, pensai confusa. L’aria era più fresca, ma anche umida; i nostri corpi erano scivolosi, e si sprigionava un calore bruciante laddove la carne toccava altra carne. I suoi movimenti erano lenti, deliberati, e io inarcai la schiena, incitandolo. Per tutta risposta, lui mi afferrò per le spalle, si chinò di più e mi baciò con delicatezza, muovendosi appena. «Non lo farò», sussurrò, e tenne duro quando mi opposi, cercando di spronarlo a quella reazione violenta che desideravo, e di cui avevo bisogno. «Non farai che cosa?» Stavo ansimando. «Non ti punirò», disse, talmente piano che lo udii a malapena, nonostante fosse sopra di me. «Non lo farò, hai capito?» «Non voglio che tu mi punisca, bastardo.» Grugnii per lo sforzo, e sentii scricchiolare l’articolazione della spalla quando provai a liberarmi dalla sua stretta. «Voglio che... Dio, lo sai che cosa voglio!» «Aye.» La mano sinistra lasciò la spalla e scese ad afferrarmi una natica, toccando la carne nel punto in cui eravamo uniti, tesa e scivolosa. Emisi un piccolo verso di resa, e sentii cedere le ginocchia. Lui si tirò fuori, e poi mi penetrò ancora, con tanto vigore da strapparmi un piccolo, acuto grido di sollievo. «Chiedimi di venire nel tuo letto», disse, senza fiato, le mani sulle mie braccia. «E io verrò da te. A tal riguardo, verrò che tu me lo chieda o no. Ma ricorda, Sassenach: io sono il tuo uomo. Sono io che decido come servirti.» «Fallo», dissi. «Ti prego, Jamie. Voglio che tu lo faccia!» Mi afferrò il sedere con entrambe le mani, con tanta forza da lasciarmi dei lividi, e io inarcai la schiena, spingendo il pube verso di lui, mentre tentavo di afferrarlo, le mani che scivolavano sulla sua pelle sudata. «Dio, Claire. Ho bisogno di te!» La pioggia picchiettava forte sul tetto di lamiera, ormai, e un lampo cadde vicino a noi, bianco-blu, dal pungente odore di ozono. Lo cavalcammo insieme, inforcandolo, accecati dalla sua luce, senza fiato, mentre il tuono rombava nelle nostre ossa.
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scrivosempreciao · 14 days ago
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Short story: Legno e Sangue, pt.3
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Eravamo finite entrambe in infermeria. Io perché ero svenuta, Mmh-mmh perché aveva cercato di togliersi i guanti e si era quasi scarnificata le braccia. Uno degli assistenti l'aveva fermata a bastonate e l'aveva spedita a farsi sistemare sia i punti di sutura, sia i lividi. Questo era quello che avevo capito.
Io me ne stavo sdraiata sul fianco, rannicchiata in uno dei lettini medici. Sentivo che lei era in quello proprio accanto al mio. Sapevo che era lei perché aveva fatto il suo solito "mmh-mmh" più volte da quando ero entrata lì dentro; non avevo bisogno di vederla per riconoscere quello strambo colpo di tosse. Di solito Mmh-mmh non aveva un odore particolare, al contrario di Sudore, ma quel giorno dal suo corpo arrivava un gran puzzo di sangue misto a ruggine. Immaginai fosse a causa della pelle lacerata e dei punti di sutura che aveva fatto saltare via. Le avevo gettato solo un'occhiata veloce prima di girarmi dall'altra parte, quando era stata scaraventata lì dentro dall'assistente: il bianco della tunica era pieno di grosse macchie rosse. Una nuvola ferita e grondante carne e pelle. Chissà come mai, mi ricordò il Natale. Sembrava una decorazione natalizia, un fiocco di neve costellato di brillantini rossi.
Non mi piaceva il Natale. Non mi era mai piaciuto. Padre esigeva che un giovane abete innocente venisse preso a colpi di accetta e piantato nel salotto, vicino al camino. L'albero agonizzante urlava, piangeva, gemeva. Poi, rantolava per giorni, in attesa di smettere di esistere. Era come avere un ragazzino con le gambe tranciate in due abbandonato nel soggiorno. Era come portare la morte e la violenza dentro casa. E poi, a Natale Padre e Madre diventavano davvero insofferenti nei miei confronti; lo erano sempre, ma a Natale il loro odio si manifestava in tutta la sua grandiosità. Dovevamo partecipare a un mucchio di cene in famiglia ed eventi sociali e io ero quello che ero, una guasta maledetta che faceva scricchiolare il legno e che parlava con le sedie di noce. Ero impresentabile, ero un problema. Un'incognita: andrà tutto bene o la scalinata di pino dei Martin farà le fusa al passaggio di Vittoria? E questo innervosiva Padre e Madre, li faceva stare sempre sull'attenti, a Natale più che mai. Un incubo.
Ecco, Mmh-mmh mi ricordò il Natale e quello, unito al malessere per lo svenimento, mi fece salire un grosso conato di vomito su per la gola. Iniziai a vomitarmi addosso e l'infermiera corse bestemmiando verso il mio lettino; tirò giù il colletto della mia tunica e mi sbattè un secchio in faccia.
"Che schifo! Vomita e poi chiamami quando hai finito," latrò. Sputai fuori un liquido denso e giallastro, così amaro da bruciarmi la gola e la lingua. Non c'era l'ombra di pezzi di cibo: era bile. Il liquido continuò a uscire dalla mia bocca come un fiume in piena; colpiva il fondo del secchio con una forza tale da rimbalzare e schizzare fuori dal contenitore. E la puzza era terribile, non avevo mai sentito un odore del genere. Non saprei descriverla con esattezza, ma direi che era come se un ratto scabbioso fosse morto e si stesse decomponendo in un cumulo di spazzatura. Roba da far esplodere le narici.
"Che schifo!" Ripetè l'infermiera e scappò fuori dalla stanza, coprendosi il naso con il braccio. E così, io e Mmh-mmh rimanemmo sole. Non c'erano altri adulti con noi, né supervisori, né assistenti, né altre infermiere. Sole. Per la prima volta da quando avevo messo piede in quel posto, ero in compagnia di una mia simile e di nessun altro.
Un fruscio. Un altro fruscio, alle mie spalle. Tessuto contro tessuto, l'improvviso sibilo di un respiro che era diventato più regolare e presente, udibile. Mmh-mmh si era alzata? Sì. Una macchia bianca e rossa all'angolo della mia vista limitata. Ancora, un altro fruscio. Si avvicinò. Tra un getto di bile e l'altro, reclinai la testa per guardarla meglio. Si era abbassata il colletto, tutta da sola. Aveva la bocca libera. Lì al Collegio avere la bocca scoperta era proibito e riuscire a vedere le sue labbra nude e rosee mi sembrò una conquista oscena. Qualcosa di brutalmente illecito.
"Ohi," disse. Guardai — cercai, almeno — le sue braccia. Che macello. Pensai a un aratro che violenta un campo di girasoli, sollevando la terra e graffiando il suolo. La sua pelle livida era un intreccio di tagli e squarci. L'aveva già fatto altre volte? Doveva averlo già fatto, per forza.
Spruzzai un altro fiume di bile. "Mmh-mmh," tossì. Era fastidio? O disagio?
"Scusa sai, non è che lo faccio apposta," gracchiai io. Era la prima volta che parlavo dopo settimane e settimane di silenzio forzato. Fu come estrarre una lama dal fondo della gola.
"Lo so, mmh-mmh," mormorò. "Aspetta. Ci provo." A fare cosa? Allungò quelle sue braccia violacee e martoriate verso di me. Dalle fessure della mia maschera, sembravano due melanzane becchettate da un corvo. Prese tra le mani il mio volto pallido e sconquassato dal vomito, lo fece come se stesse stringendo un coniglietto sperduto.
"Via via, basta così," disse. No, canticchiò. "Via via, basta così."
Il secchio ricolmo di bile scivolò via dalle mie mani e cadde con un rumore disgustoso sul pavimento. Lo lasciai cadere perché quella Sorella stava usando la sua magia su di me. Stavo bene, tutto d'un tratto. Era come se non fossi mai stata male nella vita, neanche una volta. Il vomito? Un ricordo sfocato. Svenire? Una parola senza senso. Quel malessere bruciante e perpetuo causato dalla sofferenza del legno? Una semplice idea. Il dolore dei punti attorno ai gomiti e alle orbite? Un solletico dispettoso. Stavo bene ed era scontato che fosse così. Il mio corpo stava bene, io stavo bene. Tutto andava bene. Tutto sarebbe andato bene. E come poteva essere altrimenti? Ero una leonessa. Un Mogano possente.
"Via via, basta così," cantò ancora. E io avrei voluto che quella canzone non finisse mai, perché era il Paradiso in terra, ma poi Mmh-mmh ritrasse le sue mani e tossì. La magia se ne andò. Il bisogno di vomitare era passato, mi sentivo meglio, sì, più in forze, ma non mi sentivo più bene come prima. Inaccettabile, era inaccettabile non sentire più tutto quel benessere.
"Ancora," piagnucolai.
"Scusa, non posso," Mmh-mmh si sedette sul mio lettino. "Basta così. Sarebbe un guaio vero se ci scoprissero."
"Questa è la tua magia? Guarire?"
"No," mormorò. Aveva una voce dispiaciuta, come se si sentisse in colpa. Ma in colpa per cosa? Era una divinità. Doveva esserlo, per forza, con un potere come quello. Altro che ascoltare i segreti dei mestoli di legno o far ballare i rami delle betulle.
"Io so solo far stare meglio. Sento il male e lo faccio passare. Ma non curo nulla." Mi guardò attraverso le sue fessure. Almeno, mi sembrò così: aveva piegato la testa di lato.
"Sei denutrita e forse hai delle ulcere nello stomaco per tutto lo stress. Ma io non posso farci nulla, posso solo farti sentire meglio."
"Beh, grazie," dissi. "È già qualcosa."
"Il male mi fa stare male," aggiunse, come se non potesse sopportare di essere lacunosa nella sua spiegazione. "Se lo sento, devo fare qualcosa, o sto male anche io. Ma qui non posso fare nulla, non posso parlare, non posso toccare. Al Collegio stiamo tutte male, non è vero? E tu stai male da matti, con quella cosa del legno."
Ecco perché faceva "mmh-mmh". Tutto quel dolore la faceva soffrire.
"Come fai a sapere del legno?"
"Non è così difficile capirlo. Basta guardarti e ascoltarti. E poi, so un po' di cose sull'Arte." Disse quella parola come se fosse la cosa più naturale del mondo da dire. Io mi misi a sedere e incrociai le gambe. Sembravamo due matte, così conciate, o due spettri disperati, eppure mi sembrava di star chiacchierando con una mia cara amica. Magari davanti a due tazze di tè fumanti e un vassoio di macarons; ma c'era solo un secchio pieno di bile gialla puzzolente.
"L'arte?"
"L'Arte. Sì. Si chiama così, il nostro potere. O almeno, le Streghe là fuori lo chiamano così."
"Non esistono Streghe là fuori. O vengono ammazzate o finiscono qui."
"Non sempre. Da dove vengo io, ci sono gruppi di Streghe. Sorellanze. Roba proibita e illegale, è ovvio. Ma esistono. Quando i controlli sono meno rigidi, vengono fuori e parlano con le Streghe più giovani. Insegnano." Non era quello che Padre e Madre mi avevano ripetuto fino quasi a trapanarmi le orecchie e il cervello.
"E da dove vieni? Quale è il tuo cognome?"
"Dufour."
"Ma è un cognome da poveri."
"Io sono povera. Mio padre è un maniscalco. Mia madre batteva a Marsiglia." Lo disse con totale nonchalance.
"Cosa ci fai qui? Qui ci vengono le figlie dei ricchi."
"Sì, ma qualcosa è cambiato. Le Due Dame hanno mandato dei cacciatori di Streghe nei bassifondi delle città e hanno comprato le maledette figlie dei poveracci, in cambio di qualche soldo. I miei mi hanno data via senza volere nulla, erano felicissimi." Assurdo. Padre e Madre avevano con ogni probabilità dovuto devolvere una bella cifra al Collegio per liberarsi di me. Com'è che invece le Sorelle povere venivano comprate?
"Quante qui sono come te? Povere, intendo."
"Almeno una decina, credo. Eravamo di più prima."
"Prima?"
"Alcune sono sparite, da un giorno all'altro, sai? Stavano bene, per quanto si possa stare bene qui, poi all'improvviso puff, sparite. Morte, forse? Forse si sono cacciate in qualche guaio. Forse le hanno cacciate."
"Cacciate? Ma da qui non si esce."
"Però loro sono sparite. Nel nulla. Magari si sono stancati di averle qui e le hanno buttate per strada. Erano un po' dispettose, sai, quelle che sono scomparse. Turbolente. Difficili." Buttate per strada. Ma lì non c'era nessuna strada. Sembrava di essere in mezzo al nulla. Attorno al Collegio c'erano solo nebbia gelida e distese infinite di tristi campi verde melma. Nessuna strada, nessun villaggio, nessun casotto. Niente di niente. Essere gettate là fuori, senza cibo e senza aiuti, doveva essere un incubo. Pensai ai neonati deformi che gli spartani abbandonavano sul monte Taigeto. Ma forse…
"È per questo che ti sei tolta i guanti? Vuoi che ti caccino?"
"Anche. Voglio tornare a sentire con le mie mani, di tanto in tanto. E voglio vedere se riesco a farmi espellere."
"E se ti ammazzano, invece?"
"È uguale," si agitò, "vivere così è uno schifo. Non so cosa sia successo alle mie Sorelle, se siano state ammazzate o se le hanno cacciate, ma se c'è anche solo una minima possibilità di poter uscire da qui, voglio tentare. E se schiatto mentre ci provo, va bene così."
"Capisco." Capivo davvero e quel fatto mi spaventò. Tornare a vivere a ogni costo. Anche la morte, se significava morire sapendo perché si muore. Lo capivo, davvero. O forse era la sicurezza che Mmh-mmh emanava mentre pronunciava quelle parole proibite a farmi credere che il suo piano avesse senso?
"Come ti chiami?" Volevo dare un nome a quella Sorella con le braccia martoriate e le idee di libertà in testa.
"BRUTTE TROIE MALEDETTE!" Un vaso da notte si schiantò sopra le nostre teste. L'infermiera era tornata.
"CHIUDETE QUELLA BOCCA, CHI VI HA DATO IL PERMESSO?" Avanzò verso di noi tutta paonazza in volto. Io mi rintanai sotto le coperte, terrorizzata, Mmh-mmh rimase lì ferma a guardarla, senza muoversi di un millimetro.
"A VOI PUTTANE GUASTE VI SI DÀ UN DITO E VI PRENDETE TUTTO IL BRACCIO!"
E a proposito di braccia, afferrò Mmh-mmh per il suo, senza preoccuparsi delle ferite aperte, e la trascinò via, verso il suo lettino. Arrivarono anche due assistenti; ci coprirono la bocca immediatamente. Io fui lavata alla bell'è meglio e mi venne somministrato uno sciroppo che sapeva di polvere. Mmh-mmh se la passò peggio: le ricucirono addosso i guanti con una brutalità da macellai, assestandole qualche botta di tanto in tanto per farla stare buona. Poi, diedero anche a lei uno sciroppo, diverso dal mio però. Lo bevve e si addormentò dopo poco, sotto gli occhi dell'arrabbiatissima infermiera.
Mi riportarono dalle altre per la notte. Mmh-mmh rimase lì.
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principessa-6 · 3 months ago
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"Non posso farne a meno"
Eri splendido con quel sorriso che non finiva mai, si rideva e scherzava come due bambini. Ricordo quando ti ho visto la prima volta, lì ho capito che ti avrei voluto accanto per tutta la vita.
Mi hai colpita dentro, con i tuoi occhi hai fatto centro, sei diventato subito la mia ossessione, volevo diventare la tua passione. Ti immaginai già dentro al letto disfatto, senza pentirsi di quello che avremmo fatto.
Se potessi guardare ancora nei tuoi occhi, oggi ti direi: "IO DI TE.............
Non posso farne a meno!"
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benzedrina · 1 year ago
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Una volta per noia creai un gioco da tavolo (più party game) un pelino hot, immaginai le regole, il modo di interagire e la sera lo provammo un po' fatti un po' ubriachi. Il gioco fu un successo e mi sono sempre detto di scriverlo per bene e mandarlo a un sito che vende sex toys. Sono passati 2 anni. Dovrei capire molto da questo. Tante idee, tanta noia colmata da lampi d'inutilità come ieri che ho finito sex education nel giorno in cui è uscita e come oggi che ho scritto un codice per avere una mia app del fantacalcio in cui meno fai punti e più è forte la squadra, poca propensione a fare le cose. Prima era più un deludere i miei che dicevano che perdevo troppo tempo e le cose che facevo non andavano mai bene, poi quella fase è passata (i traumi restano, i know) e boh i miei non li ho sentiti più di tanto. Ad oggi sono 8 mesi che mi vedono costantemente a pranzo, non so che opinione abbiano di me, ma il fatto che non vivo completamente dei soldi loro alza un po' il punteggio. Oh i 30 anni sono andati così. Un delirio, uno sfracello, una mitigata rivoluzione. Quest'anno non è ancora finito e 3 mesi sono lunghi.
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princessofmistake · 8 months ago
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D’un tratto, mi sentii come se qualcuno mi avesse preso l’anima a randellate. Per cercare di mantenere l’equilibrio, immaginai di essere uno dei personaggi di Fitzgerald – nevrastenico, smanioso, chiuso in sé stesso – per il quale l’infelicità in qualche modo acuisce la nobiltà. Ma quel pensiero non fu salvifico come speravo.
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macabr00blog · 10 months ago
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dionea muscipula
L’inverno accade piano.
La vecchia sensazione della tua barba rada che graffia. Mi hai raccomandato che esistono delle sfumature del giorno in cui possiamo stare vicini, qualcosa di più, qualcosa di meno. Luoghi di sapori tenui come lo zucchero di canna mescolato al caffè prima sulla mia e poi sulla tua lingua. Le tue guance souvenir, le mie riempite di confetti, abbuffate battesimali di corpi in fesa, bomboniere dai colori tenui. La vecchia e nuova sensazione della tua barba che mi si strofina addosso, ora che è cresciuta, mi accarezza.
Storie di famiglie. I corsi delle vene deviati da qualche piccolo intoppo: deviati da qualche piccola massa: deviati da qualche piccolo insetto. L’ho sentito parlare di dipendenze. Portava una mano al petto, recitava?, pregava?, il suo volto si imbruniva nel tempo, l’ho sentito parlare di amore, recitava?, l’ho sentito parlare di violenza, pregava? Mi ha raccontato che la gente piange spesso ai funerali, Plutoni distratti, lui che si china sul feretro, lei non ha più il volto che aveva quando l’hanno trovata. E’ più bianca, è più lucida, sembra foderata di plastica. Un sacco biodegradabile sul suo cranio, un sacco biodegradabile dove andranno a morire le sue grida, nessuno ha mai urlato così tanto, nessuno ha mai sentito parlare dell’amore. E’ uscito dalla sua bocca, è suo figlio, nessun l’avrebbe mai amata così. Nessuno ha mai sentito parlare di violenza. Tranne quella volta che l’hanno tramortito dopo una festa, tranne quella volta in cui gli è toccata la seconda lavanda gastrica, tranne quella volta che ne ha presa una in più, e una in più, e due tre quattro in più, danni da prescrizione, è più bianco, è più lucido. La malattia non lo colpisce, prega?, la malattia lo benedice, recita?
L’inverno è un incubo che non porta a niente, uno spirito freddo senza scarpe, i suoi passi leggeri sulla ceramica del pavimento del bagno, piante di pelli bagnate dal cloro e dalla rugiada. Mi accorgo che settembre a Bologna è un leggero buffetto sulla spalla, complimento di una prozia che non vedevo da mesi, ma novembre sradica le sue ossa e le lascia scivolare nella marea dell’asfalto alluvionato. Ed era così forte che non ci ho creduto. Il suo corpo da Marte reso martire, guerra dei suoi canini sopra i miei, siamo due cani rabbiosi nel cortile, ci prendiamo a morsi le guance. Il suo corpo da Venere che inghiotte mosche. A lui piace sentire il sapore della carne sulla lingua, quando ancora sa di ferro, gli piace sentire che il mio sangue a contatto con il suo brucia.
E’ un deviato, nessuno lo amerà più così, sacco biodegradabile che è il mio addome, ricordiamo i lutti e i lumi passati, ci schiudiamo come su una stele. Le sue mani rese porpora dalle interiora, pensa che lavorare in una macelleria sia come fare un boia, io mi aggiro con la peste in corpo, non ho paura dei contagi.
Quando mi disse che c’era ancora spazio, che era rimasto come un confine disegnato a penna, immaginai quell’esatto momento del giorno in cui divento pazzo, gli incubi mi si incollano alle palpebre. Non guardarmi, dico, voglio farlo da solo. Ma la realtà è che ho pensato fin troppo alla compassione, alla cura, alle grazie di quest’annata di ostinazioni. Incredibilmente, la primavera mi porta sempre da te.
Scambiamo qualche parola che sa di futuro, ce ne dimentichiamo subito dopo, è una piccola particella in cancrena che ci ottura un’arteria. Lui ha tante cose da finire, lavori incompleti lasciati a prendere polvere, io sono ancora in tempo per imparare a distinguere i confini reali. Mi porto una mano sul petto, il candore della mia giovinezza reso vile dai peli, ora che ho un corpo simile al suo posso non avere vergogna di mangiare davanti a lui, ora che ho un corpo simile al suo posso portarmi una mano al petto, esce dalla mia bocca, è una parola di riguardo verso mio padre.
E ancora, storie di famiglie.
Sono sincero quando dico che vorrei fosse morto, quella sera. La malattia lo colpisce. La malattia lo benedice. Lui non muore mai. La sua testa sa ancora di ferro, gli aghi da cucito si tramutano in spilli, ci cammino sopra come un monaco sacrificale. E’ così difficile fare pace con il siamo insieme in questo, che più mi muta il mento, più gli rassomiglio in modo scabroso.
Io sono nato in mezzo ai drammi di un nido, ho assimilato giusto giusto qualche parola sulla violenza, la mia gola non è ancora abbastanza spaziosa per l’odio, tu cammini troppo veloce anche per me e ti sistemi la sciarpa tartan, mi dici che la primavera ti ha portato qui. E’ come un vento caldo che spera di scuotere. E’ come un’altra parola che fatica a venirci in mente, ce la inerpichiamo tra le lingue per ore, la rendiamo un batuffolo di salive che scivola rotolando lungo le strade. Baciarti dove avrei avuto più vergogna, sbigottito del mio stesso fervore, ho vent’anni e mi si è incollato addosso l’odore dell’idea che torni presto inverno.
Marzo mi porta le tue ossa. Aprile mi porta i tuoi organi. Maggio mi porta la tua voce, che è quella di una volta, che è uguale alla mia. Giugno mi porta la tua anima, la sagoma del tuo vecchio io sudato sulle mie lenzuola. E’ un anno che imparo a dormire con la tua metà del cervello accanto alla mia, tu mi ripeti che c'è ancora spazio per noi, quindi, dov’è?
Se io sono una falena resa sterile dalla luce e tu sei una pianta carnivora lasciata seccare, allora, dov’è? Nel mio e nel tuo modo di morire? O di volerci bene? O di entrambe le cose?
Cos’è quello spazio del giorno in cui divento pazzo se non l’inverno?
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tophe23 · 2 years ago
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AI Art - Prompt: Animals protesting the destruction of their forest. - using the ImnaginAI app. This turned out a lot weirder than I imagined! #AIArt #AnimalsProtesting #ForestDestruction #SaveForests #ImmaginAI https://www.instagram.com/p/Coqteo0N8cZ/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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inter-sidera-versor · 10 months ago
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Faccio fatica a partecipare alle piccole emozioni, per me è stato incredibile diventare padre, tutto il posto è stato occupato.
- Meno il luogo dove conservo il ricordo di te - dicesti poi con un filo di voce, o forse lo immaginai.
- Giura; Stefano Benni
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aven90 · 11 months ago
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Le avventure della Penna/38
Su Marte.Be’, in fondo Marte è il dio della guerra, e alla Penna piaceva combattere, per quel che ne sapevo. Immaginai anche che le piacessero i ranci, i cibi razionati, la polvere, le trincee, le esercitazioni e anche le operazioni militare studiate nel minimo dettaglio.“Belli questi raggi X, vero? Mi piace un sacco cambiare il posto. Adesso può pormi tutte le domande che vuole. Me le ponga,…
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lamilanomagazine · 1 year ago
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Pesaro: arte e musica all’alba con KABA di Roberto Paci Dalò, "Lo spazio in ascolto", la voce della scultura
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Pesaro: arte e musica all’alba con KABA di Roberto Paci Dalò, "Lo spazio in ascolto", la voce della scultura. Venerdì 18 agosto alle 5.30 del mattino (accesso libero) in Viale Trieste a Pesaro torna con un suggestivo appuntamento al sorgere del sole LO SPAZIO IN ASCOLTO. La voce della scultura, progetto pluriennale di WunderKammer Orchestra (WKO) e Archivio Loreno Sguanci, che pone l’attenzione sulle opere d’arte en plein air che arricchiscono la geografia culturale della città. Fondamentale, anche in questa edizione, il contributo della Sistemi Klein, per il terzo anno consecutivo main sponsor dell’iniziativa che si avvale anche del patrocinio del Comune di Pesaro, Assessorato alla Bellezza, del contributo di Riviera Banca e della collaborazione di Ceramiche Bucci e di Giardino di Santa Maria. L’idea è immaginare, costruire una relazione/dialogo tra differenti linguaggi, quello della scultura e quello delle arti performative, che entrano in simbiotica interazione. I protagonisti dialoganti sono la PORTA A MARE di Loreno Sguanci e KABA del musicista e performer Roberto Paci Dalò, artista poliedrico che dell’intersezione tra differenti linguaggi ha fatto la propria cifra stilistica. Così l’opera che connota iconicamente il lungomare di Pesaro, diventa il luogo di un nuovo e possibile dialogo fra arte e spazio urbano inteso come spazio espositivo in cui realizzare dialoghi inconsueti e suggestivi tra ‘segni’ che comunicano esperienze culturali ed esistenziali. “Progettai una scultura in legno - scriveva Loreno Sguanci - che realizzai sul lungomare. Immaginai una porta perché ricordavo le mura e le porte di Pesaro demolite nei primi decenni del Novecento. Ho pensato al legno, frutto della terra, lavorato dai calafati per far vivere di mare la città. Immaginai la porta come due ante semiaperte contro l’orizzonte, un varco attraverso il quale vedere l’altro spazio che compone la città nella sua storia e nella sua vita di terra e di mare”. Realizzata nel 1976, la scultura fu corrosa dalla salsedine rischiando di subire danni irreparabili per cui nel 2013 il Comune di Pesaro decise di sostituire il manufatto con una copia realizzata nei laboratori di ebanisteria della cooperativa sociale Tiquarantuno “B”. KABA, stile musicale albanese improvvisato e malinconico, è una meditazione che nasce nella notte e si conclude al sorgere del sole, che guarda dall’altra sponda dell'Adriatico. La musica dell'Albania meridionale è morbida, gentile e di natura polifonica con somiglianze con la musica greca sul canto polifonico dell'Epiro. Paci Dalò unisce materiali e strumenti tradizionali a elettronica creando un ponte tra la Porta a Mare di Pesaro e Përmet, centro dell'innovazione musicale del sud dell'Albania, dove sono cresciuti Remzi Lela e Laver Bariu considerati tra i più influenti clarinettisti albanesi e migliori interpreti del Kaba. A loro quest'opera è dedicata. Loreno Sguanci, fiorentino classe 1931, si diploma in Scultura e nel 1952 si trasferisce a Pesaro dove continua la sua ricerca indagando diversi materiali e nuovi linguaggi formali. Nel 1963 è alla Biennale dei Giovani a Parigi e nel 1965 alla Quadriennale d’Arte di Roma. Dopo una breve esperienza all’estero torna a Pesaro dove negli anni ’70 si dedica allo studio del segno e delle sue molteplici valenze grafiche come elementi essenziali per dar corpo al rapporto logico-emozionale tra presente e memoria, ricerca da cui nascono opere per lo spazio pubblico come, appunto, la Porta a Mare. Muore nel 2011. Clarinettista, compositore, attivo da decenni nel campo delle sperimentazioni elettroniche Roberto Paci Dalò è anche grafico, pittore, regista e cartografo. È un pioniere nell’utilizzo delle tecnologie digitali e Internet per la creazione di progetti artistici innovativi all’insegna della relazione tra arte, tecnologia e natura. Cofondatore e direttore della compagnia di arti performative Giardini Pensili, ha ricevuto, nella sua carriera, la stima e il sostegno di artisti come Aleksandr Sokurov e John Cage e ha presentato sue opere nei principali musei, teatri e festival e biennali in giro per il mondo. La performance di WKO raccoglie il fil rouge degli eventi dei Notturni Oliveriani organizzati da Biblioteca e Musei Oliveriani dalle 21.30 di giovedì 17 agosto che aprirà le porte di Palazzo Almerici fino al mattino con un caleidoscopico programma di musica, teatro, videoart, Escape Room e visite guidate in italiano e in inglese alla Biblioteca Oliveriana e al Museo Archeologico.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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racconterodinoi · 2 years ago
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20/06/2023
“La immaginai camminare su un filo sottile, in equilibrio precariio tra il mondo della perdizione, il mio, e il mondo della perfezione illusioria, il suo”
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