#i quattro dannati
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Studio Rosi - Jacula ~ I quattro dannati
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Dante e il suo fantastico viaggio 3: Dante e i personaggi dell'Inferno.
Prima parte Seconda parte Terza parte
Virgilio e Dante salgono su una barca per attraversare il fiume Stige, quando compare innanzi a loro un'anima tutta sporca di fango che si rivolge a loro con tono arrogante e stizzoso. È Filippo Argenti, un grande nemico del Sommo poeta che aveva scelto di parteggiare per la parte Nera dei Guelfi. Apparteneva ad una famiglia altezzosa e violenta quella dei Cavicciuli; una delle tante famiglie venute da fuori città, quelle che secondo Cacciaguida (vedi primo articolo) portarono al decadimento la città di Firenze. Argento è un uomo che non ha lasciato un buon ricordo di sé; impotente e furioso per la sua condizione attuale, si ritrova confinato all'inferno e si aggira nervoso tra i dannati che intanto gli si scagliano addosso violentemente, mentre sprofonda inesorabilmente nel fango più lurido. L'unica cosa che può fare, è mordere se stesso per sfogare tutta la sua rabbia.
Filippo Cavicciuoli è conosciuto anche come Filippo Argenti o Argente, era un membro della famiglia fiorentina degli Adimari, citato nell’VIII canto dell’Inferno. Sembrerebbe essere nato tra il 1266 e il 1267 e morto intorno al 1298. Era soprannominato Argento perché amava ferrare il suo cavallo con questo tipo di metallo prezioso. Era un uomo nerboruto, di grande stazza e dall'animo bellicoso. Si narra che cavalcasse per la città appositamente con le gambe larghe per colpire chiunque incontrasse sulla sua strada. Filippo arrivò anche a schiaffeggiare Dante durante una discussione, perché di idee opposte alle sue e quando fu esiliato si appropriò di tutti i suoi beni. La sua famiglia si era ovviamente opposta accanitamente affinché non fosse ritirato il bando d’esilio a cui era stato condannato il poeta. Filippo odiò ancora di più Dante, quando avendogli chiesto di intercedere in sua difesa in un processo. Consapevole dei suoi crimini, Dante ne peggiorò la situazione aggiungendo alla sua già critica posizione una denuncia per appropriazione indebita di suolo pubblico, che finì per raddoppiare la condanna pendente su Filippo.
Dante e Virgilio ricominciano poi il loro viaggio per ritrovarsi in prossimità di alcuni sepolcri infuocati con i loro coperchi alzati. Qui Dante viene riconosciuto da un'anima dannata dal suo dialetto fiorentino. È Farinata degli Uberti, il capo Ghibellino vincitore della battaglia di Montaperti, morto un anno prima della nascita di Dante. Dall'aspetto statuario, fiero con il petto all'infuori e la fronte alta, si guarda intorno sdegnoso e sprezzante. Farinata chiede a Dante quali fossero i suoi antenati, scoprendo che erano stati tutti suoi fieri avversari che aveva combattuto e sconfitto. Nonostante la sconfitta però, i Guelfi, a differenza dei Ghibellini, erano sempre riusciti a rientrare a Firenze. Così il confronto tra i due si accende e si anima sempre di più.
Intanto da un sepolcro emerge un'altra anima, è quella di Cavalcante dei Cavalcanti, il padre di Guido Cavalcanti, un grande amico di Dante. I Cavalcanti erano imparentati con Farinata, perché Guido aveva sposato una delle sue figlie. Cavalcante, morto quando Dante aveva quindici anni, cerca il figlio, ma non vedendolo in compagnia del suo amico lo crede morto. Costernato, sparisce di nuovo dentro la sua tomba con il suo dolore.
Lungarno Maria Luisa dei Medici. Farinata. Foto di Clara Virgili. L’altezzoso e tronfio Farinata intanto, rimane visibilmente amareggiato dalle parole di Dante, da cui ha scoperto l’amaro destino dei Ghibellini: quello di non riuscire più a fare ritorno nella loro Firenze. A questo punto non per senso di vendetta, ma di compatimento, condividendo la stessa sofferenza, Farinata annuncia a Dante che da lì a quattro anni anche lui scoprirà il tormento doloroso di non poter tornare nella propria città... Approfittando della disponibilità del poeta, gli chiede come i fiorentini si erano comportati nei confronti della sua famiglia, scoprendo con dolore che erano stati piuttosto duri nei confronti degli Uberti. Avevano infatti distrutto le loro case e violato le tombe, gettando le salme nell'Arno per vendicarsi dell’esito della battaglia di Montaperti, quando il fiume Arbia si era colorato di rosso del sangue fiorentino. Nonostante tutto, Farinata si era però opposto fieramente alla distruzione di Firenze, ma questo non era servito a mitigare la vendetta dei concittadini nei suoi confronti.
Dante rimane commosso dalla passione e dall'amore che Farinata manifesta per Firenze. Così, dopo questo confronto, Dante si addolcisce e ripensa a Cavalcante e alla sua pena per la sorte del figlio, prega allora Farinata di riferire al padre che Guido è ancora vivo e di non preoccuparsi per lui. Poi Farinata, senza astio, se ne va, augurando a Dante di ritornare presto nel mondo dei vivi. Dante però è rimasto scosso dalla profezia di Farinata lasciando quei dannati per continuare il suo viaggio in compagnia di Virgilio… Ma chi sono questi due personaggi fiorentini di cui parla Dante? Cavalcante de’ Cavalcanti è nato intorno al 1220 e morto nel 1280 circa in Toscana. È stato un filosofo epicureo italiano di parte Guelfa. Non credeva nell’immortalità dell’anima e sosteneva che l’unica realtà fosse costituita dagli atomi. Dante lo incontra nel X canto dell’Inferno, dove è collocato in una fossa infuocata a scontare la sua pena per eresia. Si era imparentato con Farinata degli Uberti attraverso il matrimonio del figlio Guido con la figlia di lui Beatrice, da cui erano nati due figli: Tancia e Andrea. Il matrimonio avveniva spesso a quei tempi tra famiglie avversarie, quando queste volevano riconciliarsi tra loro.
Guido Cavalcanti invece, fu tra le più “belle intelligenze” di Firenze. È il primo grande amico di Dante, nato a Firenze intorno al 1259 e morto il 29 agosto del 1300. È stato un poeta e un filosofo, esponente di spicco della corrente poetica del dolce Stil novo, partecipò attivamente tra le fila dei Guelfi Bianchi alla vita politica fiorentina. Fu grande amico personale di Dante che lo menzionerà anche nelle sue opere. Aveva le sue ricche proprietà vicino a Orsanmichele e apparteneva ad una delle famiglie tra le più potenti della città. Nel 1260 Cavalcante, padre del poeta, fu mandato in esilio in seguito alla sconfitta di Montaperti. Sei anni dopo, in seguito alla disfatta dei Ghibellini nella battaglia di Benevento, i Cavalcanti riacquistarono la loro preminente posizione sociale e politica a Firenze. Nel 1280 Guido fu tra i firmatari della pace tra Guelfi e Ghibellini. Ma il 24 giugno del 1300, Dante Alighieri come priore di Firenze, fu costretto a mandare in esilio l’amico nonché maestro Guido, insieme ai capi delle fazioni Bianca e Nera in seguito a nuovi scontri di cui si erano macchiati. Il 19 agosto però, venne revocato l’esilio di Guido per l’aggravarsi delle sue condizioni di salute. Moriva il 29 agosto, probabilmente a causa della malaria contratta durante l’ esilio, pochi giorni dopo essere rientrato a Firenze. La produzione poetica che ci lascia è di cinquantadue componimenti, di cui due canzoni, undici ballate, trentasei sonetti, un mottetto e due frammenti. Fra i testi più noti, si ricordano: “Donna me prega” (canzone), “L’anima mia” (sonetto) e “Perch’i no spero di tornar giammai” (ballata). Continua il viaggio di Dante e la ricerca di illustri personaggi fiorentini tra i trapassati…
Riccardo Massaro Read the full article
#4°#Cavalcantede’Cavalcanti#Dante#fantastico#FarinatadegliUberti#FilippoArgenti#Firenze#GuidoCavalcanti#inferno#personaggi#RiccardoMassaro#suo#Viaggio
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"Dietro un portone qualsiasi, in una delle tante vie che portano da Salvator Rosa al centro storico, Salita Pontecorvo, si cela una realtà inaspettata, che supera l'immaginario. Varcata la soglia di quel portone e percorso un primo cortile, si avverte forte la sensazione di essere in un luogo intriso di storia, protagonista e spettatore di tante vicende umane. Una cella, una scala, un corridoio e ci si ritrova davanti ad uno spazio grande, quasi quanto un campo di calcio, sul quale si affaccia un lunghissimo porticato e un immenso edificio. E' l'ex convento delle Cappuccinelle, poi carcere minorile Filangieri, oggi Scignizzo Liberato.
Una storia lunga che parte dal 1585, quando Suor Diana di San Francesco, al secolo Eleonora Scarpato, moglie del notaio Luca Giglio, guarita da una grave malattia per intercessione di San Francesco d’Assisi, fece, per grazia ricevuta, voto di castità. Insieme al marito, iniziò ad accogliere nella sua casa le ragazze madri e quelle più sfortunate della città.Una volta rimasta vedova, Eleonora prese i voti regolari e fondò una chiesa e un monastero dedicato a San Francesco dove, da Suor Diana, condusse la sua vita monacale. Si dice che la rminaccia di portarli dalle cappucinnelle, suore francescane a cui venne affidata la gestione del convento, note per il rigore e la severità dei metodi educativi, funzionasse da deterrente per riportare alla disciplina i fanciulli più disobbedienti e riottosi alle regole.
Divenuto insufficiente per il gran numero delle ospiti, il convento subì progressivi lavori di ampliamento. Nel 700 furono annessi tre edifici dai quali vennero ricavati gli ambienti interni, i giardini, il chiostro e due belvedere.
Nel 1809 il monastero fu soppresso per ordine di Gioacchino Murat e trasformato in riformatorio minorile, intitolato a Gaetano Filangieri, insigne giurista e filosofo napoletano.
Durante il fascismo divenne “istituto di osservazione minorile”e negli anni successivi casa di rieducazione.
il 23 marzo del 1982 il grande Eduardo de Filippo, all'epoca senatore a vita, in una interpellanza al Senato, chiese che fosse assegnato al Filangieri "uno spazio in una località ridente su cui costruire un villaggio con abitazioni e botteghe dove i giovani, già avviati a mestieri e all’artigianato antico, possono abitare e lavorare, assaggiando il sapore del frutto della loro sacrosanta fatica, recuperando la speranza e la fiducia di una vita nuova che restituisca loro quella dignità cui hanno diritto.”
Un legame speciale univa il Maestro ai ragazzi del Filangieri, i figli più "dannati" di Napoli. Ad essi Eduardo fece visita più volte, tenendo lezioni di recitazione e di drammaturgia, destinando alla struttura anche parte degli incassi di alcune sue rappresentazioni teatrali.
Dismesso definitivamente nel 1999, l'ex Filangieri è stato abbandonato per molti anni fino a quando, il 29 settembre del 2015, a rievocare le quattro giornate di Napoli, è diventato lo "Scugnizzo Liberato". Un laboratorio di mutuo soccorso dedito all'organizzazione di attività ricreative, culturali e sociali, nonché al recupero e alla manutenzione degli spazi della struttura, divenuta un bene comune ad uso civico e collettivo.Vi si svolgono concerti, spettacoli, presentazioni di libri, corsi di formazione e molteplici attività a favore dei piu deboli, la mensa sociale e il guardaroba solidale, organizzate dall'associazione Nessuno Escluso.
Nell'ambito delle risorse del Piano Sviluppo e Coesione del Ministero della Cultura lo scorso luglio è stato emanato un bando di gara per la progettazione e i lavori di restauro del complesso, ai fini della creazione di un centro di alta formazione delle arti e dell’artigianato, con realizzazione di una struttura ricettiva da destinare a giovani artisti.
Una grande opportunità per Napoli, quella di valorizzare un luogo straordinario che è stato palcoscenico di un ampio ventaglio di sentimenti umani, la gratitudine, la disperazione, il riscatto."
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No stress
Sono ormai almeno quattro giorni che trovo, al mio ritorno dal lavoro, i volantini del circo nella buca delle lettere. Non ho nemmeno controllato dove lo facciano, il circo, perché ci sono stato solo una volta in vita mia, quando andavo alle elementari, e non mi ero divertito. Era uno di quei circhi grandi, con una platea vastissima e la terra ocra che puzzava di sterco caldo al centro dell’anfiteatro. Mi piacevano, però, gli animali. Vederli, dico. Ero un grande osservatore di animali. Anche se puzzavano. Io e i miei compagni di classe sentivamo la loro puzza sin sugli spalti, dove eravamo seduti a guardare lo spettacolo. L’odore del loro sterco si mischiava ad un vago profumo di sudore trattato, ma non fu quello a far sì che non provassi mai più, in vita mia, attrazione verso quel mondo e a quel tipo di divertimento. Fu piuttosto il senso di precarietà e incostanza che gli uomini che animavano e creavano quello spettacolo mi trasferirono. Ne venni investito e penetrato mentre tutti gli altri, compagni di classe e maestre, ridevano, divertendosi come se ne fossero immuni, presi nel loro osservare numeri, frustate e volteggi. Quella fu l’unica volta in vita mia che andai al circo.
Mia madre è da sempre stata contro il circo con gli animali. Un’estate, addirittura, aveva paura che i miei nonni mi portassero a qualche spettacolo di quel genere, dato che passavo sempre due settimane con loro in Romagna. Loro in realtà non avevano la minima idea di portarmici, non sapevano nemmeno di circhi in zona, ma li misi in guardia ugualmente e mi sentii un po’ uno stupido nel farlo, un po’ ingrato.
Domenica scorsa trovai, insomma, per la prima volta questi dannati volantini nella mia buca delle lettere. Non avevo idea che sarebbe stato il primo di una serie di almeno quattro giorni così. Li avevo sino a quel momento trovati tra i tergicristalli dell’auto, oppure li vedevo distribuiti dai circensi ai semafori, rifiutandoli cortesemente quando era il mio turno. Così direttamente, a casa mia, non mi era mai capitato. Stavo uscendo di casa per andare a vedere il Derby allo stadio, vidi un’ombra nella cassetta della posta, la aprii e una decina di volantini colorati mi cadde prima addosso, poi per terra. Li raccolsi, feci il giro dalla taverna e li gettai nel bidone giallo della carta, dove io e mia moglie avevamo scritto i nostri cognomi, in modo che nessuno ce lo rubasse per strada. Come potevo essere distratto da dei volantini colorati lasciati dal circo in città, quando stavo per assistere al primo Derby di Dardan Vuthaj?
Esiste davvero un altro modo grazie al quale i miei concittadini si possano divertire o possano trovare una valvola di sfogo dai dolori di ogni giorno, che non sia una partita contro la città rivale?
Era una domenica di sole di gennaio che sembrava primavera inoltrata. Il cancelletto di casa mia e la cassetta delle lettere erano diventate addirittura roventi, dopo aver assorbito i raggi del sole, che sorge dietro le case dall’altra parte della strada, sin dalle prime ore del mattino. Ma l’atmosfera, dentro e fuori le persone, era spazzata da un vento gelido, che sembrava arrivare addirittura da un altro mondo. Le foglie e i rimasugli dei bicchieri di plastica, abbandonati alla città dopo i bagordi del sabato sera, venivano portati in giro da continui e turbinanti refoli, in mezzo alle strade. Come se nessuno di noi, il giorno dopo, dovesse andare a lavorare, o si dovesse recare all’ufficio di collocamento perché il lavoro non ce l’ha. A fare la fila, prima sugli scalini e il marciapiede e poi allo sportello. A parlare di cosa si sia fatto nelle vite precedenti e di cosa si vorrebbe fare da quel momento in poi, dei desideri e delle aspettative che si hanno.
Per strada, poi, non c’era anima viva. Volgendo le orecchie verso le case e i palazzi, lungo il percorso, cercai di captare qualche suono tipicamente domenicale e confortante, che mi desse testimonianza di vita: i piatti che cozzano l’uno contro l’altro tra le portate, i rimproveri delle madri, il telegiornale a tutto volume. Niente. Con il ritorno a casa di Vuthaj, tutto sembrava attendere un segnale, un’indicazione. Eravamo tutti, senza volerlo, immersi in una fase di stallo immanente. Sarebbe stato, di lì a poco, il suo primo derby, ed era come se quella presenza in campo se la fosse guadagnata da solo, senza aiuti, segnando decine di reti in quella devastante stagione in Serie D, con una squadra che non aveva praticamente nemmeno fatto preparazione atletica. In estate, poi, per colpa dei soldi, se n’era andato, verso una società che sì, quella avrebbe giocato per passare in Serie B. Poca, pochissima, vita social quando giocava a Foggia. Le ultime foto sul suo profilo Instagram risalivano ancora al periodo di Novara, di quando giocava per noi. Ho guardato tutti i video delle reti segnate per i pugliesi, ho sentito che era in trattativa anche con il Pescara e ho pensato “Se la sua famiglia abita a Foggia, ancora, Pescara è a un’oretta di macchina, è plausibile come soluzione." È un comportamento da fan, lo so. Che poco ha a che vedere con lo sport o il tifo. Ma quando si ha poco, per poco si va.
Non interessa a nessuno, fa più comodo rimanere in uno stato di mancanza di stress. Una partita dura novanta minuti, magari col vento che ti taglia le labbra e l’ombra che si avvicina, sulle gradinate, sempre più alla tua figura, gelida, a testimoniare che il mondo e la vita, nonostante tutto, vanno avanti.
Nonostante gli stipendi, tuo e dei calciatori. Nonostante le nonne che si lamentano e si disperano per i morti ammazzati in televisione. Nonostante l’aver perso quel Derby, alla fine. Sono tornato a casa mezzo congelato con pensieri violenti in testa e il mal di gola. Vuthaj aveva giocato meno di mezz’ora, sfiorando il gol un paio di volte. Non importa.
#dardanvuthaj#novarafc#ufficiosinistri#football#footballstories#footballstorytelling#foggia#rimini#derby#thebeautifulgame#seried#seriec#notomodernfootball#novara#left
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Ora finitela col vostro ditino
Vorrei fare un discorsetto serio a quella razza superiore che giudica dall’alto il mondo, il prossimo e chi non la pensa come loro. Dico alla sinistra e alle loro insopportabili autocertificazioni di superiorità. lo dico partendo alla larga e da lontano, da altri ambiti non politici. Per esempio, io non ce l’ho con le attrici, gli attori, i registi e i cineasti di sinistra che s’indignano contro il sessismo e le violenze alle donne e poi non solo tolleravano ma trescavano coi produttori maiali e il loro disgustoso mercato del sesso; molti di loro sapevano, facevano e tacevano. Io non ce l’ho poi contro i cantanti di sinistra che portavano i soldi guadagnati in nero in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, dopo aver predicato per la giustizia e i più deboli. E ancora. Io non ce l’ho con gli intellettuali di sinistra che hanno goduto di privilegi, cattedre e carrozzoni coi soldi pubblici da cui mungere soldi, viaggi e premi, o che pretendono di essere pagati in nero, salvo tuonare contro i privilegi e i ricchi. Io non ce l’ho con gli intellettuali e gli scrittori di sinistra sorpresi a plagiare testi altrui. Non ce l’avevo nemmeno con gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, ebbero cattedre, giurarono fedeltà al regime e alle leggi razziali, ma esercitarono poi un intransigente magistero antifascista e toglievano la parola e la dignità a chi non si professava antifascista. Io non ce l’ho con tutti loro, a volte amo le loro canzoni, leggo i loro testi, mi confronto con le loro idee, vedo i loro film e in ogni caso so distinguere il loro lato umano miserabile dalle loro qualità, che riconosco quando non sono palloni gonfiati. No, non ce l’ho con loro. Ce l’ho col loro ditino. Quel ditino ammonitore che ruota nell’aria quando pretendono d’insegnare agli altri la morale e la coerenza che non praticano o peggio quando disprezzano, ignorano, escludono chi sta a destra, i populisti o i cattolici, i moderati, comunque non nella loro brigata. È quel ditino che decreta solo per appartenenza i lodati e i dannati, le opere e gli autori da recensire e da premiare, e quelli da ignorare e vituperare. Ma ora che sappiamo quanto prendevano, come prendevano, dove portavano, da dove copiavano, come si facevano strada, a prezzo di cosa, quel ditino non lo sopporto più. Non voglio vedervi in galera, alla gogna, censurati, ma col ditino abbassato. [...]
Non mettiamo all’indice nessuno, non alziamo il ditino contro nessuno. Ma ora che siete ridotti a quattro ossa elettorali, cenere politica e fumo intellettuale, smettetela di dare lezioni agli altri… Erano insopportabili le lezioni col ghigno dei trionfatori, ma sono insopportabili e grottesche le lezioni con la boria dei nobili decaduti, la vanteria dell’élite sconfitta dalla vile plebe populista, che lascia le ultime istruzioni alla servitù e ai parvenu. Non fate più i maestrini, please.
Siate francescani, e non nel senso di rifugiarvi sotto la tonaca di Papa Francesco. Recuperate del poverello l’umiltà e l’ascolto. E come Francesco, parlate agli uccelli, perché la gente non vi vuole più sentire.
Marcello Veneziani
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Ora finitela col vostro ditino
di Marcello Veneziani
Vorrei fare un discorsetto serio a quella razza superiore che giudica dall’alto il mondo, il prossimo e chi non la pensa come loro. Dico alla sinistra e alle loro insopportabili autocertificazioni di superiorità. lo dico partendo alla larga e da lontano, da altri ambiti non politici. Per esempio, io non ce l’ho con le attrici, gli attori, i registi e i cineasti di sinistra che s’indignano contro il sessismo e le violenze alle donne e poi non solo tolleravano ma trescavano coi produttori maiali e il loro disgustoso mercato del sesso; molti di loro sapevano, facevano e tacevano. Io non ce l’ho poi contro i cantanti di sinistra che portavano i soldi guadagnati in nero in Svizzera o in qualche paradiso fiscale, dopo aver predicato per la giustizia e i più deboli. E ancora. Io non ce l’ho con gli intellettuali di sinistra che hanno goduto di privilegi, cattedre e carrozzoni coi soldi pubblici da cui mungere soldi, viaggi e premi, o che pretendono di essere pagati in nero, salvo tuonare contro i privilegi e i ricchi. Io non ce l’ho con gli intellettuali e gli scrittori di sinistra sorpresi a plagiare testi altrui. Non ce l’avevo nemmeno con gli intellettuali di sinistra che furono fascisti, ebbero cattedre, giurarono fedeltà al regime e alle leggi razziali, ma esercitarono poi un intransigente magistero antifascista e toglievano la parola e la dignità a chi non si professava antifascista. Io non ce l’ho con tutti loro, a volte amo le loro canzoni, leggo i loro testi, mi confronto con le loro idee, vedo i loro film e in ogni caso so distinguere il loro lato umano miserabile dalle loro qualità, che riconosco quando non sono palloni gonfiati. No, non ce l’ho con loro. Ce l’ho col loro ditino. Quel ditino ammonitore che ruota nell’aria quando pretendono d’insegnare agli altri la morale e la coerenza che non praticano o peggio quando disprezzano, ignorano, escludono chi sta a destra, i populisti o i cattolici, i moderati, comunque non nella loro brigata. È quel ditino che decreta solo per appartenenza i lodati e i dannati, le opere e gli autori da recensire e da premiare, e quelli da ignorare e vituperare. Ma ora che sappiamo quanto prendevano, come prendevano, dove portavano, da dove copiavano, come si facevano strada, a prezzo di cosa, quel ditino non lo sopporto più. Non voglio vedervi in galera, alla gogna, censurati, ma col ditino abbassato. [...]
Non mettiamo all’indice nessuno, non alziamo il ditino contro nessuno. Ma ora che siete ridotti a quattro ossa elettorali, cenere politica e fumo intellettuale, smettetela di dare lezioni agli altri… Erano insopportabili le lezioni col ghigno dei trionfatori, ma sono insopportabili e grottesche le lezioni con la boria dei nobili decaduti, la vanteria dell’élite sconfitta dalla vile plebe populista, che lascia le ultime istruzioni alla servitù e ai parvenu. Non fate più i maestrini, please.
Siate francescani, e non nel senso di rifugiarvi sotto la tonaca di Papa Francesco. Recuperate del poverello l’umiltà e l’ascolto. E come Francesco, parlate agli uccelli, perché la gente non vi vuole più sentire."
Il ditino possono metterselo 🖕
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Non dovrei spendere soldi e risparmiare per trasferirmi in un monolocale entro il prossimo anno, però ogni volta che entro da Acqua e Sapone non posso fare a meno di consumare denaro per prodotti profumati che assicurano pelle al cioccolato e bucato che profumi di campi fioriti a primavera.
Ho sviluppato un'ossessione prepotente per il profumo. Mi circondo di ammorbidenti Lenor in profumazioni muschiate, perle profumabiancheria che costano cinque euro a confezione, profuma armadi e profuma cassetti biologici e bagnoschiuma Vidal all'aroma di mango, cocco, guava, papaya. La tristezza di voler essere immersa nel profumo di pulito è che l'olfatto si abitua molto velocemente. Persino il diffusore più costoso smetterà di odorare dopo poche ore.
Dovrei risparmiare, per il semplice fatto che sono scesa a quattro turni al Factory e perché dovrei pagare la terapeuta e lo psichiatra. Anzi, quest'ultimo lo dovrei forse chiamare per fissare una visita di controllo, dal momento che tra circa dieci giorni saranno tre mesi che assumo sertralina a 50mg e vorrei capire se conviene aumentarla o posso continuare così fino a nuovo ordine.
Dovrei risparmiare e oggi ho bucato con una scusa a casissimo un colloquio di lavoro con un'agenzia immobiliare, riuscendo a farmelo spostare a dopodomani mattina. Ci andrò? Probabilmente mi sentirò moralmente obbligata a farlo, visto che ho detto una bugia solo per non dire che non mi ci riesco a vedere a fare l'agente immobiliare. Ad andare vestita in tailleur e tacchi medi, giacca, camicia e capelli in piega alle otto del mattino per mostrare case bellissime a gente molto più ricca di me. Però hanno parlato di un periodo di formazione pagato settecento euro al mese, che è più o meno quanto prendo al locale. Stesso stipendio meno la puzza, il delirio della ristorazione e il profondo disprezzo che nutro nei confronti dei miei titolari e dei miei colleghi, che ormai tollero praticamente a stento.
Starei anche aspettando una risposta qualsiasi dalla casa editrice a cui la ragazza per cui lavoro come copywriter mi ha fatto inviare il curriculum. Un suo amico insider le ha detto che hanno trovato "interessante" il mio profilo. Però oggi è il sei settembre ed io ho inviato quella candidatura il venticinque agosto.
Come dipendente di una casa editrice riuscirei ancora a vedermi. E' un ambiente che trovo affine. Come libraia. Come bibliotecaria. Andrebbe bene tutto, tranne qualunque tipo di lavoro per cui dovrei vestirmi elegante o lavorare a contatto con il cibo.
In tutto questo, oggi mi sono goduta il mio giorno libero dopo la riapertura del Factory scrivendo una copy sulla medicina cinese e ascoltando dieci minuti di feedback inviati in forma di nota vocale circa un articolo sulle tisane per la colazione che ho scritto cinque giorni fa. L'ho scritto nel mio ultimo giorno libero, rimanendo ferma al computer dalle 15 all'1:30, interrompendomi solo per un'ora e mezza per cenare. Non ho usato le giuste parole chiave e c'erano dei refusi (un refuso sintattico). Okay. Il prossimo articolo andrà meglio, anche se scrivere questi dannati articoli è una cosa che detesto fare. Preferisco scrivere i post, preferisco essere sintetica, breve, concisa.
Sono uscita di casa per venti minuti, spingendomi fino al supermercato per ricchi dove posso trovare i wurstel vegani. Avevo voglia di hot dog. Ho comprato i wurstel, i crauti, delle patatine, le uova e una busta di rucola. Sono arrivata alle casse e ho fatto l'errore di alzare lo sguardo alla mia sinistra: mi si è parato davanti un espositore di cuffie e auricolari bluetooth. Mentre le osservavo ho pensato che avrei davvero avuto bisogno di un paio di cuffie bluetooth per isolarmi dalle mie coinquiline, sparandomi nelle orecchie musica ambient e podcast pur di non sentirle ridere e parlare al telefono. Quindi ho allungato la mano e, prima che potessi ripensarci, avvicinavo la carta al POS. Diciannoveeuroenovantanove di cuffie senza fili. Molto scomode ma fanno il loro dovere, considerando quanto le ho pagate.
Sempre per il discorso che dovrei risparmiare, vorrei proprio abitare un posto solo mio, eppure ho comprato queste cuffie bluetooth di cui ho fatto a meno per un sacco di tempo ed effettivamente non sarebbe successo nulla se non le avessi comprate.
Starei anche aspettando una risposta da parte di mio padre, a cui ho scritto il 26 agosto per chiedere se fosse arrivata a casa loro la mia nuova tessera sanitaria. Lui mi ha risposto che non è arrivato nulla ma che gli farebbe piacere avere mie notizie. Sarà stato lo Zoloft, non saprei, fatto sta che non l'ho ghostato come avrei dovuto ma gli ho detto che se desidera possiamo vederci a Bari per prenderci un caffè e parlare di persona, visto che comunicare via messaggio mi mette ansia. Mi ha detto che mi avrebbe chiamato la settimana successiva e io ho pazientemente aspettato questa chiamata fino a oggi. Chiamata che non è mai arrivata.
Allora, uguale sputato a come facevo con Edoardo, con Davide, con Nicolò, con Andrea e con tutti i ragazzi per cui sono stata sotto, gli ho scritto io. Dicendogli che sarei stata libera oggi e giovedì. Lui mi ha risposto che mi avrebbe chiamato lui.
Poi ho scoperto dalle storie e dai post di mia sorella che a quanto pare l'hanno accompagnata a Milano al concerto di uno degli One Direction. Mia sorella ha sedici anni e l'ultima volta che l'ho vista ne aveva tredici. Sono contenta che l'abbiano portata a Milano, perché a me non m'hanno portato mai a vedere nessun concerto. Anzi, no, i Placebo a Roma nel 2011. Ma la moglie di mio padre riuscì a rovinarmi anche quel momento, nonostante noi fossimo a Roma e lei fosse rimasta in Puglia. O forse proprio per quello.
Mi sto risentendo contro una ragazzina di sedici anni che è anche mia sorella? No. Mi sto risentendo contro mio padre, che avrebbe potuto dirmi che si sarebbe trovato a Milano in questi giorni, invece di lasciarmi come la zita di Ceglie ad aspettare una sua chiamata che non è mai arrivata.
Poi mi chiedo perché spendo soldi in cazzate e cose profumate.
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L’Asinara, l’isola dei «dannati della terra», la «Caienna» italiana, da tempo immemore isola-carcere per antonomasia. Adibita a colonia penale nel lontano 1885, da sempre spauracchio per i detenuti riottosi, gli irriducibili, i refrattari alla disciplina, i ribelli, i rivoluzionari, i nemici del Sistema. Non si può capire la vicenda-Asinara senza parlare di Luigi Cardullo, classe ’35, siciliano di Patti (Messina), direttore del carcere tra il 1974 e il 1980. Eloquentemente ribattezzato il «viceré», Cardullo viene ricordato come un sovrano, un uomo al di là di ogni illuministica ragionevolezza: lui stesso con mirabile sprezzo della sobrietà, commentava: «Il mestiere di Dio è sottopagato». Lo ricorda così il fondatore delle Br Renato Curcio: «Una volta mi sfidò ad ucciderlo, in una di quelle sfide psicologiche che, secondo me, lo facevano sentire “uomo”. La jeep in quel momento percorreva un sentiero che sovrastava un dirupo. “Vedi Curcio”, mi disse, “se dai uno strattone allo sterzo precipitiamo e mi uccidi, ma so che non ne hai il coraggio; per questo posso permettermi di portarti con me da solo; voi parlate, parlate, ma poi…”. No guarda, gli risposi, (…) sarei anche disposto a buttarti di sotto, ma senza precipitare anche io”. Un’altra volta confidò a Curcio: “Io nella vita non ho più niente da perdere, mi rimanete voi e la mia unica soddisfazione è che da qui non riuscirete a scappare”». Una volta venne davanti alle nostre celle e tenne una specie di sermone: “La notte non dormo perché so che voi non dormite, pensate solo a fuggire. Voi non avete le donne ma io, anche se ho mia moglie con me, non scopo, perché non mi interessa più, penso solo a voi” ricorda un altro ex Br . All’occorrenza, Cardullo non difettava certo di cinismo, come emerge dal resoconto di un cronista del Corriere della Sera che lo aveva incontrato insieme ad una delegazione di giornalisti: «Hanno detto che alcuni detenuti per sfuggirle si sono conficcati aghi nel petto, cuciti le labbra, inghiottito manici di cucchiai. Cardullo soddisfatto commenta: “È un buon resoconto”». Diversi detenuti raccontarono che era solito legarli alla sua jeep con una corda, per poi trascinarli fino allo stremo in giro per l’isola, a mo’ di punizione. Proprio la denuncia effettuata da uno di loro, nel 1976, accese il dibattito pubblico sui suoi metodi poco «ortodossi». Il «viceré», per nulla intimorito, trasformò quel dibattito in uno show a mezzo stampa. Particolarmente controverse divennero le sezioni di massima sicurezza dell’isola: il «Pollaio» («la moglie di Cardullo ci aveva tenuto le galline, tanto erano degradati e angusti gli spazi »), “Fornelli” e il famigerato «Bunker»: una costruzione di cemento armato protetta da un muro di cinta e circondata da filo spinato. Le celle, «bugigattoli di tre metri per tre in cui stavano quattro detenuti, rinchiusi ventitré ore su ventiquattro; l’”ora d’aria” avveniva in una stanza poco più grande delle celle, praticamente al chiuso». Queste sezioni vennero scelte a metà degli anni Settanta dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa per custodire, in condizioni di assoluto isolamento, gli appartenenti alle organizzazioni armate, Br in testa. Un cronista de L’Unità chiese al dottor Vindice Silvetti, da 25 anni medico del penitenziario, che cosa pensasse di quelle sezioni: «Posti infernali nei quali non vorrei mai essere rinchiuso». Non usò mezzi termini neanche il sottosegretario alla Giustizia Raffaele Costa (ma senza far niente in proposito): «Ho visto un cimitero, uomini ridotti a cadaveri viventi, con un fiore in testa». Nel 1978 un quotidiano come La Stampa, non certo sospettabile di simpatie anarco-insurrezionaliste, definì «inammissibili» i metodi della gestione-Cardullo: «Pestaggi e violenze diffuse; vitto rancido, acqua salata, fangosa, praticamente imbevibile». L’impressione degli altri cronisti? «Francamente inquietante (…). È come un’allucinante scatola in formato gigante, dentro c’è appena lo spazio per muoversi. Anche l’aria è tutt’altro che buona”. Negli anni Ottanta un’inchiesta giudiziaria scoperchiò un sistema fatto di corruzione, tangenti, gioielli e microspie. Ne 1982 infatti a Viterbo, il Viceré Cardullo, viene tratto in arresto insieme a sua moglie; i magistrati sardi, che gli contestano «gravissime irregolarità nell’assegnazione degli appalti per la ricostruzione», lo rinviano a giudizio per una lunga serie di reati: corruzione, truffa aggravata ai danni dello Stato, peculato. Cardullo tentò di scagionarsi dalle accuse di corruzione asserendo che le ingenti somme trovate sul suo conto non erano il provento di tangenti, ma il compenso elargitogli dai servizi segreti in cambio dell’attivazione di un centro di spionaggio dei brigatisti reclusi. Tirò allora in ballo nomi illustri: lo stesso Dalla Chiesa e il suo vice Enrico Galvaligi. Le cimici all’Asinara c’erano, questo venne appurato, ma ciò non bastò a salvarlo. Dopo la condanna inflittagli in primo grado nel 1987, infatti, il 6 giugno 1989 il Tribunale di Sassari mise la parola fine sulla sua vicenda giudiziaria, condannandolo a 5 anni e dieci mesi di carcere per corruzione, truffa ai danni dello Stato e peculato: aveva instaurato una sorta di caporalato carcerario, sfruttando la forza lavoro – gratuita – dei detenuti per poi rivendere, a privati, i generi alimentari prodotti all’Asinara. Fonte: Sebastiano Palamara da “Spazio 70” (Cheyenne Rebelde)
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Storia Di Musica #172 - The Trip, Caronte, 1971
Una delle conseguenze secondarie del boom economico italiano fu che una intera generazioni di giovani avesse disponibilità economica anche per la musica. Questo fece sì che il mercato discografico italiano fosse uno dei più floridi e ricchi del mercato europeo, e con praterie inesplorate di stili musicali. La storia della band di oggi inizia proprio così, quando Riki Maiocchi, cantante de I Camaleonti, volò a Londra per reclutare una nuova band per la sua carriera solista nel 1966. Ad accompagnarlo, il batterista Ian Broad, e i due scelgono alcuni promettenti ragazzi: il chitarrista Ritchie Blackmore, il bassista Arvid “Wegg” Andersen e un secondo chitarrista di nome Billy Gray (che aveva suonato addirittura con Eric Clapton e proveniva dagli scozzesi Anteeeks). A ottobre il cantante e i musicisti si presentano sui palchi italiani sotto la sigla Maiocchi & The Trip, ma già a dicembre Blackmore torna in Inghilterra per diventare, appena un anno più tardi, il chitarrista dei mitici Deep Purple; la band addirittura si separa da Maiocchi. Nel 1967 ai tre rimasti si uniscono prima il tastierista Joe Vescovi e poi nel giugno 1967 il batterista Pino Sinnone che sostituisce Broad. Nasce così The Trip, nome preso in prestito dalla prorompente stagione psichedelica con chiare allusioni all’esperienze lisergica: il gruppo durerà pochi anni, ma sarà decisivo per l’introduzione in Italia dei nuovi stili d’oltremanica e sarà considerato, unanimemente, uno dei primi gruppi che aprì la strada al progressive italiano. Con la formazione a quattro guidata da Vescovi, il complesso propone una miscela di beat, rock e blues con qualche venatura sinfonica, che i critici battezzano “musica impressionistica”. Grazie a un provino effettuato al Piper Club di Roma, la band viene notata dal produttore Alberigo Crocetta che mette il quartetto sotto contratto per la RCA, facendo anche inserire un suo brano nella compilation intitolata Piper 2000, Bolero Blues. Tutto è pronto per l’esordio discografico. The Trip, con una meravigliosa copertina psichedelica, esce nel 1970: hard blues, psichedelia, il formidabile affiatamento strumentale ne fanno uno dei dischi più interessanti di quell’anno, con il gruppo che inizia ad avere una piccola ma solida schiera di appassionati. Passa un anno e tutte le aspettative del disco d’esordio esplodono e crescono nel disco di oggi, considerato uno dei dischi capolavoro della musica italiana degli anni ‘70, non solo progressive. Caronte, ispirandosi alla figura del nocchiero infernale, è un concept album sull’ipocrisia e sulla menzogna della società del tempo. Passa alla storia anche per la meravigliosa copertina: un Caronte ispirato ai disegni dell’Inferno di Doré, con una bandiera inglese irriverentemente posta a coprire le pudenda, all’interno, i dannati dell’Inferno sono dipinti come partecipanti ad un concerto, con cartelli inneggianti alla band e sensuali condannate in bikini che ammiccano in direzione di chi guarda (meraviglie degli Lp dell’epoca). Musicalmente, basta la bellezza disarmante di Caronte I, che apre il disco, a mettere sul tavolo il menù squisito dei The Trip: un massiccio hard-blues che è tutto un inseguirsi di tastiere, salti di ritmo e di stile, chitarre saturate che volano su una grintosa base pulsante, e per molti critici qui la piantina del progressive italiano inizia a germogliare; non di meno la favolosa Two Brothers, che sa della riforma Zeppelin all’Hard Rock, parte con un inseguimento e stridori di automobili, poi un intro metafisico fa partire un riff geniale di basso, per un crescendo musicale di musica e parti vocali, usate anch’esse come uno strumento. Little Janie, dedicata alla grande Janis Joplin, appena scomparsa, spiazza per la sua dolcezza di ballata alla Donovan. L’Ultima Ode A Jimi Hendrix è anch’essa un omaggio al leggendario mancino di Seattle, si sviluppa da una cupa fase iniziale a cui segue il meraviglioso lavoro di Vescovi all’organo (il protagonista della musica Trip) e la chitarra di Gray quasi a suonare un requiem maestoso, degno di cotanto maestro. Il disco si chiude con Caronte II che riprende il tema iniziale per finire in una sorta di spettacolo pirotecnico musicale finale, davvero indimenticabile. Il disco, fenomenale, rese chiaro agli ascoltatori, ai critici e anche agli altri gruppi che erano arrivate nel nostro paese delle idee, delle sonorità, dei riferimenti nuovi da cui si poteva partire per fondare la via italiana al progressive: già l’anno dopo, nel 1972, la loro lezione verrà portata da band come la PFM o il Banco a livelli altissimi. In quell’anno, i The Trip, che persero il chitarrista Gray e Pino Sinnone, che lascia del tutto la musica, pubblicano un lavoro altrettanto interessante, Atlantide (altra copertina clamorosa), che è quasi radicale ma più discontinuo rispetto a Caronte. La band verrà licenziata dalla RCA, nonostante il successo di Atlantide: pubblicheranno ancora un disco, Trip: Time For Change nel 1973, che però sancisce la fine della band: Vescovi andrà prima agli Acqua Fragile, poi nei Dik Dik, Furio Chirico, che aveva sostituito Sinnone, suonerà con gli Arti E Mestieri, Andersen torna in Inghilterra. The Trip però risorgerà quarant’anni dopo quando Joe Vescovi e Chirico richiamano Andersen iniziano a suonare ai Festival, addirittura in Giappone, dove registrano un Live in Tokyo 2011. Vescovi muore nel 2014, Pino Sinnone forma una band nel maggio 2015 con il nome di The New Trip, subito cambiato in The Trip, secondo lui per rispettare la volontà di Vescovi che gli aveva chiesto sul letto di morte di formare un gruppo che continui a proporre le idee e la musica di questa storica band. Modo migliore per me invece è quello di riscoprire i loro dischi classici, recentemente ristampati e facilmente rintracciabili, per scoprire una delle band più interessanti della storia del rock italiano.
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PULPITO DEL DUOMO DI SIENA
Nome🌱: Pulpito del Duomo di Siena
Autore🌱: Nicola Pisano, con la collaborazione del figlio Giovanni Pisano, Arnolfo di Cambio, di Goro e dei fratelli Lapo e Donato di Ricevuto.
Data🌱: 1265-1268
Materiale e tecnica🌱: marmo di carrara
Contesto originale🌱: Inzialmente, il pulpito era sotto l'esagono della cupola e rimaneva sulla destra guardando il coro della navata centrale. Fu spostato nel 1532 nella posizione dove si trova ora, e nel 1543 fu dotato di una scala e di un ponte rinascimentale, scolpito da Bernardino di Giacomo. Probabilmente, i committenti avevano deciso per un'opera colma di pathos e affollata, ed ecco perché quest'opera presenta un'ispirazione classica mento forte rispetto al Pulpito di Pisa.
Stile e descrizione🌱: La struttura è stata ripresa dal pulpito del Battistero di Pisa, opera dello stesso autore. La sua base è ottagonale e le scene dei pannelli principali sono la visitazione e la natività, l'adorazione dei magi, la presentazione al Tempio e Fuga in Egitto, la Strage degli Innocenti, Crocefissione, il Giudizio Universale- gli Eletti, il Giudizio Universale- i Dannati. Ci sono poi, sugli spigoli, altre figure: la Madonna Annunciata, San Paolo tra i discepoli Tito e Timoteo, la Madonna col Bambino, Due Angeli, Cristo Misto, Simboli dei Quattro Evangelisti, Cristo Giudice, Angelo. Il pulpito è basata inoltre su nove colonne, tutte corinzie: quella centrale posa su uno zoccolo ottagonale decorato con figure delle arti liberali e della filosofia. Abbiamo poi otto colonne laterali che fungono da appoggio per archi a tutto sesto trilobato: sopra i capitelli abbiamo figure raffiguranti Virtù, ed è molto importante notare che non sono solo Virtù teologali e cardinali, ma anche di altra natura. Rispetto al pulpito di Pisa, possiamo notare decise e importanti differenze stilistiche ed architettoniche. Ad esempio, notiamo che la base è ottagonale e che la struttura a pannelli isolati viene abolita, per intregrare invece uno schema più continuativo, che permette la costruzione di un unicum. Possiamo dire che la differenza più significativa in realtà si trovi però nella struttura dei rilievi dei pannelli, poiché troviamo scene molto affollate e disposte su vari piani: la patina classicheggiante che invece era presente nel Pulpito di Pisa è totalmente scomparsa. I movimenti sono due più naturalistici e le emozioni espresse più drammaticamente, come vediamo nelle figure del Cristo Crocifisso e della Madonna della Natività.
Collocazione attuale🌱: Duomo di Siena, Toscana.
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Solo ieri era agosto!
Lentamente, inesorabilmente ci accingiamo verso la fine dell'estate. I pensieri, sono volati via con l'ultima brezza marina e al loro posto sono arrivati i soliti pensieri quotidiani...E poi, il lato più piacevole (forse): rivedersi con tutti coloro che hai salutato al principio dell'estate, persone care che avresti voluto portare via con te, averle vicino per dividere i momenti magici di questa splendida stagione...nonostante tutto si deve ritornare alla vita di sempre. Ci saranno nuove cose da imparare e nuove cose da cambiare. Nuove persone da conoscere, ci saranno conferme e occasioni...ricredersi di idee o impressioni sbagliate. Ci saranno grandi risate da fare e anche qualche lacrima. Ci saranno speranze e disillusioni ...
Ma, soprattutto, ci sarà la mia voglia di esserci....Le vacanze estive sono ormai un ricordo...Ma i ricordi sono una parte preziosa della nostra esistenza e per questo, vanno custoditi con amore. La nostalgia del mare, dei ghiaccioli sulla spiaggia, di aperitivi furtivi al tramonto...cenette con gli amici...e la luna che si pavoneggia sul mare nel cuore della notte, il dolce far niente ...
Ricordi da chiudere a chiave nel cuore e portare con te per sempre...Ricordo le fantastiche estati passate da bambina...quattro mesi all’anno, tutti gli anni, in una casa sul mare insieme ai miei nonni e ad altre famiglie. Per diciotto anni la mia casa estiva è stata una piccola comune un po’ hippy...ahahahah...dove tutti conoscevano tutti, non esistevano regole, si mangiava tutti insieme, si andava a pescare di notte e si facevano i falò sulla spiaggia. Una meraviglia. Ovviamente, io e gli altri bambini eravamo dei selvaggi: per tutta l’estate andavamo in giro mezzi nudi e scalzi, non ci pettinavamo i capelli, non avevamo regole né orari. Per quattro mesi, da maggio a fine agosto. Fino a quando, a settembre, non si tornava a casa. E ci si doveva rimettere le scarpe e i vestiti. E la pelle bruciata arsa dal sole si screpolava era diventava nera e secca...Ecco settembre è il mese della pelle secca. E dei chili di crema idratante...Se fosse un odore, settembre profumerebbe di crema Nivea...lattine di crema...
Non esiste settembre dunque, se non qui, adesso, mentre davanti a me una famiglia francese fotografa la linea dell’orizzonte, già con gli zaini sulle spalle, pronta a salire in auto dopo quest’ultimissimo scatto, qua su questi scogli i gabbiani che cercano briciole mentre la radio di un piccolo bar trasmette l’ave maria del tormentone più palloso dell estate. Al mio fianco, un gruppo di Signore piuttosto abbronzate, consumano una sigaretta dopo l’altra, si confronta animatamente in merito al modo più economico per acquistare i libri di scuola. Se alzo gli occhi e giro su me stessa posso vedere la spiaggia vuota, che con la luce del sole ti offre dei colori che solo adesso riesci a percepire...in lontananza... tra i filari sulla collina… l’immagine sfocata di persone che si muovono tra le vigne cariche d’uva.
Le luci del quasi tramonto lo scirocco che magicamente si inerpica tra i grappoli formosi e pesanti, con chicchi neri e rotondi, gonfi di succo. Con il sole che si muove tra le foglie e le accende, e di taglio raggiunge l'uva...
Là sopra le vigne, al fresco di una giornata che sta per dare il benvenuto alla notte, l’aria sfila tiepida e leggera portandosi dietro la musica del bar in un angolo in via definitiva. Settembre è dunque tutto questo, ne raccolgo visivamente ed emotivamente le tracce.... C’è il sole, ma l’afa ha finalmente tolto il disturbo, cedendo il posto ai venticelli di fine estate.
Settembre è arrivato, come sempre, senza chiedere permesso. Si è fatto spazio tra le speranze, i soliti progetti rimandati e, forse, qualche paura. Da bambina lo temevo, quasi come fosse un giudice al quale avrei dovuto spiegare le ragioni delle mie mancate azioni. Rappresentava quelle mattine tiepide che mi buttavano giù dal letto contro la mia volontà, per poi spedirmi tra i muri grigi e impastocchiati di una classe qualunque, a fingere sorrisi...È sempre stato scomodo da vivere, eppure, da un po’ di anni a questa parte, a me piace vederlo come l’inizio di un promettente autunno, piuttosto che come la fine di un’estate fugace che non ha concesso abbastanza tempo per rincorrere tutte le ambizioni. L’inizio, di solito, libera più adrenalina, ma quasi mai si riesce a fare a meno di soffermarsi sulla malinconia causata dalla fine... non è un mese per tutti, non lo sarà mai...Settembre è sempre stato incompreso dai più. Il suo mare, il suo clima, i suoi tramonti non sono poi tanto differenti da quelli estivi; eppure sono così temuti, quasi indesiderati...malinconici...Settembre è per i dannati che, però, sono in grado di spogliarsi abilmente di tutto ciò che è stato, per lasciar spazio ad abiti nuovi e incamminarsi verso orizzonti sconosciuti...
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Pretty boy||Harringrove
Steve era steso sul suo letto, fissava il soffitto, di colpo lo trovava estremamente interessante.
Quei dannati occhi verdi su un viso contornato da ricci biondi continuavano ad invadergli la mente, ripensava agli allenamenti del giorno prima, Hargrove aveva nuovamente dimostrato di essere migliore di lui, lo odiava e forse era per questo che continuava a pensarci.
L'immagine di quel dannato ragazzo scomparve dalla sua mente solo grazie al rumore di un clacson, quando Steve si affacciò dalla finestra per capire chi fosse a far tutto quel casino alle quattro di pomeriggio rimase sorpreso nel vedere apparire davanti ai propri occhi la camaro blu guidata dal protagonista dei suoi pensieri.
Billy scese dalla macchina e lo guardò con fare irritato: - Avanti, cosa aspetti Harrington, vieni ad aprirmi!-
Steve ancora confuso eseguì gli ordini ritrovandosi dopo poco col la schiena contro il muro del salotto e due mani a stringergli il colletto della polo per tenerlo in alto.
-Dov'è mia sorella, pretty boy?-
-Perché dovrei saperlo?-
-Oh andiamo come se non sapessi che King Steve se la fa con dei marmocchi, dimmi dov'è?-
-Harngrove non ne ho la più pallida idea.-
Billy, di scatto, lasciò andare la presa della maglietta di Steve e pescò un biglietto dalla tasca dei jeans senza però lasciare spazio all'altro per allontanarsi, lo lesse e poi lo rimise dov'era.
-Falso allarme, è con quel coso... Lucas.-
-Presumo allora che tu possa staccarti da me.- disse Steve essendo ancora schiacciato contro il muro.
Billy non si mosse, avvicinò le labbra all'orecchio del moro e sussurrò: - E pure averei giurato che ti piacesse, Harrington.-
Non ricevendo alcuna risposta le labbra viaggiarono verso il basso fino a sfiorare il collo scoperto di Steve che rabbrividì.
-Staccati Harngrove.- disse cercando di spingere lontano l'altro ma ottenendo l'effetto opposto Billy, infatti, gli si avvicinò ancora di più e cominciò a baciargli la pelle chiara. Steve non riuscì a trattenersi e infilò una mano tra i capelli cenere del riccio stringendolo a se ancora di più.
-Sei sicuro di quello che chiedi?- sussurrò tra un bacio e l'altro il biondo.
No, Steve non era sicuro ma doveva fingere di esserlo, respirò a fondo e raccolse tutta la forza che aveva per allontanare Billy. Lo guardò, le labbra rosse leggermente gonfie, i capelli scompigliati a causa sua, come poteva anche solo pensare di dirgli di no. Sospirò, doveva farlo.
-Sicurissimo.-
Billy alzò le sopracciglia, prese una sigaretta e l'accendino dalla tasca della giacca che aveva ancora indosso e si avviò verso la porta.
-Come comanda king Steve.-
E, sorridendo, si portò la sigaretta alle labbra e uscì dalla casa, salì sull'auto e sfrecciò via.
Steve tornò a stendersi sul letto con pensieri molto meno casti rispetto ai precedenti ma che avevano come protagonista sempre la stessa persona. Era solo, i suoi genitori erano partiti per chissà dove e lo avevano lasciato lì, Robin era passata prima per fargli un po' di compagni ma poi era andata via e Steve non aveva più idea di cosa fare.
***
Stavolta a distrarlo non fu il rumore del clacson ma direttamente il rombo del motore, sembrava quasi che lo stesse aspettando, il moro scese ed aprì nuovamente all'altro.
-Di nuovo qui Hargrove?-
Billy non rispose e Steve venne nuovamente sbattuto contro il muro del salotto ma sta volta non poteva parlare perché le sue labbra erano premute su quelle del riccio davanti a lui.
-Pensavi di cavartela così facilmente Harrington?-
Steve sorrise e ricominciò a baciarlo, no, non riprese a baciarlo, lo stava proprio divorando, un bacio violento, proprio come il loro rapporto, labbra sanguinanti per via dei morsi, lingue furiose, canini taglienti. Si staccarono per prendere fiato, respiravano affannosamente, occhi negli occhi, fronte contro fronte, si guardarono.
Billy si spinse contro Steve in cerca di contatto e il moro gemette nell'incavo del colo dell'altro mentre le loro erezioni entravano in contatto. Allacciò le gambe alla schiena del riccio e si lasciò portare fino al divano. In fretta, le magliette di entrambi furono a terra, Steve passò le mani sul corpo tonico dell'altro mentre Billy si accasciava su di lui scendendo a torturargli i capezzoli, lo baciò ovunque, lo strinse a se e insieme gemettero di nuovo.
-Ti prego Billy.- sussurrò Steve.
Billy... lo aveva chiamato con il suo vero nome e sentirlo scivolare implorante via dalle labbra del ragazzo non fa che mandarlo in estasi.
Preso da uno scatto di passione abbassò i pantaloni al moro per poi spogliarsi a sua volta, nudi, pelle contro pelle.
-Dio..- sospira ancora Steve. -Fa qualcosa!-
Billy sorrise e mosse il bacino scontrandosi con l'erezione dell'altro: -Cazzo.-
Il biondo poi si fermo guardando Steve come a volere un cenno di assenso che ottenne senza esitazione.
-Sei sicuro pretty boy?- chiese con una dolcezza sconvolgente, il moro annuì semplicemente.
Billy portò due dita alla bocca di Steve che, capendo le intenzioni, le accolse, le leccò, le bagnò, senza rendersi conto di che spettacolo stava donando all'altro.
-Merda Steve, sei una visione paradisiaca.-
Il moro sorrise imbarazzato ma poco dopo fu distratto da un'intrusione fastidiosa nelle parti inferiori, Billy lo stava preparando. Infilò prima un dito, poi un secondo e poi un terzo, spinse sempre più infondo fino a quando non vide Steve spingere verso la sua mano per avere di più. A quel punto non resistette e piano lo fece suo. Dopo un primo momento di immobilità da parte di entrambi il moro si mosse facendo capire all'altro che poteva iniziarsi a muovere.
Billy si mosse sempre più rapido e, dopo alcune spinte particolarmente forti, sentì il ragazzo sotto di lui contorcersi urlando il suo nome, bastò quello a far si che anche il biondo venisse.
Il moro lo guardò negli occhi e sorridendo lo baciò.
-Sarà il nostro segreto Hargrove, non preoccuparti.-
Hargrove si accasciò stanco su Steve che lo accolse tra le sue braccia.
-Pretty boy, credo di starmi innamorando di te.-
***
-blue🌙
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Capitolo 1 - Assalto alla diligenza
Arthur Morgan chiuse distrattamente il suo diario e lo ripose nella sua bisaccia. Erano passati diversi giorni dall'ultima volta che aveva fatto visita all'accampamento della sua banda; sapeva di dover risolvere alcune questioni importanti, ma aveva preferito allontanarsi per un po’, insieme ai suoi pensieri. Spronò il suo paint horse di nome Boadicea e si diresse verso l'accampamento. La strada da percorrere era in una rigogliosa radura pianeggiante, con qualche fitta boscaglia qua e là. Molti animali stavano fuggendo alla vista del fuorilegge, ma Arthur li ignorò. Fortunatamente aveva già cacciato diverse prede da portare a Pearson, sicuramente non le avrebbe cucinate al meglio, ma sarebbe già stato qualcosa e avrebbe contribuito. Dutch avrebbe sicuramente gradito. "Dutch.. chi sa cos'avrà in mente questa volta." Arthur si sfiorò i capelli biondo cenere portati a spazzola e tirò su col naso. Dutch era sicuramente un personaggio particolare; carismatico, ma anche imprevedibile. In tutti quegli anni - quei venti lunghissimi anni - passati insieme a lui, Arthur non era mai riuscito a comprendere la sua vera natura. Era il capo della banda di Var der Linde, da cui prendeva il suo cognome, ma era stato anche un secondo padre per Arthur. Lo aveva accolto - insieme al più anziano membro della banda, Hosea - quando era ancora un ragazzino e lo aveva allevato come un figlio. Per questo, Morgan non aveva problemi a restargli fedele, nonostante il recente disastro alla banca di Blackwater fosse stata un'idea sua, e che ciò avesse comportato la morte di due membri della banda - oltre ad una sgradita taglia sulla loro testa -. Finalmente intravide le tende dell'accampamento e, con esse, anche Lenny. Il ragazzo nero stava facendo il turno di guardia e quando vide Morgan avvicinarsi, alzò la mano per salutarlo. «Ooh.. frena, Boadicea» mormorò Arthur tirando le redini, avvicinandosi al ragazzo: «Hey Lenny! Tutto bene?» chiese. Lenny annuì e iniziò a raccontare qualcosa, ma Arthur non lo stava più ascoltando. Aveva altro a cui pensare. Lo salutò con un mezzo sorriso, continuando comunque ad avanzare, e finalmente raggiunse le staccionate per i cavalli. Lenny non ci fece caso, era ormai diventata un’abitudine, essere ignorato da Arthur. Dopo essere sceso rapidamente dalla sella, accarezzò il manto overo di Boadicea e le diede uno zuccherino. «Sei stata brava, oggi» la giumenta sembrò gradire il complimento e sbuffò entusiasta. La legò allo steccato e prese le carcasse degli animali che aveva cacciato - un cervo e qualche fagiano -, poi si diresse verso Dutch. Il leader della banda era di spalle e stava conversando animatamente con Hosea. Era un uomo anziano e saggio, che Arthur considerava anch’egli come un padre. Hosea lo vide e interruppe Dutch, lasciandolo confuso e offeso. «Arthur, sei tornato!» il vecchio era sempre stato gentile con Morgan, con l'età che avanzava era sicuramente meno avvezzo alle scorribande, ma sapeva cavarsela comunque con il fucile. Arthur aveva imparato da lui; Hosea lo aveva considerato da sempre il loro miglior pistolero e Arthur aveva iniziato addirittura a crederci, con il passare degli anni. Arthur infine annuì ad Hosea «Sì, e ho portato con me un po' di provviste per il campo». Dutch sorrise e annuì, ma il suo sguardo rimase serio. Aveva sicuramente qualcosa in mente e Arthur lo stava spazientendo. Il pistolero caricò sulle sue larghe spalle il cervo e lo portò a Pearson, che lo accolse con un grido quasi animalesco. Era il suo modo per esprimere gioia, quindi Arthur lo lasciò fare. Aveva ancora diverse persone da salutare, ma notò lo sguardo furibondo di Dutch. Per il leader, Arthur era sempre sembrato un uomo fedele, ma iniziava anche ad essere stufo di rincorrerlo come un genitore fa con un ragazzino. «Muoviti Arthur, dobbiamo parlare!» alzò la voce già naturalmente rauca e incrociò le braccia. «Dobbiamo sempre parlare, Dutch» lo canzonò il biondo. «È roba seria. Charles è riuscito a capire l'itinerario di una diligenza» Dutch sembrava davvero serio, così Arthur inclinò la testa da un lato e lo ascoltò. «Sono tutt'orecchi» lanciò la sigaretta a terra e la spense con la suola dei suoi stivali neri. «Una diligenza si avvicinerà a Strawberry per poi dirigersi a Blackwater. Sarà sola, senza protezione e con un bottino consistente. Potrebbe fruttarci parecchi soldi, Arthur» Dutch, come sempre, si emozionò al pensiero di recuperare l'ingente somma di denaro che avevano perso recentemente. Arthur sbuffò e digrignò i denti. «Non lo so, Dutch. Potrebbe essere una trappola. L'ennesima.» Il leader della banda quasi ebbe un sussulto e spalancò gli occhi. «Dov'è finita la tua fede?», disse con un leggero tremore nella voce. Arthur sputò a terra «Nella banca di Blackwater. Insieme a tutti i nostri dannati soldi». Poco dopo intervenne Charles: un meticcio nativo e afroamericano con dei lunghi capelli neri e un fisico possente. Charles era capace di calmare le acque con poche parole. Parole che servivano ad Arthur per essere convinto. «La tua quota sarà maggiore della nostra. Vero, Dutch?» Charles lo osservò rapidamente con aria seria, aspettando una sua reazione. La reazione arrivò velocemente: «Ma certo. Quello che vuoi. Allora, sei dei nostri?». Arthur annuì con convinzione e si preparò ad assaltare la diligenza. Guardò per un attimo Charles e i due si a cambiarono uno sguardo d'intesa. Dutch decise di portare con sé pochi uomini, vista la facilità della missione: scelse Javier, Charles e Arthur. Loro sarebbero andati con lui e per Dutch potevano bastare. Arthur salì su Boadicea e, dopo aver ricaricato le sue armi con sufficienti munizioni, galoppò insieme ai suoi compagni fino al bivio poco prima di Strawberry. I quattro si appostarono su un'altura e con il binocolo osservarono il territorio circostante. Aspettarono per diverso tempo. Arthur poté percepire l'impazienza di Dutch e, a maggior ragione, anche quella di Javier. Charles tra tutti era quello più tranquillo, nonostante la sua espressione estremamente seria e rigida. Arthur non era ancora del tutto convinto della facilità della missione, ma la sua curiosità era troppa. Finalmente videro il carro avvicinarsi al bivio e Dutch fece segno ai suoi compagni di avvicinarsi. Sbarrarono la strada alla diligenza e questa si fermò cautamente. Dutch fu il primo a parlare. «Signori, mi scuso per il disturbo. Ci vorrà poco, mi serve solo che mi diate tutto quello che avete. Nessuno si farà male se farete come vi dico!» Dutch si passò una mano sui capelli mori e leggermente brizzolati. Alzò la sua revolver in aria per sparare, nel caso in cui le cose si fossero messe male. Arthur si avvicinò insieme agli altri e si posizionò di fianco a Dutch. Erano tutti pronti a sparare. L'indice di Arthur sfiorava già il grilletto del suo fucile a canne mozze, ma il cocchiere non parlò. Non fiatò assolutamente, ma sparò un colpo in aria. Arthur aggrottò le sopracciglia, non capendo, poi vide quello che stava succedendo: dall'altura si avvicinarono diversi vigilanti, altri erano rimasti sulla collina e stavano puntando le loro armi contro i quattro membri della banda. «Van Der Linde!» una voce stridula si avvicinò a loro «Vi do un avvertimento:c onsegnatevi a noi e non vi sarà fatto alcun male.. non ora, almeno». L'uomo emise un verso sordo e il suo sorriso era quanto di più viscido potesse esistere. Arthur guardò Dutch, pregando che avesse un piano, ma lui non si mosse. "Cazzo, andiamo Dutch! Fa' qualcosa!" pensò Arthur, spalancando la bocca nel tentativo di dire qualsiasi cosa. «Ragazzi.. » la voce di Dutch sembrava calma. Puntò lentamente anche l'altro revolver che aveva nella fondina contro i vigilanti e sparò dei colpi ben mirati alla fronte, prendendoli in pieno. «Ora! Via, via!» Il suo grido fece sobbalzare Arthur, che iniziò a sparare, cercando di non sprecare colpi preziosi. Arthur era un ottimo pistolero e fu facile per lui uccidere abbastanza uomini da avere un attimo di respiro. I quattro si rifugiarono dietro un masso e aspettarono che gli altri poliziotti si fermassero per ricaricare i fucili. L'adrenalina era alle stelle e gli spari rimbombarono nelle viscere di Arthur. Charles sparò anche ai nemici che altrimenti li avrebbero presi dall'altura, proteggendo così Dutch, Javier e Arthur. I vigilanti si schiantarono a terra in poco tempo, ma sembravano quasi non finire mai. «Non finiscono più, Dutch. Dobbiamo andarcene!» gridò Arthur nell'orecchio del suo leader, ma questi non ne volle sapere. «No! Possiamo farcela. Stai con me!» urlò in risposta, sputando delle gocce di saliva sulla guancia di Morgan. «Cazzo! Merda! Finisce sempre così. Ci ammazzeranno, Dutch. Andiamocene!» Arthur provò ad insistere, sparando quanto più possibile ai nemici, ma Dutch sembrò irremovibile. Il suo sguardo era carico di odio e disprezzo, il suo ghigno era qualcosa che raramente aveva visto nel suo volto. Non volle pensare a cosa gli stesse passando per la mente. «Arthur! Dobbiamo fuggire, sto finendo le munizioni!» Charles cercò di parlare sopra alla quantità di colpi che riempivano l’aria carica di polvere da sparo. Arthur, dal canto suo, non sapeva minimamente cosa fare. Dutch era come in trance; la sua decisione l’aveva presa, ma per quanto ancora potevano resistere? Morgan era riuscito ad uccidere un discreto numero di uomini, ma sarebbe mai bastato? Sperò che quella non fosse davvero la sua fine. In cuor suo, sperò che qualcuno - o qualcosa - li salvasse. @makya-nuvakwahu
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INTERPRETAZIONE DEI SOGNI
Mi ero scordato di saper fare questa cosa o meglio, mi ero scordato che per una decina d’anni -- tra i miei 6 e i miei 16 anni -- a mio padre era venuto il trip della psicoanalisi e finiva coll’interrogare ogni essere vivente che si fosse fatto almeno quattro ore di sonno su cosa avesse sognato... pardon, sul proprio costrutto di elaborazione onirica.
Credo che la cosa gli servisse per fare una tara di psiche soggettiva junghiana alle varie manifestazioni medianiche di cui raccoglieva testimonianza (mio padre e mia madre erano una specie di Mulder&Scully) ma per un regazzetto irrefrenabile quale mi ritrovavo a essere era un buon metodo per bullarmi coi miei coetanei.
Io - cos’hai sognato Filippo? Filippo - che la macchina di mia madre era senza ruote e mio padre piangeva. Io (scuotendo la testa) - Ah, ecco... Filippo - ecco cosa?! Io - niente... Filippo - NO, HAI DETTO ‘ECCO’ COME SE SIGNIFICASSE QUALCOSA DI BRUTTO! Io - Mettiamola così: non è brutto ricevere doppio regalo a ogni Natale e a ogni compleanno.
In ogni caso era divertentissimo autopsicanalizzarsi a ogni risveglio e anche se oggettivamente il farlo da solo ti precludeva la possibilità di associare correttamente gli archetipi schermati, questo allenamento adolescenziale mi ha permesso in età adulta di frammentare e analizzare i singoli pezzi di ogni mio melange emotivo che mi tormentava, con ottimi risultati sullo stato dell’umore (se qualcuno è interessato, posso pure provare a fargli lo schema di funzionamento, però assomiglia a una roba tipo Scientology quindi occhio)
Tutto questo preambolo per dirvi che stanotte ho fatto un sogno bizzarro che finalmente sono riuscito a ricordarmi grazie a un’abbaiata isterica e immotivata di Otto che mi ha destato subito dopo la seconda fase REM.
Stavo camminando di sera in una versione estesa e labirintica del molo frangiflutti del mercato ittico di Viareggio, quando mi rendo conto che una persona mi sta seguendo. Era una ragazza, per nulla minacciosa, ma mi affretto lo stesso per seminarla, quando, girando un angolo, ne trovo un’altra ad aspettarmi; mi volto e cambio ancora direzione ma queste donne continuano a comparire e a prendere a seguirmi, cercando di intercettarmi, finche non mi ritrovo in un corridoio che termina in un bivio a T. Faccio per svoltare a sinistra, vedo che ce n’è un’altra che mi aspetta e prendo con urgenza il corridoio a destra. Che dopo qualche metro scopro terminare con una parete di cemento. Mi volto e sono tutte là, inespressive come quei maledetti bimbetti del Villaggio dei Dannati. Le guardo, sposto la falda dell’impermeabile che indosso, infilo una mano dietro la schiena e faccio per estrarre il mio Kukri (a proposito... grazie @lamagabaol) quando mi accorgo che sto tenendo l’impugnatura del coltello senza che vi sia alcuna lama attaccata.
A quel punto Otto abbaia e io mi sveglio con la certezza che al Golders Green Crematorium di Londra dall’urna in cui sono conservate le ceneri di Freud stia provenendo un
perché ok gli imput neuronali provenienti in maniera casuale dal tronco encefalico verso la corteccia cerebrale, ok la peperonata indigesta e la prima puntata della seconda stagione di Dark MAPPERÒ VAFFANCULO UNTERBEWUSSTSEIN
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Il 6 dicembre 1961, a soli 36 anni, moriva Frantz Fanon, per una leucemia allora incurabile. Poco prima era stato pubblicato il suo libro fondamentale, esplosivo, letterariamente e contenutisticamente un capolavoro. I dannati della terra è il prodotto della grande stagione della liberazione e dell’emancipazione, del moto storico della decolonizzazione, e al contempo rappresentò un punto di svolta, carico di una enorme spinta propulsiva.
Il colonialismo e la decolonizzazione fenomeni giganteschi della storia globale. Oggi, nel pervicace eurocentrismo e occidentalocentrismo, nel solco della visione onnipresente della “superiorità bianca”, rimossi, cancellati. Parte di quel generale processo di rincretinimento globale a opera della necessaria “destoricizzazione”, della cancellazione della dimensione storica, della coscienza storica. Nella cultura e nella subcultura diffuse. A vantaggio dei dominanti.
Un libro, un autore, una persona (psichiatra-filosofo-rivoluzionario-negro-martinicano-algerino) che ci costrinsero e ci costringono a prendere posizione, a non essere indifferenti. Ci costrinsero e ci costringono a cambiare prospettiva. Non più “noi” e poi “loro”. Non più la storia e il pianeta visti dall’Europa, dagli Usa, dall’Occidente, dai dominanti globali. Bensì, la storia e il pianeta visti, come diceva e dice la Teologia della Liberazione, dal “rovescio della storia”, dagli oppressi, dai colonizzati, dai subalterni, dalle vittime del colonialismo, dell’imperialismo, del sistema capitalistico su scala mondiale.
Si trattava e si tratta di un salutare, radicale riorientamento, di una necessaria “rivoluzione copernicana”. Da “noi e poi loro” a “loro e poi noi”. Si trattava allora, e si tratta oggi, di accettare di buon grado che il proscenio della storia vedesse protagonisti altri continenti, altri popoli, altre culture, altri esseri umani. Frantz Fanon e I dannati della terra hanno espresso al massimo grado questo riorientamento. Hanno dato voce a questi protagonisti.
Hanno anche espresso impietosamente tutte le contraddizioni che quel moto storico conteneva. Soprattutto nell’altra metà del compito storico della decolonizzazione. Vale a dire la costruzione della nuova storia, della costruzione del nuovo stato-nazione, della coscienza nazionale, del nuovo assetto, democratico, popolare, partecipativo. Che tendenzialmente operasse una cancellazione delle sperequazioni e delle ingiustizie sociali, che prefigurasse un nuovo assetto sociale e politico. Che evitasse quello che, con la sua solita efficacia, Marx chiamava “il ripresentarsi della vecchia merda”, in una società sedicente socialista, ma in realtà riproponente vecchie e nuove classi, vecchi e nuovi privilegi, vecchie e nuove gerarchie.
Fanon partiva dalla rivoluzione algerina, dall’esperienza dei primi stati postcoloniali, soprattutto in Africa, e già intravedeva la degenerazione, “il ripresentarsi della vecchia merda”. A causa di un processo endogeno, all’interno dei nuovi stato-nazione, e di un processo esogeno, a opera del neocolonialismo e dell’imperialismo, sempre attivi, letali, micidiali. Ricordiamo, tra le innumerevoli porcate, endogene ed esogene, soprattutto esogene (Belgio, Union Miniere, Cia ecc.), Fanon ancora in vita, l’assassinio di Patrice Lumumba, legittimo capo di stato del Congo postcoloniale.
II.
Nel libro la conclusione di Fanon è netta. È un accorato appello ai compagni, ai fratelli, ai dannati, affinché si ricerchino vie nuove, un pensiero nuovo, e si crei “un uomo nuovo”. Liberazione, indipendenza, ma anche una “rivoluzione del Soggetto”. Si parlò di appello apocalittico, palingenetico, estremo. Di lirismo, di profetismo, di romanticismo rivoluzionario. Ma quale forza proveniva da quelle parole, da quella prosa. Lasciare l’Europa al suo destino, “nella folle corsa” di un preteso progresso, di un consumismo sfrenato, di un autocompiacimento, di un narcisismo letali, rovinosi. E lasciare quell’Europa concentrata e distillata, il vero e proprio mostro rappresentato dagli Stati Uniti d’America.
Molti libri hanno un valore in sé. E I dannati della terra ne ha alla grande. Ma poi molti diventano libri fuori di sé, libri “per noi”, assumono significati a misura della ricezione che hanno, in contesti storici, spaziali, antropologici diversi. Così per le generazioni successive, quest’opera, nei centri sviluppati e nelle periferie “sottosviluppate”, ha rappresentato qualcosa addirittura di sovrastorico. Soprattutto per le generazioni, come la mia, come la nostra, di giovani impegnati, tra la fine degli anni sessanta e gli anni settanta, nei movimenti dei cristiani di base, nei movimenti antisistemici, studenteschi e operai, nei movimenti di emancipazione in generale.
Uno dei libri del ‘68. Il manifesto del terzomondismo, dell’internazionalismo, della nuova cultura che quella grande stagione ha suscitato. Assieme naturalmente ad altri libri e a personaggi storici che qui è superfluo citare.
Fanon ha dato altri contributi enormi nella sua breve vita. L’alienazione, anche nella dimensione antropologica e filosofica della nozione, il disagio psichico, fino alla vera e propria malattia mentale, del colonizzato, la questione fondamentale della violenza, il ruolo decisivo della cultura, non come semplice sovrastruttura ecc.
Un “essere eccezionale” disse di lui Simone de Beauvoir, la quale con Jean Paul Sartre, autore della famosa prefazione al libro, lo incontrò in varie occasioni.
III.
Il contesto globale del pianeta è oggi completamente cambiato. E tuttavia i “dannati” esistono sempre, il neocolonialismo-imperialismo imperversa in Africa, Asia e America Latina. Il neocolonialismo-imperialismo imperversa nella stessa Europa, in Usa, in Occidente.
I migranti ci riportano in casa quel “loro” di cui si diceva sopra. Razzismo, xenofobia, fascismo, culture e subculture della sopraffazione, chiusure identitarie, le belle (per i dominanti) guerre tra poveri ecc. rappresentano il corredo nefasto di questo contesto.
IV.
A mo’ di conclusione. Apparentemente una digressione. Fanon si adoperò, quale rappresentante del movimento di liberazione nazionale algerino, per un’alleanza continentale africana. Una sorta di “panafricanismo”, senza chiusura identitaria tuttavia. Cancellare il “bianco”, ma cancellare anche al contempo il “negro”. Per un nuovo universalismo, per un vero internazionalismo delle nazioni, dei popoli, delle persone (la dimensione individuale mai cancellabile).
Noi italiani abbiamo una macchia, un orrore ancora in atto, a proposito di Africa e di colonialismo. Il maresciallo Rodolfo Graziani, militare-fascista-razzista, criminale di guerra riconosciuto da una commissione delle Nazioni Unite, viceré dell’Etiopia conquistata dall’Italia fascista e nella quale compì massacri e crimini di ogni genere (gas, lanciafiamme, impiccagioni ecc.) non fu mai condannato per questi crimini. L’Italia negò la sua estradizione all’Etiopia, finita la seconda guerra mondiale. Fu solo processato per “collaborazionismo” con i nazisti e scontò solo quattro mesi di carcere. Repubblichino e fucilatore di partigiani. Morì nel 1955, servito e riverito nella sua confortevole casa.
A lui è stato dedicato un sacrario ad Affile, suo luogo di nascita. Il sindaco e due assessori condannati per apologia del fascismo. Ma il sacrario è ancora lì. Monumento all’infamia e all’orrore e monumento della orribile espressione “italiani brava gente”.
Giorgio Riolo da La Bottega del Barbieri
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In Loving Memory to the one & only
Umberto Lenzi
(Massa Marittima, 6 agosto 1931 – Roma, 19 ottobre 2017)
(In 🇮🇹 & 🇬🇧)
🇬🇧 ... his first film in 1958 which went unreleased, while his official debut happened in 1961 with Queen of the Seas.
Lenzi's films of the 1960s followed popular trends of the era, which led to him directing several spy and erotic thriller films.
He followed in suit in the 1970s making giallo films, crime films and making the first Italian cannibal film with Man from Deep River
He continued making films up until the 1990s and later worked as a novelist writing a series of murder mysteries.
Lenzi had box office success in Italy with his erotic thrillers starring Carroll Baker such as Orgasmo, So Sweet... So Perverse and A Quiet Place to Kill with a young Ornella Muti
During the early 1970s, Lenzi also directed the first of the Italian cannibal films, with Man from the Deep River, a genre that he would explore again in the 1980s with Eaten Alive and Cannibal ferox
During the late 1970s, Lenzi devoted himself almost exclusively to crime dramas, with the exception of two war films: The Greatest Battle and From Hell to Victory (1979)
🇮🇹 Lenzi è stato un regista, sceneggiatore e scrittore italiano.
Tra i maggiori esponenti del poliziottesco, ha infatti diretto titoli divenuti dei film di culto del genere, come Milano odia: la polizia non può sparare, Roma a mano armata e Napoli violenta.
Si è firmato talora Hank Milestone Bob Collins Humphrey Humbert ed Harry Kirkpatrick
Nel 2008 ha esordito come scrittore di noir.
Firma la sua prima regia cinematografica nel 1961 (esclusa la parentesi di un film girato in Grecia nel 1958 che però non trova distribuzione), il film di cappa e spada Le avventure di Mary Read
In seguito si dedica alla rilettura dei classici salgariani come Sandokan la tigre di Mompracem (1963) interpretato da Steve Reeves e I pirati della malesia (1964)
Ed è sull'onda del successo della serie di James Bond 007, che in due anni gira ben quattro film di spionaggio, tra cui A 008, operazione Sterminio (1965) e Superseven chiama Cairo (1965).
Nel 1968 mette in scena una sceneggiatura del giovane Dario Argento - ..., il titolo è La legione dei dannati
Lenzi in seguito si specializza nel giallo all'italiana, inventando un sotto-genere, quello del "giallo erotico italiano", che in seguito egli stesso definirà "thriller dei quartieri alti", firmando la trilogia composta da: Orgasmo (1969) uno dei film più venduti negli Stati Uniti in quel periodo, Così dolce... così perversa (1969) e Paranoia (1970 film) tutti interpretati dall'ex stella hollywoodiana Carroll Baker
Nei primi anni settanta, dopo la rilettura del thriller argentiano Lenzi decide di inserirsi nel filone con ben cinque film: Un posto ideale per uccidere (1971), Sette orchidee macchiate di rosso (1972), Il coltello di ghiaccio (1972), Spasmo (1974) e Gatti rossi in un labirinto di vetro (1975)
Nel frattempo, si cimenta in un genere inedito, il "cannibalico", da lui inventato col film Il paese del sesso selvaggio (1972).
Conseguentemente alla nascita del genere cinematografico italiano denominato come "poliziottesco" col film La polizia ringrazia (1972) , tra queste vanno sicuramente citate: Milano odia: la polizia non può sparare (1974) interpretato da Tomas Milian e altri due polizieschi molto violenti: Roma a mano armata (1976), con la coppia Milian e Maurizio Merli e Napoli violenta (1976), quest'ultimo capace d'un incasso record di 60 milioni di lire solo nel primo weekend di programmazione, con protagonista ancora Merli il quale, non controfigurato, si prodiga, tra l'altro, in un lungo e spettacolare inseguimento sopra la funicolare del rione di Montesanto (Napoli).
In particolare, con l'attore cubano Milian, Lenzi crea un duraturo e fruttifero sodalizio , il regista inventa anche il personaggio de Er Monnezza, che appare in Il trucido e lo sbirro e La banda del gobbo, fino al piccolo tradimento che Milian fa nei confronti di Lenzi, interpretando sempre Er Monnezza nel film di Stelvio Massi, La banda del trucido.
(In seguito a questo avvenimento, i rapporti tra i due artisti si incrina, producendo di fatto la scissione del loro sodalizio cinematografico.)
Lenzi contribuisce anche al grande successo di Maurizio Merli in film come Napoli violenta e Il cinico, l'infame, il violento.
Giunto ai primi anni 80 il regista decide di seguire il successo nel genere horror. Il primo titolo è Incubo sulla città contaminata (1980)
Nell'anno successivo, sulla scia di Cannibal Holocaust (1980) di Ruggero Deodato, dirige Mangiati vivi!, film dedicato ai cannibali che riscuote un discreto successo all'estero e che lo spinge a realizzare Cannibal Ferox (1981)
A fine del decennio torna al genere thriller/horror con Nightmare Beach (1988), Successivamente dirige altri film horror tra cui La casa 3 - Ghosthouse (1988), Paura nel buio (1989) e il film a basso costo Le porte dell'inferno (1990), ultimo film dell'attore Giacomo Rossi Stuart. Lo stesso anno viene contattato da ReteItalia (Mediaset) che gli commissiona un paio di film TV (altri due vengono richiesti a Lucio Fulci) per soggetto le "case maledette". Il risultato, nonostante il budget ridicolo e un cast non propriamente eccelso a disposizione, è comunque dignitoso. I film sono: La casa del sortilegio (1989) e La casa delle anime erranti (1989) Questi due film rappresentano anche le sole occasioni in cui il regista abbia lavorato per la TV.
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