#ho passato la vita
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Forse io non me lo merito l'amore. Forse si nasce destinati a certe cose. E il mio destino, ne sono certa, non era quello di essere amata. E la cosa ironica è che ho passato la vita a desiderare di esserlo...
Roberto Emanuelli, Ora amati
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Lacrime silenziose
Dolore di una voragine nel cuore
Urla interiori disperate
Parole e frasi che fanno scoppiare la testa
Ho paura
Tremo
Mi giro e rigiro come ingabbiata
Piango
Non vedo via di fuga
Non vedo una vera salvezza
Mi sto mettendo in trappola da sola
Con le ferite di fantasmi passati
Ma ancora presenti
In vesti diverse
Ho paura
Di dare ancora fiducia
Di permettere a qualcuno di toccarmi di nuovo il cuore ora e in futuro
Ma allo stesso tempo è ciò di cui ho un disperato bisogno: affetto
Sentirlo davvero sulla pelle, sul cuore
Non mi accontento più di immaginarlo
Eppure
Eppure ho paura
Una paura folle di permettere a qualcuno di amarmi
Di darmi ciò di cui ho più bisogno
Perché resta una paura terribile
Quella di poi perdere tutto
Di venire ancora una volta abbandonata
Di essere quel giocattolo che ormai annoia
Di essere riposta con una semplice frase "non sei abbastanza" o "non sei quella giusta per me" o "non sei la ragazza che cercavo"
Ho paura
Ho paura di non guarire mai veramente le ferite sul cuore
Di stare solo ad accumularle e a volte bruciano ancora come se non fosse passato neanche un giorno
Forse non sono destinata all'amore
Forse il mio ruolo è solo quella di donatrice di affetto
Riceverlo con la stessa intensità probabilmente non è nel mio destino
Forse per me il "lieto fine" non è previsto
Resterò sempre un'anima tormentata incatenata al dolore, incatenata alle illusioni e alle delusioni della vita
Spaventata da fare qualsiasi passo
Spaventata da qualsiasi conseguenza
Spaventata da ogni cosa, dalla vita stessa.
#pensieri per la testa#persa tra i miei pensieri#sfogo personale#tristezza#dolore#paura#amore#cuore a pezzi#cuore spezzato#cuore fragile#la vita mi spaventa#ho paura#andare avanti#incatenata al passato#tormentata#pensieri#pensavo#pensieri notturni#lacrime#piangere#pianto#piangere in silenzio#bisogno di affetto#bisogno di abbracci#bisogno di coccole#bisogno di amore#solitudine#cuore#vita#frasi vita
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io ve lo giuro, sarà che essendo cresciuta in mezzo a persone bilingue / trilingue sono molto sensibile a certi discorsi, sarà che amo la linguistica più di me stessa, ma non sopporto i discorsi di chi deve prendere davvero in antipatia un giocatore perché non impara una lingua (battute a parte che se rimangono battute le adoro e le faccio io per prima). Chi ci prova ha il mio rispetto (tenerissimo yann), ma ragazzi non siamo tutti uguali a questo mondo e non abbiamo tutti lo stesso carattere nella vita. Non è questione di volontà né di rispetto, dai, la lingua la imparano prima o poi per capirsi, non è che siccome non lo fanno davanti alle telecamere per voi allora non capiscono. Cioè ma davvero siamo così attaccati alle nostre lingue nazionali da farne un dramma? Background diversi, upbringing diversi, storie diverse, caratteri diversi, non sapete quanti fattori concorrono e quanta gente ho visto non riuscire a proferire parola per un motivo o un altro. Dai che palle
#mi fa sorridere perché ho passato la vita a studiare le questioni linguistiche dei miei amici ecc#dei miei cugini#ci sono amici che non parlano arabo e so perché. pur capendo tutto#ci sono altri che parlano tranquillamente e so anche quello#non mi aggrada moralizzare una cosa del genere sinceramente è un discorso complesso
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È evidente che non è normale. Stan sotto l’influenza dell’ideologia perversa e maligna della setta genderomane.
Perché mai un maestro si dovrebbe "dichiarare" gay o etero?
Se penso ai maestri che ho avuto, non sapevo nulla della loro vita privata. Può essere che alcuni fossero gay.
Chi sente il bisogno di fare sfoggio della propria sessualità con dei bimbi non è idoneo a fare il maestro.
I gay, in teoria, sono indistinguibili dagli etero.
Credo lo siano sempre stati nella storia. Solo oggi c’è questo volgare, squallido, ostentare la propria sessualità, anche coi bimbi.
Questo fare la vocina da vecchia giocatrice di bridge. E guai a chi ci vede qualcosa di strano.
Una volta chi parlava facendo vocine strane era considerato un indemoniato. Ci capiva di più la gente semplice di una volta che gli accademici rotti in culo di oggi.
Ora anche il mainstream e le pubblicità sono volutamente tendenziose per accontentare il nuovo incipit.
Crema per il culo.
Alzi la mano chi non l’ha pensato.
L’arcobaleno in solo un decennio è passato da simbolo di pace a simbolo di culo arrossato e sanguinolento.
Miracoli di questa "gauche" pusillanime ed ipocrita.
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Dopo non so quanto tempo, ho il cuore in pace. Il passato nei bagagli pesa meno, la rabbia è una sfumatura che ha smesso di ombreggiare l'anima e ora riesco finalmente a respirare senza avvertire più dolore. Quando sei lontano da tanto, l'odio non disturba più, i ricordi brutti scolorano, le lacrime si asciugano e riesci a sorridere... sorridere davvero, non per celare il tormento, la debolezza, ma perché assapori la vita fino in fondo.
Tutti abbiamo sofferto, vero, anche se crediamo che il nostro dolore sia più profondo di quello degli altri. In realtà è così, perché ognuno soffre a suo modo, così come, a suo modo, ne esce. Chi forte come una roccia indistruttibile, chi con cicatrici così radicate da esserne sfigurato per il resto dei suoi giorni, chi fragile come l'ultima foglia di un albero autunnale e, chi, incapace di nutrire altri sentimenti per chiunque.
Io non so come ne sono uscita, so per certo che ne sono uscita, ed è già un passo avanti.
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👵 Scritto da una 90enne!! ❤️ 🤙
41 lezioni che la vita mi ha insegnato 💖
Dovremmo leggerle almeno una volta a settimana! Assicurati di leggere fino alla fine! Scritto da Regina Brett, 90 anni, del Plain Dealer di Cleveland, Ohio.
Per celebrare l'invecchiamento, una volta ho scritto le 41 lezioni che la vita mi ha insegnato. È la colonna più richiesta che abbia mai scritto. Il mio contachilometri è arrivato a 90 ad agosto, quindi ecco di nuovo la colonna:
1. La vita non è giusta, ma è comunque bella.
2. Quando sei in dubbio, fai semplicemente il prossimo piccolo passo.
3. La vita è troppo breve – goditela.
4. Il tuo lavoro non si prenderà cura di te quando sarai malato. I tuoi amici e la tua famiglia lo faranno.
5. Paga le tue carte di credito ogni mese.
6. Non devi vincere ogni discussione. Rimani fedele a te stesso.
7. Piangi con qualcuno. È più curativo che piangere da soli.
8. Risparmia per la pensione a partire dal tuo primo stipendio.
9. Quando si tratta di cioccolato, resistere è inutile.
10. Fai pace con il tuo passato, così non rovinerà il presente.
11. È OK lasciare che i tuoi figli ti vedano piangere.
12. Non confrontare la tua vita con quella degli altri. Non hai idea di quale sia il loro viaggio.
13. Se una relazione deve essere segreta, non dovresti esserci dentro.
14. Fai un respiro profondo. Calma la mente.
15. Liberati di tutto ciò che non è utile. Il disordine ti appesantisce in molti modi.
16. Ciò che non ti uccide davvero ti rende più forte.
17. Non è mai troppo tardi per essere felici. Ma dipende tutto da te e da nessun altro.
18. Quando si tratta di inseguire ciò che ami nella vita, non accettare un no come risposta.
19. Accendi le candele, usa le lenzuola belle, indossa la lingerie elegante. Non riservarlo per un'occasione speciale. Oggi è speciale.
20. Preparati in modo eccessivo, poi lascia scorrere le cose.
21. Sii eccentrico adesso. Non aspettare la vecchiaia per indossare il viola. 💖
22. L'organo se*suale più importante è il cervello.
23. Nessuno è responsabile della tua felicità tranne te.
24. Inquadra ogni cosiddetto disastro con queste parole: "Tra cinque anni, avrà importanza?"
25. Scegli sempre la vita.
26. Perdona, ma non dimenticare.
27. Quello che gli altri pensano di te non sono affari tuoi.
28. Il tempo guarisce quasi tutto. Dai tempo al tempo.
29. Per quanto buona o cattiva sia una situazione, cambierà.
30. Non prenderti troppo sul serio. Nessun altro lo fa.
31. Credi nei miracoli.
32. Non fare il revisore della vita. Presentati e sfruttala al massimo ora.
33. Invecchiare è meglio dell'alternativa: morire giovani.
34. I tuoi figli hanno solo un'infanzia.
35. Tutto ciò che conta davvero alla fine è che tu abbia amato.
36. Esci ogni giorno. I miracoli ti aspettano ovunque. (Adoro questa)
37. Se tutti buttassimo i nostri problemi in una pila e vedessimo quelli degli altri, riprenderemmo i nostri.
38. L'invidia è una perdita di tempo. Accetta ciò che hai già, non ciò di cui hai bisogno.
39. Il meglio deve ancora venire...
40. Non importa come ti senti, alzati, vestiti e presentati.
41. La vita non è legata con un fiocco, ma è comunque un dono.
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ho un'età che mi permette di assistere alla forma adulta di chi ho visto essere bambino e questo vuol dire che questa fase per me è passata, ma riesco a prenderne coscienza soltanto attraverso l'evoluzione di altri perché io mi sento sempre la stessa, neanche un centimetro spirituale in più. ancora più straziante è guardare invecchiare le giovani figure adulte che hanno costellato la mia infanzia o adolescenza. zia si è fatta la tinta bianca ai capelli, li ha sempre avuti scuri, soltanto dodici mesi fa era mora. in un anno li ha schiariti sempre di più fino al bianco. dice che è stanca di fare la tinta ogni mese, lascerà che i suoi bianchi naturali crescano confondendosi con il nuovo colore. e poi forse non metterà più lo smalto e neppure il trucco il sabato sera. la vecchiaia quindi è l'abbandono del superfluo? o è l'abbandono di sè stessi? la tinta è davvero così superficiale oppure è un atto di resistenza? forse non sempre, forse qualche volta. questi movimenti viscidi del tempo che striscia lungo i pilastri solidi della mia esistenza mi mettono a disagio. probabilmente perché li sento anche addosso. probabilmente perché senza accorgermene sono diventata un pilastro della mia stessa vita anche io. probabilmente perché mi sento violata, impotente, non come uno stupro, è una violenza diversa, una violenza dolce, subdola, ingannevole, inesorabile. forse sono in ritardo, forse è troppo tardi per tante cose, forse gli altri sono in anticipo, forse si sentono in ritardo anche loro. da giovane la mia bisnonna aveva sempre uno zigomo gonfio, o un occhio nero, o una frattura da qualche parte. poi suo marito è morto e lei ha iniziato a mettere il rossetto, i gioielli e il profumo. io ero bambina, molto bambina, la ricordo come una delle donne anziane più eleganti che io abbia mai visto. è morta sulla soglia dei cent'anni con le labbra rosse, non è mai stata in ritardo. credo che la resistenza si manifesti sempre di rosso. vorrei passare lo stesso colore sulle mie labbra, per firmare queste parole con un bacio stampato sul foglio, ma il tempo della carta è passato
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2.00 am
caldo, sudore, testa che frulla. contratti? ma sarò capace? se l'ho fatto una volta, non è detto che riesca una seconda. giudizio oggettivo, dici tu. e mi pare di prendere il volo. chi crede in te, ti fa esistere. esisto. r-esisto. mi bruciano le palpebre.
chiedo al dottore cos'è questa cosa che sento di lato, tra la tetta finta e lo sterno. le ondulazioni della protesi, dice, e mi punta l'ecografo per farmi vedere. le vedo, vedo le ondine. sorrido e dico che schifo. lui ride. ho sempre paura che si giri qualcosa lì dentro, dico. cosa vuoi che si giri, le palle girano, risponde. ora sono io a ridere. lo vedo che è felice quando mi dice che è tutto ok. io sollevo le braccia al cielo e dico siiiiiiiiiiii. sticazzi se sono nuda (nella categoria dei "ti ammazzo" rientrano anche i dottori?)
intanto mi faccio film. ho tutta la vita da vivere sei mesi alla volta. un giorno è già passato
thor, daje un po' di temporale
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Molti dei Millennial sono cresciuti sotto l’effetto di strategie fallimentari di educazione famigliare.
Per esempio, è sempre stato detto loro che erano speciali, che potevano avere tutto quello che volevano dalla vita solo perché lo volevano.
Quindi qualcuno ha avuto un posto nella squadra dei pulcini non perché fosse un talento, ma solo perché i genitori hanno insistito con l’allenatore.
Oppure sono entrati in classi avanzate non perché se lo meritassero ma perché i genitori si erano lamentati con la scuola, per non parlare di coloro che hanno passato gli esami non perché se lo meritassero ma perché gli insegnanti erano stanchi di avere rogne dai genitori.
Ad alcuni hanno dato medaglie di partecipazione per essere arrivati ultimi, una bella medaglia affinché nessuno si dispiaccia.
La scienza comportamentale non ha dubbi: è una svalutazione della medaglia e dei riconoscimenti di chi lavora duramente per ottenere un buon risultato, inoltre fa sentire anche in imbarazzo chi arriva ultimo perché, se ha un minimo di dignità, sa che non se l’è davvero meritata quella medaglia.
Così queste persone sono cresciute con l’illusione che, anche senza sforzarsi troppo, è possibile farcela in qualunque settore.
Allora finiscono l’università, magari a pieni voti e pretendono immediatamente che un tappeto rosso si srotoli sotto i loro piedi, invece sono gettati nel mondo reale e in un istante scoprono che non sono per niente speciali voto o non voto, che i genitori non gli possono fare avere un buon posto di lavoro e figuriamoci una promozione, che se arrivi ultimo non ti danno niente, anzi rischi il licenziamento e, guarda un po’, non ottieni qualcosa solo perché semplicemente lo vuoi.
Non voglio fare ironia, credetemi, né tanto meno sorridere, la faccenda è davvero delicata poiché quando questa persona prende coscienza reale dalla situazione in cui si trova è un momento cruciale perché in un attimo, nell’istante preciso in cui concepisce la verità, l’idea che ha di se stessa va letteralmente in frantumi.
È questo anche il momento in cui si attacca alla sua fonte primaria di dopamina: i social network.
Ciò ci porta ad un altro problema : la tecnologia.
I Millennial sono cresciuti in un mondo fatto di Tik Tok, di Instagram ed altri social, dove siamo bravi a mettere filtri alle cose.
In cui siamo un po’ tutti fuoriclasse a mostrare alla gente che la nostra vita è magnifica: tutti in viaggio ad Ibiza, tutti al ristorante stellato, tutti felici e pimpanti anche se invece siamo tristi e depressi.
Ho letto un’interessante ricerca scientifica, che in sintesi dice che ogni qual volta che riceviamo una notifica sullo smartphone, un messaggio o quant’altro, nel nostro cervello viene rilasciata una bella scarica di dopamina (una sostanza che dà piacere).
Ecco perché quando riceviamo un messaggio è una bella sensazione oppure se da qualche ora non si illumina il cellulare, alcuna notifica, né un messaggio, iniziamo a vedere se per caso non è accaduto qualcosa di catastrofico.
Allo stesso modo andiamo tutti in stress se sentiamo il suono di una notifica e passano più di tre minuti senza che riusciamo a vedere di cosa si tratta.
È successo a tutti, ti senti un po’ giù, un po’ solo, e allora mandi messaggi a gente che forse nemmeno sapevi di avere in rubrica.
Perché è una bella sensazione quando ti rispondono, vero?
È per questo che amiamo così tanto i like, i fan, i follower.
Ho conosciuto un ragazzo che aveva sui 15 anni che mi spiegava quanto tra loro si discriminassero le persone in base ai follower su Instagram!
Così se il tuo Instagram cresce poco vai nel panico e ti chiedi: “Cosa è successo, ho fatto qualcosa di sbagliato?
Non piaccio più?”
Pensa che trauma per questi ragazzi quando qualcuno gli toglie l’amicizia o smette di seguirli!
La verità, e questa cosa riguarda tutti noi, è che quando arriva un messaggio/notifica riceviamo una bella botta di dopamina.
Ecco perché, come dicono le statistiche, ognuno di noi consulta più di 200 volte al giorno il proprio cellulare.
La dopamina è la stessa identica sostanza che ci fa stare bene e crea dipendenza quando si fuma, quando si beve o quando si scommette.
Il paradosso è che abbiamo veri limiti di età per fumare, per scommettere e per bere alcolici, ma niente limiti di età per i cellulari che regaliamo a ragazzini di pochi anni di età (già a 7 o 8 anni se non a meno).
È come aprire lo scaffale dei liquori e dire ai nostri figli adolescenti: “Ehi, se ti senti giù per questo tuo essere adolescente, fatti un bel sorso di vodka!
In sostanza, se ci pensate, è proprio questo che succede: un’intera generazione che ha accesso, durante un periodo di alto stress come l’adolescenza, ad un intorpidimento che crea dipendenza da sostanze chimiche attraverso i cellulari.
I cellulari, da cosa utile, diventano facilmente, con i social network, una vera e propria dipendenza, così forte che non riguarda solo i Millennials ma ormai tutti noi.
Quando si è molto giovani l’unica approvazione che serve è quella dei genitori, ma durante l’adolescenza passiamo ad aver bisogno dell’approvazione dei nostri pari.
Molto frustrante per i nostri genitori, molto importante per noi, perché ci permette di acculturarci fuori dal circolo famigliare e in un contesto più ampio.
È un periodo molto stressante e ansioso e dovremmo imparare a fidarci dei nostri amici.
È proprio in questo delicato periodo che alcuni scoprono l’alcol o il fumo o peggio le droghe, e sono queste botte di dopamina che li aiutano ad affrontare lo stress e l’ansia dell’adolescenza.
Purtroppo questo crea un condizionamento nel loro cervello e per il resto della loro vita quando saranno sottoposti a stress, non si rivolgeranno ad una persona, ma alla bottiglia, alla sigaretta o peggio, alle droghe.
Ciò che sta succedendo è che lasciando ai ragazzi, anche più piccoli, accesso incontrollato a smartphone e social network, spacciatori tecnologici di dopamina, il loro cervello rimane condizionato, ed invecchiando troppi di essi non sanno come creare relazioni profonde e significative.
In diverse interviste questi ragazzi hanno apertamente dichiarato che molte delle loro amicizie sono solo superficiali, ammettendo di non fidarsi abbastanza dei loro amici.
Ci si divertono, ma sanno che i loro amici spariranno se arriva qualcosa di meglio.
Per questo non ci sono vere e proprie relazioni profonde poiché queste persone non allenano le capacità necessarie, e ancora peggio, non hanno i meccanismi di difesa dallo stress.
Questo è il problema più grave perché quando nelle loro vite sono sottoposti a stress non si rivolgono a delle persone ma ad un dispositivo.
Ora, attenzione, non voglio minimamente demonizzare né gli smartphone né tantomeno i social network, che ritengo essere una grande opportunità, ma queste cose vanno bilanciate.
D’altro canto un bicchiere di vino non fa male a nessuno, troppo alcol invece sì.
Anche scommettere è divertente, ma scommettere troppo è pericoloso.
Allo stesso modo non c’è niente di male nei social media e nei cellulari, il problema è sempre nello squilibrio.
Cosa vuol dire squilibrio?
Ecco un esempio: se sei a cena con i tuoi amici e stai inviando messaggi a qualcuno, stai controllando le notifiche Instagram, hai un problema, questo è un palese sintomo di una dipendenza, e come tutte le dipendenze col tempo può farti male peggiorare la tua vita.
Il problema è che lotti contro l’impazienza di sapere se là fuori è successo qualcosa e questa cosa ci porta inevitabilmente ad un altro problema.
Siamo cresciuti in un mondo di gratificazioni istantanee.
Vuoi comprare qualcosa?
Vai su Amazon e il giorno dopo arriva.
Vuoi vedere un film?
Ti logghi e lo guardi, non devi aspettare la sera o un giorno preciso.
Tutto ciò che vuoi lo puoi avere subito, ma di certo non puoi avere subito cose come le gratificazioni sul lavoro o la stabilità di una relazione, per queste non c’è una bella App, anche se alcune delle più gettonate te lo fanno pensare!
Sono invece processi lenti, a volte oscuri ed incasinati.
Anche io ho spesso a che fare con questi coetanei idealisti, volenterosi ed intelligenti, magari da poco laureati, sono al lavoro, mi avvicino e chiedo:
“Come va?”
e loro: “Credo che mi licenzierò!”
ed io: “E perché mai?”
e loro: “Non sto lasciando un segno…”
ed io: “Ma sei qui da soli otto mesi!”
È come se fossero ai piedi di una montagna, concentrati così tanto sulla cima da non vedere la montagna stessa!
Quello che questa generazione deve imparare è la pazienza, che le cose che sono davvero importanti come l’amore, la gratificazione sul lavoro, la felicità, le relazioni, la sicurezza in se stessi, per tutte queste cose ci vuole tempo, il percorso completo è arduo e lungo.
Qualche volta devi imparare a chiedere aiuto per poi imparare quelle abilità fondamentali affinché tu possa farcela, altrimenti inevitabilmente cadrai dalla montagna.
Per questo sempre più ragazzi lasciano la scuola o la abbandonano per depressione, oppure, come vedo spesso accadere, si accontenteranno di una mediocre sufficienza.
Come va il tuo lavoro? Abbastanza bene…
Come va con la ragazza? Abbastanza bene.
Ad aggravare tutto questo ci si mette anche l’ambiente, di cui tutti noi ne facciamo parte.
Prendiamo questo gruppo di giovani ragazzi i cui genitori, la tecnologia e l’impazienza li hanno illusi che la vita fosse banalmente semplice e di conseguenza gliel’hanno resa inutilmente difficile!
Prendiamoli e mettiamoli in un ambiente di lavoro nel quale si dà più importanza ai numeri che alle persone, alle performance invece che alle relazioni interpersonali.
Ambienti aziendali che non aiutano questi ragazzi a sviluppare e migliorare la fiducia in se stessi e la capacità di cooperazione, che non li aiuta a superare le sfide.
Un ambiente che non li aiuta neanche a superare il bisogno di gratificazione immediata poiché, spesso, sono proprio i datori di lavoro a volere risultati immediati da chi ha appena iniziato.
Nessuno insegna loro la gioia per la soddisfazione che ottieni quando lavori duramente e non per un mese o due, ma per un lungo periodo di tempo per raggiungere il tuo obiettivo.
Questi ragazzi hanno avuto sfortuna ad avere genitori troppo accondiscendenti, la sfortuna di non capire che c’è il tempo della semina e poi quello del raccolto.
Ragazzi che sono cresciuti con l’aberrazione delle gratificazioni immediate, e quando vanno all’università e si laureano continuano a pensare che tutto gli sia loro dovuto solo perché si sono laureati a pieni voti.
Cosicché quando entrano nel mondo del lavoro dopo poco dobbiamo raccoglierne i cocci.
In tutta questa storia, sono convinto che tutti abbiamo una colpa, ma che soprattutto tutti noi possiamo fare qualcosa di più impegnandoci a capire come aiutare queste persone a costruire oggi la loro sicurezza e le loro abilità sociali, la cui mancanza rende la vita di questi giovani inutilmente infelice e inutilmente complicata.
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Ho perso l’abitudine dello sviscerare quello che sento, quello che vedo, con le parole. Avere dalla mia parte le immagini è un aiuto, ci danzo attorno con qualche lettera in fila per farne una cornice, per guidare lo sguardo, ma nulla di più. Solo che poi finisco per sentire troppo e sento la necessità di decomprimere.
E’ un mondo fatto per due, e questo mi fa paura. Ho imparato così bene a stare da sola da non capire davvero ciò che voglio, sento la necessità di carezze balsamiche fatte col dorso di una mano, di baci dati con la punta delle dita, e mi chiedo: è ciò che voglio o ciò che sento di dover desiderare? Sono così bloccata dall’ansia o semplicemente, in realtà, non è quello che bramo? In questa vita da grandi, le settimane passano svelte svelte, un po’ come quando giro le pagine dell’agenda. Contare i giorni che mancano a qualcosa, tranquillizzarmi sapendo di averne a sufficienza, è una strategia che ho fatto mia quando ancora non sapevo dare un nome alle cose. Ora le cose arrivano semplicemente, e se conto quei giorni non bastano mai, mi sembra di non avere il potere di fermare nulla. Il primo di giugno mi sembra passato da due giorni appena. Continuo a pensare che l’idea di te che mi sono dipinta nella testa sia l’unica opzione di vita felice possibile, l’unico amore (non necessariamente romantico, anche se ho la tendenza a romanticizzare tutto) che potrebbe incastrarsi con me. Ma le idee restano idee e il tempo continua scorrere troppo veloce. Chissà se ci pensi mai, a come sarebbe stato, se.
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- Non ti ho vista per un po’, dove sei stata?
- In disparte, per conto mio.
- A fare?
- Calcoli. A contare tutte le cose che la vita non mi ha dato, quelle che ha finto di darmi, quelle che mi ha dato per poco, spacciandole per ciò che desideravo in quel momento, e poi rivelandole per le cianfrusaglie e presenze inconsistenti quali erano.
A contare quanto tempo é passato, quanto ne resta.
A guardare il Cielo di questo autunno pieno di enigmi,
a muovergli accuse, ringraziamenti, domande,
a strappargli promesse, a fissarlo in silenzio e versare qualche lacrima.
O un sorriso. O una speranza.
- Sembra una cosa molto molto triste. E come stai, adesso?
- Consapevole.
- Consapevole non é uno stato d’animo. Sembra davvero una cosa triste. Vuol dire triste?
- Vuol dire consapevole.
La tristezza é come la felicità, o come la vita stessa.
A un certo punto, passa. Arriva altro.
La consapevolezza, invece, resta. Se la eserciti, resta sempre.
Gabriela Pannia
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La più completa ed esaustiva risposta che ho letto in questo valzer di sapienze da tastiera:
Vanni Frajese, medico endocrinologo e professore presso l'Università "Forop Italico" di Roma:
"Intanto, l'"intersessuale" NON esiste:
è un termine giornalistico/culturale, ma a livello biologico è un termine che non viene accettato, perché non rappresenta niente.
Nella scienza c'è bisogno delle definizioni per definire le cose esattamente come sono.
Per poter dire se una persona sia un maschio o una femmina, c'è bisogno di oggettività. In tempo passato, bastava il fenotipo, cioè io ti guardo e so direttamente se sei un maschio o una femmina. Dopodiché, abbiamo scoperto che l'uomo ha i cromosomi XY, mentre la femmina XX, che poi mi dà le caratteristiche sessuali secondarie. Però, il sesso genetico/biologico, in alcuni rari casi non si trasforma nel sesso appropriato.
In particolare, questo riguarda fondamentalmente i maschi. Il testosterone normalmente viene prodotto e agisce quando hai il cariotipo XY, dando un fenotipo maschile (testicoli, peli, massa muscolare...). L'unica condizione, in cui si può avere una persona fenotipicamente femminile ma con i cromosomi XY, è quando si ha la resistenza completa agli androgeni: questo è l'unico caso (rarissimo), in cui c'è qualcuno a cui alla nascita gli viene attribuito il sesso femminile (perché l'aspetto fenotipico è della donna), ma in realtà cromosomicamente è un maschio. Quindi, una persona con questa problematica non andrebbe mai a fare boxe, perché l'androgeno "non gli funziona" e quindi ti stai confrontando con chi ha un vantaggio biologico rispetto a te.
Visto che ormai, all'interno dello sport e della medicina, è entrata l'ideologia che dice che non esiste il maschio o la femmina, ma facciamo tutti parte di un ampio spettro, bisognerà che il CIO, piuttosto che prendere quello che c'è scritto sul passaporto, in casi "sospetti" faccia un protocollo che permetta di certificare 3 cose:
1) Il componente cromosomico;
2) Il componente endocrino (quanto testosterone hai);
3) Il componente fisico.
Ad esempio, se una persona ha i livelli di testosterone alti ma non tantissimo (perché si abbassano anche farmacologicamente), ma XY e ha (o ha avuto) gli organi sessuali maschili, comunque BIOLOGICAMENTE è un maschio. Se poi la società (in genere quella occidentale) lo vuole qualificare come qualcosa di differente (perché lui ci si sente), non è un problema (sono liberi di farlo!), ma BIOLOGICAMENTE rimane un maschio: un maschio biologico può fare quello che vuole nella vita, ma NON DEVE COMPETERE con una femmina biologica, perché ha un vantaggio.
Se queste prove che certificano il sesso biologico degli atleti non vengono effettuate, un domani qualunque persona può decidere di registrarsi come donna, fare o non fare l'operazione (perché tanto sono fatti suoi e non lo verremo a sapere) e andare a competere con le donne, ma questo NON deve accadere, perché altrimenti l'idea stessa dello sport verrà distrutta.
Lasciate perdere gli attuali protagonisti, perché è inutile puntare il dito sulla singola persona, é l'idea che è molto più interessante. Nel caso di Imane Khelif, entriamo nel campo delle opinioni (non delle certezze): da quello che ho capito io, la genetica XY, i livelli di testosterone alti e quella struttura fisica, per me è un MASCHIO".
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Ci sono giornate o serate come queste in cui mi sento la solitudine attaccata alla pelle, in cui vedo passare il tempo e sentirlo di sprecarlo, perché sento di non combinare niente, di non avere niente sia in mano e forse anche di ricordi che mi rimarranno. Ho passato il pomeriggio a leggere, leggere e leggere, ho fatto solo questo, anche perché non ho nient'altro da fare perché sono sola e non ho niente, non ho costruito niente nel mio passato ed ora lo vedo, ora me ne rendo conto. Ho 25 anni e sento solo di star sprecando il mio tempo, la mia vita, in questi anni non ho fatto niente e non ho neanche visitato niente, neanche un posto qui vicino, non ho neanche tanti ricordi dei miei anni, che tristezza e amarezza.
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oggi vado a lavoro più tardi e ho approfittato per fare quello che avrei dovuto fare un anno fa subito dopo essermi laureato, ossia buttare via tutto il materiale didattico, forse non me la sentivo perché toccare quelle cose avrebbe voluto dire accettare che non sono più un ragazzino, che sono passati, oggi, 6 anni da quando entrai per la prima volta in facoltà, ma quest’anno sto imparando ad accettare che il tempo passa e più che focalizzarmi sui ricordi o sul futuro devo stare coi piedi per terra e godermi il presente, per quanto non sempre possa piacermi, però la cosa che mi fa sorridere è che, mentre mettevo via tutto sto schifo di roba in 3 bustone enormi, è caduto da uno dei fascicoletti un biglietto della metro di roma di quando l’ho presa con te e ti dirò, a primo impatto mi ha fatto riaffiorare determinati ricordi, però poi l’ho preso da terra e buttato insieme a tutto il resto perché, come quelle cose, tu appartieni al passato di una vita che non mi appartiene più
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certo che la vita è un po’ strana. ho passato anni dietro situazioni sbagliate, a vivere con l’ansia di una bugia o che potesse succedere qualcosa da un momento all’altro con persone di cui “non dovevo preoccuparmi” e invece ora sono serena, sono cresciuta e so di avere accanto una persona che mi fa sentire a casa. non è scontato come può sembrare ma sono felice
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Non so perdonare. Né dimenticare.
Lettera scritta in risposta ad Alberto Jacoviello, inviato di «la Repubblica» e «L'Unità», che si scusava per averla offesa in passato.
Caro Jacoviello,
....chiedere scusa, come tu hai fatto, quando si ha torto, è sempre nobile. E non molti ne sono capaci, non molti ne hanno il coraggio. Però devo dirti ciò che dirò e, se non lo facessi, mentirei non solo a te ma a me stessa.
....Io non so perdonare. Né perdonare né dimenticare. È uno dei miei più grandi limiti forse, e il più lugubre. E meno che mai so perdonare quando una ferita mi è stata inferta da persone dalle quali mi aspettavo affetto, tenerezza, o sulle quali mi facevo illusioni positive. Ciò non significa, naturalmente, ch'io dichiari guerra o resti in guerra con coloro che mi hanno ferito, offeso. Significa che quelle persone le liquido. Le cancello dai miei pensieri, dalla mia vita. Se le incontro per strada le saluto, in alcuni casi ci scambio una parola, ma dentro di me è come se mi rivolgessi a un'ombra. Esse non esistono più.
.....In questi ultimi due anni, cioè da quando la morte e il dolore si sono abbattuti su di me indurendomi, ho liquidato più persone che in tutta la mia vita. Non v'è uomo o donna colpevole verso di me che non sia finito nella Siberia dei miei sentimenti.
Hai perfettamente ragione a chiudere la tua lettera dicendo che chi non sa perdonare condanna sé stesso alla solitudine. Però hai torto a ritenere che tale «condanna» sia per tutti insopportabile. E dimentichi il proverbio che dice: «Meglio soli che male accompagnati». Non sempre la solitudine è una prigione. A volte, per alcuni, è una conquista che difende da ulteriori ferite ed offese. Solo i deboli e i poveri di spirito hanno paura della solitudine e si annoiano a stare soli. Io non sono debole. Sono molto forte, e durissima ormai. Non sono neanche povera di spirito. Quindi non ho paura della solitudine.
Tutte le volte che ti ho visto mi hai raccontato antichi insulti scritti i pensati. E tutte le volte che ti ho visto è stato come ricevere una coltellata nel cuore. Mi ha colto una nausea che solo la mia capacità di controllo è riuscita a nascondere o a vestire con gli abiti dell'indignazione. È probabile che la tua coscienza si senta lavata dal fatto di avermi confessato quegli antichi insulti scritti o pensati. Ma io non credo che confessare un peccato equivalga a cancellare il peccato. Quel concetto cattolico, anzi cristiano, mi ha sempre inorridito. I peccati commessi restano peccati commessi e niente può cancellarli: né Dio, né il diavolo, né gli uomini, né una sfilata di pater e di ave-maria detti per penitenza. Ciò vale per me, per te, per l'umanità intera presente e passata. Ecco perché non riesco a perdonare. Non voglio.
Ciò è spietato? Sono tanto spietata con me stessa che non vedo perché dovrei essere dolce con gli altri. Il massimo ch'io possa consentirmi è rispondere in modo esteso a chi mi ha scritto in modo esteso. Spiegarmi a chi mi ha spiegato. Ed è molto. Tu sei l'unica persona fra le decine che ho liquidato, esiliato nella Siberia dei sentimenti, cui abbia detto no con una lettera e non col silenzio. Di solito oppongo un silenzio di pietra. Quello che seguirà a questa lettera.
E così farò, sempre, in tutte le circostanze della vita, con tutti coloro che tentano di impormi una prepotenza. E non cederò, mai. Mai. E guai a chi si permette o si è permesso o si permetterà di mettere in dubbio la mia onestà professionale e personale: che poi sono, ovvio, la medesima cosa.
Ora mi è più facile dirti addio.
Peccato. Ma addio.
Oriana Fallaci
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