#grande giorno per le persone che parlano solo un po' di italiano (<- me)
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Lettera a un razzista.
Durante il primo anno della Triennale in Scienze e Tecniche Psicologiche, mentre mi sentivo una donna vissuta perché “andavo all’università” ed ero uscita dal liceo con tutte le mie innumerevoli esperienze e conoscenze, sono state proiettate sulla lavagna le definizioni di pregiudizio e stereotipo. Forse proprio da quel momento, ho cominciato a interessarmi in modo particolare alla Psicologia Sociale, perché aveva permesso che tutto ciò che ero certa di sapere e tutte le mie sicurezze cadessero. Il pregiudizio, secondo la definizione all’interno del manuale che avevamo all’epoca, di M. A Hogg e G. M. Vaughn, è: “un atteggiamento sfavorevole e talvolta ostile verso un gruppo sociale e i suoi membri e un atteggiamento dominato da tendenze sistematiche cognitive e dall’abbondate utilizzo di stereotipi.” Da qui, si arriva alla discriminazione che, sempre secondo gli autori, è definibile come un “comportamento basato sul trattamento ingiusto di determinati gruppi di persone e non deriva sempre da un pregiudizio di fondo.” Nel libro dal pregiudizio si arriva alla deumanizzazione, fino ad arrivare al genocidio, fino a toccare il razzismo. Eccoci al punto. Ho fatto tutto questo preambolo per arrivare qui, a un argomento ormai quasi scontato perché tutti ne parlano e allora dato che tutti lo fanno, ho deciso di farlo anche io.
Sempre secondo ciò che v’è scritto sul manuale di psicologia sociale, il razzismo è “una forma di pregiudizio e di discriminazione verso le persone sulla base della loro etnia o della loro razza”. Dopo le elezioni europee, mi sono sentita in dovere di fare un po’ di pulizia di “Amici” su Facebook: per fortuna le persone che ho eliminato non sono miei amici stretti, ma solo amici di social. Ho avuto modo di parlare, per mia sfortuna aggiungerei, con persone che fanno del loro ostinato razzismo, un vanto e non una vergogna. Ciò che mi ha colpita (sì perché ho quel difetto di rimanere ancora basita di fronte a determinate affermazioni) è, principalmente, l’incoerenza di queste persone.
Parto con un altro preambolo: quando ero alle elementari, i bambini stranieri nella mia classe erano pochi, quattro o cinque. Addirittura, se non ricordo male, nell’altra sezione erano tutti italiani. In ogni caso, non so perché, non mi sono mai posta il problema, né tanto meno mi è stato mai rimproverato il fatto che fossi una bambina solare e disponibile verso tutti, le mie migliori amichette all’epoca erano tutte di colore. Andavo d’accordo con tutti, maschi, femmine, alti, bassi, biondi o mori; non c’era un bambino che mi stesse più antipatico di un altro, ma quelle con cui passavo più tempo erano bambine di colore. Un giorno è successo un evento che ricordo ancora oggi in modo cristallino: eravamo in terza o quarta elementare e doveva essere più o meno la fine dell’anno. Un giorno due compagni hanno litigato, una di questi era una delle mie amichette del cuore. Ricordo che gli insulti piovuti su quella bambina erano da considerarsi troppo già per un adulto, figurarsi per qualcuno che non lo è. Ricordo le lacrime della mia amichetta e che, in sua difesa, avevo scritto molti biglietti con delle parolacce (completamente a caso) che avevo poi fatto recapitare al compagno che aveva insultato la mia amica. Senza contare che quel giorno, ci sarebbero stati i ricevimenti genitori – insegnanti. Ma questa è un’altra storia.
Questo per dire che già da bambina, io non vedevo differenze tra colore della pelle. Vedevo differenze tra me e altri, che non avevano proprio nulla a che fare con il colore della pelle. Non voglio che mi si dica che ero una brava bambina, egoisticamente so già di esserlo stata. Quello che vorrei, però, è una risposta alla seguente domanda: se più o meno tutti noi (nati negli anni ’90) siamo stati in classe con persone straniere, con cui abbiamo giocato, parlato, con cui siamo cresciuti, perché adesso quelle stesse persone straniere sono additate come stupratori, spacciatori, ladri eccetera, eccetera? Mi spiego meglio. Quando ho parlato con le persone che citavo prima, mi è stato detto che i migranti non possono essere tutti accolti da noi e che vengono qui, appunto, a spacciare, a stuprare, a uccidere e a rubarci il lavoro. Quando io, in risposta all’ennesima: “Ah sti n***i di m***a vengono qua a rubarci il lavoro”, ho detto “Ma scusa, allora non dovresti essere amico di Pinco Pallo perché è di colore…”, la risposta è stata “Eh no perché lui lavora. È regolare.” Eh no. Non funziona così. Perché se lavora, quel posto di lavoro, secondo il discorso fatto fin qui, spetta a un italiano. O no? Senza contare che sempre nero è, o no? Cioè tu che sei mio amico puoi stare sereno anche se il colore della tua pelle fa schifo, tu invece che non ti conosco e stai lì a chiedere l’elemosina e sei pure nero meriti di tornartene da dove sei venuto. Uno di questi individui, inoltre, alla mia domanda ��Scusa… Tu dici che ci rubano il lavoro, ma tu ci andresti a lavare i patti, pulire i cessi, raccogliere pomodori per due euro l’ora?” ha risposto: “Io? A pulire i cessi? Ma per chi mi hai preso?” Già, come immaginavo. Questa persona sta a casa, sulle spalle di mamma e papà, non studia, non lavora ma va in giro con il suo scintillante ultimo modello di cellulare che ti passa la carta quando sei sul water e ti accende la sigaretta senza bisogno dell’accendino, mentre mamma e papà vanno a lavorare per mantenerla. Però pulire i cessi no.
Ma andiamo avanti. Un’altra che sento spesso dire è “Vengono qua e stuprano e uccidono!” e giù una valanga di stupri e omicidi commessi da stranieri. È ovvio che non sto difendendo gli stranieri che stuprano, né quelli che uccidono. Eppure l’altro giorno, apro Facebook, e sul Secolo XIX appare la notizia “Violenza sessuale su una ragazzina: arrestati padre, madre e patrigno”, corro a leggere, mi chiedo come mai non ci sia nessuna specifica sull’etnia e, sgomenta, mi rendo conto: sono italiani. Ancora, qualche sera fa, nemmeno tanto lontano da dove abito, vengo a sapere che un uomo ha messo le mani addosso alla fidanzata. Vado in cerca della notizia per saperne di più: italiano. Questo per dire che, come ci sono gli stranieri che stuprano, incredibilmente, anche gli italiani non sono degli angeli venuti dal cielo che trattano le proprie donne come principesse. O almeno, non tutti... Proprio come non tutti gli stranieri violentano le “nostre” donne.
Proseguiamo. Un’altra frase che sento dire è: “Allora mettiteli in casa tu.” Resta una delle mie preferite. La mia risposta a questa affermazione è no. Perché, a meno che io non conosca quella persona (un amico in difficoltà, un parente), non mi metto in casa né italiani né stranieri e non so quanti di voi effettivamente se arrivasse uno sconosciuto italiano ve lo mettereste in casa, sbaglio?
Un’altra questione sollevata è stata “Sì, ma dobbiamo prenderli tutti noi! Gli altri stati cosa fanno? Perché noi sì e loro no?” Io non lo so, sarà che mia madre quando dovevo andare a una festa o in discoteca, la scenetta che mi propinava ogni volta era sempre questa:
“Mamma vorrei andare a ballare sabato sera.” “No.” “Perché no? Anastasia e Genoveffa ci vanno!” “A me non frega niente di Anastasia e Genoveffa, a me frega di te. E tu non ci vai.”
Punto. Fine. Per questo dico che, io non voto negli altri stati, voto in Italia e del futuro di questa mi devo preoccupare. Nel senso che se lo Stato X decide di uccidere tutti i cuccioli di cane, posso essere in disaccordo e dire la mia, sostenendo che comunque mi sembra una scelta da trogloditi, però io Italia non scelgo di seguire questa corrente di pensiero, dato che ho le capacità cognitive per farlo, e cerco di rendere l’Italia uno stato civile senza uccidere cuccioli innocenti, dico bene o dico giusto?
Arriviamo a due terribili eventi successi in questi giorni. La vicenda del padre e della bambina morti annegati nel Rio Grande per cercare una vita migliore e i migranti sulla Sea Watch. Qui, i commenti davvero si sprecano. Quante parole meravigliose per i primi due, commoventi alcune, davvero. Il padre e la bambina stavano attraversando il Rio Grande, il confine tra Messico e USA, proprio per raggiungere questi ultimi per cercare di ottenere una vita migliore. La bambina non aveva nemmeno un anno. Eppure ho letto dei commenti, dagli stessi che affermano che quelli sui barconi devono essere aiutati a casa loro, che erano rammaricati per la morte di padre e figlia. Ancora una volta, l’incoerenza e l’ignoranza regnano sovrane. Bruce Springsteen, nella sua Matamoros Banks contenuta nell’album Devils and Dust, è stato, purtroppo, profetico.
“Each year many die crossing the deserts mountains, and rivers of our southern border in search of a better life here I follow the journey backwards from the body at the river bottom to the man walking across the desert towards the banks of the Rio Grande.
For two days the river keeps you down then you rise to the light without a sound past the playgrounds and empty switching yards the turtles eat the skin from your eyes so they lay open to the stars”
Ossia:
“Ogni anno molte persone muoiono attraversando deserti montagne e fiumi dei nostri confini meridionali in cerca di una vita migliore qui seguo il viaggio al contrario dal corpo sul letto del fiume all’uomo che cammina per il deserto verso le rive del Rio Grande.
Per due giorni il fiume ti tiene giù poi sali alla luce senza un suono passi i luoghi di villeggiatura e vuoti scali di smistamento le tartarughe mangiano la pelle dai tuoi occhi così giacciono aperti alle stelle”
La Sea Watch è stata quattordici giorni in mezzo al mare con 42 persone a bordo. Il 26 giugno il capitano della nave Carola Rackete ha deciso di entrare, nonostante il divieto, in acque italiane per portare queste persone in salvo. Già: persone. Perché a volte ci dimentichiamo proprio questo.
Ci dimentichiamo di essere empatici. Anche questo è un concetto che ho potuto conoscere meglio negli anni dell’università: l’empatia. Ossia la capacità di immedesimarsi in un’altra persona, provare le emozioni di un altro, cercare di comprendere lo stato d’animo altrui. E allora, un’altra cosa che non riesco a comprendere e che mi chiedo continuamente è: perché una persona dovrebbe salire su un barcone, insieme a migliaia di altre persone, senza nemmeno la certezza di arrivare viva a destinazione? Perché una donna incinta dovrebbe salire su quei barconi? Magari portandovi anche un bambino piccolo. Io, se mi immedesimo in una donna incinta, mi dico “Piuttosto che salire su quella maledetta barca, sto dove sono.” Poi, però, se ci rifletto meglio sono costretta a pensare che, effettivamente, per arrivare a fare una scelta così tragica e pericolosa, il rischio che si corre a restare dove si è, dev’essere per forza maggiore che quello di mettersi su una barca con la stabilità di un materassino. E, a proposito di donne, vorrei sprecare due parole per la capitana della Sea Watch 3: Carola Rackete. Bene. Allora a tutte le bambine, a tutte le ragazze e donne io auguro di essere sbruffoncella, coraggiosa e umana un quarto di quanto lo è stata Carola, la quale una volta accortasi della fortuna che aveva, ha deciso di mettere questa sua buona sorte a servizio di chi non sapeva nemmeno che cosa volesse dire. I commenti per lei sono rivoltanti, poche volte ho letto parole così becere e disgustose nei confronti di qualcuno, per questo motivo non le riporterò, perché solo ripensare a quei commenti mi fa venire un travaso di bile. Mentre ci sono, per fortuna, donne come Carola Rackete, ci sono altre donne che la insultano e le augurano le peggiori cattiverie. Donne che insultano donne. Donne che sanno che lo stupro è la cosa più aberrante, scioccante e disgustosa che possa accadere a un'altra, inneggiano alla violenza carnale da parte dei "ne**i" nei confronti di colei che li ha portati in salvo.
Io non sono un membro del governo, né mai farò parte di esso, ma sono una libera cittadina e sono anche libera di esprimere la mia opinione riguardo a fatti che mi toccano da vicino. E quando a chi protesta viene tolta la possibilità di dire la sua su qualsivoglia argomento, io mi arrabbio.
Sarà che anche io ho fatto parte, in qualche modo, di “minoranze”, per così dire: alle elementari venivo presa in giro perché ero una delle poche a essere già formata, perché portavo gli occhiali e perché avevo un apparecchio per i denti che mi impediva di parlare (ma non di pensare!), per non parlare delle mie amicizie. Alle medie non ero di certo presa in considerazione dai miei compagni maschi, non ero affatto carina: avevo i brufoli, gli occhiali, la coda di cavallo, per questo meritavo di essere bullizzata e non rientravo nei canoni di bellezza ed, evidentemente, rispetto in cui erano le altre bambine. Anche in questo caso non ho bisogno di sentirmi dire “Oh, poverina. Tutti abbiamo avuto un’infanzia difficile.”, la mia non è una richiesta di attenzione. Perchè io, al contrario di altri, non sono stata costretta a vedere mia madre che veniva stuprata di fronte ai miei occhi, oppure a vedere il cadavere di mio fratello ridotto a un colabrodo a causa dei proiettili. Quindi benvengano le prese in giro. In ogni caso questi affronti non mi sono mai piaciuti, mi davano estremamente fastidio, nonostante fossi consapevole che erano delle “bambinate”, perciò se mi davano fastidio quelle scemate, figuratevi come mi sento quando leggo che 42 persone sono rimaste in mezzo al mare, sotto il sole cocente di questi giorni. Mentre noi ci lamentavamo del caldo, loro riflettevano su quanto si dovessero sentir male per poter essere trasportati a terra. Eppure devo ancora stare a guardare persone che sostengono che questi poveretti arrivano con le nike ai piedi, che le donne incinte sono usate per delinquere (sì forse questa è nuova, ma hanno avuto il coraggio di dirla davvaro), che hanno i cellulari! Sarà, forse, a causa della facoltà che ho scelto dove la persona è proprio il mio oggetto di studio. Sarà che mio papà mi ha fatto guardare, fin da piccola, tre telegiornali a pranzo e tre a cena, perciò volente o meno le cose mi entravano in testa e mi hanno formata. Sarà che mi è stato insegnato a non essere superficiale e a conoscere una persona, prima di giudicarla solo dal colore della pelle. Mi hanno insegnato anche che la violenza ha migliaia di sfaccettature e di modi di mostrarsi, comuni a tutti gli uomini. Non so perché sono cresciuta così e so che a non spendere tempo nello studio, nel non documentarmi, nel non leggere, avrei molto più tempo per pensare ad altre cose, magari più divertenti e allegre, senza stare a preoccuparmi della gente che muore scappando dall’inferno che tanto, mica li conosco. Sì forse starei meglio, ma forse non sarei a posto con la mia coscienza. In conclusione, so benissimo che chi dovrebbe riflettere e documentarsi su questi temi non verrà di certo a leggersi questo articolo, soprattutto perchè è molto lungo. Perché, diciamocelo, citando i Beatles, “Living is easy with eyes closed”, “Vivere è facile con gli occhi chiusi”; ed è questo ciò che dovrebbe spaventare di più: il fatto di girarsi dall’altra parte, di chiudere gli occhi di fronte a queste tragedie, di fronte ad altri esseri umani, ché tanto il pensiero predominante è quello dell’ “Eeeh vabbè”. Quando espongo questi miei pareri ad altri, chiacchierando in un bar nella mia tranquilla cittadina che non conosce i bombardamenti o la paura di non riuscire ad arrivare al giorno seguente, alcuni mi dicono: “Eh ma cosa ci vuoi fare? Dobbiamo prenderne atto. Passerà.” Sì, passerà, nel migliore dei casi, ma quando? Per quanto ancora dovrò svegliarmi la mattina, aprire l’app di Facebook e vedere la foto di un bambino a faccia in giù nell’acqua? Quante volte dovrò vedere che a coloro che manifestano è stato tolto il diritto stesso di manifestare? So che posso lamentarmi quanto voglio e che i dati parlano chiaro, ma niente e nessuno mi potrà impedire di dire che non mi sta bene, perciò vi lascio con una domanda:
“Che cosa farei io, se fossi al posto loro?”
Se fossi su quel barcone, stremata dal caldo, dopo giorni di viaggio, non vorrei essere salvata? Non vorrei solo mettere i piedi sulla terra ferma e avere un letto dove dormire? Siamo davvero arrivati al punto (di non ritorno, per quanto mi riguarda) di voltare le spalle a chi chiede aiuto? Siamo davvero diventati così cattivi da non vedere sul volto di una persona, la sofferenza? Dicono che la speranza sia l’ultima a morire. Mi chiedo quale sia il momento preciso in cui le persone sui barconi perdono la speranza o se, quando salgono, non la abbiano già più. La perdono quando uno di loro cade in mare e magari non sa nuotare o quando sentono i loro compagni urlare dalla stiva per cercare di uscire perché là sotto non c’è aria e non c’è spazio per tutti, finchè dopo un po’ le urla terminano e non c’è più alcun rumore? O forse, la perdono quando un bambino non è accompagnato e sta lì seduto, da solo e impaurito? Io non so se chi detta legge si sia mai posto queste domande, se chi urla a Carola Rackete che deve essere stuprata abbia mai provato a immedesimarsi in qualcun altro. L’unica arma per combattere questa freddezza, questa cattiveria che sta dilagando è la divulgazione della cultura. Per questo ho scritto questo articolo, per cercare di far aprire gli occhi a chi preferisce non vedere ciò che gli accade intorno. Finchè si vivrà pensando di valere qualcosa in più di un altro solo perché si è nati dalla parte giusta del mondo, si tornerà solo indietro.
Bibliografia:
M. A. Hogg, G. M. Vaughn, Psicologia Sociale: Teorie e applicazioni. (2012), Pearson.
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A Ventimiglia, dove la frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra, c’è chi fa entrare tutti, senza chiedere i documenti e dispensando umanità: una signora di 55 anni, Delia. «Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”, basterebbe già quello a cambiare le cose»
Alcuni lo chiamano con disprezzo «il bar dei negri». Si trova a pochi passi dalla stazione di Ventimiglia. «Gestisco questo posto da 15 anni» dice Delia, 55 anni, figlia di commercianti. «Tre anni fa mi ha aiutato mio fratello per alcuni mesi perché seguivo mia madre in ospedale, è stato lui ad aprire le porte ai primi ragazzi. Io li chiamo ragazzi, immigrati non mi piace, e poi immigrati lo siamo un po’ tutti».
NELL’ESTATE DEL 2015 la Francia ha applicato gli «Accordi di Chambery» che prevedono la possibilità di respingere i migranti da un paese all’altro. Per farlo bisogna violare un accordo chiave dell’Ue, Schengen, che vieta controlli sistematici alle frontiere. Da tre anni sono iniziate le operazioni al confine che rimandano indietro chi è sprovvisto di documenti francesi. Molti migranti in transito rimangono a lungo bloccati a Ventimiglia.
Nel bar di Delia a mezzogiorno ci sono poche persone. A un tavolo tre ragazzi parlano. Due sono attivisti della rete 20k, che unisce diversi gruppi locali impegnati nella solidarietà. Il terzo vive a Ventimiglia da qualche anno, viene dal Pakistan. «Quest’anno c’è meno gente» mi dicono.
«MOLTI ATTIVISTI sono stati allontanati con denunce e fogli di via. E i migranti sono vessati. Tra i respingimenti brutali della polizia francese e le retate di quella italiana. Il campo dei Balzi Rossi, dal quale nel 2015 partivano le manifestazioni per chiedere l’apertura dei confini, è stato sgomberato due anni fa. Questa primavera è stata evacuato anche l’accampamento a Via Tenda. Quasi ogni settimana partono pullman pieni di persone fermate per strada e spedite all’hotspot di Taranto, misura costosa e inutile perché chi può torna qui, per provare a uscire dall’Italia. Oggi i pochi rimasti in città si devono nascondere nelle anse del fosso. Fare solidarietà attiva è sempre più difficile mentre fiorisce il business dei passeur, persone che offrono passaggi per la Francia in cambio di soldi».
AL BANCONE DEL BAR c’è la signora Delia, le dà una mano Alessandra, sua nipote. «Non posso più permettermi di assumere. Da ormai tre anni i clienti non entrano più in questo bar. Solo perché faccio entrare tutti e do una mano a chi ha bisogno. Sono stata insultata e boicottata da chi passava di qua e vedeva qualche ragazzo nero fuori o al bancone. Oggi rischio di chiudere. Ho problemi di salute e andare avanti è faticoso». Il bar Hobbit è centrale eppure, a parte solidali e migranti, non entra nessuno.
NEL POMERIGGIO ARRIVANO due ragazze, anche loro attive nelle azioni solidali che dal 2015 hanno preso vita dentro ma soprattutto fuori le ong che operano sul campo. «A Ventimiglia ce ne sono pochi di posti così» dicono «nessuno in centro. Negli altri bar rispondono male ai ragazzi stranieri, oppure chiamano la polizia. Delia è stata tra i pochi ad aprire le porte. Qui possono entrare e consumare o anche solo riposare e caricare il telefono. Molti arrivano e vengono a sapere di questo bar tramite il passaparola». Il bar di Delia offre alle persone in transito una delle cose più preziose nel percorso doloroso e solitario della fuga: la socialità.
«IO SONO UN’IMMIGRATA DOC» dice Delia «appena nata venni in Liguria con i miei genitori dal Sud. A tre anni emigrai in Australia. Lì ho fatto le scuole elementari. A 10 anni i miei mi hanno riportata in Italia. Mi vestivo, mangiavo, e parlavo in maniera diversa dai miei coetanei e per questo sono stata maltrattata. Mi sono sentita immigrata in patria. Ho voluto trasformare la mia esperienza negativa in qualcosa di positivo. Evitare che altri patissero le mie stesse sofferenze». Il bar ha una saletta sul retro, dentro ci sono tavoli e scaffali. Libri, quaderni e materiale scolastico. Due anni fa Delia e una sua amica hanno organizzato un corso di italiano gratuito.
A VENTIMIGLIA LE STRUTTURE per l’accoglienza sono scarse. L’unica attrezzata è il campo della Croce Rossa, trasferito fuori città per le lamentele dei residenti. Per entrarci bisogna registrarsi e fare domanda di asilo in Italia. Ma la maggior parte delle persone che arrivano al confine desiderano andare in Francia o Gran Bretagna, richiedere asilo in Italia sarebbe controproducente. Altri scappano dalla povertà e probabilmente non otterrebbero lo status di rifugiato. Dopo gli sgomberi molti vivono nascosti, vengono per la distribuzione di un pasto gratuito da parte del collettivo Kesha Niya sotto il ponte di via Tenda, anche se il comune sta cercando di ostacolare l’accesso costruendo muretti e reti.
«NON RIESCO A FAR FINTA di niente» racconta Delia, «vedevo per strada bambini che piangevano di caldo, di sete, senza che nessuno facesse nulla. Li ho fatti entrare, ho dato da mangiare gratis se non avevano soldi. Ho messo una sdraio per far riposare le donne incinte. Alcune passano la giornata in piedi perché non hanno un posto dove andare. Ho visto tante persone che si vergognano a chiedere aiuto. La scorsa settimana è entrato un uomo sulla cinquantina, veniva dal Sudan. Non ha detto niente ma ho capito. Gli ho fatto un piatto di pasta, ci ha messo 3 ore a mangiarlo. Poi mi ha detto che non mangiava da 4 giorni».
LA SCELTA DI DELIA, sembrerebbe straordinaria visti i tempi, ma raccontata da lei, appare come l’unica possibile. «Io non ho mai fatto politica» aggiunge «sono una lavoratrice, non ho mai avuto un credo particolare. Faccio solo ciò che sento. Gli altri esercenti, sono loro nel torto, se conoscessero la professione saprebbero che negli esercizi pubblici si devono far entrare tutti. Io poi a volte ci metto del mio e quello che posso lo do. Anche se odio quando c’è qualcuno che se ne approfitta». Tuttavia in questi tre anni i problemi del bar non sono stati creati dai ragazzi che lo frequentano ma soprattutto dai clienti italiani che hanno disertato il posto e dalle istituzioni che l’hanno tormentato con presidi all’esterno e controlli igienico sanitari. «In 40 anni di lavoro non li avevo mai visti tutti questi controlli» dice Delia «mi genera ansia sentirmi presa di mira, insieme alla precarietà economica della mia attività».
DA PIÙ DI UN ANNO collettivi, ong, e persone solidali di Ventimiglia e dintorni hanno scoperto la realtà del bar Hobbit. Da allora organizzano delle inziative di sostegno per il bar. «D’estate riesco ad andare avanti grazie all’aiuto delle persone che vengono a fare aperitivi o mi mandano comitive di volontari, ma d’inverno diventa difficile. La città si svuota e quelli che dovrebbero garantire le entrate sono i ventimigliesi che lavorano nei dintorni». Da loro invece il bar di Delia non ha ricevuto mai sostegno «mi hanno sputato, mi hanno intimato di chiudere, hanno sfasciato per dispetto la serratura di quella porta d’ingresso, è ancora rotta non ho i soldi per aggiustarla».
NEL BAR ENTRA UN RAGAZZO nero, camicia e dossier in mano, saluta Delia calorosamente «lui ha fatto il corso di italiano qui al bar» dice lei con un grande sorriso «adesso lavora per l’Oxfam». «Sono appena tornato da Mentone Garavan ero lì a monitorare» dice lui. Mentone è la prima cittadina francese al confine. La piccola stazione è presidiata da pulmini della polizia francese e tutti i treni che arrivano dall’Italia vengono fermati e perlustrati. Controlli su base razziale avvengono sistematicamente. Il confine è presidiato su due punti, entrambi militarizzati. La frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra».
«Ho un piccolo fazzoletto di terra fuori città, aggiunge Delia, potrei far lavorare qualcuno dei ragazzi, mettendoli in regola. Ma purtroppo non è possibile. I vicini non vogliono vedere neri. È una questione cromatica, hanno paura del colore della pelle».
L’ECONOMIA DI VENTIMIGLIA – in realtà – è foraggiata dalla crisi del confine, tra dipendenti delle ong e forze dell’ordine, un nuovo indotto economico è stato portato nella città proprio dalla presenza dei migranti. Eppure molti si lamentano. «Questa situazione difficile mi ha portato anche tante cose belle. Ho conosciuto persone che come me aiutavano gli altri e questo mi ha fatto sentire meno sola. Anche con alcuni ragazzi sono nati rapporti di amicizia, mi hanno ribattezzata mama africa» dice ridendo «uno di loro è diventato un amico di famiglia, lo invitiamo al ristorante con noi, lui si imbarazza per come la gente ci guarda, non sono abituati a vedere un nero al ristorante». «Mi fanno rabbia certe persone» continua «mandano i figli a studiare all’estero per un futuro migliore e maltrattano gli immigrati. Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”. Basterebbe già quello a cambiare le cose». Mama Africa ha gli occhi lucidi, mentre alcuni attivisti di passaggio al bar avvertono che domani saranno fatti i pullman per Taranto. Vuol dire che la polizia girerà per le strade cercando persone da deportare nell’hotspot pugliese. Per chi è in strada domani non sarà un giorno di pace.
Shendi Veli
da il manifesto
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Olga
Olga Ho conosciuto Olga sei anni fa. Era in un villaggio turistico dove facevo l'animatore. Ci piacemmo da subito, lei era di Kiev, io di Milano.
Una passione durata un estate. Olga è intelligente e riservata, segue i canoni stereotipati delle donne dell'Est.
Olga non è cambiata molto ma addosso mi sento la sgradevole sensazione di aver incontrato una sconosciuta. È cambiata. Ma forse è solo una sensazione a pelle. Mi dice che deve fare delle commissioni. Sono stanco. Mi porta in periferia e nonostante io non protestassi per nulla la mia stanchezza è palese sul mio viso. Un ora, due ore, non mi sembra vero si va a casa. Sono stanco. La casa di Olga è un trilocale modesto. Eredità comoda di una zia. Mi racconta, conviveva da un paio di mesi con un ragazzo. É finita, dopo otto anni. Ha trovato lavoro in un call center. Quattrocento euro al mese. Le permettono di vivere bene, Kiev non è Milano. Sono stanco, prepariamo la mia camera, si parla, si ride, è un lampo i vestiti sembrano superflui. Olga è mia di nuovo. Pura fisicità. La voglia dove stava? Disinibita e lasciva me la mostra. Era sempre li sulla natica sinistra. Intenso, fisico, piacere. Non sentivo alcun trasporto. Era pura fisicità. Obbiettivamente potevamo dormire assieme. Quel letto disfatto nell'altra camera sarebbe rimasto così. Sono stanco. Dormo. Olga la mattina non fa molta attenzione, si muove per la stanza senza badare a me che dormo, colazione, tortellini con la panna, otto del mattino. Me lo faccio andare bene, sono ospite. Ancora una volta è mia. Ancora quel mattino. Usciamo. Commissioni e giri della città. Poco turistica ma la zona che mi mostra è bella. Torniamo a casa. Bussano. Un ragazzo alto e biondo si presenta con un sorriso, Olga ci presenta. Anthony è venuto a prendersi dei vestiti. Olga va a fare una doccia. Sono imbarazzato. Lui è il suo ex. Non batto ciglio e lui mi parla dell'importanza di quella donna nella sua vita. Mi chiede chi sono, un amico, non sospetta è ingenuo, si sfoga con me. Tony va via con la falsa convinzione di ritornare con Olga prima o poi, mi sento stranito. Non parlò. Olga ha dei bellissimi capelli biondi. Si è preparata, usciamo. Maria e Zachary sono i suoi amici, sono affabile, sono tranquillo, mi sento un po fuori luogo ma forse è perché non siamo in Italia, non sono amici miei. Zack è un uomo di quasi quaranta anni, è il più vecchio tra noi, per quanto ognuno di noi abbia già superato la trentina da almeno due anni. Maria è la migliore amica di Olga. Bruna e paffuta, nulla da segnalare, abbiamo la stessa età. Ceniamo in un ristorante, mangiò discretamente, sette euro a persona, il caro vita è diverso, tutto è diverso. Zack, Maria e Olga parlano inglese con me, ma sono più le volte in cui mi isolano parlando Russo che le volte che si riesce a chiudere un discorso nella lingua che conosco. Il Russo lo mastico da poco faccio fatica a capire. Sono infastidito. Lo trovo poco educato. Zack più volte prende da parte Olga e gli parla, complici, come i sorrisi che si scambiano. Mi faccio i fatti miei non ho interessi futuri verso di lei, ma è solo il gesto ad essere poco educato. Prendo Olga da parte, le spiego, non è carino per me che sono li in visita essere isolato così dalle conversazioni. Si scusa. Mi chiedono del dopo cena, giro in un museo o locale in cui si organizza il dialogo libero, un posto dove gente che non si conosce prende da bere e inizia a socializzare con chi che sia. Faccio l'animatore da quando ne avevo diciotto non è il caso, non ne ho voglia, conosco in media una transumanze di persone ogni anno da ogni tipo di paese, etnia, ceto sociale, sono li per lei, non per socializzare. Dico palesemente che non mi va. Siamo in auto, non capisco dove mi portano, hanno ricominciato a parlare Russo. Ormai i nervi sono solleticati. Andiamo in un locale. Sospetto. Tante persone. Cocktail, musica, non è troppo alta. Gente che si avvicina e parla liberamente senza imbarazzo con noi, con me. Mi hanno preso per il culo. Ridono. Mi altero, bevo. Passo la serata con un altre persone, Olga e Zack si appartano più volte, Maria nemmeno mi parla. Sono alterato. Voglio andarmene. Sono alterato dell'alcool, voglio tornare a casa. Un americano brillo mi si avvicina, voglio andarmene. Torno da Olga e le spiego che quella situazione non mi piace, sto male e sono brillo, voglio andarmene. Mi propongono la discoteca vicina, ballare. Ballare alle due del mattino mezzo brillo e con il nervoso addosso? Non mi sembra il caso. Rifiuto, gli urlo contro. Olga mi lancia stizzita le chiavi della macchina di Zack e mi dice che posso andarmene a casa da solo. Non so raggiungere casa sua, non sono del posto. Mi arrendo. Abbozzo. Stranamente sono stato ascoltato mi portano a casa. Zack e Olga parlano in auto, Maria risponde. Ancora russo. Finalmente a casa, quella di Olga, scendemmo dall'auto di Zack in tre, io e Olga e Maria. Mi sembrava così strana quella decisione. Ormai venivo trattato con sufficienza, chiesi spiegazioni ad Olga. Zack si voleva assicurare che io non facessi del male ad Olga, sopratutto dopo la discussione al locale. Sono sbalordito. Apriamo una parentesi sul caro Zack, non mi è chiaro il suo lavoro, poco importa, ma ho voluto chiedere a Olga qualcosa visto che molte volte in mia presenza i due sembravano gradire della Privacy ed erano molto complici. Zack è solo un amico e lo ha conosciuto poche settimane prima, tra loro non c'è nulla. Torniamo a noi, a casa di Olga. Maria si sistema per la notte e va a dormire in camera di Olga, quindi do per scontato che io debba dormire nella famosa stanza per gli ospiti. Non vi era alcuna chimica alcun messaggio strano, nulla che potesse presagire qualcosa di erotico, Maria era seriamente li per proteggere Olga e io passai una notte intera a rigirarmi nel letto con lo stomaco sotto sopra. E' mattino. Decido di alzarmi presto per andare nel più vicino bar e comprare qualche merendina o cornetto, preparerò io la colazione, magari una che non comprenda la carbonara di primo mattino. Torno. Le due dormono profondamente, Olga si è presa alcuni giorni di permesso dal suo lavoro, Maria non so nemmeno che cosa faccia per vivere, ma è meglio non dare voce ai miei pensieri su questo argomento. Si svegliano, non fanno nemmeno finta che il gesto sia stato apprezzato. Maria è taciturna. Olga mi parla a stento. Propongo con fare affabile una cena italiana, mi sarei messo a cucinare qualcosa. Olga quel giorno ha da fare, Maria non parla. La cena si può fare, andrò io a prendere gli ingredienti al supermercato. Ho passato un intera giornata sentendomi di troppo e finalmente arriva l'ora di cena. Zack suona alla porta. Di Zack non ho nulla da dire. E' un bravo ragazzo e si vede da come guarda Olga che prova per lei qualcosa tra l'adorazione e l'amore. Zack è un bravo ragazzo. Noto da subito che i toni a cena sono più distesi. Zack parla con me normalmente, Olga e Maria ancora faticano, ma abbiamo parlato con tranquillità. E' ora di dormire, io parto tra due giorni. Zack esce di casa e dopo nemmeno cinque minuti ritorna con un borsone, un borsone bello grande. La casa inizia a sembrarmi affollata. Mi innervosisco. Olga mi tratta ancora con sufficienza, chiedo spiegazioni. Olga si è accorta che Zack è un vero uomo, che io Italiano sono maleducato, a Kiev le donne devono essere omaggiate sempre e devono avere un trattamento da principesse dall'inizio alla fine. L'italiano non le apre la portiera, non le scosta la sedia così che lei si accomodi, non le cede il passo. Zack è un vero uomo e forse è l'uomo della sua vita e hanno deciso che andrà a vivere li con lei. Un pensiero, Anthony, ho detto tutto. Sono quasi le due di notte e la discussione non termina, sono stato malissimo. Mi ha anche intimato di andarmi a cercare un albergo per la sera perché li non c'era più posto. Sono andato in camera e ho iniziato a rifare la mia valigia. Sono incazzato. Ma come posso vendicarmi con lei? Ho uno stimolo. La cena è stata indigesta. Sarà il nervoso? Vi ricordate quelle commissioni? Quelle dove ero stanco ed appena arrivato a Kiev, Olga ha comprato un paio di stivali nuovi, quelle. Un paio di stivali è fuori dalla scarpiera in bagno, sono loro. Vi dico solo che avrei dato tutto per vedere la sua faccia il giorno dopo quando vi avrebbe infilato il piede sinistro. Ebbene si, ho trovato il mio sfogo. Non cerco nessun albergo, chiamo un taxi e mi faccio portare in aeroporto. Torno in Italia, la mattina stessa. Cosa mi resta di Olga? Delle Mail dove mi accusa di essermi auto invitato a Kiev e di averla costretta ad avermi in casa. Era tutta colpa mia. Non vi elenco i molteplici insulti che le ho scritto. Nelle ultime mail che ci siamo scambiati non vedevo l'ora mi dicesse dei suoi stivali invece ha concluso tutto con un “hai messo le tue sudice mani dappertutto!”. Cosa avrà voluto dire? Avrà trovato il mio regalino? Ho bloccato Olga nei miei contatti. Su Facebook, ovunque. Per certe persone non ci sono commenti che tengano. Ormai sono Italia e ci rido sopra. Rifaccio la valigia e si riparte per un altra stagione. Chissà se incontrerò un altra Olga. Chissà se avrà un altra voglia, da qualche parte, che plachi la mia. Arri sentirci...
Davide.
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Dalla valigia di cartone al web: il movimento inverso delle generazioni migranti
Torniamo a proporvi alcuni spunti tratti dalle nostre interviste migranti agli italiani che vivono in Svizzera. La nostra prima curiosità è quella di definire e descrivere le caratteristiche delle tante e per certi aspetti “nuove” mobilità italiane oltre confine. Il fatto sociale è un ritorno numerico importante di cittadini italiani che si trasferiscono in Svizzera per vivere e lavorare. Dopo un periodo di relativa pausa (dalla metà degli anni ‘70 ai primi anni del 2000), la storica comunità italiana è ripresa a crescere in modo costante. Ad arrivare sono persone con profili molto diversi tra loro per età, professione, motivazione dello spostamento, obiettivi e modi di vivere da stranieri all’estero. Chiaramente uno dei motivi di questi nuovi arrivi è la consolidata crisi economica in Europa e in Italia in particolare. Persone che lavoravano stabilmente, soprattutto dal Sud della penisola, hanno perso in lavoro oppure si sono rese conto dell’impossibilità di un avanzamento di carriera o di ottenere condizioni di lavoro migliori. Chi ha studiato anche a lungo, cosa che adesso succede con più frequenza di cinquant’anni fa, si ritrova spesso con una laurea in mano ma poche conoscenze spendibili nel mondo del lavoro, saturo e occupato dalle generazioni precedenti. Il risultato è che queste persone decidono di spostarsi. Non sono in fuga come i rifugiati di guerra e non sono più cervelli di quanto lo siano questi ultimi. Sono persone che hanno la capacità di spostarsi e che grazie allo strabiliante sviluppo dei mezzi di comunicazione digitale degli ultimi venti anni e dei mezzi di trasporto, possono farlo in modo più semplice, economico, veloce, consapevole e informato di qualsiasi altro periodo precedente nella storia dell’umanità. In Svizzera la storia degli italiani è resa ancora più intensa e interessante da alcune peculiarità. La migrazione storica italiana in territorio elvetico (dove gli italiani arrivarono praticamente per primi già dalla fine dell’800 ma in massa a metà del ‘900) rende il percorso degli italiani che arrivano adesso diverso. Non ci muoviamo in un vuoto storico e sociale ma ci portiamo appresso rappresentazioni, storie, stereotipi, traguardi che ci collegano ad alcuni gruppi sociali di cui facciamo parte. In questo caso, quello degli italiani in Svizzera. La ricerca racconta come è cambiato il vecchio migrare nella nostra attuale epoca globale e digitalizzata senza dimenticare l’apporto e la storia di chi si è spostato quando farlo era molto più faticoso e rischioso. Nella storia di Maria, che qui vi proponiamo, la migrazione con la valigia di cartone è legata a quella attuale dalla storia familiare (come spesso capita). Cinquant’anni dopo, la storia si ripete, e si ribalta, in un certo senso.
Maria è in Svizzera, a Würenlos (AG) da un anno e mezzo. Ma ci era già stata sedici anni fa, per qualche tempo. Il rapporto di Maria con la Svizzera, in realtà, parte molto prima. Probabilmente da quando, a soli quattordici anni si innamora di quello che diventerà suo marito.
Conosciuto nel loro paese di origine, San Pietro a Maida, in provincia di Catanzaro, in Calabria, quel ragazzo di qualche anno più grande di lei è nato in Svizzera tedesca, nei dintorni di Zurigo dove il padre si era trasferito con la madre venti anni prima, negli anni ‘50. Come tanti italiani di allora, ha lavorato costantemente come operaio e risparmiato i soldi per comprare casa in Italia dov’è puntualmente tornato nel 1975 quando suo figlio maschio aveva appena tre mesi.
“
lui era arrivato con la valigia di cartone alla frontiera e una cosa che mi ha raccontato e che mi è sempre rimasta in testa è che là, a Chiasso, gli hanno guardato i denti per capire se stava bene ... Ha vissuto qua, ha costruito casa là (in Calabria) e quando sono nati i bimbi è tornato”
In Svizzera è rimasta una parte di famiglia, cognati di Maria e proprio grazie ai contatti con loro, il marito di Maria torna a lavorare in Svizzera dopo essersi diplomato, come elettrotecnico, e aver già maturato qualche anno di esperienza prima nel Nord Italia e poi in Germania. Quando si sposano, nel 2000, Maria raggiunge il marito e con lui vive per tre anni a Regensdorf (ZH). Nei primi anni, però, la coppia non riesce ad avere figli e la decisione è quella di tornare in Calabria
“non riuscivo a rimanere incinta e giù avevamo la casa e la terra, avevamo gli olivi allora ho detto a mio marito torniamocene laggiù”
Ma l’odore del mare e il sole del Sud ha le sue conseguenze positive. Appena tornati in Italia, i due giovani sposi coronano il sogno di sempre e nascono i loro due figli a distanza di pochi anni. Come la generazione dei loro padri, anche per Maria e suo marito la decisione di muoversi è dettata prima di tutto da quello che si pensa sia meglio per la prole. Solo, che il viaggio è nella direzione inversa.
“siamo tornati qua in primis per i miei figli, sono due maschietti, qua si trovano bene, hanno prospettive, possono avere un futuro, parlano già tedesco, la mamma invece no, io per niente. Ora è un anno e mezzo che siamo qua. Il più grande ha dodici anni e il più piccolo otto. Il grande ha preso la licenza elementare in Italia e poi l’ho portato qua, l’altro faceva la seconda e certo portarli da un piccolissimo paese della calabria dove conosci tutti a dove non conosci nessuno, un po’ di paura ce l’hai e il primo giorno di scuola io ho pianto per loro perché soprattutto il grande mi stringeva forte la mano mi diceva che aveva paura che non capiva niente col tedesco, quando sono andato a prenderlo mi ha detto “mamma, è bellissimo qua”. Adesso se per scherzo dico ai miei figli “dai ce ne torniamo giù, mi dicono no mamma se vuoi te ne torni giù da sola”. Se devo dirti che sono felicissima di stare qua, no, non te lo direi, non per me ma per loro si per i miei figli sono molto felice, hanno opportunità, a scuola organizzano tante cose invece in Calabria in cinque anni mio figlio non ha mai fatto una gita a momenti dovevamo portare anche la carta igienica a scuola, così io sono felice di vedere loro che sono felici”
A ben vedere, anche la scelta del “nonno” di tornare in Italia era motivata dalla nascita dei bambini. Negli anni ‘70 in Italia si respirava aria di possibilità, si era appena usciti dal miracolo economico Italiano e si guardava con speranza e ottimismo al futuro. Il sogno dei “vecchi migranti” (in questo diversi da i nuovi viaggiatori di adesso) era il ritorno a casa, in una casa comoda, grande, dove i figli potessero crescere e costruire nel loro paese il proprio futuro. L’Italia era il posto dove tornare e identificarsi. La migrazione era di sola andata o con un ritorno a lunghissimo termine, un ritorno che rappresentava un sogno, l’obiettivo di una vita. Non c’era internet e nemmeno la televisione satellitare, non si comunicava in tempo reale con chi era rimasto altrove, non arrivavano ogni giorno notizie interattive e aggiornate su tutti i luoghi più lontani al mondo, il mondo stesso era più piccolo. Non c’erano le low cost, non c’era il prosciutto e la mozzarella al supermercato, era un viaggio diverso in un paese ancora per certi versi ostile. Ma le motivazioni alla base delle grandi decisioni erano le stesse: il bene dei figli. Solo, che adesso questo “valore aggiunto” è la capacità di muoversi e di spostarsi. Maria fa felicemente sacrifici per l’educazione dei figli che possono studiare le lingue in un sistema scolastico che ha le sue pecche ma che è più ricco di quello italiano e che prepara i suoi studenti ad un mondo del lavoro competitivo ma vivo e vegeto. E questo basta. La scelta del nonno, emigrato con la valigia di cartone di tornarsene in Italia è vista in retrospettiva con un po' di rimpianto ma anche come un monito, una lezione, un’esperienza
Ha vissuto qua (in Svizzera) ha costruito casa là (in Calabria) e quando sono nati i bimbi è tornato…ora la figlia e il figlio sono tornati in Svizzera e pure e un’altra si è spostata in un altro paese e lui dice ora ve ne siete andati tutti e quella grande casa è vuota, adesso dice che doveva restare in svizzera, 41 anni fa! e anche per questo io non penso mai ai miei figli laggiù (in Italia), se vorranno ci torneranno per scelta quando saranno grandi
In questo piccolo riassunto della nostra intervista migrante ci piace lasciare questo spunto di riflessione: come cambiano gli spostamenti e le traiettorie biografiche alla luce del cambiamento dei tempi storici e sociali. Le motivazioni individuali possono essere diverse, tante quante sono le persone e sta al sociologo ricostruirle. Tuttavia, per quanto personali, le nostre scelte avvengono in un contesto sociale che è strutturato in modi diversi a seconda delle contingenze storiche ed economiche. La stessa motivazione può avere risultato “mobile” opposto, date le mutate condizioni sociali.
Vi lasciamo con poche righe scritte da Maria per la nostra ricerca e per la nostra pagine, invitandovi a interagire con noi e ad usare internet in modo attivo e partecipato. La ricerca digitale si fa democratica, se ci aiutate.
Mi chiamo Maria ho 36 anni,sono sposata da 16 anni,ho due bambini a dir poco meravigliosi,vengo dalla Regione più bella che esista al mondo la mia amatissima Calabria,terra di sole,mare e calore umano,dove purtroppo manca una cosa importantissima il "futuro" lo metto tra le virgolette perché è un tema che ancora oggi fa male,la mia Regione è dimenticata dal mondo sul fattore lavorativo,è pieno di ragazzi che non riescono ad abbandonare le proprie origini,io l ho fatto con tanto dolore,e ancora oggi sto male al pensiero di stare 1500 km lontana dalla mia terra amata ma tanto sofferta. Lavoravo al Call center da 8 anni,ma poi è arrivato il declino dell’azienda,e quindi la maggior parte licenziati. L’ unica soluzione era di preparare le valige e andare verso un futuro migliore,non per me ma per i miei figli sicuramente: in Calabria non avrebbero avuto futuro e quindi un domani mi avrebbero lasciata per andare al nord a studiare e sperare di trovare qualche lavoro per mantenersi,per me la Svizzera non è "il paese dei balocchi" che tutti pensano,la Svizzera è frenetica,la Svizzera è lavoro casa,casa lavoro...ci vorrebbe un pó di quel sole calabrese,e poi diventerebbe uno spettacolo.Della mia scelta a volte sono un pó titubante,ma basta pensare e guardare i miei figli che tutto passa,il mio sogno è quello che loro troveranno un futuro pieno di soddisfazione e gioia.
Dalla Valigia di cartone al web ringrazia il tempo che Maria ci ha concesso e si augura che questi piccoli italiani diventino cittadini del mondo con entusiasmo e passione.
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“Blade Runner rivoluzionerà la fantascienza”. O meglio: come Philip K. Dick e Roberto Bolaño hanno cambiato il nostro modo di vedere il mondo
A che punto bisogna intaccare la biografia di Philip Dick? Dove occorre scavare? Scelgo un punto: l’uscita dalla crisi creativa giunta dopo vent’anni di attività frenetica e durata dal 1971 al 1974. In seguito, intaccherò lo strato più affiorante in superficie, i primi anni Ottanta, quando Blade Runner lo consacra davanti a tutto il pubblico, più o meno consapevole.
Per afferrare cosa successe a Dick imponendogli il silenzio, è utile un’intervista che rilasciò nel 1974 per la rivista Vertex. Come vola il tempo per la scrittura: nel 1963 Dick affonda le mani nell’ucronia, stravince al banco con La svastica sul sole dove immagina un futuro retto da nazisti e nipponici congiunti; nel 1973 a Vancouver, consegnando la conferenza Persona autentica contro macchina reflex torna alla teoria di Orwell. Non c’è bisogno di guardare indietro alle camicie brune per capire dove stia al male – il male è intorno a noi, dentro la macchinetta che alliscia il pelo ai narcisi, il male è la tecnologia che mentre umanizza i computer rende gli umani uguali agli androidi. Estraggo dall’intervista i passaggi migliori.
*
Fantascienza. “Comporta una sospensione dell’incredulità di tipo diverso dal genere fantasy. Nel fantasy non ti capita mai di tornare a credere che esistano troll, unicorni, streghe e robe così. Ma nella fantascienza, la leggi e non è vera adesso ma ci sono cose che non essendo vere oggi lo saranno un giorno lontano. Lo sanno tutti. E questo crea una stranissima sensazione in un certo tipo di persone – come di lettura della realtà e sconnessione da questa stessa realtà ma solo in termini temporali. Come parlare di universi che si ripeteranno insistentemente nel futuro. Quindi potrà pur succedere”.
Maturità. “Mi chiedi se la fantascienza diventerà mai matura? Ma matura nel senso di adulta e filosofica, oppure pesante? Pesante come Kafka? Qualcosa che lascia un residuo permanente dentro di te e non ti lascia uguale a prima? Certamente, proprio ora ho finito Campo di concentramento di Tom Disch e mi ha reso diverso, quindi si tratta di un lavoro maturo, che ci rende maturi. Cioè se leggi Uomini e topi non sarai più lo stesso: non che ti educhi nel senso che ti riempie di informazioni o che nella sua sobrietà sia serio; può anzi essere divertente. È come la purificazione della tragedia in Aristotele. Ci sono libri che ti riportano in vita e ti dicono che sbagliavi a credere di essere un tipo intelligente. È come se questi autori ti autorizzino a mollare un po’ di bagaglio che in qualche modo ti era stato appioppato. Non aggiungerei altro”.
Triste verità e compensazioni. “Quando cominciai c’era solo un maestro del genere, ed era anche letterato, era Ray Bradbury. Per dio, sembrava di essere nel Medioevo, tutti sulle sue spalle. Per il mio primo libro con copertina rigida presi 750 dollari, è passato del tempo da allora e siamo ancora pagati come se fossimo all’angolo a vender mele negli anni della grande Depressione. E nemmeno si accetta che lo scrittore rimane solo. Scrivere è un’occupazione solitaria, quando attacchi un romanzo ti sganci da famiglia e amici. Con un paradosso, perché ti crei nuovi compagni. Per me la grande gioia nella scrittura è mostrare un uomo piccino che fa qualcosa in un momento di grande valore, qualcosa che non gli darà nulla e che il mondo non potrà mai raccontare nelle sue canzoni. Il libro, allora, è come la canzone del valore di questo piccolo uomo. La gente crede che un autore voglia essere immortale ma io no, io voglio che Tagomi ne La svastica sul sole sia immortale e che sia ricordato per il suo lavoro. I miei caratteri sono composizioni di quel che ho visto la gente realmente fare e l’unica via perché siano ricordati è attraverso i miei libri”.
Acidi. “Non è vero che si possa scrivere sotto effetto di acidi. Io durante un trip sono riuscito a scrivere solo una pagina ma era in latino, una dannata pagina Latina con uno scampolo in sanscrito, una roba che non si riesce a vendere. Infatti non è mai finita nelle mie opere pubblicate. Anche nel mio Martian time slip c’è l’effetto da trip ma lo scrissi prima di provare gli acidi”.
I Ching. “È un libro che ti dona avvisi che vanno al di là del particolare, avvisi che trascendono la situazione immediate. Avvisi che danno risposte riguardo la qualità universale. Ad esempio quando dice che il potente è umile e che l’umile è innalzato. Se usi questo libro con continuità e per il giusto periodo, farà di te un taoista, che tu abbia sentito questa parola o meno, che tu voglia diventare taoista oppure no”.
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Non male. Ecco invece l’ultimo Dick, quello che si guarda allo specchio della televisione quando ricreano il suo libro del 1968 Ma gli androidi sognano pecore elettriche? L’unica cosa che Dick non poteva sapere, all’uscita di Blade runner, è che quel film andava oltre Dick: in quegli stessi anni lui gestiva la tragedia tra uomo (antropocene) e alieno (tutti gli altri) attraverso una battaglia tra divinità, con la trilogia di Valis. Del resto, Dick non era così abituato alle macchine da pensare quelle cose che noi abbiamo ben in vista ogni giorno.
L’ultimo Dick, insomma, era più metafisico che psicosociologico: di fatto, un altro Dick anche rispetto a tutta la sua produzione passata. Ma il bello degli americani è questo: che quando impazziscono parlano con Dio (noi italiani, invece, ci parliamo da savi). Ecco la lettera di Dick felice per il film.
*
11 ottobre 1981
Mr. Jeff Walker
The Lado Company
4000 Warner Boulevard
Burbank California 91522
Caro Jeff:
Mi è successo di vedere su Channel 7 il programma “Hooray For Hollywood” questa note con uno spezzone di BLADE RUNNER. (Bè, ad essere onesto non mi è successo che l’abbia visto io; un tizio mi ha soffiato che BLADE RUNNER stava per andare in onda come parte dello show, e che lo guardassi per esserne sicuro). Jeff, dopo averlo visto – e specialmente dopo aver sentito le considerazioni di Harrison Ford sul film – sono giunto alla conclusione che non si tratti di fantascienza; non è nemmeno fantasia; è precisamente quel che ha detto Ford: futurismo. L’impatto di BLADE RUNNER banalmente è destinato a essere prevaricatore sia sul pubblico normale che tra gli artisti – e, credo, su chi si occupa di fantascienza. Da quando ho preso a scrivere e vendere fantascienza, sono trent’anni, questa cosa mi sta discretamente a cuore. Con tutto candore devo dire che il nostro campo è stato gradualmente e intensamente deteriorato in anni recenti. Nulla che sia stato fatto, individualmente o collettivamente, sta a pari di BLADE RUNNER. Non lo dico per fuggire dalla realtà, non è escapismo ma al contrario è super-realismo, così coraggiosamente risoluto e dettagliato e autentico e, per dio, così convincente che, dopo aver visto quello spezzone se faccio un paragone con la mia “realtà” attuale e normale questa ne vien fuori bella pallida. Quel che ti voglio dire è che tutti voi insieme avete creato una nuova, unica forma di espressione artistica e grafica, mai vista sinora. E, penso, BLADE RUNNER dovrà rivoluzionare le concezioni di quel che è fantascienza e, di più, di quel che la fantascienza può essere.
Lascia che te la metta così. La fantascienza si è lentamente e ineluttabilmente stabilizzata dentro una sua morte monotona: pare una cosa nata completa, una cosa derivata da altro, una cosa rancida. Improvvisamente voi vi ci siete messi dentro, avete cercato gente che avesse i numeri giusti e ora siamo a una nuova vita, a un nuovo inizio. Quanto al mio ruolo nel progetto BLADE RUNNER, posso solo dire che un mio lavoro o un mio pacchetto di idee potesse subire una escalation come la vostra, a quelle dimensioni scioccanti. Grazie… e sarà un pandemonio quanto a successo commerciale. Imbattibile.
Cordialmente,
Philip K. Dick
*
Leggete Dick, entrate di soppiatto in una libreria polverosa e leggete dei robot che non sono mai esistiti. In alternativa, entrate in una libreria fighetta e comprate Lo spirito della fantascienza di Bolaño, un libretto dei primi anni Ottanta che non fu stampato mentre l’autore era in vita e faceva la fame in Catalogna, infuocato da Lovecraft e certo, da lui, da Dick. Se leggete Bolaño vi capiterà tranquillamente di prendere un treno, la mattina, mentre è ancora buio e alla stazione aspettate il treno delle 6.22 e soffia un fortissimo e caldo vento di scirocco. Immaginate: il deserto dei paesaggi urbani di Bolaño con una variante: ma come è possibile raccontare come un deserto ne Lo spirito della fantascienza Ciudad de Mexico che è una delle più affollate città al mondo? solo uno scrittore così può riuscirvi. Oltre al deserto italiano della Maremma dove sono venuto su, sentite il vento di scirocco che scompiglia le pagine del libro di Bolaño. E poi arriva un treno che non è il solito, perché mi accoglie su un vagone vetusto a due piani, figlio di una progettazione avveniristica degli anni ’70, con pavimenti in plastica striata ad imitare il granito, un soffitto basso e vastissimo, serie di sedili asimmetrica (3+2), luci al neon insufficienti e quegli incredibili altoparlanti fatti come il contenitore di un budino, ma con il fondo forato con la punta del trapano. Quando ferma a Forte dei Marmi decido di alzarmi e andare dal capotreno per chiedergli tutti i dati tecnici possibili su quella avveniristica carrozza di un tempo che non c’è mai stato, come un unicorno che non sai dove abbia mai potuto circolare e quando: puoi solo ipotizzare le ferrovie svizzere o quelle che lo sono quasi, le ferrovie Trenord che vanno verso Varese – e oltre – attraversando stazioni che hanno nomi gutturali. Non devo nemmeno alzarmi perché trovo il capotreno – un ragazzo ventenne della Lunigiana – che parla con un altro viaggiatore, nell’attesa che sopraggiunga un altro treno veloce che ci passi avanti e torni a farci viaggiare in lentezza. E il discorso è tutt’altro che ferroviario, perché il capotreno lunigianese racconta di quanti funghi porcini ha raccolto durante il fine settimana, fino a che il suo interlocutore lo interrompe raccontando di quella volta che la sua ragazza – che lavora in una scuola materna – ha sorpreso uno dei suoi piccoli alunni fuori in giardino che raccoglieva funghi e l’interlocutore osserva (con una certa audacia scientifica, in realtà) che la colpa è del riscaldamento globale, perché di funghi, nei giardini delle scuole materne, mica se ne trovavano anni fa (cosa ne sa lui che non c’era?). Che sia il caso di aggiungere la ricerca e il riconoscimento dei funghi nei moduli didattici con cui formare gli insegnanti delle scuole materne? e questo mi fa venire in mente un altro discorso, con il quale spero di poter tornare alla fantascienza: un mio amico espertissimo fungaiolo, mi spiegava tempo fa che quando ti abitui a cercare i funghi, poi quando vai nei boschi, non riesci più a vedere nient’altro. Tutta la tua potenza cognitiva è assorbita dalla ricerca dei funghi, la tua attenzione diventa iperselettiva. Per questo non mi è riuscito di parlarvi di Dick nel finale, perché adesso sto rileggendo Bolaño e rivivo gli anni sulla costa tra Forte e Pisa: e credetemi (perché non lo sapevate), Bolaño ti assorbe e ti fa vedere nel mondo solo cose insolite, che prima non notavate affatto. Ed è così da stamani che rileggo solo per poco più di cinquanta pagine il caro cileno e osservo e noto solo cose strane e assolutamente insolite, più delle vecchie e futuristiche carrozze ferroviarie. Ad esempio (senza dire dei fossili che sono sul pavimento di granito rosso del sottopassaggio alla stazione): oggi il docente d’aula al corso di formazione mi sembrava più formativo di sempre, quasi un arcano maggiore dei tarocchi (l’imperatore oppure il diavolo). Altro: al bar le voci delle persone mi sembravano fuori sincrono con le loro facce. Ancora: i mendicanti che chiedevano soldi per la strada mi sembravano avessero più ragioni di me e avessero in generale ragione. Su tutto. So che queste cose possono succedere anche per altri motivi, ma oggi credo fosse proprio colpa di Bolaño e non di Dick.
Andrea Bianchi
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Recensione a caldo: Complicated
Ho scoperto che è uscito in italiano un nuovo romanzo di Kristen Ashley che io ho letto ormai più di un anno fa. In inglese si intitola COMPLICATED, qui in Italia la Newton Compton che lo pubblica lo ha voluto inttolare DIMMI CHE VUOI ME, rimanendo sulla scia dei titoli con la parola DIMMI che hanno usato per i libri della serie Rock chick, di cui però questo romanzo NON FA PARTE, attenzione, non fa parte...è ambientato nello stesso universo, come tutti i libri di Kristen, ma non fa parte di quella serie, nè della serie Mistery man dove in Italia tutti i libri nel titolo contenevano NON DIRMI...Ci hanno messo molta fantasia come potete vedere per confonderci....o forse è per marketing chi losa, io avrei preferito i titoli originali, ma lasciamo stare.
Limitiamoci a dire che Dimmi che vuoi me è un romanzo singolo non facente parte di una serie, almeno per ora, ok, ma ambientato nello stesso universo della serie Rock Chick e Mistery Man.
(Tra parentesi se volete che faccia un post per chiarirvi meglio i libri e le serie dell’autrice Kristen Ashley, ditemelo e lo farò volentieri).
L’ho letto tempo fa, ma ho ancora ben chiaro in mente quale è stata la mia opinione su questo libro, perchè mi ha colpito per due tre cosette...ma vi avverto se leggerete tutta la mia recensione, sarete spoilerati perchè la mia contiene spoiler giganteschi anticipati dalla parola SPOILER.
Titolo: Dimmi che vuoi me
Titolo originale: Complicated
Non fa parte di alcuna serie
Autore: Kristen Ashley
Editore: Newton Compton
TRAMA: L’incontro dello sceriffo Hixon Drake e di Greta Dare in una minuscola cittadina del Nebraska dà vita a un’immediata sintonia. Purtroppo per loro, il tempismo non potrebbe essere peggiore.Hix sta facendo i conti con un divorzio che gli è letteralmente piovuto dal cielo e vuole occuparsi dei suoi figli. Senza nemmeno accorgersene, è diventato il tipo di uomo che tiene tutti a distanza ed è troppo impegnato a proteggere i suoi figli e il suo cuore per guardare oltre il suo naso. Greta, invece, è appena arrivata in Nebraska insieme a suo fratello, in fuga dal passato. È in cerca di un po’ di pace e ha intenzione di iniziare la sua nuova vita al riparo dai guai. Questo, prima di incontrare lo sceriffo… Quando l’attrazione tra i due diventa innegabile ed è chiaro che non riescono a stare lontani, un omicidio sconvolge la piccola comunità della città in cui vivono. Si tratta del primo delitto da decenni e Hix, questa volta, dovrà ricominciare a fidarsi di qualcuno se vuole sperare di trovare il colpevole. Ma convincere Greta, non sarà per niente facile
La mia recensione a caldo, che dovrebe essere a freddo visto il tempo che è passato da quando l’ho letto, ma non lo è:
Premetto che io molti dei libri di Kristen Ashley mi sono piaciuti tanto. Non tutti, ma se devo fare un conto, sono più quelli piaciuti che quelli non piaciuti, e di suo ho letto molto, in lingua originale perchè è molto ma molto prolifica.
Alcuni suoi libri li ho proprio nel cuore, così come alcuni suoi personaggi e mi spiace che per ora in Italia molti dei miei preferiti non siano ancora arrivati, ma spero arriveranno. Ho amato la Mistery Man serie, così come invece non mi è piaciuta la sua Rock chick serie che pure è quella che l’ha resa famosa, tutto è soggettivo e i gusti sono gusti.
Non posso dire che questo libro, Dimmi che vuoi me, non mi sia piaciuto di per sè. Segue i canoni di Kristen Ashley, la falsa riga di altri suoi romanzi, perciò non è orribile e non voglio sconsigliarvelo a priori. Se fino ad ora avete amato ciò che di Kristen Ashley è arrivato in Italia, credo vi piacerà anche questo suo romanzo, preciò compratelo, non voglio provarvi di una lettura che quasi sicuramente troverete piacevole.
Il mio problema con questo libro scaturisce dal fatto che è uno dei suoi ultimi romanzi, edito a fine 2017, perciò l’ho letto dopo tutti (quasi tutti) gil altri romanzi di Kristen che dal 2008 ad oggi ha pubblicato oltre cinquanta libri! Vi ho detto che è prolifica, e di questi libri ne ho letti più di quaranta...giusto per fare due conti e di questi quaranta più o meno la metà aveva caratteristiche simili. Quindi mettetevi nei miei panni, più di una ventina di libri con forti similitudini, alcune delle quali difficili da mandare giù, e poi arriva questo che di per sè non sarebbe orribile, ma è la goccia che fa traboccare il vaso perchè contiene le stesse similitudini che mi infastidivano e per di più ancora più esasperate.
Voi che non avete ancora letto i quaranta e passa libri di Kristen non vi scandalizzerete, ma io con questo romanzo ho sbroccato. Lo ammetto. Ho sbroccato.
Ho sorvolato per più di venti libri sulla sintassi inesistente utilizzata dagli eroi maschili di Kristen Ashley, sul fatto che non usano congiunzioni, e parlano solo a singole parole staccate. Ho anche sorvolato sul fatto che quasi tutte le sue storie girano intorno a un bar. Ho sorvolato sul fatto che in molti (e se dico molti intendo molti credetemi, voi non lo potete sapere non avendo letto tutti i suoi romanzi in inglese ma giuro è così) suoi libri le ex dei suoi protagonisti maschili siano delle stronze a livello cosmico, che fanno per contrapposizione far risultare loro dei santi. Statisticamente avere un così alto numero di ex infernali mi sembra impossibile, ma un paio, in due libri su 20, poi si redimono leggermente, perciò ho sorvolato anche su questo. Mi da fastidio, perchè che esistano tante stronze cosmiche che trattano male i figli, non solo gli ex, ma i figli mi viene difficile da accettare, ma ho sorvolato.
Ma stavolta è stato troppo. Con Dimmi che vuoi me, Kristen ha esagerato. Questa volta io una trama che si basa su un segreto, che poi segreto non è così scemo e assurdo non lo accetto. Non posso. Anche se potessi credere, e non posso, che al mondo possa esistere una donna totalmente scema come la ex moglie di Hix. E quando dico scema intendo totalmente priva di cellule cerebrali perchè sarebbe l’unica spiegazione plausibile per ciò che fa, non posso comunque credere che nessuno le dica che quello che sta facendo, ha fatto e intende fare sia totalmente scemo. Cioè non è orfana i suoi genitori son delle brave persone, ha pure amici sembra, e anche conoscenti...cioè non esiste che nessuno la blocchi sapendo perchè fa ciò che fa. Non esiste. Così come non esiste che nessuno riveli al protagonista Hix perchè la sua ex moglie ha fatto ciò che ha fatto Non esiste. Anche lui ha dei suoceri che sembra gli vogliano bene, degli amici, conoscenti, lui e la sua ex sono noti in paese, e in paese sembra tutti tranne lui sappiano perchè la sua ex lo ha lsciato tranne lui, e io devo credere che nessuno gli dice nulla, per più di un anno!!!!!!!! Impossibile. Kristen stavolta hai toppato. Il motivo della ex è una cosa talmente stupida che già solo riassumerla mi fa rabbia e mi ha rovinato l’intero libro.
SPOILER
Non mi interessa la storia d’amore tra Greta e Hix, forse è anche raccontata bene, non lo ricordo nemmeno più, perchè dopo che l’autrice, dopo averci mostrato per diverse pagine che ancora dopo un anno di separazione Hix non sa il motivo per cui sua moglie lo ha lasciato, ce lo fa scoprire con lui in quello che credo dovrebbe essere un colpo di scena, io ci sono rimasta talmente male, talmente delusa che tutto il resto del libro è scomparso.
Cioè io secondo l’autrice dovrei credere e accettare che una donna che ha sposato il suo primo e unico amore, che tra parentesi è un gran figo che la ama e ci sa fare a letto e con cui ha fatto due figli che ama, e con cui vive felicemente da 19 anni! lo lasci o meglio finga di volerlo lasciare perchè lui non le regale ciò che gli chiede per il loro anniversario????? Sono felici, innamorati hanno due figli perfetti, la vita perfetta, si vogliono bene, poi un giorno lei vuole un anello per il loro anniversario, lui dice di no per risparmiare soldi per il college dei figli, e lei per spingerlo a cedere e a darglielo chiede il divorzio? No, ma...non esiste. E come se non bastasse lei non gli dice tipo: se non mi regali l’anello significa che non mi ami veramente perciò ti lascio...oppure lo minaccia tipo: se non mi regali l’anello tra noi è finita. No, Lei lo lascia senza dirgli nulla. Lui le chiede perchè lo sta lsaciando, e lei gli risponde lo sai bene perchè, perchè lui deve arrivarci da solo che lo sta lasciando perchè non le ha regalato l’anello e dopo esserci arrivato chiederle scusa e regalarglielo...nella mente malata di lei..... Cioè io devo credere, che questa donna che deve essere stata umana e accettabilmente intelligente, magari un poco egoista, ma in modo normale non psicopatico...crede che lasciandolo e minacciando il divorzio senza dirgli il perchè chiaramente, otterrà ciò che vuole? Devo crederlo??? Ok, con un graaaande sforzo, posso facela, ma devo poi anche credere che questa stessa donna quando si accorge che il suo bluff non ha funzionato non faccia dietrofront, che continui il bluff per un intero anno e arrivi al punto di firmare le carte del divorzio?????????? e solo allora capisca di avere esagerato???????? No, impossibile. Almeno l’autrice doveva farle fare dietrofront appena prima della forma definitiva, almeno quello. Invece no, sta cretina aspetta dopo che lui firma il divorzio per dirgli che vuole tornare con lui, senza dirgli il perchè naturalmente. E lui ancora in quel momento non sa il perchè nè del fatto che l’ha lasciato nè perchè ora vuole tornare indietro, persino i suoi figli lo sapevano, o almeno il più grande ora non ricordo, tutti tranne lui e nessuno gliel’ha detto. Impossibile. Anche perchè lui si strugge per un anno per lei!!!!!!! Tutti lo vedono depresso e invece di dirgli la verità stanno zitti. O tutti, compresi i genitori di lei, e i suoi stessi figli, volevano segretamente che Hix la lsaciasse perchè meritava di meglio....e per questo non parlano...o non esiste. Che poi non esiste comunque, questi due sono stati sposati venti anni se tutti la odiavano compresi i suoi stessi figli e genitori parchè non hanno agito prima contro di lei? Boh non lo so, io questa cosa non riesco ad accetarla è troppo stupida. NON ESISTE
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Al bar di Mama Africa - di Shendi Veli VENTIMIGLIA (IL MANIFESTO) Reportage. A Ventimiglia, dove la frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra, c’è chi fa entrare tutti, senza chiedere i documenti e dispensando umanità: una signora di 55 anni, Delia. «Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”, basterebbe già quello a cambiare le cose» Il bar di Mama Africa a Ventimiglia © Shendi Veli Alcuni lo chiamano con disprezzo «il bar dei negri». Si trova a pochi passi dalla stazione di Ventimiglia. «Gestisco questo posto da 15 anni» dice Delia, 55 anni, figlia di commercianti. «Tre anni fa mi ha aiutato mio fratello per alcuni mesi perché seguivo mia madre in ospedale, è stato lui ad aprire le porte ai primi ragazzi. Io li chiamo ragazzi, immigrati non mi piace, e poi immigrati lo siamo un po’ tutti». NELL’ESTATE DEL 2015 la Francia ha applicato gli «Accordi di Chambery» che prevedono la possibilità di respingere i migranti da un paese all’altro. Per farlo bisogna violare un accordo chiave dell’Ue, Schengen, che vieta controlli sistematici alle frontiere. Da tre anni sono iniziate le operazioni al confine che rimandano indietro chi è sprovvisto di documenti francesi. Molti migranti in transito rimangono a lungo bloccati a Ventimiglia. Nel bar di Delia a mezzogiorno ci sono poche persone. A un tavolo tre ragazzi parlano. Due sono attivisti della rete 20k, che unisce diversi gruppi locali impegnati nella solidarietà. Il terzo vive a Ventimiglia da qualche anno, viene dal Pakistan. «Quest’anno c’è meno gente» mi dicono. «MOLTI ATTIVISTI sono stati allontanati con denunce e fogli di via. E i migranti sono vessati. Tra i respingimenti brutali della polizia francese e le retate di quella italiana. Il campo dei Balzi Rossi, dal quale nel 2015 partivano le manifestazioni per chiedere l’apertura dei confini, è stato sgomberato due anni fa. Questa primavera è stata evacuato anche l’accampamento a Via Tenda. Quasi ogni settimana partono pullman pieni di persone fermate per strada e spedite all’hotspot di Taranto, misura costosa e inutile perché chi può torna qui, per provare a uscire dall’Italia. Oggi i pochi rimasti in città si devono nascondere nelle anse del fosso. Fare solidarietà attiva è sempre più difficile mentre fiorisce il business dei passeur, persone che offrono passaggi per la Francia in cambio di soldi». AL BANCONE DEL BAR c’è la signora Delia, le dà una mano Alessandra, sua nipote. «Non posso più permettermi di assumere. Da ormai tre anni i clienti non entrano più in questo bar. Solo perché faccio entrare tutti e do una mano a chi ha bisogno. Sono stata insultata e boicottata da chi passava di qua e vedeva qualche ragazzo nero fuori o al bancone. Oggi rischio di chiudere. Ho problemi di salute e andare avanti è faticoso». Il bar Hobbit è centrale eppure, a parte solidali e migranti, non entra nessuno. NEL POMERIGGIO ARRIVANO due ragazze, anche loro attive nelle azioni solidali che dal 2015 hanno preso vita dentro ma soprattutto fuori le ong che operano sul campo. «A Ventimiglia ce ne sono pochi di posti così» dicono «nessuno in centro. Negli altri bar rispondono male ai ragazzi stranieri, oppure chiamano la polizia. Delia è stata tra i pochi ad aprire le porte. Qui possono entrare e consumare o anche solo riposare e caricare il telefono. Molti arrivano e vengono a sapere di questo bar tramite il passaparola». Il bar di Delia offre alle persone in transito una delle cose più preziose nel percorso doloroso e solitario della fuga: la socialità. «IO SONO UN’IMMIGRATA DOC» dice Delia «appena nata venni in Liguria con i miei genitori dal Sud. A tre anni emigrai in Australia. Lì ho fatto le scuole elementari. A 10 anni i miei mi hanno riportata in Italia. Mi vestivo, mangiavo, e parlavo in maniera diversa dai miei coetanei e per questo sono stata maltrattata. Mi sono sentita immigrata in patria. Ho voluto trasformare la mia esperienza negativa in qualcosa di positivo. Evitare che altri patissero le mie stesse sofferenze». Il bar ha una saletta sul retro, dentro ci sono tavoli e scaffali. Libri, quaderni e materiale scolastico. Due anni fa Delia e una sua amica hanno organizzato un corso di italiano gratuito. A VENTIMIGLIA LE STRUTTURE per l’accoglienza sono scarse. L’unica attrezzata è il campo della Croce Rossa, trasferito fuori città per le lamentele dei residenti. Per entrarci bisogna registrarsi e fare domanda di asilo in Italia. Ma la maggior parte delle persone che arrivano al confine desiderano andare in Francia o Gran Bretagna, richiedere asilo in Italia sarebbe controproducente. Altri scappano dalla povertà e probabilmente non otterrebbero lo status di rifugiato. Dopo gli sgomberi molti vivono nascosti, vengono per la distribuzione di un pasto gratuito da parte del collettivo Kesha Niya sotto il ponte di via Tenda, anche se il comune sta cercando di ostacolare l’accesso costruendo muretti e reti. «NON RIESCO A FAR FINTA di niente» racconta Delia, «vedevo per strada bambini che piangevano di caldo, di sete, senza che nessuno facesse nulla. Li ho fatti entrare, ho dato da mangiare gratis se non avevano soldi. Ho messo una sdraio per far riposare le donne incinte. Alcune passano la giornata in piedi perché non hanno un posto dove andare. Ho visto tante persone che si vergognano a chiedere aiuto. La scorsa settimana è entrato un uomo sulla cinquantina, veniva dal Sudan. Non ha detto niente ma ho capito. Gli ho fatto un piatto di pasta, ci ha messo 3 ore a mangiarlo. Poi mi ha detto che non mangiava da 4 giorni». LA SCELTA DI DELIA, sembrerebbe straordinaria visti i tempi, ma raccontata da lei, appare come l’unica possibile. «Io non ho mai fatto politica» aggiunge «sono una lavoratrice, non ho mai avuto un credo particolare. Faccio solo ciò che sento. Gli altri esercenti, sono loro nel torto, se conoscessero la professione saprebbero che negli esercizi pubblici si devono far entrare tutti. Io poi a volte ci metto del mio e quello che posso lo do. Anche se odio quando c’è qualcuno che se ne approfitta». Tuttavia in questi tre anni i problemi del bar non sono stati creati dai ragazzi che lo frequentano ma soprattutto dai clienti italiani che hanno disertato il posto e dalle istituzioni che l’hanno tormentato con presidi all’esterno e controlli igienico sanitari. «In 40 anni di lavoro non li avevo mai visti tutti questi controlli» dice Delia «mi genera ansia sentirmi presa di mira, insieme alla precarietà economica della mia attività». DA PIÙ DI UN ANNO collettivi, ong, e persone solidali di Ventimiglia e dintorni hanno scoperto la realtà del bar Hobbit. Da allora organizzano delle inziative di sostegno per il bar. «D’estate riesco ad andare avanti grazie all’aiuto delle persone che vengono a fare aperitivi o mi mandano comitive di volontari, ma d’inverno diventa difficile. La città si svuota e quelli che dovrebbero garantire le entrate sono i ventimigliesi che lavorano nei dintorni». Da loro invece il bar di Delia non ha ricevuto mai sostegno «mi hanno sputato, mi hanno intimato di chiudere, hanno sfasciato per dispetto la serratura di quella porta d’ingresso, è ancora rotta non ho i soldi per aggiustarla». NEL BAR ENTRA UN RAGAZZO nero, camicia e dossier in mano, saluta Delia calorosamente «lui ha fatto il corso di italiano qui al bar» dice lei con un grande sorriso «adesso lavora per l’Oxfam». «Sono appena tornato da Mentone Garavan ero lì a monitorare» dice lui. Mentone è la prima cittadina francese al confine. La piccola stazione è presidiata da pulmini della polizia francese e tutti i treni che arrivano dall’Italia vengono fermati e perlustrati. Controlli su base razziale avvengono sistematicamente. Il confine è presidiato su due punti, entrambi militarizzati. La frontiera si fa tangibile come in una zona di guerra». «Ho un piccolo fazzoletto di terra fuori città, aggiunge Delia, potrei far lavorare qualcuno dei ragazzi, mettendoli in regola. Ma purtroppo non è possibile. I vicini non vogliono vedere neri. È una questione cromatica, hanno paura del colore della pelle». L’ECONOMIA DI VENTIMIGLIA – in realtà – è foraggiata dalla crisi del confine, tra dipendenti delle ong e forze dell’ordine, un nuovo indotto economico è stato portato nella città proprio dalla presenza dei migranti. Eppure molti si lamentano. «Questa situazione difficile mi ha portato anche tante cose belle. Ho conosciuto persone che come me aiutavano gli altri e questo mi ha fatto sentire meno sola. Anche con alcuni ragazzi sono nati rapporti di amicizia, mi hanno ribattezzata mama africa» dice ridendo «uno di loro è diventato un amico di famiglia, lo invitiamo al ristorante con noi, lui si imbarazza per come la gente ci guarda, non sono abituati a vedere un nero al ristorante». «Mi fanno rabbia certe persone» continua «mandano i figli a studiare all’estero per un futuro migliore e maltrattano gli immigrati. Tutti abbiamo diritto a un futuro migliore. Se i residenti dicessero a questi ragazzi anche solo “buongiorno”. Basterebbe già quello a cambiare le cose». Mama Africa ha gli occhi lucidi, mentre alcuni attivisti di passaggio al bar avvertono che domani saranno fatti i pullman per Taranto. Vuol dire che la polizia girerà per le strade cercando persone da deportare nell’hotspot pugliese. Per chi è in strada domani non sarà un giorno di pace.
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