#giardino allegorico
Explore tagged Tumblr posts
cinquecolonnemagazine · 1 year ago
Text
Osservatorio Vesuviano, il museo del primo osservatorio vulcanologico del mondo
La storia, unica, dell'Osservatorio Vesuviano è stata raccolta dai ricercatori dell’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia (INGV) nell’articolo “The Museum of the Osservatorio Vesuviano: inviting the public to explore the geoheritage of the world’s first volcano observatory” pubblicato sulla prestigiosa rivista scientifica internazionale ‘Bulletin of Volcanology’. Quando nasce l'Osservatorio Vesuviano? L'Osservatorio Vesuviano fu fondato nel 1841 per volere di Ferdinando II di Borbone, Re delle Due Sicilie. Mentre il moderno nucleo della ricerca e del monitoraggio si è trasferito da oltre 40 anni nella città di Napoli, l’antico edificio vesuviano ospita un Museo in cui sono esposte collezioni di interesse scientifico, culturale e artistico, risalenti all'inizio del 1800. Strumenti scientifici, rocce e minerali, libri antichi (alcuni dei quali risalgono al 1500), antiche carte e modelli geologici costituiscono il cuore della collezione e si affiancano a foto e filmati di eruzioni storiche del Vesuvio, gouaches del 1700, oltre a registrazioni su carta affumicata dell'attività sismica dal 1915 al 1970, nonché l'apparato stesso per affumicare la carta. Dove si trova? Il complesso dell'Osservatorio Vesuviano è sviluppato sul Colle del Salvatore ed è formato da due edifici principali: l'edificio principale del 1841, con annesso giardino storico, e una struttura moderna costruita negli anni ‘70 per le attività di ricerca e monitoraggio di quel tempo. Particolarità dell’edificio storico è la presenza di due meridiane che indicano l'ora solare e i mesi dell'anno e le grandi terrazze con vista panoramica sul Golfo di Napoli che erano utilizzate per le osservazioni esterne dei fenomeni vulcanici. Arte e scienza Per volere di Ferdinando II di Borbone, l’arte accompagna l’attività scientifica nelle sale dell’Osservatorio: le decorazioni dei soffitti delle sale rappresentano Minerva, dea della scienza, che incorona Prometeo, Eolo che comanda i venti e Vulcano, dio del fuoco, con la sua Fucina. L'arte qui presente è anche probabilmente un omaggio allegorico alla benevolenza del re borbonico verso le Arti e le Scienze della Terra. Gli strumenti scientifici pionieristici appartenenti alla collezione dell'Osservatorio Vesuviano rappresentano soprattutto i progressi scientifici compiuti tra l'Ottocento e il Novecento nel campo del monitoraggio dei vulcani. La collezione comprende strumenti sismologici, magnetici, geodetici, geochimici e meteorologici utilizzati per la sorveglianza del Vesuvio. La collezione dell'Osservatorio Vesuviano I sismografi progettati da Luigi Palmieri, Ascanio Filomarino, Emil Johann Wiechert, Guido Alfani e Giovanni Agamennone, sono il cuore di una collezione unica al mondo. I visitatori possono scoprire questo patrimonio anche attraverso esposizioni permanenti e un percorso multimediale che ripercorre la storia del Vesuvio e l'origine del monitoraggio vulcanico. Il museo si trova all'interno dell'area protetta del Parco Nazionale del Vesuvio, istituito nel 1995. La rete di sentieri del parco consente ai visitatori di godere della geodiversità di Somma-Vesuvio, la cui attività si intrecciò con quella degli esseri umani dal Neolitico ai tempi moderni, come testimoniano numerosi importanti siti archeologici intorno al vulcano, tra cui i più famosi Pompei ed Ercolano. Link allo studio:  https://link.springer.com/article/10.1007/s00445-023-01658-9 Citazione: Di Vito, M.A., Sparice, D., de Vita, S. et al. The Museum of the Osservatorio Vesuviano: inviting the public to explore the geoheritage of the world’s first volcano observatory. Bull Volcanol 85, 45 (2023). https://doi.org/10.1007/s00445-023-01658-9 Link utili: Il Museo dell'Osservatorio Vesuviano raccontato in un articolo su una rivista scientifica internazionale: https://www.ov.ingv.it/index.php/news/240-museo-ov-bullettin-article Foto di Charlotte Gupta da Pixabay Read the full article
0 notes
dionysus-art-project · 4 years ago
Photo
Tumblr media
Scompariva il 9 Agosto 1513 il pittore Bosch. . La vita di Bosch è avvolta nel mistero. Il suo vero nome è Hieronymus (o Jeroen) van Aken, ma l'artista, per distinguersi dal padre e dal nonno anch'essi pittori, si firma con Bosch. Tale nome deriva da 's Hertogenbosch (Boscoducale), una città del Brabante olandese dove Hieronymus nacque nel 1453. . Tra il 1500 e il 1510 Bosch produce le sue opere più significative. Tra queste il celebre Giardino delle delizie. È un grande racconto allegorico: sui lati esterni degli sportelli è dipinto il mondo prima della creazione degli animali, poi, nel lato interno, la nascita di Eva, che simboleggia il primo peccato; la raffigurazione del giardino delle delizie, cioè dei peccati carnali; infine, il castigo dell'Inferno, raffigurato come un incubo mostruoso. . #dionysusartproject #tourartisticiattoriali #tourism #bosch #artist #paint #painter #giardinodelledelizie #musei #prado #art #visiteguidate https://www.instagram.com/p/CDqlC1Co5Qd/?igshid=ejl4eqewibc1
0 notes
freedomtripitaly · 5 years ago
Photo
Tumblr media
“Nell’idea del suo creatore, il Giardino dei Ciucioi voleva essere qualche cosa di più di una curiosa e grandiosa scenografia in pietra: il cammino allegorico verso la conoscenza, verso l’illuminazione”. Così descrive questo luogo unico in Italia – e forse nel mondo – Beba Marsano, giornalista, critica, storica dell’arte e autrice di “Vale un viaggio – Altre 101 meraviglie d’Italia da scoprire”, secondo volume della collana (416 pagg, 28 euro, Ed. Cinquesensi), che ha percorso in lungo e largo l’Italia alla scoperta di luoghi d’arte e di bellezza poco conosciuti e che valgono, appunto, un viaggio. Il giardino Bortolotti, detto “dei Ciucioi”, si trova nel paese di Lavis, a una ventina di minuti di auto da Trento. Un’impresa a cui dedicò la vita Tommaso Bortolotti, un ricco mercante di grano e tabacco. È un giardino che sembra uscito direttamente da un racconto fantastico. Si tratta, infatti, di un giardino pensile unico nel suo genere, dove rovine e vegetazione giocano insieme per creare un paesaggio onirico, dal fascino romantico e decadente. È un complesso monumentale dal gusto eclettico che risale alla prima metà dell’800, nel quale si è cercato di far rivivere un paesaggio fantastico e pittoresco. Lungo un percorso a rampa elicoidale, si susseguono terrazze a giardino pensile che, tra magnifiche piante rare, ospitano diverse strutture, tra cui la facciata di una chiesa neogotica, un criptoportico, una loggia rinascimentale, fino alla sommità dove si trova la “Casa del giardiniere”. Danneggiato gravemente durante la Prima Guerra Mondiale, e in seguito alla terribile siccità del 1921 che distrusse tutte le piante, dopo oltre vent’anni di lavori di rinnovamento è stato da poco riaperto alle visite guidate, a cura Ecomuseo Argentario. Così lo descrive Beba Marsano nel suo libro: “Abbarbicato all’erta parete del dos Paion, questo giardino verticale tutto pietra e acqua, unico in Europa, riempie di stupore chi, oggi come ieri, arriva a Lavis dalla vecchia strada per Trento. E si trova al cospetto di un’improbabile acropoli, un illusorio parco archeologico, una misteriosa cittadella di roccia in cui paiono incrociarsi le influenze di tutte le architetture del mondo. Dalle piramidi a gradoni egizie e precolombiane ai castelli crociati, nel gusto eclettico dell’epoca, che qui sposa felicemente anche la voga romantica delle rovine. Una pittoresca macchina del tempo il Giardino dei Ciucioi (dalla corruzione del tedesco zu Zoll, “al dazio”), cui si accedeva in origine per un camminamento a spirale in un emblematico gioco di luce e ombra. Al termine un mondo fantasy incorniciato da rupi, punteggiato di cipressi e allietato da fontane. Un mondo tutto mura merlate e arcani criptoportici, balconate pensili e loggette rinascimentali, grotte e finti ruderi sulla roccia viva collegati da ripide scalinate, rampe a volta, passaggi a trincea analoghi a quelli degli antichi manieri trentini. Fulcro del complesso i sette terrazzamenti (numero sacro per eccellenza, emblema della pienezza cosmica e spirituale) coronati dal tempio della sapienza, facciata a timpano e pinnacoli con orologio dipinto come rosone centrale. Una citazione del santuario alla dea Fortuna di Palestrina. I letterati del XVIII secolo descrissero come veri e propri giardini dell’Eden“. @Gianni Penasa https://ift.tt/39DWZ04 Il giardino “dei Ciucioi” è unico in Italia: ecco perché “Nell’idea del suo creatore, il Giardino dei Ciucioi voleva essere qualche cosa di più di una curiosa e grandiosa scenografia in pietra: il cammino allegorico verso la conoscenza, verso l’illuminazione”. Così descrive questo luogo unico in Italia – e forse nel mondo – Beba Marsano, giornalista, critica, storica dell’arte e autrice di “Vale un viaggio – Altre 101 meraviglie d’Italia da scoprire”, secondo volume della collana (416 pagg, 28 euro, Ed. Cinquesensi), che ha percorso in lungo e largo l’Italia alla scoperta di luoghi d’arte e di bellezza poco conosciuti e che valgono, appunto, un viaggio. Il giardino Bortolotti, detto “dei Ciucioi”, si trova nel paese di Lavis, a una ventina di minuti di auto da Trento. Un’impresa a cui dedicò la vita Tommaso Bortolotti, un ricco mercante di grano e tabacco. È un giardino che sembra uscito direttamente da un racconto fantastico. Si tratta, infatti, di un giardino pensile unico nel suo genere, dove rovine e vegetazione giocano insieme per creare un paesaggio onirico, dal fascino romantico e decadente. È un complesso monumentale dal gusto eclettico che risale alla prima metà dell’800, nel quale si è cercato di far rivivere un paesaggio fantastico e pittoresco. Lungo un percorso a rampa elicoidale, si susseguono terrazze a giardino pensile che, tra magnifiche piante rare, ospitano diverse strutture, tra cui la facciata di una chiesa neogotica, un criptoportico, una loggia rinascimentale, fino alla sommità dove si trova la “Casa del giardiniere”. Danneggiato gravemente durante la Prima Guerra Mondiale, e in seguito alla terribile siccità del 1921 che distrusse tutte le piante, dopo oltre vent’anni di lavori di rinnovamento è stato da poco riaperto alle visite guidate, a cura Ecomuseo Argentario. Così lo descrive Beba Marsano nel suo libro: “Abbarbicato all’erta parete del dos Paion, questo giardino verticale tutto pietra e acqua, unico in Europa, riempie di stupore chi, oggi come ieri, arriva a Lavis dalla vecchia strada per Trento. E si trova al cospetto di un’improbabile acropoli, un illusorio parco archeologico, una misteriosa cittadella di roccia in cui paiono incrociarsi le influenze di tutte le architetture del mondo. Dalle piramidi a gradoni egizie e precolombiane ai castelli crociati, nel gusto eclettico dell’epoca, che qui sposa felicemente anche la voga romantica delle rovine. Una pittoresca macchina del tempo il Giardino dei Ciucioi (dalla corruzione del tedesco zu Zoll, “al dazio”), cui si accedeva in origine per un camminamento a spirale in un emblematico gioco di luce e ombra. Al termine un mondo fantasy incorniciato da rupi, punteggiato di cipressi e allietato da fontane. Un mondo tutto mura merlate e arcani criptoportici, balconate pensili e loggette rinascimentali, grotte e finti ruderi sulla roccia viva collegati da ripide scalinate, rampe a volta, passaggi a trincea analoghi a quelli degli antichi manieri trentini. Fulcro del complesso i sette terrazzamenti (numero sacro per eccellenza, emblema della pienezza cosmica e spirituale) coronati dal tempio della sapienza, facciata a timpano e pinnacoli con orologio dipinto come rosone centrale. Una citazione del santuario alla dea Fortuna di Palestrina. I letterati del XVIII secolo descrissero come veri e propri giardini dell’Eden“. @Gianni Penasa Alle porte di Trento c’è un giardino pensile unico nel suo genere, dove rovine e vegetazione giocano insieme per creare un paesaggio onirico.
0 notes
redazionecultura · 8 years ago
Text
sede: Collezioni Comunali d’Arte (Bologna); a cura di: Sabrina Samorì e Silvia Battistini.
All’interno dell’ampio percorso museale situato al secondo piano di Palazzo d’Accursio, in cui è custodito un ricco patrimonio artistico databile dal Duecento agli inizi del Novecento, Chiara Lecca interviene in quattro sale (I, IV, XII, XVI) disseminando installazioni che sottolineano la studiata interazione con le peculiari caratteristiche degli ambienti storici in cui si inseriscono. Fin dagli esordi, la ricerca artistica di Chiara Lecca si focalizza sulla relazione tra uomo e natura per farne emergere la frattura operata dalla società contemporanea e la contraddittorietà insita nel comportamento collettivo umano di rimozione della parte istintiva e selvaggia in contrapposizione alla sfera razionale. Il suo lavoro induce lo spettatore a interrogarsi e a ripensare la propria origine attraverso un immaginario di perturbante forza visionaria, in cui l’elemento animale diventa materia per un processo di ambigua alterazione semiotica. Spiega infatti l’artista “Nel mio lavoro l’animale diviene complice dell’operazione di spiazzamento della realtà gestita, ordinata e controllata dell’uomo. Esso è il tramite per far riaffiorare la nostra natura selvatica”. Lo spaesamento cui tende la sua poetica non sottende una critica politica allo sfruttamento animale e naturale da parte dell’uomo ma intende piuttosto suggerire, non senza uno sguardo ironico e talvolta fiabesco, un punto di vista laterale su elementi che appaiono invisibili proprio in virtù della loro presenza pervasiva nelle nostre vite quotidiane. La riflessione sulla svalutazione degradante di cui spesso gli animali sono oggetto, in quanto materiali di consumo, ci costringe a ripensare il nostro rapporto e la nostra somiglianza con essi. Il percorso della mostra prende avvio nella Sala degli Svizzeri (Sala I) in cui l’artista affianca due opere dal titolo True Fake Marbles e Fake Marbles, appositamente unite in un’unica installazione ed ampliate nelle loro dimensioni ambientali per questa occasione espositiva. Il lavoro, che si compone di 18 “totem” realizzati con vasi in ceramica, porcellana e vetro avvolti da vescica animale, è esemplare per il procedimento di manipolazione operato da Chiara Lecca. La pratica di riuso e risignificazione di materia organica normalmente espulsa dai processi produttivi delle società industrializzate ne esalta la natura multiforme e le potenzialità estetiche, restituendo nuova vita a frammenti inerti. L’originale gesto di recupero e rivalutazione messo in atto dall’artista si inserisce nella riflessione teorica delle avanguardie artistiche del Novecento che hanno guardato con attenzione agli scarti mettendo in discussione le categorie di rifiuto e di utilità consumistica. Nel caso di questo lavoro, le vesciche di origine bovina e suina assumono le sembianze percettive di impalpabili trasparenze ambrate che richiamano una trama di preziose venature marmoree in eleganti oggetti di arredo rétro. Lo straordinario effetto mimetico che ne deriva anticipa la poetica barocca che esige teatralità e spettacolo, visibile al pubblico nelle sale successive del museo. L’abilità di Chiara Lecca di trasformare alchemicamente la materia approda a esiti espressivi di straordinaria efficacia nell’installazione allestita nella raffinata Galleria Vidoniana (Sala IV), dove trova posto una delle raccolte più importanti delle Collezioni Comunali d’Arte, da cui trae origine il museo stesso: il nucleo di diciotto tele di soggetto mitologico e allegorico, eseguite da Donato Creti all’inizio del Settecento e donate al Senato cittadino. La fastosa decorazione pittorica seicentesca, unita alle sculture addossate alle pareti, diventano l’ambientazione ideale per animare un teatro di natura in cui l’orizzonte visivo di espressioni artistiche antiche e nuove trova un punto di suggestiva integrazione. L’intervento si costituisce di 10 opere appartenenti alla serie degli Still Life, alcune delle quali molto recenti, ognuna composta da elementi di arredo domestico démodé, come tavoli e colonne in legno o marmo tornito, sovrastati da vasi di fiori sfarzosamente rigogliosi. Gli ampi volumi della sala amplificano l’effetto illusionistico che inganna l’occhio umano: più lo spettatore si avvicina alle opere più scopre che gli elementi che appaiono come petali di consistenza turgida e vellutata sono in realtà orecchie di coniglio tassidermizzate e assemblate in composizioni dal virtuosistico controllo formale. Arricchiscono l’installazione le opere della serie Masks, costituite da bolle e campane di vetro contenenti lembi di pelli di cinghiale e i delicati quadretti dei cicli Domestic Economy e Golden Domestic Economy che sulla parete fanno da contrappunto ai quadri di Creti. L’effetto percettivo complessivo, che stabilisce una relazione di vibrante energia narrativa con il contesto storico, richiama le mirabilia e artificialia tipiche delle wunderkammern europee ovvero le preziosità e le bizzarrie, ritrovate in natura o artefatte dall’uomo, che componevano le ricche collezioni di eruditi, scienziati e principi, collocate in vere e proprie stanze delle meraviglie. Procedendo oltre la parete di fondo della Galleria Vidoniana, si accede all’ala Rusconi con le sale un tempo adibite ad appartamento privato del Cardinale Legato, arredate con materiali che testimoniano principalmente il collezionismo bolognese del primo Novecento. Nella Sala XII, dal magnificente soffitto cinquecentesco dipinto a medaglioni con putti e grottesche, l’artista dialoga con i mobili, i dipinti e le suppellettili che rievocano la raffinata atmosfera delle dimore private del XVIII secolo, disponendo su un tavolo di fattura seicentesca tre sculture della serie Blackbigbubble, realizzate con vesciche di bovino nella loro forma ovoidale incastonate su supporti di metallo e legno. Il percorso della mostra si conclude nella Sala Boschereccia (Sala XVI), uno dei più magistrali esempi di “stanze paese” o “deliziose” largamente diffuse nella Bologna napoleonica, dove le pareti affrescate da Vincenzo Martinelli si aprono illusionisticamente su ampie vedute di paesaggio nella cornice di equilibrate ripartizioni spaziali secondo le tendenze del nuovo razionalismo classicista. Nella scultura di nuova produzione intitolata Lapped Rocks l’animale non è più presente come materiale organico ma ispira ancora una volta un’ambigua relazione tra forma e materia. L’opera è infatti costituita da una moltitudine di piccoli massi di colore bianco opalescente disposti a costruire un rudere che si rivelano blocchi di mangimi minerali specifici per uso alimentare zootecnico, la cui superficie è stata erosa dalla lingua di ovini. Nella natura edenica del giardino e della campagna dipinti, che avvolge a tutta parete lo spettatore, Chiara Lecca introduce elementi di natura reale riproducendone processi vitali come emblema di eterna capacità generatrice, a ricordarci ancora una volta che la vera illusione è quella che coglie l’uomo non ricongiunto nella sua unità originaria.
A fior di pelle è una mostra promossa in occasione di Art City Bologna 2017 e nasce da una stretta collaborazione fra due delle sei aree disciplinari in cui si articola l’Istituzione Bologna Musei – l’Area Arte moderna e contemporanea e l’Area Arte antica – per sottolineare l’intenzione di integrare le singole specificità museali secondo un modello di sistema culturale policentrico e fortemente raccordato nelle sue capacità progettuali.
#gallery-0-4 { margin: auto; } #gallery-0-4 .gallery-item { float: left; margin-top: 10px; text-align: center; width: 25%; } #gallery-0-4 img { border: 2px solid #cfcfcf; } #gallery-0-4 .gallery-caption { margin-left: 0; } /* see gallery_shortcode() in wp-includes/media.php */
Chiara Lecca. A fior di pelle sede: Collezioni Comunali d'Arte (Bologna); a cura di: Sabrina Samorì e Silvia Battistini. All'interno dell'ampio percorso museale situato al secondo piano di Palazzo d'Accursio, in cui è custodito un ricco patrimonio artistico databile dal Duecento agli inizi del Novecento, Chiara Lecca interviene in quattro sale (I, IV, XII, XVI) disseminando installazioni che sottolineano la studiata interazione con le peculiari caratteristiche degli ambienti storici in cui si inseriscono.
0 notes