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argentina1978 · 2 years ago
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shufa1982 · 5 years ago
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quelopasesbien · 10 years ago
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Intervista con Juliana Rosales (Montevideo)
Ho chiesto a Juliana Rosales di parlarmi dei suoi lavori che ha esposto nella mostra Flores de la montaña, a cura di Jacqueline Lacasa alla Galeria del Paseo (14-20 febbraio 2015).
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Juliana Rosales, Creepy (2013), stampa per sublimazione su raso, 90x90 cm.
Quando ho visto per la prima volta il tuo lavoro sulle mappe geografiche mi sono incuriosita. Mi affascina l’estetica della cartografia. Raccontami da dove e come nascono questi tuoi lavori.
Io sono architetto e ad un certo punto ha iniziato a interessarmi tutto il problema del paesaggio, ma non solo di ciò che si vede ma soprattutto delle sue diverse dimensioni. Da sempre lavoro molto anche con la strumentazione digitale, perché quando vivevo negli Stati Uniti ero inserita nel mondo dei computer, ho frequentato un master post-laurea a Los Angeles, presso la Sci-Arc - Southern California Institute of Architecture, molto all’avanguardia su questo fronte. Ho avuto una vita professionale come architetto intensa e per differenti circostanze iniziai a lavorare a Los Angeles. Quando decisi di andarmene, smisi di lavorare nel campo dell’architettura e cominciai a fare arte. Senza abbandonare la tecnologia, ho continuato a lavorare con il concetto di limite e relazione fra la natura e l’artificiale, la natura e l’architettura. Mi occupavo di territori alternativi, modellati in 3D… cose molto complicate.
Quindi i tuoi primi lavori come artista hanno un background scientifico?
Sì. Per esempio ho realizzato opere a partire dalle fotografie satellitari: inserivo le immagini nel computer e trasformavo ogni colore in forme e in codici di movimento. Poi, attraverso un lavoro di equipe con musicisti, trasformavo la linea dell’orizzonte presente in quelle immagini satellitari in suono, in modo tale che l’onda del suono avesse la stessa forma della linea dell’orizzonte. È stato un lavoro molto complesso ma divertente. Per un periodo ho lavorato molto anche con le piante native. Il CCE di Montevideo (Centro Cultural de España) aveva avviato un progetto per cui ogni anno un artista era invitato a rifare la facciata dell’edificio. In quell’occasione ho coperto la facciata con piante chiamate “Barba di cappuccino” che sono tipiche del continente americano, dagli Stati Uniti alla Patagonia. Ho collaborato per un anno con un biologo per individuare una una pianta che resistesse. Quindi da un lato ho fatto lavori legati al territorio e alla natura, dall’altro alla tecnologia. Poi arrivò un momento in cui mi passò completamente la voglia di lavorare con qualunque cosa che avesse a che fare con la tecnologia. Avevo bisogno di un’opera che se anche avessero tolto l’elettricità fosse rimasta lì. A quel punto ho cominciato a lavorare con la cartografia, però da un punto di vista più biografico, cioè pensando ai miei luoghi reali e immaginari, a quelli che hanno a che vedere con la storia, con il desiderio, la lettura, la musica e il disegno.
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Juliana Rosales, Jardines Verticales (2007), dettaglio dell'installazione, CCE Montevideo.
I tuoi lavori sulla cartografia hanno a che fare anche con la memoria. In una delle mappe è scritta questa frase: “Orientarse requiere saber limpiar la memoria”. La memoria di cui parli è personale o se si tratta di una memoria collettiva, che riguarda l’Uruguay?
Io sono nipote di desaparecidos. Mio nonno non era un guerrigliero, era un maestro e un giornalista. Nel 2012 sono ricomparse le sue spoglie, fu una storia tremenda, anche per come erano questi resti che davano conto di come fu assassinato: era stata un’esecuzione. Mio nonno era un intellettuale, direttore di un giornale. Fu anche a capo di una campagna dell’UNESCO di alfabetizzazione in Sudamerica e passò la sua vita fondando scuole in Ecuador, in Messico, in Venezuela.
Quella frase di cui mi hai chiesto è di un filosofo spagnolo, Jorge Wagensberg, ma io l’ho modificata. Quello che intendo è che per orientarsi è necessario togliere dalla memoria quella carica emotiva e oscura. Per anni non ho potuto pensare a questa vicenda, era come un elefante che stava lì in mezzo alla stanza ma io non lo guardavo. Era come essere immersi in una nebbia. Ad un certo punto arriva un vento che la spazza via e ti rendi conto di quanto sia orribile ma che è possibile incominciare a fare qualcosa. E per me tutto è cambiato quando ho iniziato a lavorare con le mappe geografiche.
Che succede con il fatto storico, lo si dimentica?
No, al contrario, si fa più reale. Ho passato tanto tempo cercando di dimenticare, ma poi quando ho potuto conoscere un pezzo di verità è stato spaventoso, drammatico. Può essere che fosse più comodo non pensarci però quando la vita mi mise di fronte a ciò che era stato ho subito sentito che potevo farcela. Pulire la memoria quindi nel senso di “vedere le cose per quello che sono”, perché è difficile, ci sono tante cose per cui ci si rimprovera e tutto si aggroviglia. A volte vedere la realtà per quello che è, per quanto sia duro, consente di orientarsi.
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Juliana Rosales, I wish you were not here (2013), stampa per sublimazione su raso, 90x90 cm.
Di che mappe si tratta? E perché alcune sono simmetriche?
Le mappe che io ho utilizzato appartengono agli ingegneri militari e lo si nota perché ne conservano l’estetica. Sono mappe vecchie digitalizzate, dell’Uruguay ma anche dell’Argentina, del Brasile e dei fiumi Rio de la Plata e Rio Negro. A Montevideo l’Istituto geografico militare e il Ministero di difesa sono vicini. Quindi con l’espediente delle vicende giudiziarie di mio nonno, andavo anche a cercare le mappe all’Istituto geografico militare.
Le mappe militari le ho viste per la prima volta da bambina, quando passavo le vacanze con i miei zii e un loro vicino di casa, un diplomatico, aveva questi “Pañuelos de viaje” (mappe-foulard in dotazione agli aviatori) della guerra indo-cinese, mappe enormi attaccate alle pareti. Mappe di guerra, quindi. E quando mi misi a lavorare mi ricordo che parlai con Ernesto Villa e mi disse: “Juliana, lavora con la tua biografia!”. E il punto di inizio furono quei foulard.
La simmetricità, invece, ha a che vedere con l’estetica del foulard di moda. Ho visto foulard militari ma anche di Louis Vuitton e di Hermes. Volevo che fossero iper femminili e belli e che tutta la carica emotiva, legata ai fatti autobiografici, emergesse in un secondo momento, restasse latente. Non per ingannare ma per privilegiare l’aspetto estetico del foulard.
Ultima domanda: cosa pensi dello stato dell’arte contemporanea in Uruguay?
Ci sono artisti che fanno cose belle e altri che fanno cose molto ben intenzionate. Quello che penso è che manchi una critica rigorosa e, dal momento che siamo molto pochi, è difficile dire a un collega: “Guarda, il tuo lavoro è bello da vedere ma non è sufficiente per essere un’opera d’arte”. Inoltre penso che a volte la struttura del sistema dell’arte sia così fragile che non riesca nemmeno ad essere giusta con gli artisti. Gli ultimi governi hanno introdotto delle facilitazioni, delle sovvenzioni che prima non c’erano. Esistono molte opportunità oggi per i giovani artisti, ma non è mai molto chiaro come queste vengano date. Gli artisti poi fanno parte di gruppi e ce n’è uno che lavora dall’inizio degli anni Novanta. Io ora, per affinità e amicizia, faccio parte di un gruppo di artisti chiamato Fundacion de arte contemporáneo (Fac), però non è una cosa nuova, esiste   dal Duemila, si è addirittura creata una mitologia attorno ad esso e si pensa che il Fac abbia un potere incredibile, ma non è così. Esistono dei critici che fanno un lavoro molto buono e importante, però dovrebbero essercene di più e che litighino tra di loro!
Juliana Rosales (Mercedes, Uruguay). Architetto e docente alla Universidad de la República di Montevideo. Ha frequentato la SCI-Arc (Southern California Institute of Architecture) di Los Angeles e ha lavorato per diversi anni in studi di architettura in America. È tra le fondatrici della Fundación de arte contemporáneo (Fac), gruppo indipendente di artisti e curatori uruguaiani, attivo dal 2000.  
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shufa1982 · 5 years ago
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shufa1982 · 5 years ago
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shufa1982 · 5 years ago
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shufa1982 · 5 years ago
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shufa1982 · 5 years ago
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shufa1982 · 5 years ago
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shufa1982 · 6 years ago
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shufa1982 · 6 years ago
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shufa1982 · 6 years ago
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quelopasesbien · 10 years ago
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Renato Rita, Galeria del Paseo (Punta del Este)
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Ammesso che abbia un senso ricercare l’identità dell’arte contemporanea di un Paese specifico, com’è l’arte in Uruguay?
Se vogliamo fare un confronto con altri Paesi, la sostanziale differenza è che noi non abbiamo una storia e questo ci permette di essere molto più coraggiosi, perché non abbiamo un peso sulle spalle. Non abbiamo il Rinascimento, ad esempio. Noi possiamo dire di aver scoperto l’arte da “cinque minuti”. Ci sono due cose, tra le più antiche dell’umanità, che il sud del mondo, come Argentina, Uruguay, Chile, Paraguay, Bolivia, Perù, ha scoperto da poco, diciamo da “cinque minuti”: che i soldi e l’arte sono importanti! E questo si porta con sé anche un’estetica. Qui la presenza dell’artista ha ancora un’enfasi, una intensità molto più forte che nel mondo civilizzato, o europeo, per dire un nome, dove gli antecedenti son talmente forti che cercano di scomparire perché appaia solo l’opera. Qua è il contrario: l’artista desidera comparire nell’opera e che lo si riconosca come tale. Tutto questo gli dà un certo carattere ingenuo, voluttuoso, intelligente in maniera primitiva. Siamo un po’ la versione contemporanea delle Grotte di Altamira, in questo mondo senza cemento.
Come hai cominciato la tua attività di gallerista?
Io non sono gallerista, la gallerista è Silvia Arrozés. Io vengo dalle lettere: mi piace scrivere, mi interessa la poesia, però con quello non ce la si fa. Quindi ho applicato le lettere a quell’unica forma di arte con cui si guadagna, l’arte contemporanea. Cioè, io non posso vendere un libro di poesie così (n.d.r. mima il volume di un libro) a cinquemila dollari, ma quella tavoletta là (n.d.r. indica l’opera di Marco Maggi delle medesime dimensioni), vale quindicimila dollari!
Quindi mi sono avvicinato all’arte con la parola, cercando di fornire una cornice intellettuale. Nel mondo civilizzato si chiama “critico” però non è per me, io non sono critico.
Curatore?
Mmm… la definizione migliore che ho trovato e con cui rispondo quando me lo chiedono in certe conferenze, è questa ed ha a che fare con il calcio: il mio posto nell’arte è lo stesso del guardalinee. Sto nel gioco, ma fuori dal campo. Aiuto l’arbitro (che è il vero critico) in quello che non vede. Sono esente dalla questione della gloria (ai guardalinee non interessa la gloria e tuttalpiù mai gli arriva), il che è una grande liberazione dalla frustrazione. E se mi sbaglio mi arriva una bottiglia in testa dalla tribuna. Ahahah! Quello è il mio posto nell’arte. Così è e così mi sono fatto.
Buona la metafora! E come sono gli artisti uruguaiani? 
Ci sono artisti importanti e riconosciuti come Torres Garcia, Figarí e altri. In generale c’è una tendenza all’astrazione perché è un paese povero, quindi tutto ciò che è “assenza di mezzi” piace agli artisti. Sono anche molto silenziosi e le loro opere sono, in generale, molto austere.
Nei materiali?
In tutto, anche nella loro retorica. Non hanno un’espansione gratuita. Vogliono qualcosa di preciso, vogliono trovare qualcosa di concreto, a differenza degli argentini.
Ricardo Pascale*, ad esempio, lavora molto con il legno. Ho letto in una sua intervista che egli definisce l’Uruguay “un paese senza foreste”, che non ha sviluppato un artigianato del legno né una tradizione dell’intaglio.
No beh, la proporzione abitanti/alberi se guardiamo è abbastanza alta! Può essere che in confronto con il Brasile ci siano meno foreste. Lui utilizza il legno perché è una materia prima molto economica in Uruguay, ti permette di fare qualsiasi qualcosa. Ti dirò una cosa curiosa: Pascale è stato due volte presidente della Banca Centrale dell’Uruguay, quindi, come io gli ho già detto, è meraviglioso che faccia “codici a barre” così intelligenti!
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Ricardo Pascale, Opere della serie Random Movements, legno, 2011.
Come si sta a Punta del Este? 
È tutto assurdo, è tutta finzione! È incredibile: è un posto senza storia che è nato ricco sin da subito, sono luoghi unici nel mondo. Qua per quanto si scavi non si incontrerà né un’arma né un pezzo di pietra antica, petrolio al massimo! È tutto contemporaneo e… sinistro, nel senso più complesso della parola, perché può succedere qualsiasi cosa.
* Ricardo Pascale ha rappresentato l’Uruguay alla Biennale di Venezia nel 1999 e quest’anno sarà il commissario del padiglione uruguaiano, insieme all’arista Marco Maggi. 
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