#forse intendono il 1950!
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Giappone, grande paese all'avanguardia in cui:
- per paura che ad Halloween succedesse come a Seoul (dove per la troppa gente, molte persone sono morte soffocate dalla calca) quest'anno avevano deciso: PROIBITO OGNI FESTEGGIAMENTO DI HALLOWEEN a Shibuya (risultato? La gente se n'è sbattuta il cazzo e ha festeggiato lo stesso).
- muore un bambino di 8 mesi in macchina? PROIBITO LASCIARE DA SOLO QUALSIASI BAMBINO FINO A 8 ANNI (per inciso: la gente fatica e i bambini qui vanno da soli a scuola dalla 1 elementare + stanno spesso fuori a giocare come qualsiasi bambino della loro età). Risultato? Petizione di genitori contro sta cacata.
- Film Oppenheimer sulla bomba atomica? Assolutamente non si può vedere in Giappone perché non sia mai i 90enni si pigliano collera per la bomba che hanno vissuto + non sia mai che i giapponesi si fanno una cultura storica e si fanno una cazzo di opinione (che non hanno quasi mai) su un fatto che li riguarda così tanto.
Vietare is the new solution a tutto, amici, non lo sapevate? Imparate da questo paese che (cito i reels su IG) "vive nel 2050!"!
#forse intendono il 1950!#ora è tutto chiaro#tra sti babucchi e la Meloni raga non so chi è meglio...#almeno la Meloni sa conservare la faccia#questi manco quella#almeno Meloni dice di essere di destra#questi fanno proibizionismo di destra con la faccia dei liberali sti stronzi di merda#giappone#politica#politica giapponese
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L’importanza dell’oggettività e della soggettività all’interno della critica musicale
La dicotomia oggettivo/soggettivo in una cosa così empirica come la fruizione di un opera in campo artistico (in questo caso parliamo di musica) è un po’ difficile da affrontare.
“La musica è arte e scienza allo stesso tempo.
Perciò, al lo stesso tempo, deve essere colta emozionalmente e compresa intellettualmente; e anche per la musica, come per ogni arte o scienza, non esistono scorciatoie che facciano progredire nella conoscenza.”
L'amatore che si diletta ascoltando la musica senza capirne il linguaggio è come il turista che passa le vacanze all'estero e si accontenta di godersi il paesaggio, i gesti degli abitanti, il suono delle loro voci, senza capire neppure una parola di ciò che essi dicono.
Egli sente, ma non è in grado di comprendere. Anche leggerete scrupolosamente libri puramente teorici non farà di voi dei musicisti né vi insegnerà a scrivere la musica; come in ogni lingua, anche una scorrevolezza puramente grammaticale non si può ottenere che a prezzo di molti anni di esercizio.
Giungerete cosí, alla stessa situazione del turista che conosce una lingua in modo tale da consentirgli, quando si trovi nel paese in cui è parlata, di decifrare i giornali locali, intendere un po' di ciò che si svolge intorno a lui, avere qualche idea della topografia e della struttura sociale della nazione, ed esprimersi con gli abitanti senza far la figura di un muto.
Bisognerebbe capire che l'esistenza stessa dell'opera d'arte presuppone che in essa ci sia: ciò che l'artista voleva metterci, ciò che l'artista inconsciamente ci ha messo e ciò che te fruitore vedi.
Senza peraltro nessuna possibilità di separare le tre cose.
Inoltre, come in molti libri di critica musicale viene detto, la critica va sempre contestualizzata a partire dalle proprie basi con le quali si percepisce la musica, se uno è appassionato di virtuosissimo ovviamente guarderà più al lato esecutivo che non compositivo, chi è appassionato di Free Jazz non guarderà alla cacofonia (preciso che definire “cacofonico” il Free Jazz è una semplificazione quasi obbligata in questo specifico contesto, perché la cacofonia è la sovrapposizione di cellule melodiche che non hanno nulla a che fare l'una con l'altra e il più delle è volte accidentale, mentre il Free Jazz si basa su tutto il contrario, ovvero sulla collettività dei musicisti e sull'interazione fra essi, che poi risultino melodie dissonanti, disarmoniche e senza tempo è un altro conto, ma di certo non è cacofonico) ma a come interloquiscono i vari strumenti, idem per il Punk, la No Wave, si guardano anche altre caratteristiche come “quali sono i riferimenti presi dall’artista, e quando esso è riuscito a riformulare le influenze?”.
Cosa che però per esempio non si può fare con artisti come John Cage.
Citando una parte de “Il silenzio non esiste” del critico americano Kyle Gann dedicata al controverso, illuminante e sorprendente brano 4’33”, che ha segnato la storia di John Cage e l'idea di musica di tutto il Novecento: “L'evento più famoso nella storia delle stagioni concertistiche alla Maverick si tenne la sera del 29 Agosto, quando pianista David Tudor si sedette al pianoforte sul piccolo palco di le rialzato, chiuse il coperchio della tastiera e guardo un cronometro. Per due volte nei successivi quattro minuti alzò il coperchio e lo riabbassò prestando attenzione a non fare rumore, benché girasse anche le pagine dello spartito, che erano prive di note. Dopo che furono passati quattro minuti e trentatre secondi, Tudor si alzò per ricevere gli applausi e fu cosi che venne eseguita per la prima volta una delle opere musicali più controverse, illuminanti, sorprendenti, famigerate, imbarazzanti e in fluenti dai tempi di La sagra della primavera di Igor Stravinskij”.
Comunque sia, 4’33” ha un regolare spartito di sei pagine orizzontali, i cui il tempo-spazio orizzontale di ciascun movimento viene segnato da linee verticali che appaiono a intervalli proporzionali al passaggio del tempo.
Cage concepisce quel nuovo pezzo come qualsiasi altro brano e lo scrive "nota per nota".
“L'ho compo sto come un pezzo di musica, eccetto che non c'erano suoni solo durate".
Non rinuncia alla struttura e lo divide in tre parti, anche per convincere il pubblicona riconoscerlo come un lavoro musicale: "Un periodo di silenzio non articolato sarebbe presumibilmente sembrato troppo amorfo”
Più tardi confesserà di avere usato i tarocchi per decidere le durate, anziché lanciare le abituali monetine dell'I Ching; e qualcuno avanzerà il sospetto che forse il caso non è stato cosi casuale se la somma che scaturisce alla fine (30" + 2'23" + 1’40" = 4’33") si avvicina quasi perfettamente al format buono per la Muzak che Cage aveva adombrato in una conferenza.
Ennesimo bias da eliminare:
Non si pensi che il nostro sistema tonale di scale maggiori e minori sia l'apice dell'evoluzione musicale.
Nell'arte, un progresso inteso come miglioramento non esiste.
La musica che conosciamo meglio, in realtà non è altro che il prodotto della tecnica e dello stile di poche centinaia d'anni; una musica che esce da questi confini perché piú recente o più antica, può avere lo stesso valore di qualsiasi composizione scritta da Mozart.
A partire dal 1950 il mondo della musica si è trovato di fronte una sfida enorme: la ricerca di una teoria della musica razionale ed oggettiva che potesse rimpiazzare il sistema della tonalità convenzionale, ormai ritenuto limitato e inadeguato.
Si era capito che una qualsiasi teoria della musica avrebbe dovuto rendere conto al suo interno di opposizioni sia culturali che teoriche, come quelle tra musica europea e musica non europea, tra musica scritta e orale, tra musica esistente musica immaginabile.
Nel numero di compositori del dopoguerra che hanno affrontato questa sfida, nessuno è più qualificato di Stockhausen per poter articolare i temi filosofici e pratici che stanno alla base della musica d'avanguardia.
II suo straordinario successo è prima di tutto quello di aver dimostrato sia con i suoi scritti che con le sue composizioni che il fondamento teorico della nuova musica, sia essa seriale, elettronica, statistica o indeterminata, può essere efficace, razionale, coerente e universale.
Schönberg sosteneva che non esistono definizioni dei concetti di “melodia” e di “melodico” che vadano piú in là di un'estetica da quattro soldi, e quindi la composizione delle melodie dipende esclusivamente dall'ispirazione, dalla logica, dal senso formale e dalla cultura musicale.
Nel periodo contrappuntistico, i compositori si trovavano in una situazione analoga per quanto riguardava l'armonia.
Le regole danno solo delle avvertenze “negative”, cioè dicono quello che non va fatto, e anche i compositori di quel tempo impararono quel che dovevano fare solo per mezzo dell'ispirazione.
Questo perché la bellezza, in quanto concetto indefinito, è assolutamente inutile come base di valutazione estetica; e lo stesso vale per il sentimento.
Una Gefüblsästhetik (estetica del sentimento, come la chiamava Schönberg) di questo genere ci riporterebbe all'insufficienza di un'estetica antiquata che paragonai suoni al movimento delle stelle e fa derivare vizi e virtú dalle combinazioni dei suoni.
Esiste comunque la musica oggettivamente importante storicamente, l'influenza è un fatto storico, quantificabile e misurabile.
Però sarebbe falso dire che la musica è bella solo perché storicamente importante questo non ti renderebbe un appassionato di musica ma uno storico.
Ci sono dischi che sono storicamente importanti perché hanno creato un modo nuovo di intendere o di costruire o concepire la musica e quindi inevitabilmente gente dopo di loro ha riutilizzato gli "assiomi" da cui i primi erano partiti (Velvet Underground su tutti nel Rock), ma non è che quel disco è bello perché è influente, è bello perché ha una originalità e creatività che va oltre gli schemi. Questo non è un assunto universale: anche i Queen per esempio sono influenti, che pur non avendo davvero inventato cose nuove sono stati popolari quindi per una basilare legge statistica hanno influenzato tanta gente.
Ecco perché ritengo che ridurre tutta questo universo a solo “la musica è solo oggettiva” o “la musica è solo soggettiva” rende abbastanza sterile la discussione, impedendo uno svilupparsi di una coscienza personale durante lo scambio di argomentazioni.
Concludo con una citazione - l’ennesima- sapendo che in realtà tutto ciò che ho detto sia terribilmente riduttivo e tiene conto di molti altri aspetti e dilemmi filosofico-musicologici che sono stati affrontati nei secoli, più avanti magari amplierò il discorso
Gottfried Wilhelm Leibniz a Christian Goldbach, lettera del 1706:
“La musica è un occulto esercizio aritmetico dell'anima, che non sa di numerare.
Anche se non sa di numerare, l'anima avverte l'effetto di questo calcolo insensibile, ossia il diletto che viene dalle consonanze e la molestia delle dissonanze.
Il piacere nasce infatti da molte percezioni insensibili.
Coloro che attribuiscono all'anima solo le operazioni di cui è conscia, in verità intendono male”
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/12/29/wikipedia-la-cittadinanza-romana-brindisi-ovvero-svilire-la-storia-2/
Wikipedia, la cittadinanza romana e Brindisi. Ovvero come svilire la storia
di Nazareno Valente
Il canonico Pasquale Camassa, che noi brindisini amiamo chiamare papa Pascalinu, quando scrisse la sua opera più conosciuta su Brindisi1, non intendeva certo fare un saggio ma piuttosto riprendere le antiche glorie per adeguarle alle mode del tempo, con l’evidente scopo di tirare più acqua possibile al mulino della nostra città. La romanità allora era in auge, anche nel saluto, ed era quello il motivo che Camassa intendeva sfruttare, unitamente ai valori ed ai simboli (ad esempio, fedeltà, missione storica, aquile romane) che facevano audience.
Purtroppo quella che era stata la maggiore grandezza della Brindisi romana, vale a dire l’essere stata una colonia di diritto latino, era in quel periodo poco spendibile perché il termine stesso di colonia evocava uno stato di sudditanza e cantilene in cui lo stivale s’allungava per portare il progresso. Naturalmente c’è una differenza abissale tra le colonie dedotte dai Romani e quelle avviate nel periodo ottocentesco e agli inizi del secolo scorso, tuttavia papa Pascalinu non poteva operare su queste diversità, troppo difficili da cogliere da parte di chi non ha conoscenze specifiche sull’argomento, e preferì giocare su effetti più facilmente comprensibili. Solo che ciò voleva dire incidere sui fatti, piegandoli in maniera ingannevole all’obiettivo che s’era proposto.
Innanzitutto, tanto per non dare il sapore dei parenti poveri, fa diventare la colonia da latina a romana; poi la dice «formata di cittadini romani, tra cui si noveravano famiglie nobili e consolari»2 e questo perché l’Urbe intende «tenersi amica e affezionata questa città»3. Ora, se si considera che persino i plebei erano restii ad iscriversi alle liste coloniali, anche per destinazioni non troppo lontane da Roma — come, per esempio, nel caso di Anzio — nel timore che fosse una scusa per trasferirli («Ἦν δ´ οὐκ ἀγώνισμα πᾶσι τοῖς πολλοῖς καὶ πένησι Ῥωμαίων ἡ διανομὴ τῆς χώρας ὡς ἀπελαυνομένοις τῆς πατρίδος»4), appare del tutto inverosimile che lo facessero spontaneamente i nobili ed i consolari, in aggiunta rinunciando al potere ed agli onori spettanti al loro rango. D’altra parte lo stesso Camassa, senza volerlo, svela che la sua è una vera e propria invenzione quando, pensando di aggiungere blasone ai coloni arrivati a Brindisi, si contraddice clamorosamente ricordando che essi provengono «in buona parte dalla tribù Palatina»5, vale a dire proprio da una delle quattro tribù urbane composte unicamente da plebei poveri in canna, e quindi la meno aristocratica possibile6.
L’artifizio gli fa anche ipotizzare che i Romani «deducendo a Brindisi una loro colonia, ebbero in animo non di far pesare su questa città i loro diritti di dominatori, ma intesero di collaborare unicamente ai naturali del luogo»7 perché essa «fosse posta in condizione di vedere dal suo magnifico porto spiccare arditamente il volo le aquile romane, e in esso ritornare stringendo tra gli artigli le palme della vittoria»8. In pratica, sembra che i coloni arrivano a Brindisi più per la gloria di questa città che per l’Urbe. In ogni caso, la collaborazione è talmente attiva che nel volgere di pochi anni la città salentina diviene «Municipio, con tutti i diritti annessi alla cittadinanza romana»9 ed il passaggio è talmente repentino da consentire a Camassa di citarla «colonia e municipio romano»10, come se le due diverse configurazioni giuridiche fossero un tutt’uno.
Con piccoli espedienti narrativi papa Pascalinu oscura così il passato di colonia latina, in modo da garantirsi che nessuno dei suoi contemporanei possa equivocare sul termine e sminuire così la romanità della città.
Operazione riuscita perfettamente, se anche alcuni nostri contemporanei si sono lasciati convincere dalla sua tesi, come abbiamo già potuto verificare la volta scorsa su Wikipedia e su scritti recenti di cronisti brindisini. Ironia della sorte, pur non essendoci più in gioco i superiori interessi cittadini, continua ad essere tenuto nascosto o mascherato, quasi fosse una vergogna, ciò che dovrebbe invece essere motivo di vanto.
Ma ritorniamo a quel 5 agosto 244 a.C., giorno in cui i coloni entrarono nella città rifondata con il nome di Brundusium. Nelle loro fila non c’erano nobili o consolari ma certamente un sufficiente gruppo di equites11 romani e latini, magari non di eccelsa schiatta, ed anche parecchi aristocratici brindisini12.
Gli stati d’animo erano probabilmente contrastanti: i Romani che univano, alla tristezza d’essere tanto lontani dalla loro città, la soddisfazione d’avere finalmente una buona proprietà di cui disporre; i maggiorenti brindisini che, all’amarezza del ridimensionamento della loro posizione politica, mescolavano la gioia di rientrare in possesso dei propri possedimenti, sia pure probabilmente in misura ridotta. La formula giuridica imposta era la più favorevole per lo sviluppo della città che, data la posizione strategica, poteva contare sul costante appoggio dell’Urbe e, al tempo stesso, su una formale autonomia. La cittadinanza romana era, invece, per entrambi i gruppi un problema di secondaria importanza: averla o no, a quella distanza dalla città eterna, non comportava concrete differenze.
Dione, nell’epitome di Zonara, afferma che Roma s’era impossessata di Brindisi perché dotata d’un buon porto che costituiva un punto d’arrivo e di sbarco per chi naviga dall’Illiria e dalla Grecia («ὡς εὐλίμενον καὶ προσβολὴ καὶ κάταρσιν ἐκ τῆς Ἰλλυρίδος καὶ τῆς Ἑλλάδος τοιαύτην ἔχον»13) ponendo in chiaro che, almeno inizialmente, non c’era un interesse generale per i commerci adriatici quanto piuttosto la necessità di evitare che la città salentina, lasciata sguarnita, potesse costituire un facile approdo per chi intendesse portar guerra nella penisola italica. È quindi in funzione difensiva, soprattutto per garantirsi dalla minaccia dei pirati illirici e dai sogni di gloria di sovrani tipo Pirro, che viene decisa l’acquisizione di Brindisi e l’invio, successivamente, d’una colonia.
Dei primi anni di vita della colonia il tempo ci ha lasciato solo alcuni frammenti, tra i quali significativo è quello che emerge dall’epigrafe (un elogium) trovata a Brindisi nel 195014. L’elogio fa ritenere che, sino al 230 a.C., Roma s’incaricò di nominare le magistrature della colonia, forse perché desiderava che si creasse una certa coesione tra le varie componenti, prima di consentire che le investiture fossero effettuate localmente. È questo un anno cruciale perché si accentuano le scorrerie degli Illiri e Roma nella primavera del 229 a.C. decide d’intervenire. Polibio ci narra così il primo uso del porto di Brindisi nelle spedizioni per l’Oriente ed è Postumio, uno dei due consoli di quell’anno, ad inaugurare questa lunga tradizione facendo compiere la traversata per Apollonia a ventimila fanti e duemila cavalieri («Ποστόμιος τὰς πεζικὰς διεβίβαζε δυνάμεις ἐκ τοῦ Βρεντεσίου, πεζοὺς μὲν εἰς δισμυρίους, ἱππεῖς δὲ περὶ δισχιλίους»15).
Un’immagine questa ricorrente, che ci consegna la visione ampiamente nota di Brindisi utilizzata quale base militare privilegiata per l’espansione in Oriente, ma che sottolinea al contempo un aspetto spesso taciuto: Roma nel perseguire questo suo obiettivo strategico finisce inevitabilmente per salvaguardare gli interessi mercantili di Brindisi che avrà così la possibilità di prosperare sino a diventare una delle città più rinomate del mondo romano. Si spiega in questo modo anche la fedeltà che la colonia brindisina dimostrerà immutata pure nei frangenti più difficili, come in occasione della guerra annibalica quando le comunità salentine per lo più defezionano consegnandosi al nemico («Ipsorum interim Sallentinorum ignobiles urbes ad eum defecerunt»16).
Questa convergenza di interessi esalta ancor più la situazione di vantaggio che Brindisi fruisce in quanto colonia latina e la rende del tutto impermeabile, checché
ne vogliano credere Wikipedia e taluni cronisti brindisini, a rivendicazioni volte a modificarne l’assetto giuridico. La cittadinanza romana non è un problema per i brindisini neppure per i decenni seguenti, quando in parte del mondo italico inizia invece a prender corpo proprio in concomitanza con le conquiste del ricco Oriente dei cui benefici gli italici intendono essere partecipi. Sino ad allora, interessa per lo più le zone vicine a Roma e coloro che in qualche modo intendono risiedere nell’Urbe.
Se ne intuisce un’avvisaglia in un passo di Livio in cui i delegati di ogni parte del Lazio17, ricevuti in Senato nel 187 a.C., lamentano che i loro concittadini sono emigrati a Roma e si sono fatti lì censire («legatis deinde sociorum Latini nominis, qui toto undique ex Latio frequentes convenerant, senatus datus est»18). Il che implica che, essendo divenuti cittadini romani, di fatto creano dei vuoti nelle comunità d’origine che hanno conseguentemente problemi a fornire il contingente di soldati richiesto dall’Urbe. Analoga lamentela si ripropone dieci anni dopo ed è sempre Livio a farcelo sapere19. In questo caso ci sono inviati del Lazio, Peligni e Sanniti e, quindi, esponenti di cittadine centromeridionali e non dell’estremo sud. In entrambi i casi il Senato decide l’espulsione di chi, in maniera più o meno fraudolenta, ha utilizzato lo ius migrandi per risiedere a Roma ed ottenere così la cittadinanza romana.
In ogni caso, Brindisi ed il resto del Salento non sono sfiorate da questi tentativi che, com’è evidente, coinvolgono città che, trovandosi più prossime a Roma, possono meglio sfruttare gli eventuali privilegi politici derivanti dal possesso della cittadinanza romana. Ciò non toglie però che con il passar del tempo la questione si allarghi coinvolgendo tutti gli strati sociali e le diverse regioni italiche, perché il requisito della cittadinanza inizia a dare evidenti benefici economici e fiscali ai suoi possessori e discrimina in particolar modo le città federate. Infatti dal 167 a.C., grazie al bottino ottenuto con la terza guerra macedonica, il tributum per mantenere l’esercito non è più richiesto20 e, pertanto, i cittadini romani godono dell’immunità finanziaria21 mentre i socii e le colonie di diritto latino continuano a dover sostenere le spese per l’arruolamento delle truppe che forniscono a Roma. Pur partecipando agli oneri della conquista, gli Italici non ottengono quindi i relativi vantaggi, e ciò non può che esasperarne gli animi.
Che la situazione vada via via incancrenendosi lo si può ricavare dai progetti di legge, che vengono invano messi in discussione nella seconda metà del II secolo a.C. con l’intento di risolvere la questione22, e lo ius adipiscendae civitatis per magistratum con cui si va incontro alle richieste dei notabili delle colonie latine concedendo la cittadinanza romana a chi ha ricoperto una magistratura locale23.
Ma i fatti che aggravano la protesta sono la riforma dell’esercito e la lex Licinia Mucia.
La riforma prevede che per la prima volta i capite censi (i nullatenenti) possano accedere alla carriera militare: una rivoluzione che comporta una vera e propria possibilità di avanzamento sociale ed economico per le classi più umili. Solo che tale occasione è preclusa agli Italici che, pertanto, si vedono esclusi anche da questo ulteriore beneficio.
La legge, che prende nome dai due consoli del 95 a.C., istituisce invece una commissione giudicante (quaestio) incaricata di verificare se tutti gli Italici residenti a Roma lo siano legittimamente e, in caso negativo, decidere l’espulsione ed il loro ritorno nelle città d’origine («de redigendis in suas civitates sociis»24).
Quando poi Druso, il tribuno della plebe che aveva proposto di estendere la cittadinanza romana a tutta l’Italia25 («ad dandam civitatem Italiae»26), viene ucciso nel 91 a.C. per impedire che il provvedimento sia votato, molte delle città federate concludono di non avere altra scelta se non quella di prendere le armi e muovere guerra a Roma.
In pratica, la cittadinanza romana, inizialmente senza attrattive e quasi vissuta dagli Italici come un limite alla propria autonomia, diviene talmente ambita da spingere all’uso dei mezzi più estremi pur di ottenerla. Inizia così la guerra sociale.
Con l’eccezione di Venusia, le colonie latine non aderiscono alla rivolta e preferiscono mantenersi fedeli all’Urbe, in parte perché la situazione dei propri abitanti è decisamente migliore rispetto a quella dei socii; in parte perché le classi dirigenti, accontentate con la concessione dello ius adipiscendae civitatis per magistratum, rappresentano un valido deterrente contro ogni possibile protesta. Brindisi pertanto si schiera con Roma, e questo è un motivo sufficiente per convincere le altre comunità salentine a fare lo stesso. Fa parte infatti delle fantasie «l’ultima grande ribellione guidata da Taranto nell’80 a.C.»27 di cui ci dà menzione Wikipedia in una delle sue schede.
L’esito della guerra rimase in bilico, finché, su rogatio28 del console Lucio Giulio Cesare, si decise con lex Iulia de civitate latinis (et sociis) danda del 90 a.C. di concedere la cittadinanza romana ai Latini ed agli alleati che o non avevano preso le armi o le avrebbero deposte molto presto («qui arma aut non ceperant aut deposuerant maturius»29). Come giustamente riassume Appiano: con questo atto, il senato rafforzava i legami con chi gli era rimasto fedele, guadagnava alla sua causa gli incerti e indeboliva, con la speranza d’un analogo provvedimento, coloro che avevano rotto il sodalizio ed erano scesi in guerra («καὶ τῇδε τῇ χάριτι ἡ βουλὴ τοὺς μὲν εὔνους εὐνουστέρους ἐποίησε, τοὺς δὲ ἐνδοιάζοντας ἐβεβαιώσατο, τοὺς δὲ πολεμοῦντας ἐλπίδι τινὶ τῶν ὁμοίων πραοτέρους ἐποίησεν»30).
Con le buone (altri provvedimenti simili alla lex Iulia) o con le cattive (la spietata determinazione di Silla) la rivolta fu sedata e tutte le popolazioni dell’Italia a sud della regione gallica cisalpina ottennero la cittadinanza romana.
La cittadinanza romana fu quindi in linea teorica concessa a Brindisi e alle altre comunità salentine nel ’90, però per la concreta fruizione la lex Iulia prevedeva, oltre alla clausola di non essere in guerra con Roma, quella del fundus fieri31, formula rimasta non del tutto chiarita ma che probabilmente implicava che le comunità aderissero preliminarmente alla totalità delle norme municipali o più in generale del diritto romano. Dopo l’accettazione del fundus fieri, su cui ritorneremo tra breve, c’erano un paio di passaggi burocratici da superare: il censimento e l’assegnazione ad una delle tribù romane. Quando questi adempimenti si siano effettivamente svolti rimane un mistero32: quasi insieme alla guerra sociale era scoppiata la guerra civile che vedeva coinvolti Silla da una parte e Mario – e poi Cinna – dall’altra, per cui era un periodo in cui le fazioni in lotta si alternavano al potere, facendo e disfacendo le cose in così rapida successione da rendere difficile una puntuale datazione degli avvenimenti.
Si può pero ipotizzare che il censimento, con cui s’includevano i novi cives, fu fatto con ogni probabilità nell’86 a.C. oppure l’anno successivo, mentre la distribuzione tra le tribù fu oggetto di vari provvedimenti con i quali le due fazioni in lotta tentarono di far prevalere il proprio punto di vista. Pare certo che Silla, volendo contenere il peso politico dei nuovi cittadini, li distribuì in otto, o al massimo dieci, delle trentacinque tribù esistenti33; Mario e Cinna, che invece volevano garantirne i pieni diritti, li ripartirono tra tutte le tribù. E fu questa la decisione definitiva, presa all’inizio dell’83 a.C. o, più presumibilmente, alla fine dell’anno precedente. A questo punto, la data più plausibile per l’effettivo conferimento della cittadinanza romana a Brindisi, e della sua costituzione a municipium, sembrerebbe l’83 a.C., come per le altre città salentine.
Ma c’è un altro aspetto che meriterebbe d’essere analizzato e che viene spesso trascurato, forse perché si dà per scontato ciò che non scontato non è, vale a dire che tutti, pur di ottenere la cittadinanza romana, fossero disposti a rinunciare a qualsiasi cosa. Riconsideriamo pertanto il codicillo del fundus fieri che, come già riportato, qualora non fosse stato accettato, avrebbe precluso l’accesso alla cittadinanza romana, e quindi lasciato la comunità nello stato giuridico precedente.
Per quanto letteralmente indecifrabile, la clausola non pone dubbi interpretativi sul perché le autorità romane intesero inserirla nella lex Iulia. Roma si vedeva costretta a concedere ai rivoltosi la cittadinanza romana e, naturalmente, era forzata a farlo anche con le altre città italiche che le erano rimaste fedeli. Ma tale concessione non poteva essere fatta lasciando in vita i precedenti statuti in quanto, in taluni casi, essi consentivano un’autonomia che rischiava di confliggere con il nuovo tipo di rapporto che si stava venendo ad instaurare. Dal punto di vista dell’Urbe, era evidente che la cittadinanza poteva essere concessa solo se le comunità avessero recepito, preliminarmente ed in toto, il diritto romano rinunciando così al diritto locale. In definitiva, in cambio della cittadinanza, le comunità sacrificavano l’autonomia che gli statuti precedenti avevano accordato loro e accettavano, in cambio, di essere inglobati nel territorio romano con la struttura dei municipia.
Tutto ciò era ragionevole per chi, per ottenere la cittadinanza romana, aveva preso le armi; ma lo era anche per gli alleati italici e le colonie latine che, essendosi opposti alla rivolta, avevano di fatto manifestato di preferire le condizioni giuridiche vigenti? Possibile che nessuna di queste comunità abbia espresso il desiderio di rimanere nello stato precedente al conflitto?
Spulciando bene, si scopre che le lamentele ci furono, ed anche accese. Ce ne parla Cicerone facendoci sapere che a riguardo ci fu ampia disputa a Eraclea e a Napoli, perché la gran parte della popolazione preferiva alla cittadinanza romana la libertà garantita dal trattato in precedenza stipulato («In quo magna contentio Heracliensium et Neapolitanorum fuit, cum magna pars in iis civitatibus foederis sui libertatem civitati anteferret »34). Come questa maggioranza sia poi diventata minoranza, visto che alla fine la clausola fu accettata, non è dato di sapere, sebbene sia facilmente immaginabile che Roma abbia attuato qualche fattiva azione di convincimento. Lo si presume dal successivo passo in cui Cicerone afferma che in conclusione, grazie alla forza della legge e della parola («Postremo haec vis est istius et iuris et verbi»35), anche le due città giunsero alla ratifica.
D’altra parte, Cicerone ci parla incidentalmente della questione delle due città, proprio perché rappresentavano i casi più eclatanti, il che fa ragionevolmente presupporre che non furono quelle le sole comunità che espressero qualche malumore. Verrebbe così da chiedersi: Brindisi era fra chi mugugnava? oppure si sentì privilegiata a farsi fondo ed a mutare la propria configurazione istituzionale da colonia latina a municipium?
Ragionevolmente non si può pensare che vi sia stato soverchio entusiasmo, anche perché il municipium non era certo il più desiderabile degli assetti giuridici possibili, come troppo spesso si sente argomentare36; al contrario le fonti ci offrono qualche indizio che inducono a credere che Brindisi accettò sì la soluzione ma non certo di buon grado.
Riprendendo il passo di Cicerone della scorsa puntata, quando l’oratore ci narra di aver incontrato la figlia Tulliola nel giorno in cui coincidono casualmente il compleanno della fanciulla e l’anniversario della fondazione della colonia brindisina («ibi mihi Tulliola mea fuit praesto natali suo ipso die qui casu idem natalis erat et Brundisinae coloniae»37), scopriamo infatti che nel 57 a.C., cioè a dire a distanza di quasi trent’anni dalla costituzione in municipium, il precedente stato giuridico è ancora ricordato e celebrato.
Altro indizio. Abbiamo già riportato come Silla non fosse molto ben predisposto verso i nuovi cittadini romani che, quindi, temevano che egli volesse rimettere in discussione i diritti politici già concessi da Cinna38 e cercavano coerentemente di non favorirlo. Eppure nell’83 a.C., di ritorno dall’Oriente e con l’intenzione di chiudere il conto con la parte avversa, Silla sbarca a Brindisi in tutta tranquillità. E non solo: riceve un’accoglienza talmente inaspettata che, in cambio, si sente in obbligo di gratificare la città dall’esenzione delle tasse («Δεξαμένων δ’ αὐτὸν ἀμαχεὶ τῶν Βρεντεσίων, τοῖσδε μὲν ὕστερον ἔδωκεν ἀτέλειανviene»39).
Un atteggiamento in apparenza strano in chi, aspirando alla cittadinanza, avrebbe dovuto parteggiare per la fazione opposto o, quantomeno, mostrare meno entusiasmo per Silla, ma che rientra nella normalità delle cose, se si pensa che la classe dirigente brindisina aveva tutto da perdere e nulla da guadagnare dal cambiamento istituzionale. I magistrati locali avevano già ottenuto la cittadinanza romana in forza dello ius adipiscendae civitatis per magistratum e le novità toglievano loro buona parte del potere organizzativo e, soprattutto, quello giurisdizionale che sarebbe passato ai prefetti delegati dal pretore urbano. Senza contare – e non era questione di poco conto – che si vedevamo sottratta la possibilità di battere moneta, in quanto competenza preclusa ad un municipium.
In effetti c’è motivo per ritenere che una qualche nostalgia per il passato ebbe forse modo di palesarsi e, al tempo stesso, non fu certo facile per i Brindisini metabolizzare la perdita dell’autonomia che, per quanto formale, rappresentava tuttavia un tratto distintivo della vita cittadina.
Certo è che in quel lontano 83 a.C., la colonia di diritto latino chiudeva i battenti lasciando spazio al municipium (cives optimo iure) di Brindisi ed i Brindisini diventavano cittadini romani, essendo stati iscritti nella tribù Maecia.
Più o meno nello stesso periodo assumevano la stessa configurazione tutte le città italiche, sicché il territorio a sud della Gallia Cisalpina divenne romano.
Note
1 P. Camassa, La romanità di Brindisi attraverso la sua storia e i suoi avanzi monumentali, Brindisi 1934, Tipografia del Commercio di Vincenzo Ragione.
2 P. Camassa, Cit., p. 6.
3 P. Camassa, Cit., p. 6.
4 Dionigi d’Alicarnasso (I secolo a.C.), Antichità romane, IX 59, 2.
5 P. Camassa, Cit., p. 6.
6 Si pensi inoltre che ancora due secoli dopo, quando ormai la zona era pacificata e romanizzata, risultarono per lo più vani i tentativi di ripopolare la Puglia per i guasti inferti da Annibale, perché considerata troppo lontana da Roma.
7 P. Camassa, Cit., p. 8.
8 P. Camassa, Cit., p. 8.
9 P. Camassa, Cit., p. 7.
10 P. Camassa, Cit., p. 8.
11 Non esistono dati sulla colonia brindisina ed è pertanto possibile solo stimarne il quantitativo in base a quelli noti per altre colonie latine dello stesso periodo. In tal senso, si ritiene che i coloni dovessero essere almeno 6.000, di cui circa 200 equites.
12 Anche in questo caso, rinvio per un maggior dettaglio allo studio sulla conquista del Salento e sull’assetto organizzativo della Brindisi romana, che spero di completare per gli inizi della primavera prossima.
13 Dione (II secolo d.C – III secolo d.C.), Storia romana., in zonara (XI secolo d.C – XII secolo d.C.), Epitome, VIII 7, 3.
14 L’epigrafe è conosciuta come l’elogio di Brindisi.
15 Polibio (III secolo a.C. – II secolo a.C.), Storie, II 11, 7.
16 Livio (I secolo a.C. – I secolo d.C.), Dalla fondazione di Roma, XXV 1, 1.
17 Il passo è variamente inteso dagli storici soprattutto riguardo al fatto se riguardi i Latini in senso stretto oppure anche i socii italici.
18 Livio, Cit., XXXIX 3, 4.
19 Livio, Cit., XLI 8, 6 – 12.
20 Cicerone (II secolo a.C. – I secolo a.C.), De Officiis, II 22, 76. «Paulus tantum in aerarium pecuniae invexit, ut unius imperatoris praeda finem attulerit tributorum» (Emilio Paolo riempì così tanto l’erario di denaro che il bottino d’un solo generale fu sufficiente a porre fine alle tasse).
21 I cittadini romani erano inoltre esentati da qualsiasi imposta fondiaria sui possessi in Italia.
22 Il console M. Fulvio Flacco (125 a.C.) e successivamente Gaio Sempronio Gracco proposero invano l’estensione della cittadinanza romana alle città italiche federate ed alle colonie latine.
23 Asconio (… – II secolo d.C.), In Pisonem, a.c. clark, 1907, p. 3.
24 Asconio (… – II secolo d.C.), Pro Cornelio, a.c. clark, 1907, p. 68.
25 In quel periodo s’intendeva la parte di penisola a sud della regione gallica cisalpina.
26 Velleio Patercolo (I secolo a.C.– I secolo d.C.), Historiae Romanae, II 14, 1.
27 Consultabile a questo link https://it.wikipedia.org/wiki/Salento#Storia (18.12.2017).
28 Proposta.
29 Velleio Patercolo, Cit., II 16, 4.
30 Appiano (I secolo d.C.– II secolo d.C.), Le guerre civili, I 6, 49.
31 Letteralmente, farsi fondo, dove fondo va inteso nel senso di appezzamento di terreno.
32 Si vedano sulla questione: Velleio Patercolo, Cit., II 18, 5-6; Appiano, Cit., I 55-56; Livio, Periochae. LXXVII.
33 Si deve tener presente che ogni tribù esprimeva un solo voto e, quindi, distribuire i nuovi cittadini in un numero limitato di tribù significava ridurre il numero di voti che essi potevano esprimere.
34 Cicerone, Pro Balbo, VIII 21.
35 Cicerone, Ibid., VIII 21.
36 Ad esempio, in G. Perri, Brindisi nel contesto della storia, Edizioni Lulu.com 2016, p. 28, il Municipium è indicato come «la massima delle varie categorie previste».
37 Cicerone, Epistole ad Attico, IV 1, 4.
38 In tal senso, T. Mommsen, Storia di Roma, III, La rivoluzione sino alla morte di Silla, Anonima Edizioni Quattrini, Roma 1936, p. 385.
39 Appiano, Cit., I 9, 79.
Per la prima parte si rimanda qui:
http://www.fondazioneterradotranto.it/2017/12/19/wikipedia-la-cittadinanza-romana-brindisi-ovvero-svilire-la-storia/
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