#finanziarizzazione dell’economia
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pier-carlo-universe · 4 days ago
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Il voto dei Referendum del 24 febbraio 2025: ANPI e il nuovo progetto politico.
Il 24 febbraio 2025, durante l'Assemblea Generale della Camera del Lavoro di Alessandria, è stato affrontato il tema dei Referendum promossi dalla CGIL e da numerose associazioni, con un’adesione convinta da parte dell’ANPI provinciale, che non si è limitata al semplice sostegno, ma ha dichiarato il proprio pieno coinvolgimento nella campagna referendaria.
Il 24 febbraio 2025, durante l’Assemblea Generale della Camera del Lavoro di Alessandria, è stato affrontato il tema dei Referendum promossi dalla CGIL e da numerose associazioni, con un’adesione convinta da parte dell’ANPI provinciale, che non si è limitata al semplice sostegno, ma ha dichiarato il proprio pieno coinvolgimento nella campagna referendaria. I quesiti referendari e il loro…
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pollicinor · 2 years ago
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Personalmente considero quello di AirBnB un caso di studio di eccezionale interesse per svariate ragioni. In primo luogo perché contribuisce, come accennato in apertura, a smitizzare le narrazioni ideologiche sull’intelligenza artificiale come strumento di democrazia economica e di liberazione delle classi medie dal dominio monopolistico delle grandi imprese (narrazioni, sia detto per inciso, cui contribuiscono certi intellettuali di sinistra infatuati del presunto carattere progressivo delle tecnologie digitali). Gli algoritmi di piattaforme come AirBnB, Uber e i vari social network, non “innovano” i rapporti socio-culturali né le modalità di produzione e distribuzione della ricchezza: si sovrappongono piuttosto sulla realtà socio-economica esistente parassitandola, estraendone dati che si traducono in opportunità di profitti (soprattutto per i grandi player) non giustificati da reali miglioramenti della produttività sociale (il che rappresenta una ulteriore spinta al processo di finanziarizzazione dell’economia).
Dall’articolo "AirBnB come metafora della guerra fra poveri" di Carlo Formenti
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moonyvali · 3 years ago
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Lo sapevate che… la potente famiglia di costruttori Caltagirone possiede il controllo su Il Messaggero e Il Mattino?
La Repubblica, L'Espresso e la Stampa sono invece di una holding olandese controllata dalla famiglia Agnelli. Un capitolo a parte spetta all’Impero mediatico creato da Berlusconi, mentre dietro il gruppo Rizzoli ci sono Mediobanca, l’Unipol e la multinazionale Pirelli. Sorge spontanea la domanda: se l’opinione pubblica è influenzato dal potere del grande capitale, può anche definirsi democratica?
Oggi viviamo in una sorta di democrazia che sta assumendo sempre più le vesti di un’oligarchia, che si atteggia a pose democratiche quando in realtà ne tradisce costantemente i valori. Non soltanto è ritornata in auge la figura o meglio il fascino dell’uomo forte al potere ma vi è uno scollamento radicale tra ciò che la Politica persegue con le parole, in nome del tanto bistrattato bene comune e ciò che avviene nei fatti.
La finanziarizzazione dell’economia, il disinteresse verso l’economia reale del paese in favore dell’alta finanza, il divario sempre più netto tra ricchi e poveri, la scomparsa della classe media hanno distrutto le poche conquiste sociali, tanto faticosamente ottenute, nel corso della storia. Società caratterizzate da una così forte diseguaglianza sociale erano proprie dell’Ancient Regime e quando si viene a creare un popolo troppo oppresso, cadono i pilastri dell’istruzione e della democrazia.
Del resto l’istruzione scolastica non fornisce ai cittadini quegli strumenti necessari per comprendere il funzionamento dell’informazione, della politica, dell’economia. Quali sono le tecniche delle persuasione, della pubblicità, quali temi vengono utilizzati per fare leva sul grande pubblico, come è strutturato un partito, un giornale, come opera e da chi viene finanziato, quali sono i meccanismi che fanno girare l’economia di un paese, che alimentano le ideologie. Chi dice cosa e perché, quali interessi economici avvalla o ostacola, ecco cosa bisognerebbe sempre domandarsi.
G.Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X #media #politica #giornalismo
Nella foto: San Girolamo, Tanzio da Varallo
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falcemartello · 4 years ago
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Né il Partito democratico né la sinistra democratica diranno alla gente: Vedete, il vostro problema è che negli anni Settanta siamo stati tra i fautori di un processo di finanziarizzazione dell’economia e di svuotamento del sistema produttivo. Per questo il vostro salario e il vostro reddito ristagnano da trent’anni, mentre la ricchezza prodotta rimane nelle tasche di pochi. Tutto questo è il frutto delle nostre politiche.
Noam Chomsky, da Sistemi di potere
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crazy-so-na-sega · 4 years ago
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Né il Partitodemocratico né la sinistra democratica diranno alla gente: «Vedete, il vostro problema è che negli anni Settanta siamo stati tra i fautori di un processo di finanziarizzazione dell’economia e di svuotamento del sistema produttivo. Per questo il vostro salario e il vostro reddito ristagnano da trent’anni, mentre la ricchezza prodotta rimane nelle tasche di pochi. Tutto questo è il frutto delle nostre politiche
NOAM CHOMSKY
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paoloxl · 6 years ago
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Un risultato per molti versi scontato, sicuramente atteso, dopo la debacle di Syriza alle europee di maggio, che alle elezioni anticipate, porta a vincere l’antico partito di establishment della destra ellenica Nea Dimokratia, con l’exploit del rampollo Mitsotakis.
Elezioni greche, non è un ritorno al passato
Nea Dimokratia sbanca con preferenze poco sotto il 40%, Syriza scende alla soglia del 30% guadagnando 5 punti dalle europee ma mancando clamorosamente l’obbiettivo di tenuta, il Pasok (Kinali, duro a morire) rimane intorno al 7, il KKE conferma le sue solite percentuali intorno al 5. Importante lo sgonfiamento di Alba Dorata che scende sotto la soglia del 3 (quindi non entra nel parlamento), in un repentino travaso di voti verso Nea Dimokratia in funzione anti-Tzipras e verso il progetto filo russo di estrema destra Elleniki lisi che si attesta al 3. Il progetto di Varufakis infine raggiunge di poco la soglia.
Stupisce l’affluenza che sale sopra il 60%, probabile effetto della dinamica elettorale anti-Tsipras, che seguendo l’umore popolare di far pagare il tradimento di Syriza nel difendere la Grecia dai diktat europei, ha tirato la volata di Mitsotakis.
Nonostante tutto bisogna considerare che il tracollo di Syriza per quanto significativo non è stato devastante. Probabilmente gli interessi di alcuni settori di classe maggiormente integrati nelle proposte politiche di Tsipras e la paura che una nuova ascesa della destra portasse a cicli di privatizzazioni e finanziarizzazione più duri ha frenato la caduta. Ma senza dubbio bisogna cogliere le nuove forme della polarizzazione nello scenario greco.
Le cause di questo passaggio elettorale, apparente ritorno al passato, si configurano come effetti dei processi sociali, politici ed economici incominciati nel 2008, culminati in una diffusa avversione popolare alle politiche di Tsipras degli ultimi anni. La tassazione sempre più alta, la continua privatizzazione, il crollo degli asset ellenici, e il continuo abbassamento dei salari e del costo complessivo della forza lavoro greca, la questione macedone e la questione migratoria, hanno affossato il governo dell’OXI.
In sostanza, quello che è stato il meccanismo predatorio per far tornare il PIL greco sul segno positivo, ha alimentato la macelleria sociale che il governo di Syriza avrebbe in teoria dovuto arginare. Ulteriore insegnamento che ci ricorda cosa si nasconda in realtà dietro la parola crescita e pil, una lezione che sembra indigesta sulla nostra sponda di mediterraneo.
Dalla crisi dei debiti sovrani europei, spinta dalla Federal Reserve per scaricare il costo delle bolle finanziarie esplose a Wall Street sull’Europa, la Grecia si è trovata a pagare il prezzo più alto, sia in termini sociali che di disgregazione e disarticolazione della sua fragile economia statale.
L’esplosione di fortissime lotte sociali e la determinazione di milioni di greci, che si frapposero ai diktat del FMI e della BCE, portarono insieme ad altre dinamiche di quel ciclo, qui ovviamente impossibili da analizzare e semplificate per esigenze di brevità, alla possibilità vittoria del governo di Syriza con l’incarico di rinegoziare i diktat della Troika. Seguì poi il referendum e la vittoria dell’Oxi. Emerse infine la totale incapacità ed impossibilità per Tsipras di essere conseguente nelle sue intenzioni, e nella sua sostanziale sconfitta diventò l’esecutore materiale delle politiche di rigore e punitive tedesche, portando la situazione al punto in cui è ora.
La retrocessione delle lotte sia sindacali che autorganizzate, è stata determinata in grossa parte dall’incapacità di offrire un alternativa sia alle politiche di rigore tedesche, che del continuare a rimanere agganciati all’euro e all’Ue come garanzia ultima di salvataggio da un collasso generalizzato dell’economia e dei risparmi. Anche se, è bene dirlo, in anni di mobilitazione sono state praticate forme di organizzazione sociale dal basso potentissime, in grado di contendere realmente sia la governabilità metropolitana di Atene che lo sfruttamento delle zone rurali da parte del capitalismo predatorio ellenico e straniero. Forme ed esperienze di lotta che rimangono come esempio di dignità e di forza capaci di contrapporsi realmente, fuori dalla delega elettorale, al modello di vita della finanziarizzazione capitalista.
La vittoria delle politiche di rigore, anche se non ha spento la lotta di classe in Grecia, come gli scioperi del marzo 2018 ci impongono di constatare, ha determinato un sostanziale impoverimento delle fasce proletarie, sia metropolitane che rurali, abbassandone il prezzo della forza lavoro e aumentando i costi della riproduzione sociale complessiva. Il ceto medio-basso è stato in grossa parte così proletarizzato ed è aumentata la scomposizione sociale.
Un’altra questione che ha investito questo quadro in via di disgregazione, è stata la quella della Macedonia del nord, affrontata dal governo Tsipras, che ha mostrato ad una lettura oltre le apparenze, come lo scontento popolare e verso i diktat europei, possa prendere forme inedite e ambigue di segno nazionalista, ma nelle quali la matrice di classe rimane essenziale. (Per un nostro approfondimento consigliamo questo contributo).
Nei fattori di disgregamento del consenso al governo Syriza va inserita anche la questione migratoria, sfruttata dall’estrema destra in particolare da Alba Dorata, per costruire consenso prevalentemente elettorale. È interessante vedere la sua parabola di questi ultimi anni, e di come in questa tornata elettorale sia stata sostanzialmente fagocitata dalla proposta anti-Tsipras Nea Dimokratia, altro dato che spinge a riflettere come rimangano fondanti le matrici economiche del nuovo affresco elettorale ellenico, e che le dinamiche nazionaliste e xenofobe ne siano delle tangenti ancora molto subordinate. In questo senso l’avanzata del partito di estrema destra filo-russo e ortodosso, incarna una pragmaticità di proposta di cambio geopolitico per la Grecia, che la destra inizia ad annusare, approfondendo la capacità di queste formazioni politiche di incarnare proposte “credibili” di nazionalismo anti-tedesco. Ma oltre il voto di protesta anti governativo e la vendetta per il tradimento di Syriza cosa rimane? Il progetto di Mitsotakis si può riassumere in privatizzazioni, tagli alle tasse per il ceto medio (ormai alto), e di una proposta di ricontrattazione con l’Ue (la Germania) di “crescita” in cambio di minor tassi sul debito. La “crescita” in questione si sostanzierebbe in un esasperazione delle politiche già applicate dalla sinistra di Tsipras, ma con in più la promessa di smantellare il comparto dell’amministrazione pubblica, ultimo welfare ellenico rimasto in piedi. Una ricetta in sostanza neo liberista, ma con un immaginario sovranista (nazionalista per quanto possa essere concesso ai greci), che combina elementi che potrebbero far entrare la Grecia in una fase neo-populista, in cui non c’è più spazio per il già tragicamente sperimentato sovranismo di sinistra. Ancora una volta vediamo celarsi dietro lo smottamento di grosse masse elettorali, ragioni profonde. Rimane irrisolto il quesito se dietro questo “ritorno al passato” si nasconda o meno la pulsione popolare di voler giocare un'altra partita (più cattiva?), contro la Germania e l’Europa, o se, la disgregazione sociale, apatia e rancore impediranno qualsiasi verticalizzazione contro lo status quo che strangola letteralmente le popolazioni greche.
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giuliocavalli · 7 years ago
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Un mondo di pochi vincitori e molti vinti
Un mondo di pochi vincitori e molti vinti L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile, ma la conseguenza 
di scelte politiche il cui scopo era proprio quello: l'analisi dell'economista Joseph Stiglitz Il mondo è sempre più diseguale ed è ormai evidente che non solo esistono elevati livelli di disuguaglianza nella maggior parte dei paesi, ma che queste disparità sono in aumento. Oggi, esse sono molto più pronunciate di quanto non lo fossero 30 o 40 anni fa. È anche chiaro che non esistono eguali opportunità per tutti: le prospettive di vita dei figli di genitori ricchi e istruiti sono molto migliori di quelle di chi ha genitori poveri e meno istruiti. Negli Stati Uniti, ad esempio, le prospettive di un giovane, pur figlio di una famiglia svantaggiata, che va bene a scuola sono molto meno promettenti di quelle di un figlio di famiglia benestante che, però, trascura lo studio. Fino a qualche tempo fa, gli economisti e gli altri studiosi delle scienze sociali cercavano di giustificare queste disuguaglianze con la teoria della «produttività marginale», secondo cui i redditi degli individui corrispondono al loro contributo dato alla società. Tuttavia, se guardiamo anche solo superficialmente all’evidenza dei fatti, vediamo che nessuno degli individui che hanno dato i maggiori contributi alla nostra società - per esempio, attraverso le invenzioni del laser o del transistor o della scoperta del Dna - sono tra i più ricchi. Viceversa, vediamo che tra i più ricchi vi sono molti che hanno ottenuto il loro denaro grazie allo sfruttamento del loro potere di mercato e delle loro connessioni politiche. La situazione attuale degli Stati Uniti è un buon esempio per illustrare le questioni fondamentali di cui stiamo parlando. Il reddito medio, al netto dell’inflazione, del 90 per cento meno ricco della popolazione è stato sostanzialmente stagnante negli ultimi 42 anni. Allo stesso tempo, il reddito medio dell’1 per cento più ricco della popolazione è aumentato di 4,3 volte. Questo stesso andamento si è verificato nella maggior parte degli altri paesi, anche se in misura meno accentuata. Francia, Paesi Bassi e Svezia sono tre paesi in cui l’aumento della quota dell’1 per cento più ricco è stato più limitato, laddove la Gran Bretagna ha invece visto un aumento quasi uguale a quello degli Stati Uniti. L’Italia si trova in mezzo. Il reddito mediano - il valore centrale della distribuzione - negli Stati Uniti è rimasto sostanzialmente stagnante nell’ultimo quarto di secolo. Ancor più impressionante (come si è visto di riflesso nella politica americana) è che il reddito mediano di un lavoratore maschio, con un lavoro a tempo pieno, è allo stesso livello di più di quattro decenni fa. Ed è sempre più difficile per questi lavoratori «nel mezzo» ottenere posti di lavoro a tempo pieno ben remunerati. Ciò è vero anche per l’Europa, come ad esempio in Spagna e in altri Paesi, dove il reddito mediano oggi è inferiore a quello prima dell’inizio della recente crisi economica. Peggiore è poi quanto è successo negli Stati Uniti ai lavoratori con i redditi più bassi, per i quali il salario reale è ancora oggi al livello di sessanta anni fa. Per questi lavoratori, però, va detto, le cose vanno un po’ meglio in Europa, dove il salario minimo è invece più alto di quello di un tempo. Nella maggior parte dei paesi avanzati, negli ultimi decenni sono avvenuti diversi grandi cambiamenti nella distribuzione del reddito: più reddito afferisce ai più ricchi; più persone sono in povertà; la classe media si è impoverita, vedendo ridurre la sua importanza relativa; il reddito mediano è rimasto stagnante e la quota di individui con un reddito attorno a quel valore è andata diminuendo. La classe media sta sparendo e un numero sempre maggiore di persone finisce nelle «code» della distribuzione. La distribuzione del reddito viene di solito riassunta con una misura chiamata “coefficiente di Gini”: questa, nella maggior parte dei paesi, è stata costantemente in aumento negli ultimi anni, indicando un aumento della disuguaglianza. È vero che ci sono alcuni paesi che hanno resistito a questa tendenza, come la Francia e la Norvegia mentre altri, soprattutto in America Latina, hanno visto una diminuzione della disuguaglianza. C’è quindi una lezione importante che si può trarre da tutto questo: le forze economiche in gioco in tutti i paesi avanzati sono simili, ma i risultati sono notevolmente diversi. La spiegazione di tali differenze è che Paesi diversi hanno perseguito politiche diverse. Possiamo quindi dire che la disuguaglianza è stata una scelta. Se i paesi avessero perseguito altre politiche, i risultati sarebbero stati diversi. Quelli che hanno seguito il modello anglo-americano sono finiti con più disparità. Vi sono, poi, altre dimensioni della disuguaglianza, oltre a quella del reddito. Tuttavia, voglio sottolineare che i paesi che hanno scelto di avere più disuguaglianza non hanno avuto migliori performance economiche complessive. Come ho sottolineato nel mio libro “Il prezzo della disuguaglianza”, una società paga un prezzo elevato per la disuguaglianza, compresa una prestazione economica peggiore. Il reddito è solo una dimensione della disuguaglianza. Altre dimensioni sono molto importanti, come ad esempio l’accesso alla giustizia, che non è uguale per tutti, o la partecipazione alle decisioni politiche, che non è la stessa per tutti. Tali dimensioni, però, sono difficili da quantificare. Ci sono invece almeno altre due dimensioni che sono facili da misurare. Una è la disuguaglianza nella salute, come risulta dalle differenze nell’aspettativa di vita. La natura stessa porta alcuni individui a vivere più a lungo di altri. Ma se alcuni individui non hanno accesso all’assistenza sanitaria o non riescono ad ottenere un’alimentazione adeguata, allora ci saranno ancora maggiori disparità nella salute. Di grande preoccupazione, ad esempio, è che una delle principali fonti di morbilità sono le “malattie sociali”, come l’alcolismo, la droga e il suicidio. Una dimensione importantissima è l’uguaglianza nelle opportunità e qui, bisogna dire, i Paesi avanzati si differenziano notevolmente tra loro. La relazione tra uguaglianza nelle opportunità e uguaglianza mostra che i paesi con più disparità di reddito (misurata dal coefficiente Gini) hanno meno mobilità tra le generazioni - il che implica che i figli hanno meno opportunità dei genitori. I paesi con meno opportunità includono Stati Uniti, Regno Unito e Italia; mentre quelli con migliori opportunità sono i paesi scandinavi e il Canada. Le dinamiche della disuguaglianza possono essere spiegate e non è vero che le disuguaglianze non abbiano spiegazione e che siano un risultato ineluttabile dell’operare delle forze del mercato. I cambiamenti in tali dinamiche possono essere descritti in modo semplice in termini delle forze che determinano la distribuzione del reddito e della ricchezza. Negli Stati Uniti, ad esempio, il sistema educativo vede una crescente segregazione economica geografica che genera disuguaglianza nelle opportunità educative. Gli studi mostrano anche l’elevata correlazione tra opportunità educative e reddito. La riduzione della progressività del sistema delle imposte sul reddito (anzi, ora è regressivo) aumenta anche la disuguaglianza del reddito e della ricchezza. Una riduzione del tasso di risparmio riduce la disuguaglianza; una riduzione della dimensione familiare (media) aumenta la disuguaglianza. Un aumento della dispersione in una delle variabili rilevanti, inclusi i rendimenti a favore del lavoro o del capitale, aumenta il livello di disuguaglianza. Alcuni studiosi hanno anche sostenuto che il cambiamento tecnologico premia di più il lavoro qualificato, aumentando il rendimento dell’istruzione (più si studia, più si guadagna) e quindi la dispersione dei salari. Sempre più importanti sono poi le rendite, incluse le rendite monopolistiche derivanti dalla crescente concentrazione in molte industrie. L’indebolimento delle norme anti-trust e i cambiamenti nella tecnologia, nonché i cambiamenti nella struttura dell’economia verso settori che sono naturalmente meno competitivi - pensiamo ai giganti dell’high tech - hanno sicuramente contribuito ad un aumento del “potere di mercato” medio nell’economia e quindi delle rendite monopolistiche. Altre forze, poi, hanno portato ad un aumento dei redditi più alti: i cambiamenti nelle pratiche della corporate governance di molte società hanno permesso ai dirigenti di tenere per sé quote crescenti del reddito delle società. L’aumento della finanziarizzazione dell’economia, combinata con una governance aziendale più debole e una vera e propria diffusa turpitudine morale, hanno portato ad una situazione in cui molti, nel settore finanziario, sfruttano il resto dell’economia. Allo stesso modo, l’indebolimento del potere contrattuale dei lavoratori - risultato sia di sindacati più deboli, che di cambiamento del quadro giuridico che della globalizzazione - hanno portato ad una riduzione del reddito dei lavoratori. Più in generale, le regole del gioco sono state cambiate a vantaggio di quelli in alto e a svantaggio di quelli in basso, aumentando la disuguaglianza. I mercati non esistono in un vuoto astratto. Vanno strutturati, regolati. Negli ultimi 30/40 anni, le regole del gioco sono state riscritte in modi che aumentano la disuguaglianza e contemporaneamente indeboliscono l’economia. L’effetto di tutto questo è che si è aperto un enorme divario tra la crescita della produttività e la crescita delle remunerazioni del lavoro (portando ad una marcata diminuzione della quota del reddito da lavoro sul reddito nazionale). Prima della metà degli anni ‘70, produttività e remunerazioni si muovevano insieme, e ciò è stato vero per molti Paesi e settori per lunghi periodi di tempo, fino ad essere visto quasi come una “legge” in economia. Poi, improvvisamente, le cose sono cambiate e non per via del cambiamento nella tecnologia o nella qualità della forza lavoro. Ci sono stati cambiamenti rapidi nelle regole del gioco. Questo è ciò che è successo, non altro: le regole del gioco sono cambiate a favore di alcuni e a danno di molti. Quali rimedi possiamo invocare? Dobbiamo riscrivere le regole dell’economia di mercato, ancora una volta, fare di meglio per ridurre il potere di mercato monopolistico, l’esclusione e la discriminazione; garantendo una minore trasmissione intergenerazionale dei vantaggi acquisiti, inclusa una minore trasmissione intergenerazionale del capitale umano e finanziario, in parte migliorando l’istruzione pubblica, aumentando la tassazione sull’eredità e reintroducendo una progressività maggiore nelle imposte sul reddito. Non è un caso che abbiamo il sistema che abbiamo, con le regole che ha. Agli “interessi particolari” piace che sia così. Potrei avere esagerato un po’, in passato, quando ho detto che gli Stati Uniti avevano un governo dell’uno per cento, per l’uno per cento e fatto dall’uno per cento, o quando ho suggerito che siamo passati da una democrazia con una-persona-un-voto ad una con un-dollaro-un-voto. Ma è chiaro che alcune delle politiche che sono state perseguite sono state fortemente svantaggiose per l’economia nel suo complesso e hanno creato, allo stesso tempo, più disuguaglianze: ci sono stati solo pochi vincitori e molti vinti. [Ampi stralci della lecture che l’economista premio Nobel Joseph Stiglitz ha tenuto a Bologna  nel corso della Conferenza Internazionale sulle Diseguaglianze (2-4 novembre) promossa dalla Fondazione di ricerca dell’Istituto Cattaneo. Fonte.]
L’aumento del divario tra ricchi e poveri non è un fenomeno inevitabile, ma la conseguenza 
di scelte politiche il cui scopo era proprio quello: l’analisi dell’economista Joseph Stiglitz Il mondo è sempre più diseguale ed è ormai evidente che non solo esistono elevati livelli di disuguaglianza nella maggior parte dei paesi, ma che queste disparità sono in aumento. Oggi, esse sono molto più…
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corallorosso · 6 years ago
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Lettera aperta agli uomini sul femminicidio “Cari compagni, cari amici iscritti alla nostra Associazione, spero di non irritarvi troppo trattando in forma di lettera aperta (dunque una scrittura domestica non accademica, non dalla cattedra) il tormentoso argomento del femminicidio. Cioè dell’uccisione di una donna in quanto donna. Ma allora perché non donnicidio? Vado a controllare sui dizionari e scopro che donnasignifica “femmina dell’uomo”, cerco uomo e non trovo “maschio della donna”, bensì “essere dotato di ragione, che dà il nome a tutte le cose, a quelle che sono in quanto sono, a quelle che non sono in quanto non sono”. Mi trovo tra stupefatta e impaurita: se lui incomincia a pensare che io sono tra le cose che non sono, mi elimina di botto. Vuol dire che alla base dell’uccisione di una donna in quanto donna c’è il fatto che essa sia considerata una cosa, non una persona. E una cosa può essere buttata sfatta distrutta da chi ne è possessore o proprietario. Ciò avviene da alcuni millenni nella nostra grande civiltà occidentale (ma non va poi meglio sotto altri punti cardinali): basta fare un rapido ripasso delle relazioni tra donne e uomini. Nello Stato avviene tardi addirittura l’idea che la donna possa avere diritti pari a quelli degli uomini. Per esempio il diritto alla inviolabilità del corpo: lo stupro era un reato contro la morale, non contro la persona... ...Insomma ci si rende conto che donne vengono uccise – una ogni paio di giorni – nel nostro civilissimo Paese per l’unica colpa di non volere più, interrompere, rifiutare, respingere, una relazione che durava anche da tempo? e non è questo un segno della crisi generale che sta nel nostro tempo? e che non riguarda solo la finanziarizzazione dell’economia? Credo proprio di sì, e pur non essendo molto appassionata di pene né di delitti, non posso trattenermi dal chiedere che i maschi che si ritengono civili analizzino le loro reazioni al racconto dei numerosi femminicidi, e se si ritrovano indifferenti o addirittura hanno qualche mozione di simpatia/complicità con gli assassini, si esaminino attentamente, vadano da una brava psicologa, facciano con noi qualcosa per respingere questa vergogna. Ad esempio evitino di ridere al racconto di violenze, mostrino schifo ribrezzo disprezzo verso chi le compie. Credo si debba chiedere il ripristino dell’educazione civica e sessuale, in modo che non si impiantino proprio nelle scuole degli anni più teneri della vita dei tremendi pregiudizi verso il genere femminile... E’ alla società, alle persone, che va restituito il potere di dettare le norme dell’agire, di distinguere quelle che comportano offesa o cancellazione o calpestamento dei diritti altrui, di manifestare, in ultima analisi, l’autonomia del costume. Qui c’è un invalicabile stop e chi non lo vede è a rischio di disumanizzarsi, insomma è la barbarie.” Lidia Menapace
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infosannio · 6 years ago
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Sinistra letale
(Anna Lombroso per il Simplicissimus) – Quante volte abbiamo sentito dire, come promessa o come minaccia, che la fine dell’economia produttiva, la trasformazione delle imprese in azionariati in accidiosa attesa dei dividendi, la finanziarizzazione con le   acrobazie e i trucchi del gioco d’azzardo, le mutazioni intervenute nel lavoro, manuale e intellettuale, che rende meno agevole il ricorso…
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jamariyanews · 6 years ago
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Le piazze di Roma e Torino e l’unica lotta possibile: quella di classe.
Gerardo Lisco • 23 novembre 2018
Donne appartenenti alla upper class si mobilitano a Roma e a Torino contro altre  donne. Queste stesse donne non si sono però mobilitate contro la Fornero, la Boschi, la Lorenzin, la Giannini, la Fedeli o la Madia fautrici di provvedimenti legislativi che hanno smantellato il sistema pensionistico, precarizzato il lavoro, favorito le banche, tagliato la spesa sanitaria, sottratto risorse a Università e Scuola – penalizzando lavoratrici, studenti e famiglie – introdotto norme funzionali alla privatizzazione ed altro ancora. Ognuno dei provvedimenti citati ha avuto come unico scopo la finanziarizzazione dell’economia con la conseguente  crescita della  disuguaglianza e  della ingiustizia sociale. La modalità delle organizzatrici delle due manifestazioni richiama la mobilitazione delle donne e delle minoranze sessuali e artistiche all’indomani della elezione di Trump. Questo tipo di mobilitazione prova, se ce ne fosse ancora bisogno, l’egemonia culturale neoliberale sul mondo. Ragioni per organizzarsi e scendere in piazza anche contro questo Governo ce ne sarebbero e più di una. Anni di politiche neoliberali hanno prodotto povertà, degrado delle periferie, disuguaglianza, precarietà ed altro ancora. Gli effetti prodotti da anni di neoliberalismo avrebbero dovuto spingere in piazza milioni di persone. I ceti sociali che stanno pagando sulla propria pelle i costi di tali politiche, abbandonati da chi avrebbe dovuto rappresentarli,  hanno scelto di farlo con l’unico strumento a loro disposizione: il voto. Manifestazioni organizzate da “madamin” contro le politiche economiche neoliberali, in questi anni, non ne abbiamo viste. Le organizzatrici di queste due manifestazioni non ricordano nemmeno lontanamente Luxemburg, Balabanoff e Kiuliscioff. La manifestazione di Torino è stata organizzata a sostegno della TAV. Tale opera, esempio della finanziarizzazione dell’economia e quindi funzionale alla speculazione finanziaria,  progettata 30 anni fa, è ampiamente superata e quindi inutile. Le risorse finanziarie disponibili per la TAV potrebbero essere utilizzate, ad esempio, per l’ammodernamento delle rete infrastrutturale esistente e invece no. Ed è per questa ragione che la scelta del governo di voler operare un’attenta analisi costo/benefici, come è successo per il gasdotto trans-adriatico, merita attenzione. Alle organizzatrici delle manifestazioni di Roma e Torino ciò che interessa realmente è difendere le posizioni di rendita e quindi di classe. Questa loro difesa prova che l’unico vero conflitto è quello di classe. I conflitti di genere non sono in grado di incidere realmente sui rapporti di forza e sulla redistribuzione della ricchezza. Le “ madamin”  di Torino e Roma difendono e rappresentano gli stessi interessi di: Fornero,  Giannini, Boschi, Fedeli, Lorenzin, Madia, Gelmini, Bernini, ecc.ecc. Il conflitto di genere non è conflitto di classe. Una donna e un uomo sfruttati saranno sempre espressione della classe subalterna. Dominio e sfruttamento non seguono il genere ma la classe sociale di appartenenza. Il conflitto di genere è solo una costruzione ideologica, funzionale al capitalismo neoliberale, utile a deviare le masse dalla lotta fondamentale contro le disuguaglianze sociali.  Le manifestazioni di Roma e Torino  mi ricordano le signore dell’alta borghesia cilena che manifestavano contro Allende fornendo l’assist al golpe di Pinochet e quelle più recenti contro Lula e la Roussef. Sia chiaro nè l’ Appendino e nè la Raggi sono paragonabili ad Allende; ma il senso politico delle due manifestazioni e il disprezzo verso le masse popolari che si sono permesse di votare i due sindaci mi hanno fatto tornare alla mente quelle altre manifestazioni. La conferma a questa mia idea viene dai commenti dei media mainstream che mirano ad  accreditare l’idea che le piazze di Torino e  Roma sono di sinistra perché organizzate da donne omettendo accuratamente la classe sociale d’appartenenza e gli interessi economici che rappresentano. La culturale neoliberale mira  a convincere l’opinione pubblica e gli stessi sfruttati che l’unica Sinistra possibile sia quella schierata a difesa del libero mercato e dell’ individualismo. La Sinistra è tale solo se alternativa al Liberalismo. Non si può confondere la libertà dal bisogno, premessa per la realizzazione della persona, con l’esaltazione individualista del Liberalismo. Una tale confusione è un salto indietro nella storia di almeno due secoli. L’attuale mainstream culturale non a caso  parla di limitare la Democrazia e il diritto di voto in nome delle competenze. Un tale argomento è proprio del Liberalismo dei ceti dominanti dell’800. Allora si sosteneva che il diritto di elettorato attivo e passivo spettasse solo a coloro che possedevano ricchezza ed istruzione. Ricchezza ed istruzione andavano di pari passo e secondo la vulgata dell’epoca, di nuovo in voga, ricchi e istruiti sono gli unici ad avere competenze e  interesse verso la cosa pubblica. Il leit motiv dei manifestanti di Roma e Torino è lo stesso. I ceti sociali dominanti dopo aver trasformato la Democrazia in antisociale, adesso tentano di costruire un sistema politico Neoliberale e antidemocratico. Le organizzatrici delle manifestazioni di Torino e Roma rappresentano gli interessi dei ceti dominanti e sono portatrici di una cultura politica neoliberale antidemocratica ed antisociale. Di fronte a un dato come questo l’unico conflitto possibile è quello di classe contro l’ingiustizia sociale e la diseguaglianza. Altri conflitti sono solo funzionali agli interessi delle classi egemoni. Preso da: http://www.linterferenza.info/in-evidenza/le-piazze-roma-torino-lunica-lotta-possibile-quella-classe/
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sadefenzablog · 8 years ago
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LE PROMESSE TRADITE DELLA GLOBALIZZAZIONE: COME LA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA È ANDATA FUORI CONTROLLO
LE PROMESSE TRADITE DELLA GLOBALIZZAZIONE: COME LA FINANZIARIZZAZIONE DELL’ECONOMIA È ANDATA FUORI CONTROLLO
Sull’Huffington post viene pubblicata una critica esplicita al globalismo, rappresentato anche dall’embrione di “ente multinazionale” che è l’Unione Europea. Mentre le élite si accaparrano le ricchezze del pianeta a discapito delle classi medie e basse, nessuno osa ricordare che quando i ricchi si impossessano di porzioni sempre più grandi dei beni mondiali, fino a doversi scontrare coi…
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commercialistadiroma-blog · 8 years ago
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Le promesse tradite della globalizzazione: come la finanziarizzazione dell’economia è andata fuori controllo
Le promesse tradite della globalizzazione: come la finanziarizzazione dell’economia è andata fuori controllo
Sull’Huffington post viene pubblicata una critica esplicita al globalismo, rappresentato anche dall’embrione di “ente multinazionale” che è l’Unione Europea. Mentre le élite si accaparrano le ricchezze del pianeta a discapito delle classi medie e basse, nessuno osa ricordare che quando i ricchi si impossessando di porzioni sempre più grandi dei beni mondiali, fino a doversi scontrare coi limiti…
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albertomicalizzi-1 · 8 years ago
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UNA BANCA PUBBLICA PER RILANCIARE IL PAESE
UNA BANCA PUBBLICA PER RILANCIARE IL PAESE
Ondate di carta e debito si abbattono ormai incessantemente sulle economie europee provocando un’implosione controllata del welfare e delle strutture economiche e produttive dei Paesi. Questo processo è stato definito “finanziarizzazione dell’economia”. Di cosa si tratta esattamente, e cosa possiamo fare da subito per invertire la rotta?
Ci sono almeno tre grandi tecnichedi finanziarizzazione in…
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paoloxl · 8 years ago
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“Come Casapound Italia non abbiamo mai fatto mistero di vedere nel Fascismo il nostro punto di riferimento ideale, da noi tradotto in iniziative quotidiane nel campo della solidarietà sociale e della promozione culturale, premiate dai cittadini di Lanciano con 679 voti, pari al 3% degli elettori in occasione del primo turno elettorale. Quanto all’impossibilità per i fascisti di sedere in consiglio comunale – aggiunge Laurenzi – ricordiamo solo che Lanciano ha avuto per due legislature come sindaco Nicola Fosco, proveniente dal Movimento Sociale Italiano, partito che incarnava negli uomini e nelle idee la continuità con la Repubblica Sociale Italiana. Per il ballottaggio alle comunali di Lanciano sono solo attacchi strumentali da parte di chi non ha argomenti da portare a proprio favore. La nostra presenza in consiglio comunale è legittimata dal voto dei cittadini”  Questa dichiarazione rilasciata da Casapound Italia in occasione delle elezioni comunali di Lanciano indica con chiarezza il ritorno definitivo dell’ideologia (e delle relative liturgie) del fascismo sulla scena politica italiana.  Il fenomeno è sicuramente in crescita e soprattutto accolto nella sostanziale indifferenza dalla gran parte della società italiana che, nel frattempo, ha compiuto un percorso molto significativo all’interno dell’ideologia qualunquista e appare pronta a subire, come in altri tempi, qualsiasi avventura di potere.  Questa situazione di forte difficoltà di tenuta dell’impianto democratico indicato dalla Costituzione Repubblicana che si sta verificando nonostante il voto dello scorso 4 Dicembre, cui non è stata fornita alcuna risposta in termini politici all’interno del sistema, è stata costruita – prima di tutto – dalla presenza di quegli elementi di “fascismo trasversale” presenti nei maggiori soggetti politici che erano già stati indicati da tempo da analisi sistemiche attuate con una qualche pretesa di attenzione e che sono stati sottovalutati se non ignorati dai principali esponenti della sinistra, impegnati tutti a ricercarsi spazi – in una forma o nell’altra – negli anfratti del sistema.  Mi permetto allora di riprendere alcuni temi che indicano l’esistenza di questo latente “fascismo trasversale” la cui presenza alla fine al favorito e legittimato il ritorno al fascismo in camicia nera, di cui appunto Casapound è sicuramente portatrice.  Oggi, riferendomi sempre alla situazione italiana, mi permetto dunque di sollevare in forma irrituale un’altra questione che ritengo decisiva, almeno sul piano dell’analisi: quella della presenza di una sorta di “fascismo trasversale” che informa la realtà delle maggiori forze politiche del nostro Paese: la maggioranza del PD raccolta attorno al personalismo di Renzi, il Movimento 5 Stelle e la Lega Nord.  In precedenza all’entrare nel merito di quest’affermazione, che molti troveranno perlomeno “inusuale”, deve comunque essere rilevato come l’insieme della situazione politica sia condizionato dal suffragarsi di almeno tre fallimenti di vasta portata e di forte incidenza, non solo sull’attualità ma anche sul futuro:  1) il fallimento della cosiddetta ipotesi “federalista” che l’allora centrosinistra aveva mutuato allo scopo di inseguire presunti successi elettorali della Lega Nord, da realizzarsi sulla base di impulsi – alla fine – meramente razzisti, e al riguardo della quale l’intero sistema politico si è dimostrato del tutto incapace di costruire un nuovo assetto di relazioni istituzionali tra centro e periferia. Le Regioni si sono così palesate come un voracissimo centro di potere di spesa e di diffusione di nomine di stampo clientelare: un luogo nel quale si è ulteriormente accentuato il già evidente degrado morale imperante nel ceto politico.  2) Il secondo fallimento è quello dell’Unione Europea.  Sarebbe troppo lungo e complicato descrivere gli elementi che hanno determinato questo fatto sul piano delle dinamiche economico – politiche a livello globale, a partire dallo sviluppo inaudito del processo di finanziarizzazione speculativa dell’economia, dell’affermarsi di una concezione di privilegio per la costruzione di borghesie “compradore” nei paesi a sviluppo emergente (un fenomeno che oggi mostra la corda, a partire dalla crisi cinese), dal pronunciarsi con evidenza – in particolare nella fase nella quale gli USA hanno recitato la parte dell’unica superpotenza – di fenomeni bellici che stanno all’origine degli apparentemente inarrestabili fenomeni migratori, del trasferimento del primato della politica a quello dell’economia, dalla perdita di ruolo degli organismi sovranazionali a partire dall’ONU e dal suo Consiglio di Sicurezza.  Nella sostanza appare ormai del tutto inadeguata e lontana dalla realtà l’analisi di un’Unione Europea afflitta da un “deficit di democrazia” che andrebbe colmato attraverso un ritorno alla “politica”.  Un progetto del tutto utopico perché ormai l’Unione Europea è da considerarsi fallita e chi la difende ancora ha degli interessi poco chiari da mantenere, oppure lo fa per una stanca ripetitività della propria incapacità di aggiornamento dell’analisi e per non smentire anni di rituale propaganda.  3) terzo punto sul quale riflettere al riguardo della totale assenza di una politica estera italiana (disastrosa laddove ha cercato di muoversi come nel caso della Libia, dove tutto le mosse sono state sbagliate a partire dal seguire gli americani nella loro folle idea dell’esportazione della democrazia, fino a inventarsi bufale sesquipedali come quella del governo di unità nazionale attorno al meno che improbabile governo Serraj).  La questione libica è da citare e da ricordare sempre perché sta all’origine dell’escalation della vicenda dei migranti che, proprio in questo momento, appare elemento di vero e proprio punto di rottura del sistema modificando orientamenti culturali e causando un vero e proprio “dissesto sociale e culturale”.  All’interno di questo quadro così sommariamente descritto, si è sviluppato quel fenomeno di una sorta di “fascismo trasversale” cui accennavo all’inizio e che interessa, principalmente, i tre maggiori soggetti politici operanti in questo momento in Italia.  Come si è formato e realizzato, allora, questo fascismo trasversale?  In modo assolutamente irrituale e del tutto diverso dal fascismo del ventennio, eppure appartenente a quelle categorie del “sovversivismo delle classi dirigenti” e della “biografia di una nazione” a suo tempo analizzate da Gramsci e Togliatti.  Biografia di una nazione che ci accorgiamo adesso non essere stata modificata appieno neppure dalla Resistenza.  PdR (Partito di Renzi, secondo la definizione di Ilvo Diamanti), M5S e Lega Nord sono trasversalmente accomunati, nel loro esistere, da una volontà di potere assoluto non corrispondente ad alcuna matrice di carattere teorico sul piano storico – filosofico e di riferimento a precise categorie sociali in nome delle quali approntare un progetto di società.  Tutto questo nel PdR, nel M5S, nell’attuale Lega Nord (molto diversa da quella originaria fondata da Umberto Bossi e naufragata sui diamanti della Tanzania) non esiste: esiste soltanto la volontà del potere assoluto in quanto totale, lottando per acquisirlo semplicemente allo scopo di sostituirsi ad altri.  Il “potere” come tensione idealistica: è questo il vero punto di accostamento con l’ideologia del fascismo.  “Cerchio magico” su “Cerchio magico”.  Proprio nel PD, fra l’altro, questa tensione verso atteggiamenti di tipo fascista si è particolarmente accentuata nel “dopo primarie” ,delle quali non si accetta il sostanziale e progressivo ridimensionamento dal punto di vista dell’indicatore – almeno approssimativo – di raccolta del consenso.  Accade così che si accentuano fortemente i tratti di partito personale che agisce sempre in forma plebiscitaria di conferma del “Capo”.  “Capo” che può permettersi di uscite del tipo “non mi fermo davanti a nessuno” (parafrasi dell’antico” se avanzo seguitemi..”).  Inquietante, sotto questo punto di vista, la messa in scena del comizio tenuto (ieri, 1 Luglio 2017, data da rimarcare come momento di passaggio proprio rispetto a questo itinerario di “fascismo trasversale”) da Renzi a Milano, con i figuranti in maglietta gialla collocati alle spalle dell’oratore con il compito di applaudire i passaggi del discorso (una via di mezzo tra la “claque” e una sorta di “guardia pretoriana”).  In questo modo il “fascismo trasversale” (da non confondere con il “fascismo universale” di Ruggero Zangrandi”) si afferma in questi soggetti: non c’è alcun principio da difendere, nessuna distinzione tra destra e sinistra, nessun modello da modificare seguendo tutti – sul piano economico e sociale – quello del liberismo tachteriano imposto dalla Commissione di Bruxelles e dalla BCE attraverso lettere e memorandum (che cos’era, se non questo la lettera di Draghi e Trichet dell’estate 2011, o il memorandum imposto alla Grecia nell’estate 2015 e accettato, com’era facilmente prevedibile, dal governo Tsipras?oppure in quale direzione si muove il QE se non in sintonia con JP Morgan e la sua idea di smantellamento delle “costituzioni socialiste”?).  Esiste soltanto il potere da esercitarsi per il potere, senza opposizione politica e confronto con corpi intermedi (sia pure di ispirazione corporativa): per far questo, tra l’altro, si escogitano anche operazioni di puro svuotamento delle istituzioni, di ri-centralizzazione dello Stato (del cui significato si è persa conoscenza ed esistenza) e si sono pensati (sia pure per ora senza successo)sistemi elettorali ancor più truffaldini della stessa legge Acerbo che inaugurò la lunga stagione della dittatura (1924).  Fuori da questo quadro di fascismo trasversale si muove poco o nulla: Forza Italia legata ancora a un’idea populistica di “rassemblemant” di difesa dei ceti privilegiati del consumo individualistico in omaggio alla sua matrice pubblicitaria; l’area uscita dal PD e legata all’idea di un centrosinistra pallidamente ispirato a una qualche ipotesi movimentista da “beni comuni” “civismo”, associazionismo, localismo progressista, qualche Sindaco che non ha capito bene che cosa ha fatto per davvero in quel ruolo. E ancora altre aree della sinistra residuale ancora del tutto sconcertate, ormai da più di 20 anni, dall’indeterminatezza politica sulla base della quale fu sciolto il PCI. Un’indeterminatezza mortale dovuta dall’abbraccio con il canto della sirena della “governabilità” e dello “sblocco del sistema politico”.  Mi rendo ben conto di aver offerto il solito quadro d’analisi che forse molti condividono (almeno in parte) e di non essere riuscito a elaborare una proposta per il futuro.  Il punto vero di novità mi pare quello del passaggio da quello che ho cercato di definire come “fascismo traversale” che alligna in PdR, M5S e Lega Nord e il richiamo al “fascismo in camicia nera” che sta diventando patrimonio politico immediato da parte di soggetti pericolosamente attivi all’interno del quadro complessivo di profonda sfiducia che esiste nel rapporto complessivo tra i diversi settori della società italiana, le possibilità di rappresentanza politica e le sempre più labili (dal punto di vista della raccolta del consenso) rappresentanza istituzionali.  Un “fascismo trasversale” che non nasce dal nulla come un fungo, bensì dallo sfrangiamento sociale, dall’individualismo consumistico, dallo smarrimento culturale, dalla perdita di memoria, dalla resa all’ineluttabile modernità che brucia tutto sull’altare dell’”adesso”, senza prima e senza dopo.  Ed è dalla diffusione, prima di tutto culturale, di questo “fascismo trasversale” che sorge direttamente il rilancio del fascismo in camicia nera, che si afferma prima di tutto nell’assuefazione di massa dei suoi concetti portanti primi fra tutti quelli della sopraffazione di classe e del razzismo.  La constatazione più amara in questo frangente, riguarda l’assenza di volontà politica verso la costruzione di un soggetto posto sul piano teorico e su quello pratico nel solco di un discorso di continuità/innovazione” con la complessa storia del movimento operaio italiano e del ruolo da questo avuto nel quadro europeo e soprattutto della sua funzione storica svolta sia dal punto di vista del riconoscimento e dell’aggregazione sociale oltre alla funzione – decisiva e insostituibile – di soggetto portatore di una pedagogia di massa e di una diffusione di valori portanti contrari e opposti ai disvalori dominanti e diffusi dal “circo Barnum” della comunicazione di massa.  Intanto: Dum ea Romani parant consultantque, iam Saguntum summa vi oppugnabatur ((cfr. Livio, XXI, 7, 1). Franco Astengo
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paoloxl · 8 years ago
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Il trattato che istituisce la Comunità economica europea (TCEE) è il trattato internazionale che ha istituito, appunto, la CEE. è stato firmato il 25 marzo 1957 insieme al trattato che istituisce la Comunità europea dell'energia atomica (TCEEA); insieme, sono detti "Trattati di Roma".  La ricorrenza sarà certamente ricordata come una delle tappe più importanti della storia recente e celebrata come un grande momento di crescita democratica nel solco di idee fondamentali per lo sviluppo dell’umanità.  Invece sarà bene ricordare alcuni passaggi fondamentali:  1) L’Europa di partenza, quella a sei, non era altro che l’avamposto occidentale in funzione della “cortina di ferro” sulla quale,al centro dell’Europa, si situava il confine del bipolarismo tra le superpotenze;  2) Questo dato dell’avamposto occidentale (e di braccio politico – militare degli USA) ha caratterizzato dall’inizio come una sorta di imprimatur la vicenda dell’unione europea. Da ricordare come quel periodo coincise con l’avvio di un periodo di piena occupazione e di crescita dei salari medi, di affermazione della democrazia rappresentativa e di sviluppo dei sistemi di redistribuzione attraverso la progressività della leva fiscale e del welfare state. Condizioni che apparentemente apparivano come favorevoli e che, in realtà, sono state utilizzate ai fini di una gestione del ciclo capitalistico inauditamente feroce, come vedremo meglio nei punti successivi;  3) Da ricordare che il primo tentativo di unificare politicamente l’Europa era già stato attuato, nel 1954, con la proposta della CED (Comunità Europea di Difesa) verso la quale si realizzò una fortissima opposizione da parte delle sinistre e alla fine fallita per il rifiuto della Francia che vi intravedeva la prospettiva del riarmo della Germania;  4) Al momento della caduta del muro di Berlino e della riunificazione della Germania si verificò un inopinato allargamento ad Est nella convinzione che da quella parte si fosse aperto uno spazio infinito per nuovi mercati sulla base dell’idea del trionfo definitivo di un solo sistema economico – sociale e della affermazione della “fine della storia”. Un allargamento realizzato con cinismo, prosopopea, arroganza (come ammesso oggi da molti osservatori) e che oggi,in condizioni di grande difficoltà, presenta il conto sotto la forma del rinnovarsi della faglia storica Est / Ovest.  5) Contemporaneamente, quasi nello stesso tempo, fu firmato il trattato di Maastricht ispirato dalla filosofia monetarista . In seguito l’istituzione della moneta unica la cui gestione, in Italia, all’inizio diede il via ad una serie di irreparabili storture nella dinamica dei prezzi al consumo;  6) Nonostante alcuni tentativi (ad esempio con il trattato di Lisbona) di rafforzare il ruolo del Parlamento rispetto alla Commissione e al Consiglio questo tentativo può ben essere considerato come fallito e il Parlamento ricopre un ruolo sempre più marginale;  7) Dal mercato unico (1986) al patto di bilancio (2012) passando per il patto di stabilità e crescita (1997) i parlamenti nazionali sono stati soppiantati da un’autorità burocratica al riparo dalla volontà popolare, come previsto e reclamato dall’economista ultraliberista Friederich Hayek. Da quel punto è partita, imposta dall’alto, un’austerità draconiana verso un elettorato impotente, sotto la direzione congiunta della Commissione Europea e della Germania.  8) La vicenda dei migranti, causata in gran parte dall’esplosione di guerre nell’Asia Centrale, in medio Oriente e nel Nord Africa alle quali hanno partecipato i principali stati dell’Unione in veste neo – colonialista e nella scia del globalismo imperiale degli USA, ha fatto esplodere nuovamente la contraddizione Est – Ovest in coincidenza con la ripresa di un ruolo imperiale da parte della Russia , al ritorno della guerra nel cuore del continente,alla mancata assunzione di dimensione multipolare da parte dei cosiddetti BRICS e alla frenata della Cina;  9) Egualmente del tutto insufficiente e del tutto subita la fase di crisi aperta negli USA a cavallo del 2007 in ragione di un assolutamente insensato processo di finanziarizzazione dell’economia (crisi dei subprime) realizzato attraverso il meccanismo dello “scarico” delle contraddizioni verso i più deboli;  10) L’ordine politico che è scaturito dalla crisi del processo di finanziarizzazione dell’economia (in volgare: la crisi dei subprime e dei derivati) è stata caratterizzata dalla deregolamentazione dei flussi finanziari, della privatizzazione dei servizi pubblici e dall’accentuazione delle disuguaglianze sociali. Un ordine politico accettato indistintamente dai governi che si proclamavano di centro – destra e da quelli che si autodefinivano di centro – sinistra;  11) Manca assolutamente una risposta efficace ai fenomeni di recupero del nazionalismo e dell’isolazionismo che provengono addirittura dal cuore dell’Impero in una fase evidente di de-globalizzazione non analizzata per tempo. Nel frattempo abbiamo assistito a fenomeni di vera e propria crisi della rappresentanza politica (Belgio, Spagna, Italia) e di crescita di movimenti sommariamente definiti come populisti e comunque portatori di elementi di vera e propria crisi anche rispetto agli stessi meccanismi della democrazia liberale.  12) Nessuno ammette i gravissimi errori di analisi commessi e i disastri compiuti. Anzi le stesse classi dirigenti si ripresentano impudentemente riproducendo se stesse e costringendo elettrici e elettori a disertare oppure a rivolgersi a improvvisati demagoghi/e. Una classe dirigente che adesso, per non aprire reali processi democratici di ripensamento complessivo, si inventa le “due velocità” (proposta che quando era stata avanzata da alcuni economisti nel passato era stata rifiutata con sdegno soltanto perché non proveniente dal solito circolo dei “sapientoni” del pensiero unico).  13) Nel frattempo è completamente evaporata la tensione internazionalista dei partiti della sinistra, in coincidenza con la perdita di ruolo degli organismi sovranazionali e in particolare dell’ONU, allineatesi a modelli deteriori della personalizzazione e della caduta di ruolo complessivo dei soggetti politici. Caduta collocata, in particolare, sul terreno della rappresentanza che è andata complessivamente in fortissima crisi e in caduta d’identità. Tutto ciò ha determinato una crisi verticale del riformismo (termine inteso soltanto nel’accezione storica, quella “classica” tanto per intenderci della socialdemocrazia stretta nella tenaglia del : né di destra, né di sinistra);  14) Assolutamente insufficiente, infine, la riflessione politica attorno ai due nodi fondamentali del rapporto tra tecnica e politica e tra economia e politica intorno ai quale le forze politiche “europeiste” dimostrano tutti i loro limiti di analisi e di proposta;  Questi sembrano i punti, incompleti e sommariamente esposti, in conseguenza dei quali pare ci sia ben poco da festeggiare e quasi tutto da cancellare, ripensando prima di tutto i termini di espressione della democrazia.  Democrazia che, a livello europeo, ha sempre significato il dominio degli establishment dei banchieri al servizio del grande capitale, dell’abbattimento del welfare, dell’impoverimento generale.  Soprattutto ha fallito la classe dirigente che oggi osa parlare di Europa a 2 velocità e di comando militare unificato senza aver costruito le condizioni per l’esistenza di un Parlamento in grado di discutere e decidere sui provvedimenti economici e – addirittura – sullo stato di guerra e sui trattati di pace.  Una classe dirigente che non è stata capace minimamente di interpretare la fase del ciclo definito di “globalizzazione” nel corso del quale si sono alimentate vere e proprie “fratture” di tipo localistico in un quadro generale di paura alimentata dalla crescente difficoltà nelle condizioni materiali di vita per masse sterminate di donne e uomini in interi continenti.  Fa impressione infine l’arroganza e l’insipienza con la quale su questi delicati argomenti viene sparso a piene mani ingiustificato ottimismo reiterando con ostinazione scelte profondamente sbagliate con la quali si sono fatti danni enormi alla condizione materiale di vita delle persone: di questo sono responsabili tanto i governanti quanto la maggioranza dei ben pasciuti facitori d’opinione dalle colonne dei giornali e dagli schermi televisivi.  Seconda parte: il declino italiano  Intanto si prosegue nel declino.  Si sviluppa di seguito un solo punto assolutamente esemplificativo di una situazione che riguarda l’insieme della situazione produttiva nel nostro Paese.  In questi giorno emergono (anzi si rinnovano)punto di crisi nella struttura portante dell’industria italiana: il caso riguarda l’ex- Lucchini di Piombino, l’antica Magona d’Italia, uno dei siti più storicamente importanti per la produzione dell’acciaio.  Dopo promesse varie e dichiarazioni di “area di crisi complessa” adesso lo stabilimento è appetito dagli indiani di Jindal (che sono interessati anche all’Ilva) : dopo la delusione subita dall’approccio tentato e ritirato dall’imprenditore algerino Rebrab adesso sembrerebbe toccare agli indiani mentre i problemi dell’azienda appaiono del tutto irrisolti.  La produzione d’acciaio in Italia è apparsa nel 2016 ancora assolutamente insufficiente dopo la caduta verticale fatta registrare nel 2008: siamo a circa 24.000 tonnellate annue (14.000 di laminati lunghi e 10.000 piani) ben lontani dalle oltre 30.000 toccate a cavallo degli anni 2004 – 2006 e l’Italia importa acciaio dall’Unione Europea.  Nello stesso tempo del dimostrarsi della crisi di Piombino riesplode la situazione dell’Alcoa di Portovesme, fabbrica d’alluminio, per la quale dopo la delocalizzazione subita nel 2012 ad opera di una multinazionale americana con l’arresto conseguente della produzione, siamo ormai all’esaurimento degli ammortizzatori sociali con il rischio di perdere definitivamente un importantissimo patrimonio industriale oltre a mandare totalmente in crisi l’economia del Sulcis.  I due casi, tra i tanti presenti drammaticamente nel nostro Paese, sono accomunati da uno stesso denominatore: sono il frutto, infatti, dell’assenza totale di un piano industriale attraverso il quale l’intervento pubblico avrebbe potuto farsi promotore, regolatore e gestore di un rilancio dell’attività manifatturiera attraverso un’adeguata riconversione sul piano tecnologico , fornendo così una risposta concreta ai bisogni occupazionali.  E’ stato in questo campo, della progettazione industriale, dell’innovazione tecnologica, del rilancio dell’attività manifatturiera che i governi italiani hanno fallito il loro compito proprio nell’ambito della redistribuzione del lavoro sul piano europeo e complessivamente internazionale.  Sono mancate, da destra e da sinistra, la politica estera e quella dello sviluppo industriale.  I dati ci dicono che questo indirizzo può essere perseguito perché esiste, come ben indica il caso dell’acciaio, una domanda di produzione ben precisa.  Basta con gli incentivi al consumo posti dalla parte della domanda individuale oppure agli sconti e detassazioni parziali e temporanee per assunzioni di mano d’opera che alla fine si rivelano fantasma come nel caso del job act e degli 80 euro.  L’intervento pubblico in economia deve partire dal principio che le leggi del mercato non sono immutabili e supinamente accettabili e che è necessaria l’espressione di una volontà politica per ricreare le condizioni per favorire la vocazione industriale, l’arricchimento del know- how, un livello di produzione adeguato a consolidare e allargare la base occupazionale.  E’ stato questo dell’abbandono dell’industria, a partire dagli anni’80 del XX secolo con le privatizzazioni e lo scioglimento dell’IRI , assieme all’inopinata firma dei trattati europei, il vero punto di “crack” del sistema politico i cui esponenti hanno preteso di esaltare la governabilità mentre – nello stesso tempo – stava sottraendo al sistema i veri punti di forza sui quali poggiava un’idea possibile di Stato e di Paese.  In conclusione:  Quattro abbagli storici hanno determinato questo stato di cose e torniamo così all’oggetto dei sessant’anni dalla firma dei trattati di Roma:  1) quello dell’idea che progressivamente lo “Stato – Nazione” dovesse abdicare alle proprie prerogative derivanti dal sistema westfaliano (ci sono state modifiche, ma non sufficienti a giustificare l’abbandono);  2) quello dell’affermazione di un’egemonia indistinta di un non meglio precisato post – industriale (si trattava invece più semplicemente di una gestione del ciclo imperniata sulla finanziarizzazione progressiva dell’economia e su di un cedimento indiscriminato alla tecnica che ha considerato la politica come propria “dependance”;  3) quello del considerare la caduta del muro di Berlino come la fine della storia pensando a una trasformazione del mondo in un unico gigantesco mercato con un solo gendarme a sorvegliarne l’andamento pronto a intervenire per “esportare la democrazia”  4) l’abbandono dell’idea del lavoro come mezzo di produzione di beni che sarebbe stato sostituito da una composizione del capitale capace di rendere “immateriale” lo sfruttamento con una conseguente pacificazione generale delle contraddizioni che sarebbero state annegate nel consumismo individualistico.  Così non è stato e ne stiamo vedendo (e pagando) le conseguenze.  Altro che celebrare la firma dei trattati. Franco Astengo
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paoloxl · 8 years ago
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Non stiamo parlando della nota serie TV, anche se la trama di questa storia assomiglia a quella di una fiction a sfondo affaristico. O forse ad un vecchio polar di serie B. Costruttori, albergatori, imprenditori di vecchia e nuova scuola, società di consulenza finanziaria e commerciale, partecipate pubbliche. La lista dei grandi debitori della Monte dei Paschi di Siena, la cui pubblicazione è stata fortemente caldeggiata dal presidente dell'Abi Antonio Patuelli, è lunga e variegata. C’è la Sorgenia di De Benedetti, che nel marzo del 2015 è stata acquisita dalle banche creditrici con le quali aveva accumulato un debito di 1,8 miliardi di euro, un terzo dei quali con la Mps, che attualmente detiene il 17% della società. L’azienda appartenuta all’imprenditore torinese (che con 8 centrali elettriche operative in Basilicata, 6 miliardi di kWh venduti e 166 milioni di metri cubi di gas gestiti nel 2015 è uno dei colossi del mercato energetico nazionale) è senz’altro il nome più altisonante della lista. A farle compagnia c’è la Risanamento Spa, società immobiliare con sede a Milano ma di caratura nazionale, fondata, per fusione di precedenti società, da Luigi Zunino, uno degli imprenditori emersi in Italia nella fase post-tangentopoli. La Risanamento, passata nel 2009 alle banche creditrici (Intesa SanPaolo, Unicredit, Bpm, Mps, Banco Popolare) in seguito ad un piano di salvataggio, si trova oggi con il 2% del pacchetto azionario in mano alla banca senese ed un debito con questa di circa 700 milioni di euro. Rimanendo nell’ambito immobiliare troviamo la Impreme della famiglia Mezzaroma, salvata nel 2013 da Mps ed Unicredit con un’operazione di centinaia di migliaia di euro, il costruttore calabrese Antonio Muto, fallito 4 volte nel giro di un decennio, la EstCapital srg, società veneta liquidata nell’aprile del 2016 che in passato ha progettato una grossa speculazione finanziaria nel Lido di Venezia nell’area dell’ex Ospedale. Tra gli altri grandi gruppi coinvolti c'è la Cisfi, società di consulenza finanziaria e commerciale a cui fa capo la Cis e la gestione dell’interporto di Nola, una delle aree su cui sono stati più evidenti gli intrecci tra imprenditoria, politica e camorra. Numerose sono anche le società a partecipazione pubblica presenti nella lista, in particolare nell’area toscana. Il Consorzio Bonifica dell’Alto Valdarno, l’incubatore d’impresa Fidi Toscana, la UPMC (società che gestisce le Terme di Chianciano) e, soprattutto, la Newcolle srl di Colle Val d’Elsa, indebitatasi per circa 20 milioni di euro a seguito di un’operazione immobiliare naufragata ancora prima di cominciare. La lista potrebbe andare avanti; ci siamo fermati ai casi più eclatanti ed emblematici. Dietro la lista ci sono storie diverse di crisi e fallimenti, di investimenti arrembanti finiti male, di passi più lunghi della gamba, di manie di grandeur tradite da un mercato asfittico. Ma questa volta non sono le storie di disperazione dei piccoli risparmiatori, dietro le quali si cela una biografia comune segnata in maniera indelebile dalla crisi. No, questa volta parliamo del grande capitalismo italiano, di quello che con le banche è sempre andato a nozze, sia perché ha sempre avuto un’accessibilità al credito facilitata, sia per una convergenza d’interessi che la finanziarizzazione dell’economia ha reso sempre più palese. Circa l’80% dei crediti bancari proviene da quel 10% di risparmiatori più ricchi, e molti di questi sono Non Performing Loans, ossia non più esigibili. Si ribalta così quella vulgata che vedeva anche in Italia il piccolo e diffuso indebitamento privato come origine del più ampio crack finanziario. È nella struttura storica del “capitalismo straccione”, di gramsciana memoria, nella sua vocazione familistica di fatto e di concetto (grazie alla quale è possibile anche che istituti di credito e grandi aziende abbiano gli stessi nomi all’interno dei consigli d’amministrazione) che una storia come quella del Monte dei Paschi di Siena e dei suoi grandi debitori trova terreno fertile. In una recente intervista fatta su Globalproject ad Andrea Fumagalli, questi ha molto insistito sull’arretratezza cronica del sistema bancario ed imprenditoriale nazionale come una delle origini di una crisi strutturale del Paese che si sovrappone a quella globale, ma spesso si snoda all’interno di registri peculiari e differenti. I tratti distintivi del capitalismo italiano non lo rendono avulso dai processi di trasformazione che la governance attua continuamente a livello globale, ma quella cultura fatta di malaffare e scarsa managerialità spesso costituisce un substrato di permanenza ed inviolabilità dei blocchi di potere. Questo non solamente per via di faccendieri buoni per tutte le stagioni, abili ad uscire indenni da inchieste e fallimenti, ma soprattutto per quegli intrecci politico-imprenditoriali che fanno sopravvivere un sistema di potere e di interessi al di là dei suoi stessi protagonisti. Il culto di una responsabilità individuale e giudiziaria, ma mai politica e sistemica, lascito di quel giustizialismo spicciolo nato con Tangentopoli, facilita questa sorta di moto perpetuo proprio perché vede nell’individuazione ed epurazione della “mela marcia” l’elemento di risanamento del sistema stesso. Il piglio forcaiolo con cui i media, gli esponenti politici e gli stessi vertici del sistema bancario stanno affrontando la black list di Mps è un mirabile esempio di tutto questo. Poco importa se dietro a costruttori ed immobiliaristi foraggiati in perdita dalla banca senese si nasconda quel modello di grandi opere e speculazione edilizia che da anni sta devastando il nostro Paese. Gli istituti di credito sono stati, al pari dello Stato, i principali finanziatori di un modello che si è rivelato fallimentare, anche sul piano strettamente economico Questo perché proprio nell’annuncio dell’apertura di un cantiere infrastrutturale o del “risanamento” di una grande area urbana si afferma in pieno quel rapporto di interconnessione tra rendita finanziaria e capitalismo “produttivo”, che rappresenta uno dei topos dell’economia post-fordista avanzata. Non è un caso che siano questi gli ambiti in cui si è esplicitato quel potere di insolvenza della grande impresa, che viene compensato con un maggior coinvolgimento dei piccoli risparmiatori nelle operazioni di contenimento delle perdite o di ricapitalizzazione delle banche, durante le quali avviene la trasformazione, talvolta forzosa, delle obbligazioni in azioni. Per queste ragioni il problema non potrà mai essere la “mela marcia”, ma quel sistema di interessi ed affari all’interno di cui essa opera e si riproduce. Certo il caso della Monte dei Paschi e delle altre banche precedentemente salvate con denaro pubblico grida vendetta. Ma l’obiettivo deve essere quello di portare nel discorso pubblico una richiesta di giustizia redistributiva, in grado di spossessare un’intera classe politica ed imprenditoriale. Della gogna mediatica e giudiziaria per i pochi imprenditori coinvolti, tanto cara ai Tribunali o alle vie Solferino di turno, francamente non sappiamo più cosa farne.
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