Tumgik
#era pacman in realtà
omarfor-orchestra · 2 years
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Ok dopo 3 mesi di studio e 4 ore di ripetizioni distribuite in altrettante settimane sono riuscita a fare un tema d'esame di informatica senza piangere
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solobrividiecoraggio · 11 months
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Oggi sono andato da solo al Gamicon di Pistoia. Scrivo quello che ricordo, tutto quello che mi è successo e ritengo utile esternare e conservare qui. I rapporti sociali esauriscono le mie energie e abbassano notevolmente le mie prestazioni già non altissime.
All'andata in tramvia una signora mi ha chiesto se parlassi inglese. Ho provato a rassicurarla sul fatto che fosse nel posto giusto. Da quel che ho capito era il momento sbagliato, era in ritardo; è probabile che lei, l'altra donna e quella ragazza abbiano perso il treno che dovevano prendere.
In stazione ho preso per la prima volta un biglietto alle macchinette self-service. Uno mi ha chiesto di aiutarlo, forse solo per passare avanti a chi era in coda dietro di me. Vabbè. Tra l'altro credo di essere stato più io in difficoltà di lui.. dove la stavo infilando quella carta di credito?
Sul treno ho visto salire, e più tardi scendere, una delle sorelle di un mio amico. Quel mio amico: era la sorella della ragazza che mi piace. (io continuo a dubitare, dovrei conoscerla meglio) Da notare che appena l'ho vista ho cercato A con gli occhi e con le orecchie. Mentre mi passava accanto l'ho guardata, riconoscendola evidentemente, però senza aprire la bocca. Mi ha salutato prima lei anche se io l'ho vista per primo. A volte penso di avere difficolta a riconoscere i volti ma in realtà ho solo.. sempre. Troppa. Paura. Poi arrivano pure i momenti in cui tiro fuori coraggio e sicurezza da non so dove, ma ho l'impressione che io trascorra così il 90% del tempo passato con le persone.
Sono arrivato a Pistoia per ora di pranzo. Sono entrato e ho chiesto immediatamente se si potesse uscire e rientrare successivamente. La donna che "abilitava" ad uscire non capiva il mio cognome. Potevo essere più chiaro, e più veloce a risolvere. Bologna Empoli Milano Bologna Otranto.
Ho fatto avanti indietro per la piccola fiera diverse volte aspettando i Player Inside. Ho comprato una ciambella e del croccante, la prima è stata il mio pranzo. Ho fatto due partite ai piccoli cabinati, rispettivamente a Bubble Bobble e a Pacman, dopo ho giocato un po' a The Secret of Monkey Island. Ho incominciato a seguire cosa succedeva sul palco principale, ho visto andare dietro al palco Raiden e Midna verso le 14. I bagni erano tenuti bene.
La voce di Raiden mi suonava strana, leggermente diversa, forse più alta. Comunque erano proprio loro. Terminato l'evento sul palco mi sono accodato a una prima fila per il Meet and Greet. Mentre aspettavo dei ragazzini sembravano aver bisogno di un chiarimento e quindi ho provato a capire cosa cercassero. Ho dovuto tentare due volte per dire "Player Inside" senza impappinarmi. Quanto dovrei lavorare sulla mia voce e sulla mia dizione. 53esimo, abbiamo dovuto sopportare il freddo perché la seconda fila era all'aperto.
Poco dopo le 17 ero lì con loro: nel panico, senza sapere cosa dire esattamente e con la paura di fare una brutta figura; in vetrina, perché la stanzetta in cui eravamo era visibile da una certa parte della fila; con il fuoco al culo perché Raiden e Midna alle 18 se ne dovevano andare e c'erano ancora diverse persone dopo di me. Dopo aver interpretato letteralmente le parole di Midna che mi aveva chiesto "il miglior gioco di sempre", ho accettato la proposta di registrare una clip in cui dichiaravo il mio gioco preferito. Ho detto Hellblade, se non mi sono mangiato troppo le parole. Se taglieranno la mia clip non me la prenderò. Uno dello staff si è preoccupato di scattare delle foto con il cellulare che sto usando in attesa del ritorno del mio; i ragazzi hanno scritto dedica e firme nel libro. Ho anche detto il mio nick di Twitch per farmi riconoscere, Midna ha detto esplicitamente che ho fatto bene a dirlo. 💕
Sono andato via velocemente, non ricordo nemmeno se ho detto ciao prima di uscire dalla stanzina, penso di aver ringraziato a voce e/o di aver inchinato la testa. Camminando verso la stazione dicevo "che bello, che bello", ma scappavo. Fatto il biglietto per il treno che doveva arrivare solo alcuni minuti dopo. Ho trovato il binario e sono salito. Un viaggio di ritorno passato a ripensare a cosa era successo. Mi sono chiesto cosa avrei potuto fare meglio e se ero soddisfatto di me.
Rientrando dai binari nella stazione di Santa Maria Novella un ragazzo che camminava con più fretta addosso di me si stava scapezzando perché ha tentato un sorpasso assurdo. Ha sorpassato una mamma e un bambino in poco spazio salendo e scendendo dei gradini, ma mettendo male il piede. Ha continuato a camminare, spero non si sia preso una storta.
In tramvia "suonavo" il palo a cui mi tenevo con la mano sinistra, per tranquillizzarmi. Ho aspettato un autobus per tornare a casa. Prima che questo ripartisse sono entrati dei ragazzi e una ragazza, dei primi anni del liceo direi. Due di loro sono arrivati in ritardo e si sono fatti sentire a manate sulla porta. Uno di questi ha avuto la pessima idea di dire "perché non apriva questo coglione?" dopo essersi seduto vicino agli altri, l'ho guardato male girandomi subito verso di loro. Un suo compagno l'ha ripreso e gli ha detto di chiedere scusa. L'autista si è espresso mantenendo la calma nonostante il tipo di atteggiamento, chissà in quei secondi di pausa cosa ha pensato, se si è trattenuto. Scusarsi con "i'm sorry" ai miei occhi non è stato un modo valido di chiedere perdono, doveva dirlo nella sua lingua, quando traduciamo quel passaggio in più incapsula e nasconde.
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giancarlonicoli · 4 years
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7 lug 2020 15:56
LORO E LUISS - DAGO-LECTIO AL MASTER IN COMUNICAZIONE POLITICA DIRETTO DA GIORGINO PER I 20 ANNI DI DAGOSPIA: PERCHÉ OGGI L’UNIVERSITÀ NON SERVE A UN CAZZO! - “NESSUNO DEGLI ATTUALI PADRONI DEL MONDO HA CONSEGUITO UNA LAUREA. JOBS, BEZOS, GATES, ZUCKERBERG, I DUE DI GOOGLE DEVONO SOLO RINGRAZIARE GLI HIPPY, I FREAK, I BEAT DELLA CALIFORNIA DEGLI ANNI '60/’70 - LONTANI DALL'IDEOLOGIA POLITICA CHE HA UCCISO LE MIGLIORI MENTI EUROPEE, AVEVANO CAPITO CHE ABBATTERE IL POTERE ERA SOLO UNA INUTILE PERDITA DI ENERGIE CREATIVE: MEGLIO INVENTARSI UN ALTRO MONDO. E LO HANNO FATTO” - VIDEO
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1 – LA RIVINCITA DEL RAGIONIERE
Roberto D’Agostino per “Vanity Fair”
Orgoglioso del mio diploma di ragioniere, e in virtù dei primi vent'anni di Dagospia, sono stato invitato lo scorso 19 giugno dall'Università Luiss di Roma a tenere una cosiddetta lectio. Ho pensato bene di gonfiare la loro sapienza con il seguente tema: perché oggi gli anni dell'università non servono a un cazzo...
Ho iniziato pompando vaselina: «Il web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo». Finita la vaselina, è partita la rivincita del ragioniere: «Cari ragazzi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di sapienza universitaria ha partorito le utopie di Steve Jobs (Apple), le visioni di Bill Gates (Microsoft), il marketing di Jeff Bezos (Amazon), le idee di Mark Zuckerberg (Facebook), gli algoritmi di Larry Page e Sergey Brin (Google), chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Facebook e Google.
Nessuno degli attuali padroni del mondo ha conseguito una laurea a Stanford o un master ad Harvard e atenei limitrofi».
Come siamo passati dai Rockefeller di ieri ai Jeff Bezos di oggi, un tipino che vendeva cheeseburger nei McDonald's? Come sono arrivati 'sti «strafattoni», senza titoli scolastici e senza titoli in Borsa, al potere globale?
Gli attuali miliardari della Silicon Valley devono solo ringraziare gli hippy, i freak, i beat della California degli anni '70. Che, tra una «canna» e un «acido», avevano un proposito ben chiaro: «fuck the system», prendere le distanze dall' American dream. E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi al «pensiero forte» dell'ideologia, alla politica, al terrorismo, come in Europa. Come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l'hippismo di San Francisco aveva messo radici profonde nel buddismo zen del Vicino Oriente.
Joni Mitchell e Neil Young, Jobs e company avevano capito che l'energia dell'essere umano non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, mejo rinchiudersi in un garage e inventarsi un computer, come appunto fece Steve Jobs.
Non è un caso che Stewart Brand, padre spirituale della controcultura californiana degli anni 70, teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, Spacewars: «Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo».
Brand non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettuali.
Questo è l'unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un «potere personale» che liquidava con un clic il '900. Ecco: il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all'esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale.
Non c'era più una casta di colti che sapeva dove si trovava la conoscenza: a saperlo era un algoritmo che ti conduceva direttamente a quello che cercavi. Via tutte le mediazioni. Niente esperti. Niente più confini. Niente flussi ideologici. La loro scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con tanta determinazione che scatenò l'intellighenzia europea, messa fuori gioco dalla Rete, con violente accuse di qualunquismo.
E si ritorna alla domanda di Stewart Brand: perché sprecare energia contro il vecchio mondo? Per ricevere un manganello in testa e finire in galera? Non è più eccitante creare un nuovo mondo.
E per farlo basta solo inventare uno strumento. II 19 gennaio 2007, a San Francisco, Jobs fece felice Brand presentando al mondo il primo modello di iPhone, un computer da tasca mascherato da telefonino detto smartphone. E nulla fu come prima.
DAGO ALLA LUISS
Il testo integrale della lectio di Dago al Master in Comunicazione Politica diretto da Francesco Giorgino alla Luiss
Molte sono le rivoluzioni che cambiano il mondo, ma sono poche quelle che cambiano gli uomini e lo fanno radicalmente perché capaci di generare nuovi modi pensare.
Il Web è diventato il nuovo sistema nervoso del mondo poiché, grazie in particolar modo a Internet, esso diventa in qualche modo un ampliamento della nostra intelligenza e della nostra memoria. Qui non si sta cambiando qualcosa, ma tutto. Non è il mondo che si fa globale ma noi. Un trauma culturale.
La tecnologia è una sfida rivoluzionaria destinata a cambiare la nostra vita esattamente come è avvenuto nell’’800 e nel ‘900. L’invenzione del treno fu un grande sovvertimento, l’arrivo della macchina fu una grande rivoluzione, adesso siamo alla vigilia di innovazioni superiori a quelle che la nostra immaginazione può tentare di descrivere. Nei prossimi vent'anni il mondo cambierà più di quanto sia cambiato negli ultimi 300.
Ma il mondo digitale non è la causa di tutto bensì l’effetto: la conseguenza di qualche rovesciamento mentale. Quindi, non perdete tempo a domandarvi che tipo di potere oscuro può generare l’uso di Facebook e di Google, chiedetevi piuttosto che tipo di mente ha generato uno strumento come Facebook e Google.
Perché l’uomo nuovo non è quello che ha prodotto quel computer camuffato da telefono chiamato smartphone: l’uomo nuovo è quello che lo ha inventato. La tecnologia, attraverso delle macchine, ha sciolto il mondo in un clic. Come dice Yoda in “Star Wars”: “Impossibile da vedere, il futuro è”.
ALL’INIZIO FU UN GIOCO. ANZI, UN VIDEOGIOCO
All’inizio fu un gioco. Anzi, un videogioco. Non si capisce molto della rivoluzione digitale se non si ricorda che i vari “PacMan”, “Space Invaders”, “SuperMario”, erano la reincarnazione della mitologia al tempo della tecnologia.
Perché ogni volta che si impugna la console, diventiamo come Teseo che si inoltra nel labirinto per dare la caccia al Minotauro. E proprio come gli eroi del mito antico viviamo una esperienza multitasking. Fatta di azione e visione, narrazione e invenzione, partecipazione ed emozione.
Affrontiamo una sfida in prima persona che è al tempo stesso eroica e ludica. Entriamo cioè in un'avventura vera anche se virtuale. Lì, attraverso una macchina, generiamo e abitiamo un ampliamento di realtà, una moltiplicazione del mondo, la possibilità di poter vivere in un altrove un'esistenza alternativa.
Il segreto del successo dei videogames è l’interattività, la stessa che sta all’origine della rivoluzione del Web. Mentre la letteratura isola, la televisione esclude, il cinema rende passivo lo spettatore, la rivoluzione digitale, al pari dei videogiochi, include.
Mi attiva perché, scrive Marshall McLuhan, “recupera la modalità di Narciso”; la moltiplicazione dell’Io come protagonista del gioco. Ognuno di noi si mette lì davanti, prende la pistola, guida la macchina o fa comunque azioni guidate dal gioco e diventa protagonista di quella azione, di quella storia.
Dalla platea al palcoscenico. Non siamo più semplici spettatori. Ma piuttosto spettatori di noi stessi. Spingendo fino al cortocircuito tecnologico i ruoli tradizionali della società dello spettacolo. Con un'identificazione totale tra chi vede, chi è visto e chi agisce.
Questo coincide perfettamente con l'avvento dei social network – Facebook, Instagram, Twitter etc. - dove il tema centrale è proprio questo narcisismo impazzito, dove ognuno in qualche modo si sente protagonista di una storia, è al centro di qualche cosa, che sia reale o meno, che sia vero o falso.
Il videogame ti dà questa sensazione, il Web ti dà questa emozione di generare un ampliamento di realtà, una moltiplicazione del mondo. Definire un computer una mediazione è magari una cosa ragionevole per un uomo del ‘900, ma uno sciocchezza per un ragazzo di oggi: che considera le macchine una estensione di se stesso, non un qualcosa che media il suo rapporto con le cose.
Uno smartphone è un’estensione del suo Io. Sono articolazioni del suo stare al mondo destinate a cambiare l’idea stessa di cosa debba essere l’esistenza.
COSE, NON IDEE. MECCANISMI, NON IDEOLOGIE
Non è un caso che Stewart Brand, padre spirituale della controcultura californiana degli anni ’70 (a cui Steve Jobs rubò la frase “Stay hungry, stay foolish”), teorizzò la rivoluzione digitale con un testo che aveva per titolo un videogioco, “Spacewars”, che metteva il dito nel nuovo orizzonte mentale da cui tutto proviene.
Scrive Stewart Brand (a lui si deve l’espressione ‘’personal computer’’): “Puoi provare a cambiare la testa della gente, ma stai solo perdendo tempo. Cambia gli strumenti che hanno in mano e cambierai il mondo”.
Non aveva in mente un progetto preciso se non questo, affascinante e molto hippie: niente più confini, niente più élite, niente più caste mediatiche, politiche, intellettuali. Questo è l’unico principio ideologico del Web. Basta un computer su ogni scrivania per avere un “potere personale” che liquidava con un click il ‘900.
Ecco: il vero atto geniale fu di trasformare il computer, fino allora in dotazione solo all’esercito e alle grandi aziende, in uno strumento personale, individuale, da mettere sulla tua scrivania. Covava, in quell’idea, la singolare volontà di concedere a qualsiasi individuo un potere che era stato creato per pochi.
Non c’era più una casta di colti che sapeva dove si trovava la conoscenza: a saperlo era un algoritmo che scattava invisibile e ti conduceva direttamente a quello che cercavi. Via tutte le mediazioni. Niente esperti. Niente più confini. Niente più caste. Niente flussi ideologici. Addio élite a cui si era soliti riconoscere una particolare competenza, un’autorità e alla fine un certo potere.
La storia della civiltà umana sulla Terra si può benissimo ripercorrere attraverso gli oggetti che l’hanno trasformata e manipolata: dall’invenzione della ruota e del coltello di pietra che duecentomila anni fa hanno consentito all'uomo di diventare più forte mangiando carne, alla ideazione delle armi da fuoco.
A seguire, l’invenzione della macchina fotografica, della lampadina, della catena di montaggio, dell’automobile, della ferrovia, della radio, della televisione, della carta di credito, della lavatrice, della pillola anticoncezionale, del computer, fino allo smartphone. Cose, non idee. Meccanismi, non ideologie. Oggetti, non filosofie. Soluzioni, non chiacchiere.
Certo, il pensiero è azione, è la prima e fondamentale delle forme del nostro fare. Bisogna però riconoscerlo: più ancora che dai grandi movimenti artistici, dalle ideologie, dalla letteratura, sono gli oggetti che trasformano la storia del mondo e il nostro modo di vivere.
Scrive Alessandro Baricco nel suo saggio “The Game”: “Con la rivoluzione digitale non c’è bisogno di un’idea del mondo: occorre uno strumento per fare il mondo”.
Come siamo arrivati a questo? Grazie agli hippies, ai freaks, ai beatnick della california degli Anni 70. Che avevano un proposito ben chiaro, prendere le distanze dal sistema, dall’American Dream, dal maledetto Secolo Breve delle guerre mondiali e dell’Atomica.
E lo hanno fatto. Ma senza appoggiarsi all’ideologia, alla politica politicante, come in Europa. Dove l’obiettivo finale è abbattere il potere, la rivoluzione, il sole dell’avvenire. No, come Ginsberg, Ferlinghetti, Kerouac, Ken Kesey, l’hippismo, tra una canna e un acido, aveva messo radici profonde nel buddismo del vicino oriente.
E fra Zen e Budda, l’hippismo aveva capito che l’energia dell’essere umano, non essendo illimitata, non andava sprecata in modalità distruttiva ma creativa. Anziché assediare la Casa Bianca, intrupparsi in qualche partito da combattimento, o mettersi in fila per un posto all’IBM, mejo rinchiudersi in un garage a inventarsi un computer, come appunto fece Steve Jobs.
Non a caso nessuno degli attuali padroni del mondo, da Bezos a Zuckerberg, da Jobs al duo di Google fino a Bill Gates, ha conseguito una laurea a Stanford o ad Harvard. Non a caso nei social c’è un termine fondamentale per la sottocultura hippie: comunity. Non a caso facebook segue i dettami del Peace & Love e ha solo il “mi piace”.
La scelta di stare fuori dal sistema è stata fatta con determinazione e spirito pratico, magari senza avere un’idea precisa di quello che sarebbe poi avvenuto. Da una parte. Dall’altra il Sistema, il Potere era ben felice e tranquillo, visto le insurrezioni e il terrorismo che stava dinamitando l’Europa, del fatto che le comunità freak e hippie si trastullavano inventando videogiochi e computer, senza dar fastidio al manovratore, fuori da ogni contestazione politica. Una miopia che poi hanno pagato in termini pesantissimi: Microsoft si è mangiata l’IBM, Netflix ha oscurato Hollywood, Spotify ha conquistato l’industria musicale.
Avete mai letto dichiarazioni politiche dei vari pionieri del web Zucherberg, Bezos, Jobs? No, perché sprecare energia contro il vecchio mondo? Più facile creare un Nuovo Mondo. Anzi, un Ultramondo partendo da Space Invaders che ha portato via il calciobalilla dai bar e che per la prima volta ci ha fatto interagire con uno schermo, maturata venti anni dopo ed esplosa con la presentazione del primo modello di Iphone (9 gennaio 2007, San Francisco).
IL RINASCIMENTO DIGITALE
Che cosa lega l'invenzione della stampa nel 1450 a Google e Facebook? È possibile paragonare il tipografo tedesco Gutenberg all’informatico britannico Tim Berners-Lee, padre del Web?
Che distanza c'è tra quella Età del Caos che chiamiamo Rinascimento, i suoi Savonarola, e quel primo esperimento di globalizzazione che furono le grandi esplorazioni navali iniziate con la scoperta dell'America e i populismi di oggi?
L’invenzione di Gutenberg fu una mossa che ebbe colossali conseguenze: permetteva il passaggio della conoscenza dalla élite di papi, principi e monaci alle nuove classi emergenti.
Mentre lasciava sul campo, stecchita, buona parte della cultura orale (ai tempi dominatrice indiscussa di un mondo di analfabeti), apriva orizzonti sconfinati al pensiero umano, alla sua libertà e alla sua forza. Di fatto scardinava un privilegio che per secoli aveva inchiodato la diffusione delle idee e delle informazioni al controllo dei potenti di turno.
Per far circolare le proprie idee non era più necessario disporre di una rete di monaci amanuensi. Una smagliante accelerazione tecnologica che ha terremotato la postura mentale degli umani, dando vita al Rinascimento, alla modernità, all’Illuminismo.
Io credo che quello a cui noi stiamo assistendo con la rivoluzione digitale sia un procedimento tutto sommato simile, anche se in scala enormemente più vasta, al Rinascimento.
In tutto il mondo, dal deserto del Sahara sotto le tende dei beduini ai villaggi del Bangladesh o in un’isola sperduta della Polinesia, chiunque con una connessione e un computer può accedere alla biblioteca di Babele, alla biblioteca totale. C’è la totale disponibilità della cultura, dei libri, della lettura a tutti. Questo non può non produrre che un Rinascimento Digitale, una mutazione che noi adesso non possiamo neanche immaginare.
1989, FINISCE UN’EPOCA, NE INIZIA UN’ALTRA
L’urgenza di mandare in soffitta il passato e di inventare il presente avvenne nel 1989. Venne giù il Muro di Berlino, carico di tutte le disastrose ideologie del ‘900, da una parte.
Dall’altra, l’informatico britannico Tim Berners-Lee, lavorando su un computer americano chiamato NEXT prodotto da Steve Jobs, inventò e regalò al mondo il World Wide Web, una ragnatela percorribile da tutti, in cui tutti i documenti del mondo, che siano testi, foto, suoni video, saranno a portata di mano.
Berners-Lee definisce il Web con appena 21 parole. Una frase chiave è: “Non c’è un top nel Web. Puoi guardarlo da molti punti di vista”. Ad una civiltà che da secoli era stata abituata a cercare la struttura del mondo mettendolo in fila dall’alto in basso, dal più grande al più piccolo, quell’informatico stava dicendo che il Web era un mondo senza un inizio o una fine, senza prima e dopo, senza sopra e sotto: ci potevi entrare da qualsiasi lato, e sarebbe stata sempre la porta principale, e mai l’unica porta principale.
La Rete è il riconoscimento che la cultura è circolare o meglio, labirintica, mischia elementi di epoche diverse, non ha il senso moderno dell’andare avanti su un’unica strada giusta e implacabile, ma gira intorno alle incertezze in un continuo scambio di alto e basso, sopra e sotto.
Non era solo una questione tecnica, di ordinamento del materiale: era una questione di struttura mentale. E’ un modo di muovere la mente, e sta a te la scelta di come muovere la mente.
Nel 1989, finisce un’epoca, ne inizia un’altra. Fantastica e sconcertante. L'adozione di nuove tecnologie è sempre più rapida. Ce lo insegna la storia: ci sono voluti 45 anni dalla sua invenzione perché l'elettricità raggiungesse il 25% delle persone, 35 anni per il microonde, 28 per la tv, 15 per il computer, 7 per il telefono cellulare, 5 per Internet. Oggi tutto sta accadendo simultaneamente.
Non solo. I computer non sono più macchine da programmare: sono diventati macchine che possono imparare cose. Sanno trasformare i dati in conoscenza: sono ormai dei veri e propri sistemi cognitivi.
È per questo che le cose diventano sempre più intelligenti: ormai tutti quegli oggetti che una volta erano disconnessi sono collegati a Internet, continuamente aggiornati. E con il ‘deep learning’ sono sempre più in grado di elaborare norme e strategie che noi non saremmo in grado di pensare.
FACEBOOK
Uno degli aspetti che distinguono la rivoluzione tecnologica è la realtà digitale. Ovvero il trasferimento della conoscenza e della vita degli individui dalla realtà reale al mondo di internet. I social network sono la più importante e vitale forma di aggregazione. Del resto l’umanità moltiplicata attraverso la connessione è l’antitesi della solitudine.
Le piattaforme digitali hanno infatti dispositivi che incitano gli utenti a dare la stura alle proprie emozioni e a svelare le loro preferenze e i loro gusti intimi. Sotto questo profilo, il modello è Facebook.
Sono passati 16 anni da quando l’allora ventenne Mark Zuckerberg, da un dormitorio della Harvard University, ebbe l’idea di creare una rete sociale online capace di connettere i suoi colleghi universitari. “Mi resi conto che in rete si poteva trovare qualsiasi cosa: musica, libri, informazioni: eccetto la cosa più importante: le persone. Così ho creato Facebook”. Era il 4 febbraio 2004, il successo fu immediato.
A differenza di Google, dove gli internauti cercano informazioni “oggettive”, Facebook vuole connettere la gente e, per farla sentire viva e attiva, fa leva su pratiche cariche di dimensioni affettive: conversare con nuovi amici, condividere dati personali, ritrovare vecchi amori, conoscere gente, colmare il sentimento di solitudine o di noia, esprimere emozioni soggettive. Il suo successo è inseparabile dalla possibilità di esprimere stati affettivi, sentimenti e passioni della sfera delle relazioni private.
Tre miliardi di persone nel mondo si mettono in scena quotidianamente cercando di affascinare i loro amici, proiettare un’immagine favorevole di se stessi, attirare l’attenzione su di sé in vista di like che lusingano il loro ego.
Una ricerca generalizzata di seduzione, non più orientata verso la conquista dell’altro, ma centrata sui bisogni emotivi del Sé. Il principio della forza d’attrazione di Facebook è il suo uso di ordine emotivo.
Esprimo quello che mi piace e i miei amici fanno lo stesso pigiando il pulsante “mi piace!” e altre emoji o emoticon evocanti il riso, la gioia, lo stupore, la tristezza, la collera. Ciò che conta è ricevere like di approvazione ed esprimere le proprie emozioni. “Mi piace”, ed è tutto.
I messaggi negativi, naturalmente, sono possibili (vedi i cosiddetti “haters”, i le jene da tastiera) ma non sono “istituzionalizzati”: non esiste il pulsante “non mi piace” nel social. Proprio per questa assenza volontaria, la piattaforma è organizzata per favorire l’espressione dell’empatia, delle reazioni affettive positive, degli slanci di seduzione.
Si è potuto affermare che Facebook fosse una “utopia sociale” perché è basata sulla “negazione del nemico”. Tuttavia, non sembra affatto uno spazio privo di ferite soggettive, da rischi emotivi e perfino da una forma di competizione simbolica legata alla ricerca di riconoscimento.
Giacché su Facebook gli internauti cercano di uscire dall’anonimato, rivaleggiano in originalità o in humour e danno un’immagine lusinghiera di se stessi per ottenere un gran numero di like, suscitare attenzione e interesse, essere popolari, diventare “minicelebrità”.
Il rischio non è lo scontro con gli altri ma quello di avere pochi amici, di essere irrilevanti, di non ricevere like e commenti positivi. In compenso, questi permettono di rafforzare la stima di sé, lusingare l’ego, rassicurare il soggetto sul suo potere di seduzione.
L’espressione delle emozioni è diventata centrale sul web non in ragione delle incitazioni a interagire per rivelare dei dati, ma in risposta alla destabilizzazione della personalità, alla incertezza crescente dell’identità, al desiderio di essere integrati in una comunità, al bisogno di gratificazione rapide e di guadagni narcisistici degli individui.
INSTAGRAM
Ma è Instagram, lanciata il 6 ottobre 2010, il social più nuovo e interessante perché ha instaurato un nuovo linguaggio globale che ha preso il sopravvento sulla parola scritta. Grazie a Instagram, “io scrivo foto”.
Perché la velocità della tecnologia deride la lentezza di un sms, di un tweet, di un testo. Instagram ci fornisce una filosofia di salvezza. La realtà come volontà e rappresentazione fotografica.
Avere diciotto anni, almeno sul fronte del digitale, significa ragionare con lo sguardo e non più per vocaboli. Niente risulta più insopportabile di una persona anonima, neutra, priva del suo codice di immagine. Perché la qualità della vita si misura sulla qualità dell'immagine.
E pubblicare una propria foto privata diventa un “pensiero visivo” per catturare l’attenzione degli altri. “Mi vedo vedermi. Siamo degli essere guardati nello spettacolo del mondo” (sentenziava lungimirante Lacan).
Fatta fuori l’ingombrante macchina fotografica, la foto - prima arte democratica della storia - si è reinventata come semplice applicazione di quel supermedium tascabile che è lo smartphone. McLuhan è stato il primo a sostenere che la macchina fotografica rende obsoleta la privacy.
Aveva perfettamente ragione: ora tutto è visibile, le persone, le case, gli oggetti, le azioni. I selfie da questo punto di vista non aggiungono niente di nuovo. O meglio: uniscono lo specchio e la macchina fotografica.
IO SONO LA MIA FICTION
Partendo da questa tesi (lo smartphone è il mio terzo occhio), entra in ballo l’aspetto più disturbante e seduttivo: la nostra identità digitale. In un mondo globalizzato che non dà lavoro né assicura benessere - i Millenials ieri, la Generazione Z oggi - devono fare affidamento sul proprio “marchio”. Si tratta di un'esperienza interiore di sé, piuttosto che uno stato oggettivo di essere famoso.
Se l’invenzione della fotografia è stata il preludio dell’arte moderna, la smaterializzazione dell'immagine – la trasmigrazione dalla carta al display - è diventata l’arte di costruire il proprio “brand”, il proprio marchio personale. Io sono di fatto il presidente, amministratore delegato e responsabile marketing dell’azienda chiamata “Io Spa”.
Benvenuti alla “Società dello spettacolo” preconizzata nel 1967 da Guy Debord. Io sono la mia fiction, perché la rivoluzione digitale ci dà la possibilità di creare una vita parallela attraverso i social.
Ecco un essere umano multitasking che non è cpiù ostretto a essere lineare. A essere inchiodato in un luogo mentale. A farsi dettare dal mondo la struttura dei suoi pensieri e i movimenti della sua mente.
La nostra rappresentazione sociale non può più, ormai, non passare per la rete in modalità immagine. Infatti la vita, grazie ai social network, è diventata una battaglia per inventare se stessi. Una battaglia tra ciò che siamo e ciò che vorremmo essere.
Pubblicare una propria foto privata e un modo per catturare l’attenzione degli altri. Come scriveva George Bernard Shaw: ‘’La vita non consiste nel trovare te stesso. La vita consiste nel creare te stesso’’.
Foto dopo foto, post dopo post, arriviamo al punto più centrale. Nessuno è soddisfatto di se stesso. Perfino i nostri antenati greci, che hanno inventato la civiltà, dalla politica alla letteratura, dall’arte allo sport, hanno sentito la necessità di inventarsi e nutrirsi di un mitologico mondo parallelo, un Olimpo affollato di Marte e Giove, Venere e Mercurio, per lenire la propria insoddisfazione.
Lo sappiamo bene di essere fatti male: la felicità dipende dalle nostre aspettative e non dalle effettive condizioni in cui viviamo. Quindi, nonostante i miglioramenti enormi di quest'ultime, l'insoddisfazione è sempre la stessa. La normale reazione umana al piacere non è soddisfazione, ma ulteriore ricerca del piacere.
DAGOSPIA ON LINE
Nel 1991 c’era un solo sito Web: quello di Berners-Lee. L’anno dopo diventano 9. Nel ’93 erano 130. Nel ’94, 2 mila 738. Nel ’95, 23.500. Nel ’96, 257 mila. Il 23 maggio del 2000 appare in rete Dagospia.com: avevo 52 anni, avevo lavorato in tutti i grandi giornali e settimanali e, tra la diffidenza di moltissimi, avevo capito che quell’era cartacea apparteneva al secolo scorso.
Iniziai da solo, postando tre articoli al giorno. Dopo appena una settimana mi girarono una notizia clamorosa che riguardava l’acquisizione da parte dell’Enel di una rete televisiva: uno scoop che, per motivi pubblicitari, nessun giornale poteva permettersi di pubblicare.
Ebbi allora la conferma che c’era gente che aveva bisogno di Dagospia, di un mezzo ibero dalla ragnatela del potere economico e finanziario. Google era ancora agli inizi, i social e le App erano di là a venire, in libreria esistevano enormi libri con gli indirizzi dei siti, una specie di Pagine Gialle di Internet: mi ricordo bene di quando consegnavo alle persone dei biglietti con su scritto www.dagospia.com.
Dagospia vide la luce con l’idea di creare un boutique dell’informazione, una portineria elettronica capace, davanti al ciclone di fatti e opinioni di cui cominciavamo ad essere sommersi, di sintetizzare per il lettore ciò che contava davvero sapere, dalla politica al pettegolezzo, dall’economia ai retroscena della finanza.
A tutto ciò, va ad aggiungersi il ruolo nevralgico e fondamentale di “spia”. Nel mondo politico e in gran parte del giornalismo italiano assistevo da tempo a un fenomeno: la "scomparsa dei fatti".
Come l'informazione in Italia, salvo rarissime eccezioni, era programmaticamente svuotata di contenuti, smarrendo del tutto la sua funzione originaria. Era successo che tutta la stampa italiana non era più in mano a editori puri ma a imprenditori che avevano acquisito quotidiani soprattutto per esaltare i loro interessi e per far scomparire le notizie scomode che li riguardavano.
La principale tecnica della disinformazione operata dai media in Italia era, ed è tuttora, l'arte del parlar d'altro o nel concentrarsi su aspetti marginali e fuorvianti della notizia stessa, così da oscurarne il ben più importante contenuto: titoli “pettinati”, interviste senza domande, articoli da prima pagina che finiscono con taglio basso e senza foto a pagina 15.
Un'altra importante tecnica di disinformazione: la trasformazione delle opinioni in fatti. Ossia, per evitare di raccontare dei fatti, molte volte scomodi al potere, si lascia la cronaca dei fatti agli opinionisti, in modo da sostituire i fatti con le loro opinioni.
In un paese dove lo scontro ideologico è diventato la prassi, gli esempi di questa manipolazione abbondano ovunque. C’è chi li nasconde perché non li conosce e non ha voglia di informarsi, perché altrimenti non lo invitano più in certi salotti, perché contraddicono la linea del giornale, perché è meglio non scontentare nessuno e magari ci scappa una consulenza con il governo o con la regione. Il vecchio motto del giornalismo - “I fatti separati dalle opinioni” - è stato soppiantato da uno molto più pratico: “Niente fatti, solo opinioni”.
Nietzsche dice che esistono le interpretazioni, ed è vero, ciascuno di noi interpreta le informazioni che riceve. Ma quelle informazioni devono pur esistere. Possiamo avere interpretazioni diverse sul significato di una cifra, ma devo almeno avere una cifra, e deve essere corretta.
Diceva Aldous Huxley: ‘’I fatti non smettono di esistere solo perché li nascondiamo’’. Dagospia mira ad agire come un agente segreto tra le pieghe e le piaghe di una informazione istituzionalizzata: insomma quella che negli anni Sessanta si chiamava “controinformazione” e funzionava con il ciclostile sfornando volantini. Questo è stato il talento di Dagospia in 20 anni di esistenza e lo dimostra ogni giorno con 3,5 milioni di pagine viste: dar vita a un ciclostile digitale.
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projectazone-blog · 7 years
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Riporto le mie impressioni riguardo questo kit per console. In realtà ne ho già creato uno in passato e devo dire che c’è voluta molta pazienza e tempo per riuscire ad assemblare proprio tutto.
Consegna non troppo veloce, ma nemmeno così eccessiva. L’imballaggio ben curato e sistemato.  Questo kit di montaggio serve per realizzare un vecchio cabinato, come quelli degli anni 80 all’interno di sale giochi e bar.  Amo molto Bubble bobble, Pacman e molti altri e giocarli da PC non mi entusiasma come lo potrei fare da un vecchio cabinato e allora mi sono chiesta, perchè non costruirne uno? E l’ho fatto, ma non era per me… ma ora con questo kit di montaggio posso cominciare la messa in opera. Ovviamente non bastano questi pulsanti per fare tutto, ma è una base di partenza perchè per realizzarlo servirà molto di piu’.
Servirà la struttura, un monitor e un software che permetterà di far girare sul cabinato tutti i vecchi Mame. Questo kit è necessario per far si che i comandi possano essere inseriti, infatti è composto da:
2 Schede Encoder 2 Cavi USB 2 Cavi da 5 pin per joystick (1 nero e 1 bianco) Pulsante 16x30mm (8 pezzi neri e 8 bianchi) Pulsante 4×24 mm (2 pezzi neri e 2 bianchi) 26 cavi per pulsanti
Una volta montato, tutto funziona perfettamente… anche i microinterruttori del controller si collegano immediatamente.  Con questo kit si hanno pulsanti a quantità, infatti non li ho usati tutti, alcuni sono rimasti di riserva.
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Arcade Game Kits for Rapberry pi, Quimat 2 player Zero Riporto le mie impressioni riguardo questo kit per console. In realtà ne ho già creato uno in passato e devo dire che c'è voluta molta pazienza e tempo per riuscire ad assemblare proprio tutto.
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