#e senza la protezione occhi non riuscivo a stare
Explore tagged Tumblr posts
Text
Sanremo 2024 - il momento in cui Riccardo Cocciante vede Rich per la prima volta (e resta sconvolto) 🩷🛸
clip da Sanremo dietro la quinta (documentario)
io lo avrei abbracciato forte invece 💞
#rich ciolino#festival di sanremo#sanremo 2024#ghali#casa mia#extraterrestrial#so sweet#erano le 4:20#e senza la protezione occhi non riuscivo a stare#avevo le cuffie ma c'era believer degli imagine dragons che rendeva tutto più figo 😍#sanremo dietro la quinta#io lo avrei abbracciato forte invece#oppure avrei infartato davanti a lui#per la troppa tenerezza#e poi im in love coi rumorini che fa
0 notes
Text
Non sto bene, ma sto meglio.
“Ok, ci vediamo il prossimo martedì”
Panico.
Per più di una settimana nel caos della mia mente sono stata in conflitto tra la codarderia e il coraggio di guarire.
Avrei potuto continuare a fingere di non aver nessun bisogno di aiuto, avrei potuto continuare a nascondermi sotto quel velo di sarcasmo, avrei potuto continuare a guardarmi allo specchio ed accettarmi così tra lacrime e rabbia.
Si, avrei potuto e sarebbe stato più facile, ma non avrei mai più potuto guardarmi negli occhi e perdonarmi di essermi lasciata così andare.
“Buonasera, Alessia, cosa la porta qui?”
La mia psicologa mi inizia a parlare e io comincio a vederci sempre meno chiaro, tremando le spiego i miei motivi e lei con uno scudo di leggero distacco annuisce e sibila poche frasi tra i miei silenzi.
Nella mia testa inizia così ad arrivare, come un temporale improvviso, la consapevolezza che da quel fatidico “martedì prossimo” nulla sarebbe stato lo stesso.
Per molto tempo, non necessario (ma questo l’ho imparato a posteriori), è stato un segreto.
Temevo le reazioni delle persone a me vicine, proiettando su di loro una paura che apparteneva solo a me.
Avevo il timore che non si vedesse come una “cosa normale”, quando ero io a non trattarla come tale.
Seduta dopo seduta, tutto ciò che ho sempre temuto di affrontare mi si presentava alla porta non lasciandomi la possibilità di scegliere.
Devi avere un faccia a faccia con tutto ciò che non ti appartiene e riconoscere il momento giusto per lasciarlo andare.
“Scusi”, sussurro tra le lacrime alla dottoressa e lei sorridendo mi invita a non scusarmi mai delle mie lacrime, sono il risultato di un dolore troppo grande represso troppo a lungo.
Io rimango in silenzio, comprendendo fino in fondo che quelle stesse lacrime non si sono mai meritate il mio scherno.
Il mio dolore non si sarebbe meritato di vivere in una gabbia così tanto a lungo perché sono troppo testarda per ammettere di dover aver bisogno di aiuto.
Nessun dolore lo meriterebbe mai.
Io… Io che sento il peso del mondo come se fosse una mia responsabilità.
Io che a fatica accetto una mano tesa a tirarmi su, io non so come si faccia a chiedere aiuto.
Indosso la mia armatura di finta convizione e sorrisi convinti di essere veri e continuo a correre senza nemmeno conoscere la mia stessa meta.
Non crollo, mai.
Non prima di allora.
“Se ti comporti da forte, le persone ti tratteranno da forte, a loro fa più comodo così”.
A me andava bene così, perché sono sempre stata una codarda che si accontentava di non dover mai parlare di nulla, di tenere quel dolore in un cassetto sperando che un giorno, abbandonarlo lì sarebbe significato non doverlo affrontare mai.
E invece lui tornava, usciva dal cassetto e si insediata in ogni cosa che facevo. Non riuscivo a studiare, a piangere, a camminare, ad accettare anche la cosa più bella e soddisfacente della giornata.
Lui era lì, sottoforma di mostro grigio di ansia e senso di colpa.
Lui non se n’è mai andato e ha sempre lottato con più caparbietà di me.
Più si ingrandiva dentro di me, e più veniva meno lo spazio per la vera motivazione, le passioni, il bene.Più lui si faceva forte più io diventavo piccola.
Minuscola in riva al fiume, tra lacrime e voglia di mollare la presa, ho deciso che non avrei potuto più continuare a chiuderlo in una gabbia e ignorarlo.
Ho preso l’ultimo grido di disperazione e l’ho trasformato in un grandissimo, faticoso salto nel vuoto.
Sono cinque mesi che sono in terapia, e non c’è giorno nel quale rimpiango la mia decisione.
Sono cinque mesi.... che tornassi indietro a quella codarda dentro di me la prenderei a sberle.
Sono cinque mesi che ogni volta che mi guardo allo specchio, giorno dopo giorno, vedo rimettersi insieme i pezzi.
Non sto bene, ma sto meglio.
Mi sono allontanata dal peso del resto del mondo, riuscendo finalmente a sentire una connessione con le mie persone. Mi sento più vicina alle persone che amo, una vicinanza che fino ad ora mi sembrava impossibile da sopportare.
Mi sto perdonando per aver perso e preso tempo, mi sto lasciando andare all’idea che i giorni no esistono per tutti, e per quanto sia difficile da ammettere non si può far altro che cadere, rialzarsi e imparare da essi.
Mi sto regalando del tempo che non pensavo di meritare, e li sto riconoscendo, finalmente, i miei meriti.
Guardandomi allo specchio riesco a vedere, in fondo agli occhi, quel piccolo mondo che mi soddisfa.
Non mi voglio ancora troppo bene, ma sto imparando a non negarmi le cose belle che ci sono in me.
È molto difficile guardarsi dentro, riconoscere di essersi persi, reimpostare la bussola e cercare di non perdersi di nuovo.
È un gioco a cui devi stare senza condizioni, per conoscerti davvero devi accettare anche ciò che non sei, ciò che non sei mai stato.
Togliere tutte le infrastrutture. Abbattere quei muri che per protezione avevi eretto e dai quali ti sentivi protetta, che con il tempo, però, si sono rivelati la cosa che è arrivata a soffocarti.
Non sto bene, ma sto meglio.
E la strada è ancora molto lunga, e con la mia testa di minchia probabilmente sarà sempre più contorta.
Ma per la prima volta, nella mia vita, mi guardo dentro e so che tutto questo lo sto facendo per me stessa. Non per seguire nessuno schema, ma per guarire le ferite abbandonate da tempo.
Non sto bene, ma sto meglio.
Prendetevi cura di voi stessi.
Siate sempre la vostra unica e sola priorità, il vostro tempo negato non lo riporta indietro nessuno.
Non lasciatevi convicere di non aver abbastanza problemi per chiedere aiuto.
Viviamo in un mondo di macchine, è bene non perdere la propria anima.
#psicologia#psicologa#attacchi di panico#ansia#io#scrittura#frasi#citazione libro#citazioni#libro#pensieri#tumbrl#ragazze#girls#cura di se stessi#terapia#terapista#percorso
3 notes
·
View notes
Text
Dream Journal #1
- The beginning - 110325 -
Ero lì. Ricordo, che ero molto piccola. Dieci, undici anni al massimo. Mi trovavo nelle zone più alte della montagna che sovrastava il mio villaggio. Raccoglievo fiori, e sassolini colorati, ero seduta sotto una rientranza creata da delle rocce rotolate giù da una vecchia frana. Andavo spesso in quel posto, si stava bene ed era divertente giocare su quei prati. Poco più in basso c'era la foresta, e ancora più giù il dirupo che tagliava a metà la valle. Lassù la primavera si poteva sentire in ogni molecola dell'aria che si respirava. C'era vento, era leggero, e frizzante, mi pungeva il naso. Indossavo una tunica di cotone azzurro, ricamato sullo scollo e sui bordi delle maniche e della gonna con fili color sole, e al polso avevo un nastrino azzurro. Dalla schiena spuntavano le mie vecchie ali. Erano così piccole all'epoca, avevano ancora un po’ del piumaggio da cucciolo, erano marroni sulle punte con piume lucide e precise, e color sabbia sulle basi, dove le piume erano morbide, e più simili ad una peluria scompigliata. Era da poco che iniziavo a fare prove di volo, magari lanciandomi da piccole altezze, per vedere quanto riuscivo a trattenermi in aria, e quanto potevo arrivare in alto. Quello mi sembrò il momento perfetto per effettuare una prova di lancio. Misi addosso la tracolla, mi ravviai una ciocca dei capelli color menta, bloccandone la frangia con un piccolo fermaglio. Iniziai a sbattere le ali, stiracchiandole e preparandomi per spiccare il volo. Mi alzai da terra a fatica, ma dopo poco riuscivo già ad essere abbastanza in alto da poter vedere le pianure che si estendevano oltre il dirupo. Iniziai a volare goffamente, mantenendomi a poca distanza da terra, per evitare che magari cadendo, potessi farmi troppo male. Dopo una manciata di minuti che zigzagavo fra gli alberi, decisi di alzarmi di quota, giusto di qualche metro, tanto per vedere oltre gli alberi, e capire dove stessi andando. Era bello guardare tutto da lassù, vedevo le fronde verde scuro delle querce , vedevo come la foresta proseguiva in discesa, verso il dirupo, e fu allora che lo notai.
Un sentiero, al quale non avevo mai fatto caso, che conduceva dalla foresta proprio sul picco più sporgente del crepaccio. Lì c'era una strana costruzione, sembrava un qualche tipo di fortificazione, era grigia e scura rispetto a tutto il resto dell'ambiente intorno. Scesi a terra, decidendo di continuare a piedi, più per stanchezza che per altri motivi. Ero piena di curiosità, chissà cosa era, magari avrei trovato un tesoro come uno di quei grandi esploratori della città. Presi dalla tracolla una delle mele che mi ero portata, ci soffiai sopra per spolverarla, e ne strofinai un lato sulla stoffa della tunica, era bello vedere come il suo rosso diventasse più vivo e lucido. La addentai, saltellando di roccia in roccia, su quel sentiero. Sfido che io non lo avessi notato, l'effettivo segno del camminamento si poteva vedere solo dall'alto, e tutto attorno era stata lasciata l'erba alta, le rocce, le radici sporgenti, tutto lasciato come se dovesse effettivamente rimanere nascosto. Chi sa perché.
Continuando a camminare notai che la viottola era segnata di tanto in tanto da due rocce perfettamente levigate poste ai lati. Seguii le pietre, mentre il bosco iniziava pian piano a sfoltirsi, tutto diventava pian piano secco, grigio, smorto. Il sentiero ora era fuori dal bosco, il terreno era duro, come se fosse pietra, ed era coperto solo di rocce e arbusti di rovi secchi. Ormai ero quasi vicina alla costruzione, e con mia grande sorpresa mi resi conto che non erano rovine di una qualche fortezza come avevo pensato inizialmente, ma era un enorme e vecchissimo albero. I rami erano quasi tutti spezzati, formavano qualcosa simile ad una corona, che effettivamente dall'alto poteva essere scambiata per la cinta di merli che solitamente ha una torre. Più mi avvicinavo più i particolari si facevano nitidi. La corteccia era aggrovigliata, di un colore pallido, e vi erano avvolti attorno dei fili, con dei pendenti di pietra nera. Poggiai una mano sulla corteccia, accarezzandola con la punta delle dita, sembrava come di toccare un blocco di arenaria. Girai attorno all'albero guardando i pendenti. Erano sigilli, con su incise delle rune di protezione. Ero curiosa, ed entusiasta di quella scoperta, non vedevo l'ora di farlo vedere ai miei amici! Nel lato dell'albero più esposto verso il dirupo, trovai una strana apertura, non come i classici fori dove vivono allegri scoiattolini, una specie di grata composta da rami intrecciati, come se fosse...una prigione. Mi allontanai di qualche passo guardando l'albero nella sua interezza, c'erano punte di frecce un po' ovunque, bruciature grigiastre e segni di graffi. Non li avevo notati prima...credo si fossero confusi con i motivi della corteccia. Mi avvicinai nuovamente alle sbarre, avvolgendovi le mani per vedere cosa ci fosse all'interno. Magari era un nascondiglio segreto per qualche tesoro. La mia mente di bambina viaggiava ben più alta della realtà che di lì a poco mi si sarebbe presentata davanti. Stringendo gli occhi per poter guardare con più accuratezza ciò che era all'interno quasi non mi venne un colpo quando sentii qualcosa muoversi, e vidi due enormi occhi azzurri puntarsi verso di me, avvolti dalla più totale oscurità. Strinsi le mani attorno alle sbarre con timore, ero spaventata, non sapevo cosa fare. Rimasi lì a fissare quegli enormi occhi, quando un movimento di quella Cosa non mi fece destare da quell'impietrimento. Si stava avvicinando all'apertura, però non venne sotto la luce diretta, si fermò poco più vicino. Riuscivo a vedere molto poco della sua figura, riuscii a riconoscere la forma di due grandi ali, rosse a giudicare dai riflessi delle piume. Non riuscivo ancora a identificare cosa fosse, aveva i capelli lunghi, neri come la pece. Iniziò a parlare, con un filo di voce, mentre continuava a guardarmi, sembrava essere impaurito quanto me, se non di più.
<<Hai... Qualcosa da mangiare...?>> Riuscii a sentire, sforzandomi non poco. Rimasi per un attimo ferma, a pensare su cosa fare effettivamente, per poi prendere coraggio, e iniziare a parlare.
<<Cosa ci fai qui? Dov'è la tua mamma? E il tuo papà?>>
Attesi una risposta, che però non arrivò, ricevetti solo altre occhiate spaventate e confuse. In silenzio presi dalla tracolla l'ultima mela che mi era rimasta, e la spolverai sulla tunica, per poi porgerla all'oscurità fra le sbarre.
<<Tieni. Ho solo questa.>> Dissi, quasi giustificandomi.
La mela era colpita da un singolo raggio di luce che la faceva brillare ancor di più nell'ombra, vidi le sue mani, piccole, tremanti, dalla pelle nera, afferrare timide la mela, che poi scomparve nell'oscurità. Doveva avere davvero fame, perché per una buona manciata di minuti non parlò più. Mi guardai intorno, cercando di capire perché fosse lì dentro.
<<Tu, sei un maschio, o una femmina?>> Chiesi ancora, presa dalla curiosità.
<<Sono un maschio. Non ho una mamma ne un papà, loro non mi volevano. Sono solo.>>
La sua voce era così triste che mi si strinse il cuore.
<<Beh non sei più solo! Ci sono io ora! Mi chiamo Gwen, e tu?>>
Ero una bambina dopotutto, il detto "non dare confidenza agli sconosciuti" era ancora solo una regola stupida degli adulti. Lui non rispose alla mia domanda, ma emise una specie di ringhio, iniziando poi ad urlarmi contro. <<Vattene via!! Non lo sai che sono pericoloso? Secondo te perché sono chiuso qui?? Tanto nessuno mi vuole. VATTENE VIA!>>
Lo vidi rintanarsi nell'angolo dal quale era uscito, la sua voce era spezzata, come se stesse per piangere. Mi alzai, iniziando ad allontanarmi, offesa da quel suo comportamento. Volevo solo essere gentile. Mi bloccai poco prima di entrare nel bosco, e lanciai un occhio all'albero. Sbuffando misi le mani attorno alla bocca e urlai. <<Guarda che non mi arrendo!! Tornerò presto!!>>
Speravo con tutto il cuore che mi avesse sentito, sorrisi tra me e me, fiera di ciò che stavo facendo e gongolando corsi verso casa. Non sapevo che oltre a lui, anche qualcun altro mi aveva sentito, lo avrei scoperto solo il giorno dopo.
La mattina dopo mi svegliai presto, misi degli abiti più comodi e riempii la borsa di mele e qualche vestito per poi uscire di casa e correre di nuovo in alta montagna con la scusa di raccogliere dei fiori. Non appena arrivata lassù, mi alzai in volo, ancora goffamente, e cercai dall'alto il sentiero, mi avvicinai, sbattendo le ali più veloce che potevo per avvicinarmi il più possibile al crepaccio. Atterrai malamente sul limitare del bosco, e cadendo mi sbucciai un ginocchio. Mi morsi le labbra mentre gli occhi mi si gonfiavano di lacrime, ma dovevo fare una cosa più importante. Dovevo essere una bimba grande. E le bimbe grandi non piangono per un ginocchio sbucciato. Trattenni le lacrime come meglio potevo e stringendo la tracolla fra le mani zoppicai verso l'albero. Mi avvicinai alle sbarre e mi sedetti lì in basso, erano abbastanza basse da poter stare seduti, e poter guardare dentro senza impedimenti. Tirai fuori dalla borsa una mela e la lucidai soffiandoci sopra poi guardai dentro, cercando con lo sguardo quegli occhi azzurri.
<<Hey? Ci sei? Ti ho portato altre mele, non sono riuscita a trovare altro.>>
Risi giustificandomi imbarazzata mentre tendevo la mano nell'oscurità, aspettando. Sentii la mela alleggerirsi, e la vidi sparire nel buio, esattamente come il giorno prima, poi li vidi. I suoi occhi, azzurri come degli zaffiri giganteschi, e luminosi come piccole lune. Sorrisi stringendo le mani attorno alle sbarre mentre le lacrime mi rigavano ancora le guance.
<<Mi piacciono le mele. Sono dolci>> lo sentii sussurrare, sorrisi ancora i più, ero felice gli piacessero. Mi asciugai le lacrime con un manicotto della camicia mordendomi ancora le labbra."Le bimbe grandi non piangono" pensavo fra me e me, cercando di auto convincermi che il dolore sarebbe presto passato, e che non dovevo piangere.
<<Perché piangi?>> Con sorpresa alzai lo sguardo verso l'interno, e lui mi guardava, con curiosità e preoccupazione, sorrisi facendo spallucce e mi asciugai il viso.
<<Io non sto piangendo! Sono grande! Mi sono fatta male, ma non sto piangendo! E' solo un pò di polvere negli occhi.>>
Lo vidi fare spallucce, per poi continuare a mangiare la mela, con un leggero sorriso stampato in volto.<<Lo sai che io so quando qualcuno dice le bugie?>> Arrossii imbarazzata, e arrabbiata, non mi piaceva che mi desse della bugiarda.
<<Non è vero, sei un bugiardo!>>rise. La sua risata, non la avevo mai sentita, era dolce. Presi dalla borsa una scatolina, dentro la quale avevo messo altre due mele e la calai nell'albero con il mio nastrino azzurro.
<<Lì ci sono altre mele. Ti ho portato anche dei vestiti. Li ho rubati a mio fratello, a lui non servono più.>> Lo vidi prendere la scatola e tornare nell'ombra, a quell'ora la luce che entrava dalle sbarre era forte e calda, riuscivo a vedere meglio la sua figura ed ebbi la conferma del colore delle sue ali, rosse come il fuoco, erano molto grandi rispetto alle mie.
<<Le tue ali sono bellissime!! Non le ho mai viste rosse!>> Sorrisi, poggiandomi al tronco dell'albero mentre di fretta tiravo fuori dalla borsa i vestiti di mio fratello, li feci entrare fra le sbarre e li lasciai cadere.
<<Anche io ho dei fratelli, ma non so dove sono. Mi mancano molto. Ma tanto è inutile che spero di vederli, non uscirò mai da qui.>> La sua voce si era fatta più cupa e triste. Lo vidi rintanarsi di nuovo in un angolo, e rimase in silenzio. Sospirai tristemente, pensando a cosa potessi fare. Il mio sguardo si posò sulle corde attorno all'albero, e ai sigilli legate ad essi. Presi dalla borsa un coltello ed iniziai a tagliare una corda. Non appena la toccai questa iniziò a bruciare, ma senza consumarsi. Mi staccai subito guardando la mano, dove si stava formando una scottatura sulle dita e parte del palmo. Mi morsi le labbra, faceva male, ma non quanto mi sarei aspettata. Presi coraggio e trattenendo il fiato ripresi a tagliare le corde. Faceva ancora più male, caddi a terra stringendomi la mano mentre piangevo in silenzio. Lui mi accarezzò il viso, facendo passare la mano fra le sbarre. Con sorpresa lo guardai, mentre le sue mani prendevano le mie. La sua pelle era totalmente nera, aveva le dita affusolate e piccole, ancora da bambino, mi accarezzò la bruciatura, che piano iniziò a guarire, lasciando il posto solo ad una cicatrice rossiccia. Mi sorrise e tornò subito nell'ombra.
<<Grazie per averci provato, ma ti faresti troppo male se continuassi. Ti prego ora, vattene via, e non tornare più, non voglio che altri si facciano male a causa mia.>> Guardavo la mia mano guarita come incantata, con un sorriso ebete e incredulo stampato in faccia, poi realizzai cosa aveva detto e mi bloccai, cambiando repentinamente espressione. Lo guardai con tristezza, tornando a stringere le sbarre.<<Non voglio tu rimanga solo... >>
<<TI HO DETTO DI ANDARTENE!>> Mi urlò contro, ringhiando e mostrando le zanne, come un animale in gabbia. Indietreggiai di poco spaventata. Avevo paura certo, ma ero tanto timorosa, quanto testarda, e non mi sarei arresa tanto facilmente. Ormai era una questione personale. Presi di nuovo il coltello, ed iniziai a incidere le sbarre, sperando che queste si tagliassero. La lama era già a metà della prima sbarra quando una freccia si conficcò nel legno accanto a me. Mi girai lasciando il coltello conficcato nel legno, e mi alzai timidamente, timorosa. Degli uomini in armatura mi puntavano le armi contro. Uno di loro mi si avvicinò con passo veloce, e mi prese per il collo alzandomi e spingendomi addosso al tronco, sentivo la gola stringersi, sentivo l'aria diventare sempre di meno. Avvicinai le mani a quella dell'uomo, piangendo. non riuscendo quasi a parlare.
<<Questo luogo è proibito, non lo sai ragazzina? Cos'è vuoi liberare questo mostro? Sei forse una strega? Rispondimi piccola bastarda!>> Mi urlava contro, stringendo ancora la presa attorno al mio collo. Singhiozzavo, dimenandomi cercando in ogni modo di liberarmi.
<<N-on è giusto lui sia qui da solo... è solo un bambino.>> Sussurrai strozzata mentre gli occhi mi si chiudevano. Sentii l'uomo urlare ancora, ma stavolta era un urlo più acuto, di dolore, la sua presa attorno al mio collo si fece più stretta per qualche secondo, e poi mi scaraventò a terra. Sbattei la testa. Perdevo sangue dal naso, vedevo solo piccole parti di ciò che accadeva. L'uomo aveva il mio coltello conficcato nella gamba. Iniziò ad urlare contro l'apertura dell'albero, imprecando contro il ragazzino, poi si avvicinò di nuovo a me, e iniziò a prendermi a calci.
<<Vedi? Questo, è quello che succede a quelli che si avvicinano a Te.>> Ogni sua parola era scandita da un calcio, e da un colpo e mentre parlava guardava l'albero. Sentivo le ossa spezzarsi, faceva male... piangevo, chiedevo pietà. Pian piano ci stavamo avvicinando al bordo del precipizio, sentivo il ragazzino urlare, pregandolo di non farmi precipitare. Sarebbe bastata una spinta, e sarei caduta.
<<Vedo che hai le ali mocciosa. Vediamo se sai volare.>> Rise, per poi spingermi un piede contro, e farmi cadere nel vuoto.Tutto sembrava rallentato, mi sentivo cadere, ma ero troppo debole per poter fare anche la minima azione. Chiusi gli occhi, ero stanca, perfino respirare era faticoso. Pochi secondi dopo persi i sensi, ma non del tutto,era come se fossi in una sorta di dormiveglia. Riuscivo a sentire cosa succedeva attorno a me, ma non capivo appieno la situazione. Sentivo delle urla, sentivo il legno spaccarsi, sentivo dei suoni raccapriccianti, di qualcosa che si rompeva, di qualcos'altro che veniva strappato.
<<Hey. Gwen...Svegliati>> Aprii gli occhi debolmente. Il ragazzino era sopra di me, mi teneva fra le braccia, sorrideva. <<Ah meno male, stai bene. Credevo fossi morta.>> Rise appena aiutandomi a mettermi seduta, ero piena di lividi e graffi, e lui era sporco un po' ovunque di macchie scarlatte. Aveva indosso gli abiti di mio fratello, non gli stavano troppo larghi. Mi poggiai a lui iniziando a piangere, e a singhiozzare, lo abbracciai e sprofondai con la testa nel suo petto.
<<Ho avuto tanta paura...>>Poi realizzai. Lo guardai negli occhi e gli toccai il viso, come incredula. <<Sei fuori...>> Sorrisi abbracciandolo forte, ero riuscita a farlo uscire, ero fiera di me! Lui sorrise, avvolgendomi con le sue ali, mentre guardava tutto attorno il flagello di corpi che lui stesso aveva causato, mi accarezzò la testa e sussurrò <<Devi essere stanca. Chiudi gli occhi, e riposa un po', starai meglio. Ora ci sono io a proteggerti.>>Come ipnotizzata obbedii chiudendo gli occhi, e stringendomi a lui.
<<Non mi hai detto ancora come ti chiami...>> Sussurrai a mia volta, ormai strascicando le parole, avevo così tanto sonno. Lui si avvicinò al mio orecchio, e bisbigliò il suo nome. <<Mi piace il tuo nome...>>Sorrisi, e mi addormentai.
3 notes
·
View notes
Quote
Non mi è mai piaciuto perdere il controllo di me stessa, e questo lo sai molto bene anche tu. Ma quel giorno era diverso, veramente tanto diverso, e mi chiedevo come mai mi sentissi qualcosa di strano dentro. Come quando ti senti che stai per prendere un brutto voto, quando non hai studiato e vorresti solo scappare, quando ti senti Che niente andrà come vorresti, come quando sai che la fine sta per arrivare e non capisci come fermarla, non capisci come muoverti in questo futuro in questa situazione. Io sentivo più o meno così, non capivo come comportarmi, mi sentivo instabile, mi sentivo come se non fossi al mio posto, oppure era stata l'unica volta che mi ero sentita veramente nel posto giusto al momento giusto. Non lo so ancora oggi se ci penso, sono ancora confusa come quel giorno. Quel giorno, ho conosciuto il mostro più bello della mia vita. Sì dico mostro, perché la vita me l'ha rovinata, e allo stesso tempo mi ha fatto sentire vivo con il suo amore non corrisposto, con il suo modo di trattarmi, con il suo modo di amarmi, con il suo modo di distruggermi, con il suo modo di distruggersi. La mia amica del liceo Vanessa mi aveva detto di stargli lontano, quando gli ho raccontato di lui mi aveva detto "stagli alla larga, io lo conosco, ti potrà solo dolore guai poi fai come vuoi tanto sei una testa dura, ma io ti amo lo stesso." Lei era sempre stata così, mi diceva quello che era giusto o non giusto fare, e poi io facevo di testa mia senza ascoltarla e poi magari me ne pentivo. Ma questa volta, anche se aveva avuto ragione, io non mi sono pentita di lui, di averlo conosciuto quel giorno di giugno e di aver condiviso con lui la mia vita per più di un anno. Forse ti chiedi chi è Vanessa, non l'hai praticamente mai conosciuta, era una delle poche amiche del liceo che avevo, sai il problema della solitudine non mi ha mai lasciato. Vanessa era una ragazza bionda, quello che azzurri che potevano incantare il mondo, aveva delle doti straordinarie che però non sfruttava, A volte preferiva lasciarsi sfiorire dal mondo, dalle sue paranoie, e dei giudizi degli altri. Vanessa è sempre stata così, allocchi degli altri forse poteva risultare meschina, acida e fredda ma chi la conosceva poteva benissimo confermare il contrario. Lei era semplicemente una ragazzina, le mancava l'amore, le mancavano gli affetti, forse perché nessuno si era mai preso cura di lei. Quanto la potevo capire, ed è per questo che eravamo tanto unite al liceo, entrambi cercavamo qualcuno che ci potesse salvare, quel qualcuno di mia madre. Allora per circa cinque anni, ci siamo date la forza a vicenda per continuare a vivere, per continuare a credere nell'amore, e a cercarlo con tutte le nostre forze. Io però Vanessa la conoscevo già, cioè amo conosciuta e quando eravamo piccole, perché abitavamo nello stesso paese. Il modo in cui ci siamo incontrate potrà forse stupirti, ma quale bambina, nella sua infanzia, non ha mai amato le Winx? Bene, io e lei le ricorderemo per sempre. Ecco perché noi non ci siamo mai incontrate a scuola, né per caso in un supermercato, e nemmeno grazie di amicizie comuni. Tanto tempo fa quando ancora non sapevo quasi nulla della vita, ero ingenua e spensierata e stavo giocando a recitare da sola, nella piazza del mio paese. Mamma quando non era ancora triste, si fidava di me e mi lasciava già da sola, forse perché non voleva responsabilità. Mentre stavo giocando tutta sola, vedo spuntare nel padiglione, che era stato allestito pochi giorni prima in onore della festa del paese, una bambina come me, stava anche lei giocando ed era sola. Aveva i riccioli biondi, due guance rosse e tanta felicità e vivacità. Se devo usare un solo aggettivo per descriverla, dirò sempre solare, perché lei era sole, emanava luce e calore, anche quando si sentiva estremamente sola. Quella sera ci siamo avvicinate e abbiamo inteso a recitare insieme, le Winx. Noi eravamo loro e dovevamo sconfiggere il male insieme. Quindi si, ci siamo conosciute giocando a fare le Winx. Fin da piccole volevamo sconfiggere il male insieme, come una sorta di protezione che sentivamo già una verso l'altra. Ecco perché quella volta mi disse di non innamorarmi di quel ragazzo, che mi avrebbe portato solo del male. Beh, ora Vanessa è cresciuta e io dopo il liceo ho praticamente perso tutte le sue tracce, ha voluto viaggiare spostarsi e conoscere il mondo, magari trovare l'amore perduto, magari trovare un po' di pace e quel sole che l'avrebbe rigenerata un po'. Vanessa però non smette non smette di avere quei riccioli biondi di tanti anni fa quelle occhioni grandi e blu che incantano tutti E le guance rosse. Da quel poco che ci sentiamo so ancora che a quella vivacità che non trovo e non ho mai trovato in nessun altro, con la simpatia che capace di farti stare bene anche una giornata dove tutto va storto. A volte odiavo la sua dinamicità, perché era sempre attivo, non voleva mai cadere, voleva farsi vedere troppo forte quando in realtà avevo un'anima fragile e dolce. Il suo non stare mai ferma mi faceva di colpo cambiare umore, perché io ferma ci stavo sempre, non riuscivo mai a muovermi, era come se la terra mi attirasse a sé e io non riuscissi più a spostarmi, e a vivere. L'ultima volta che ci siamo viste, gli ho detto che lei rimarrà sempre il mio sole. Quando sono con lei, riesco sempre a ridere, lei riuscirà sempre a strapparmi un sorriso. Quell'11 giugno, vidi un ragazzo moro bellissimo avvicinarsi a me. "Hai per caso una sigaretta?" "No non fumo, mi dispiace" gli dissi guardandolo a malapena in viso. Aveva degli occhi verdi ipnotizzanti. "Se non fumi, perché hai un pacchetto di Chesterfield blu in mano?" osservò lui. "Ah, questo intendi? No, hai frainteso, l'ho raccolto da terra perché mi ha colpito la frase." Gli mostrai la frase che mi colpì. "Molto poetica ma non corretta, fumare uccide molto di più che amare, con le ragazze basta giocarci se ti fanno soffrire, le droghe sono un'altra cosa." "E tu che ne sai?" "Mi conosci da due minuti e pretendi già di sapere la storia della mia vita?" "Mi conosci da due minuti e pensi già di interessarmi?" "Perché no." "Perché si." "Tosta la ragazza, ora devo andare ma questo è il mio numero, chiamami se trovi altre frasi poetiche in giro. Oppure se capirai che sei pazza di me. Ciao bella mora." "Ciao." Rimasi con la bocca aperta, quel ragazzo era bellissimo e sembrava pure intelligente. Mi intrigava moltissimo, lo vidi allontanarsi e desideravo solo che tornasse da me per sfottermi ancora un po'. Volevo solo osservare ancora per un po' i suoi occhi verdi, mi trasmettevano tranquillità, pace, passione. Chissà cosa intendeva con quella frase, so solo che per tutto il giorno pensai a lui, pensai alla storia che potesse avere. Tornai a casa e lo unico desiderio era quello di chiamarlo, chiederle di venire da me e parlarmi, parlare, parlare quello che la gente continuava a non fare con me.
6 notes
·
View notes
Text
La fine di un qualcosa.
Ok, sono passati mesi ed eccomi qua, ancora a pensarci. Ma sono calma e ho voglia di scrivere, perché ho capito quanto i rapporti umani siano così fragili. O almeno lo sono le persone. Basta poco per far scattare la scintilla e cambiare totalmente il modo di vedere della vita in generale. Fatta la premessa, iniziamo:
21 NOVEMBRE 2018
Lento inizio della fine. Era il compleanno di un amico, uno di quelli storici che ci sarebbe stato per sempre, a parer mio. Come gli altri invitati. Siamo sempre stati una comitiva affiatata e li ho sempre adorati. Ma di loro parleremo altrove. Comunque, siccome era una festa di 18 anni, ci incontrammo tutti in un locale per festeggiare (tutti tranne una persona, che aveva già quasi rotto i rapporti). In quella stessa sera noto due ragazze nuove, oltre alla fidanzata del festeggiato, mai viste prima. Non me le presentarono, feci io le presentazioni. Ripeto, non sapevo chi fossero. Dopo venti minuti buoni (più o meno) vedo un mio amico storico mano nella mano con una delle nuove e si accende la lampadina impolverata nella mia testa. Chiesi, in un misto tra eccitato e sconfortato: «È la tua ragazza?» Mi rispose di si. Da due mesi. Iniziai ad essere estremamente confusa e amareggiata. Mi chiesi “Ma io in due mesi dove sono stata?” Non pensavo fuori dal mondo, comunque. Fatto sta che la serata si svolse in maniera abbastanza tranquilla e mi divertii, per quanto ho potuto. Nonostante gli sguardi pungenti della nuova ragazza, tutto andò bene. Se non fosse stata per un’altra lampadina, più piccola, che si accese di fianco all’altra quando mi dissero che un altro di questi amici storici ci stava provando con la seconda ragazza che non conoscevo. Mi fu raccontato di come si fossero conosciuti tutti e in generale come è andato il flirt con queste ragazze. Iniziava a crearsi una crepa nel mio cuore, brutto segno. Non si creó per la gelosia, ma per il fatto di non esserci stata. Il mio cervello rischiava di andare in tilt. Qualche giorno dopo il compleanno, decisi di invitare tutti a casa mia il 1 Dicembre, per conoscere meglio le nuove arrivate e farle integrare all’interno di TUTTA la comitiva. Senza ancora capire che, oramai, eravamo stati tagliati fuori.
1 DICEMBRE 2018
Era un sabato, faceva freddo. Il mio ragazzo venne a casa mia dopo la scuola e andammo insieme alle prove della chiesa —che ho lasciato dopo questo giorno—. Al ritorno mia madre ci chiese di andare a fare la spesa, per prendere un po’ di cose sia per la serata, sia in generale. Al ritorno era già buio pesto ed ero impaziente di tornare a casa, al caldo, per passare una bellissima serata in compagnia. Eravamo quasi arrivati, mancava davvero poco. Bastava attraversare la strada e camminare altri 2 minuti. Ma quel tempo divenne così lungo che pensai che il tempo si fosse fermato. Attraversammo la prima metà di strada, tutto tranquillo. Nella seconda metà mi bloccai sullo spartitraffico, mentre il mio ragazzo inizió ad attraversare. Mentre era a metà strada un motorino lo prese in pieno e scivoló a terra. Non capivo. Vedevo tutto a rallentatore. Lui adesso era a terra e io immobile come una statua. Non riuscì neanche ad urlare o a muovermi. Non mi ricordo come arrivó giù alle mie gambe ma si aggrappò a me ed io rischiavo seriamente di svenire. Dopo un bel po’ di tempo, confusione e paura arrivó l’ambulanza che si portó via lui con mia madre. Attraversai la strada di corsa e trovai davanti ai miei occhi mio fratello ed il mio amico storico fidanzato da due mesi. Mi abbracciarono e mi lasciai andare. Iniziai a piangere come una bambina. Nel frattempo arrivó un altro amico e vedevo il mondo ancora più nero. Mentre camminavamo verso casa gli altri della comitiva mi chiamarono perché stavano fuori la porta di casa e nessuno apriva. Non riuscivo a parlare, passai il telefono al mio amico. Arrivati al cancello di casa sembravo uno zombie, salivo le scale meccanicamente senza pensare a nulla. Sentivo in lontananza le voci confuse delle persone fuori la porta, anche se erano vicine. Aprì la porta facendomi strada, guardando un po’ tutti negli occhi. Vidi i loro sguardi cambiare. Pochi secondi prima ridevano. Entrata in casa entrai in camera e continuai a piangere. Ogni cosa mi faceva piangere. Non m’importavano le loro parole di consolazione. Volevo andare dal mio ragazzo. Dopo minuti -interminabili- di attesa, la sorella del mio ragazzo mi chiamó per avvertirmi di scendere e portare un ricambio per lui visto che si era sporcato di pomodoro. Senza pensarci due volte mi fiondai giù con un pantalone di tuta ed un jeans. Non salutai nessuno. In ospedale passai ore interminabilmente dolorose, soprattutto dopo aver assistito alla lite del fratello più grande del mio ragazzo con delle persone che erano collegate all’individuo che aveva investito il mio fidanzato. Piansi ed in tre ore cercai di tenere i miei pensieri a bada con scarsi risultati. Finalmente, dopo 3 o 5 ore di attesa, tornammo a casa tranquilli. Non aveva nulla. Scrissi nel gruppo della comitiva che andava tutto bene. Sí, fui io a scrivere. Nessuno mi aveva mai chiamata o messaggiata dutante quelle ore. Io ed il mio ragazzo ci siamo ritrovati soli. Loro pensavano ad altro quella serata mentre il mio ragazzo ha avuto un incidente che poteva ucciderlo ed io sono sopravvissuta con un danno psicologico davvero profondo. Il mio cuore si spezza totalmente.
Dopo quell’episodio ho iniziato a stare davvero male. Mi sentivo fuori dal mondo. Ero in una bolla di dolore e non vedevo l’ora di uscirne. Ma si era appena formata. Il mio ragazzo stava a casa a riposare e un giorno, sentendosi alla play con uno dei nostri amici, quest’ultimo promise di organizzare per andarlo a trovare tutti. Alla fine non si fece più sentire e organizzai io quella maledetta serata in cui integrai anche la mia migliore amica che, con loro, non voleva più averci a che fare. Il giorno stabilito fu l’8 dicembre.
8 Dicembre 2018
Non ho molto da dire su questo giorno. Vorrei solo lamentarmi del comportamento sgradevole di molte persone. Nella mia bolla ero così rotta che qualunque cosa storta mi faceva male. Potrei raccontare del ritardo alla metto delle nuove ragazze, del loro comportamento non adeguato a casa del mio ragazzo. Oppure i continui sbaciucchiamenti del mio amico. O ancora di quando un amico si è chiuso a chiave con la quasi fidanzata per chiarire con lei. Mi basta soltanto elencare tutto ciò per far capire che, ormai, anche il mio cervello era andato in tilt. Cuore e cervello ebbero, quindi, un danno non indifferente. Da lì in poi nulla fu più lo stesso.
3 GENNAIO 2019
Era passato quasi un mese da quando ci eravamo visti tutti e, sinceramente, avevo ancora qualche speranza che tutto si potesse risolvere. Il 3 gennaio nutrivo evidentemente troppe speranze. Era il diciottesimo del più piccolo del gruppo e, mai come quella sera, mi sentii a disagio a stare con quelli che, fino a poco tempo prima, erano gli amici di una vita. Il distacco era palese a tutti. Era come se ci fossero stati 2 gruppi e nella mia testa uno era baciato dal sole e l’altro era esposto ad un temporale cupo e grigio. Ho provato il senso di abbandono. Volevo piangere quella sera. Ho evitato. Quelle persone erano degli sconosciuti.
Dopo quella sera ho passato notti insonni a piangere e a distruggermi. Ho continuato a chiedermi all’infinito cosa avessi sbagliato. Se fossi stata io il problema. Stavo troppo male. Ho perso una parte di me. Decisi, dopo l’ennesima notte, che non potevo affatto continuare così. Non potevo lasciarmi andare. Non potevo lasciare che il dolore, ormai più amico di loro, pendesse il sopravvento. Decisi di scrivere nella maniera più sincera possibile tutto ciò che provavo.
9 GENNAIO 2019
Alle 4:33 finisco di scrivere ed invio un lungo papiello, uscendo dal gruppo di whatsapp. Avevo paura di quello che potesse accadere ma non me ne pentii. Volevo essere sincera al 100% e smetterla di tenermi qualunque cosa dentro. Piansi per tutta la sera e tutto il giorno seguente grazie ai messaggi di tutti. Tutti bei messaggi ma..chi mi interessava di più mi diede la batosta finale. Erano 3 le persone che volevo sentire. Una fece una figuraccia, un’altra non era d’accordo con me e l’ultimo non si fece affatto sentire. Il mio intero corpo era a pezzi. Avevo capito, finalmente, quanto valevo per loro.
Mesi e mesi dopo qualcuno si fece risentire ma ormai ero segnata. Non provavo nulla. Volevo che continuassero a stare fuori dalla mia vita. Volevo che smettessero di continuare a sfondare i muri di protezione che mi stavo costruendo. Volevo che smettessero di farmi soffrire. E invece quando credevo di stare un po’ meglio sono arrivati di nuovo. Tutti tranne uno. Ho chiarito un minimo, ho parlato sinceramente con una persona ma sono sicura che gli altri credono che sia tutto ok, che sia stata fatta la pace. Eppure non capiscono che io ancora oggi ci sto male? Prendono i miei sentimenti così alla leggera? Credono che sia stupida?
Io li odio da morire. Ma allo stesso tempo non posso che volergli bene. Ogni tanto piango e loro sono spariti una seconda volta. Continuo a sperare ma stavolta sono apatica, indifferente alla vita.
Dovrei ringraziarli ma hanno fatto solo danni. Smettetela di farmi del male.
25/05/2019 23:02
0 notes
Text
Caro professore,
vorrei dirle tante cose che non ho detto oggi, in aula,davanti a tutti. Forse perchè non sono forte come sembro, forse perchè la voglia di stare in silenzio era maggiore della voglia di dirle tutto. Forse perchè negli altri continuo a vedere dei piccoli mostri pronti a giudicare, ad assalirti, a divorarti. Ci sono volte che non li vedo, volte in cui queste piccole allucinazioni restano al loro posto. Queste minuscole bestioline sanno entrarti dentro con infallibilità da maestre quando a infilarle è un mostro più grande di loro. Forse non le ho detto niente perchè oggi quelle parole, tante parole che le uscivano da bocca, circolavano nell’aula fluttuando leggere, quasi malevole, quasi come condanne a morte. Fluttuavano e ciascuno le osservava, guardandosi attorno, all’erta, guardinghi. E sa, professore, c’erano alcuni di noi più all’erta di altri. Si riconoscevano a primo impatto, li potevo contare. Erano più tesi, si guardavano più attorno, alcuni guardavano le mani, altri i piedi, nessuno guardava lei, nessuno guardava nessuno. E poi c’erano altri invece rilassati, che continuavano a chattare con l’iphone, oppure a scartare una caramella. Io li osservavo, i loro movimenti tranquilli mentre accartocciavano palline di carta per chissà quale scopo, e intanto sentivo montar dentro una paura talmente grande da far formicolare mani e piedi. Tante, piccole formiche fluttuavano nei miei arti, e i soliti suoni si dilatavano, come se nell’aula improvvisamente fosse calato un dissennatore, ma che dico centinaia di dissennatori. Scusate la punteggiatura, ma ho talmente tanto da vomitare da non riuscire a preoccuparmi anche di questo. Lei ci guardava tutti con una sfrontatezza, le posso dire, che trovavo fin troppo audace, fin troppo invadente. Mi dondolavo nella mia scomoda sedia e cercavo di concentrarmi sul trascorrere del tempo, sul fischio del microfono, su quante mattonelle componessero il pavimento di fronte a me. Avrei voluto dirle di parlarne in altri luoghi, avrei voluto chiudere le porte e finestre e dirle di parlarne piano; avrei voluto che non ci fosse tutta quella gente, perchè nonostante mi ripetessi costantemente il contrario, continuavo ad avvampare convinta che stesse parlando con me. Attraverso quelle sue lenti magiche e odiose non guarda nessuno e forse guarda tutti. Lei parlava, e parlava assai, e pure forte. Io guardavo lei, di sbieco e poi subito gli altri, tutt’attorno a me. Che penseranno? mi chiedevo. Che penseranno di noi? Mostriciattoli, tutti. E lei, professore, ha fatto anche ridere molti di loro con qualche battuta. Gliela perdono, so che lo fa per non far si che si distraggano. Qualche risata fa bene, e vabene. E intanto li vedevo ridere, li sentivo ridere. Mi si ghiacciava tutto. Sentivo i loro commenti a mezza voce. Sentivo la mia solitudine montare, piano. Sentivo il mio cervello dilatarsi nel sangue che pompava veloce. Intervallo e finalmente bagno. Bagno solitario, bagno da sola. Uno specchio, mi ci guardo, son normale. Son me stessa, niente di diverso. Un respiro, due respiri. Le ragazze, due di loro, non son mostri, mi si confidano. Lei mi racconta, mi parla di quanto le sue parole l’hanno trafitta. Stava parlando anche a lei, non a me sola. Io la guardo, lei mi si confida, mi confida che gli altri son stati tutti dei mostriciattoli con lei, che le hanno riso un po’ dietro, che l’hanno fatta sentire a disagio. Io la guardo, è tanto triste. Sembra talmente infantile dire così, ma è la più pura verità. Era tanto triste, professore, Tanto,davvero. Le ho sorriso, o almeno ho tentato. E lei mi ha sorriso, almeno ha tentato. Poi mi è esploso qualcosa dentro, puff. Ho iniziato a piangere, sconvolta. Mi son toccata gli occhi, li ho asciugati, è iniziata la vergogna, totale. Mi ha sorriso, un po’ imbarazzata ma non ho visto un suo giudizio, non credo di averglielo mai letto. Son fuggita in bagno, chiedendole scusa. Mi son chiusa nel cubicolo,ho serrato la porta. Cosa mi è preso? Che cazzo fai? mi sono iniziata a dire. Non lo so che mi è preso, ho chiuso gli occhi ed è stato tutto daccapo. Uno stesso,identico film, sempre lo stesso. Un garage, una stanza buia, una stanza d’albergo, il sapore del sangue, l’odore di sperma, la puzza di sudore, la nausea alla bocca dello stomaco. La testa che gira professore, gira e gira. Lucia mi ha bussato, son andati tutti via, esci dai. Son uscita,ci siam sedute. Siam state in silenzio. Mi ha offerto un caffè. Le ho sputato fuori che schifo che è ricordare. Ha confessato che è lo stesso per lei; mi ha raccontato quanto le sia difficile ricordare, parlare, rivivere. Piccoli singhiozzi, petti che si alzavano e si abbassavano. Si potrebbe comporre un quadro, una poesia, una sinfonia che contenga tutte le emozioni che proviamo quando vogliamo scoppiare. Quando minacciamo di scoppiare. E’ stata dura, professore, tornare in quell’aula e sentirsi dire direttamente quello che cerchiamo di negare ogni giorno. E’ stata dura, davvero; è stata dura e forse non saremmo rientrate se non avessimo saputo quanto si sarebbe arrabbiato. Siamo rientrate, a testa bassa, le mani sudate, ci siam sorbite tutte le sue supposizioni, le sue giuste teorie e i suoi sfottò (bonari si intende). Abbiamo guardato l’incredulità negli occhi dei nostri vicini, sconvolti che al mondo ci siano donne capaci di farsi ridicolizzare, umiliare, violentare. Insozzare. Ti senti sporca, professore, ti senti sporca dentro. “Io avrei reagito” la mezza voce di qualche mostriciattolo ignaro. E il suo sguardo indulgente,professore. Non è così semplice, ragazzi, ci ha detto. E non è sceso nei particolari, li ha lasciati tutti sul filo della loro beata ignoranza. Ci vorrebbero ore che non abbiamo per spiegarvi cosa succede. Abbiamo letto l’indifferenza di altri, convinti nel profondo che la cosa non avrebbe mai potuto toccarli, che non avrebbero mai dovuto preoccuparsi di poter essere così deboli, così sciocchi. Ha bruciato, professore, brucia ancora. Brucia la ferita che non si rimargina, brucia dalla voglia di alzarmi e gridare sulle loro facce impassibili che no,non se lo immaginano. Che no, non possono saperlo. E che no,non si sarebbero ribellati proprio a un bel niente. Non avrebbero saputo far meglio di me, non avrebbero potuto difendersi meglio di me, e non avrebbero saputo proteggersi meglio di me. E brucia,professore, quando futura psicologa sento di non riuscire ad avere ancora il controllo su una parte così importante di me, su un’emozione così complessa e non elaborata. Brucia quando descrive in minuziosi dettagli la dipendenza affettiva di questi “soggetti”. Quando soggetto sono anch’io, e arrossivo di vergogna perchè non riuscivo a poter essere maturo nel mio futuro ruolo di terapeuta, ma ero lì,inerme,sentendomi cavia da laboratorio. Un criceto stupidino sul tavolo da lavoro. E quei piccoli mostriciattoli miei colleghi passarmi accanto con i loro occhiali,le loro lenti di ingradimento e le loro teorie. “Professore ma questo rincorrere,questa dipendenza affettiva dall’altro non potrebbe essere una forma di egoismo?” E io lì,professore, a mordermi l’anima e gli occhi perchè avrei voluto scuoterla talmente forte da farle cadere gli occhiali per spiegarle come si vede quando non si ha più niente per vedere. Per spiegarle come si diventa quando non si vede da dove arriverà il colpo. Quando affidi te stessa nelle mani di qualcosa di inconsistente, quando ti alimenti di cure inesistenti. E lei, paziente, ha spiegato che no,per fortuna non si fanno giudizi morali, non si giudica una persona sofferente. E che no, la loro dipendenza nasce probabilmente da una carenza di cure materne,affettive; quando in effetti il nucleo familiare non consente un desatellitamento, quando la bambina non sente di essere amata incondizionatamente ma anzi, sente che deve guadagnare ogni giorno l’affetto di chi ha attorno e allora mette in campo le strategie migliori per ottenere cura,protezione,affetto,calore. Sviluppa efficacemente le proprie doti empatiche, per compiacere e riconoscere qualsiasi segno di debolezza dell’altro in modo da riuscire sempre più ad esser presente, ad accudire, a far del bene,a meritarsi quell’abbraccio mai ottenuto. E come ha parlato bene,professore. E come prendevano appunti,tutti. Ho guardato il mio foglio bianco, ho disegnato qualche scarabocchio per non star troppo ferma. Ha guardato spesso dalla mia parte, non so cos’ha pensato. L’ho odiata tanto, obbligarci a guardarla in faccia. Succede a molte di voi,ragazze. Ed è terribile il meccanismo che si innesca. E le domande stupide dei piccoli mostriciattoli, e la tua voglia costante di essere dalla loro parte dell’aula. Di esser stupida come loro. Di essere insolente come loro. Di ridere come loro, con quei dentini infami di un’empatia forse non ipersviluppata come noi stupide excrocerossine. Lei ha voluto leggerci un brano, di un libro bellissimo,ragazze,ve lo consiglio. Libro che ho già letto e riletto almeno cinque volte. Donne che amano troppo, e ha fatto la sua faccia di chi la sa lunga,e le avrei voluto chiedere con la stessa sfacciataggine di chi rideva, l’hanno mai obbligata a far sesso? Avrei voluto chiedere a ciascuno di loro, vi hanno mai tolto la voglia di essere voi stessi? Hanno mai instillato nei vostri più profondi pensieri che era vero, che era vero che i vostri genitori non vi amavano? Che eravate solo un peso per loro, che avrebbero voluto non avervi mai fatto. Che i figli di divorziati sono un errore. Che avrei fatto meglio a crescere, a separami da loro. Vi hanno mai convinto che non valete niente? Che qualsiasi estraneo riesce meglio di voi in tutto e che se qualcuno vi guarda è solo perchè voi volete in realtà farvi guardare. E allora se volete afarvi guardare è solo perchè in fondo davvero sapete di non contare nulla e che senza di loro non sareste niente, sareste soli. E soli ci siete diventati davvero, vi guardate attorno e non c’è altro che lui, non c’è famiglia,vi odiano tutti, gli amici altrttanto, l’unversità l’avete mollata perchè tanto non farete mai niente con quella laurea, perchè tanto lui già lavora e voi invece siete stupide, cretine attaccate ancora alla filosofia, alle poesie,a lle belle parole. quando poi non vi serviranno a niente e dovrete soltanto accollarvi ad un uomo in grado di mantenervi. ecco perchè vi odia, ecco perchè odia le donne,perchè sono tutte puttane, non importa quanto gli ripeterete di amarlo e di rispettarlo, lui non vi rispetterà mai perchè per avere rispetto dovrete meritarlo e finchè non lo meriterete lui non vi consegnerà che poche briciole del suo affetto e stima. e la vostra ansia diventerà una specie di ulcera che si cberà del vostro intestino, del vostro stomaco,e avrete perennemente voglia di non aver incontrato un amico alla stazione, o di non aver mai preso il treno se aveste saputo di incontrare un’amica che lui non sopporta. vivrete in simbiosi con il cellulare e tremerete quando troverete una chiamata persa o un messaggio non letto. e quando non prenderà,quando non ci sarà campo, quando sarete in ritardo, quando sarete in anticipo, quando ci saranno 30 gradi e dovrete girare con pantaloni e camice abbottonate. quando avrete paura di ogni singola botta, e ancora la avrete dopo quattro anni,ancora dopo cinque. Avrei voluto raccontarvi di come ci si sente a sentirvi ridere, a sentirvi increduli, sconvolti che al mondo esistano persone tanto deboli, quando voi lottate ogni giorno e ogni giorno con lo specchio per ricordarvi che la vostra forza è stata non arrendervi. Che la vostra forza risiede nell’amore per gli altri,nell’amore per la vita, nella fiducia negli uomini che ancora non vi fa odiare l’uomo che vi ha messo spalle al muro. E voi che ridete di me, voi che dite che lo avreste mandato all’ospedale o che avreste chiamato la polizia, voi non sapete che significa amare talmente qualcuno da sacrificare voi stessi per la sua felicità. Non potete sapere quanto ci si sente annientati, impotenti, e quanto si lotta ogni giorno per ricordare a voi stessi di essere più forti, di essere riusciti a superarlo, di essere liberi dai ricordi, liberi dalle ossessioni, dalle ansie. E scoprire invece ogni giorno di esserne ancora schiavi. E riprovarci ogni giorno daccapo. Con le stesse paure di far presto, di non far ritardo, di rispondere in fretta al telefono, di giustificarmi, di avere ansia, ansia per i programmi, per gli schemi, per far quadrare tutto, perchè tutto non infastidisca gli altri, perchè tutto abbia un suo corso, perchè non ci siano intoppi. Non ho parlato professore, perchè la lotta interna continua e continuerà sempre. E perchè avevo,si, troppa paura per farlo. Ancora non sono diventata forte come vorrei. Ci diventerò, stia certo.
0 notes
Text
Capinera_Cap•6
Marinette non vedeva l'ora che arrivasse il thé con Chloé, ma io sapevo bene che era meglio non star tranquilli: ero sicuro che quella vipera ci avrebbe giocato qualche brutto tiro. Vederla così felice mi faceva quasi male, non avevo il coraggio di dirle che qualcosa sarebbe potuto andare storto.
«Adrien, che ne pensi?» Aveva un sorriso così dolce, raggiante; come avrei fatto poi a vedere il suo bel viso rigato dalle lacrime se Chloè avesse mostrato il peggior lato di se stessa? «Marinette, vieni qui. » lei si avvicinò, mi abbassai leggermente così da guardarla dritta negli occhi. Lei ricabiò il mio sguardo e mi sentii sprofondare in quell’oceano che aveva al posto degli occhi. «Sei una ragazza buona e intelligente… Ecco, Cloé non lo é. » «Adrien non è carino dire queste cose » scostò leggermente lo sguardo, per poi tornare subito su di me. L’avrei protetta. «Hai ragione, ma quello che voglio dire è… lascia stare, ma se non ti senti a tuo agio possiamo tornare subito a casa. Va bene? » annuì, ma comunque non mi sentivo tranquillo.
«Ehi! Ma guarda un po’ che splendore che sei Marinette! » «Ninò! Grazie, alcune modifiche le ho fatte io » fece ondeggiare leggermente la gonna, sembrava un fiore delicato smosso dal vento. «Hai talento piccina » rispose Nino facendole l’occhiolino «non si bussa più? » dissi io ridendo «Mi ha aperto la domestica…a proposito ,è davvero molto graziosa » l’ultima parte la disse a bassa voce avvicinandosi al mio orecchio così da non farsi sentire da Marinette. «Già, Alyà è molto carina » disse ella invece (evidentemente Nino non aveva usato un tono di voce abbastanza basso) Detta quella frase uscì dalla stanza ridacchiando leggermente, lasciando il povero Nino paonazzo. Iniziai a ridere anche io, ma venni fermato da una piccola gomitata scherzosa del mio amico
Arrivammo a casa dei Burgeois in orario. Guardai Marinette e notai che uno dei quattro nastrini con cui si era legata i capelli si stava sciogliendo. Le presi la mano e me la avvicinai, poi passai a sfiorarle i capelli per stringerle il nastrino allentato. Le rivolsi un sorrido dolce, rassicurante. «Tranquilli » disse Nino suonando il campanello.
In pochi secondi ci ritrovammo nel salotto da thè e subito, senza degnare di uno sguardo gli altri ospiti, Chloè si catapultò verso di me abbracciandomi e strillando il mio nome…facendomi quasi perdere l'udito «Non vedevo l’ora che arrivassi Adrienuccio! » la scostai leggermente, e mi ricomposi con atteggiamento freddo e formale. «Si si, è sempre un piacere vederti Chloè> la liquidai in fretta. «Bene, tu e Nino vi conoscete già e lei invece è Marinette, la mia ospite » mi girai di lato e vidi che non era più al mio fianco, ma si era nascosta dietro di me; le misi una mano dietro la schiena così da spostarla in avanti, di nuovo accanto a me. Lo sguardo di Chloè era indescrivibile, verde d'invidia per la raggiante bellezza vagamente asiatica dell’altra, e ribollente di rabbia perché viveva sotto il mio stesso tetto e sotto la mia protezione. Ricomponendosi squadrò Marinette dall’alto verso il basso, come per studiare la sua avversaria e subito dopo si rivolse a me e Nino «Voi ragazzi accomodatevi nel salottino privato di mio padre, che vorrebbe tanto parlarvi di…politica, o delle altre cose noiose di cui parlate voi maschi… io mi occuperò di presentare Marinette anche alle altre ospiti » e così dicendo ci indicò il salottino e accompagnò la mia piccola amica nel salotto di fronte al nostro. La sala dove stavano le fanciulle era senza porte, aperta, e illuminata da grandi vetrate. Mi sedetti in un posto strategico che mi permetteva di non perdere di vista Marinette. Era contentissima a dir poco di fare nuove conoscenze. Alcune di loro le conoscevo, mi erano state presentate in altre circostanze, spesso obbligate dai genitori durante lunghi e tediosi banchetti in cui si parlava unicamente di politica o affari. Una di loro ero certo fosse Juleka Couffaine, una ragazza dall'aspetto cupo ma con cui é possibile fare interessanti conversazioni. Costei era spesso accompagnata da Rose Lavillant, che non conoscevo bene, ma di cui era facile notare la bizzarra passione per il colore rosa. Ovviamente al fianco di Chloè c'era il suo zerbino dai capelli rossi, Sbriana Raincomprix che però a quanto pare stava per essere spodestata dalla nuova venuta. «Ehi! Tranquillo Adrien. Non le accadrà niente, Chloè non è così stupida da farle qualcosa a così poca distanza da te… » Non credevo molto alle parole di Nino, non mi sarei sorpreso se Chloè si fosse dimostrata ancora più stupida e infantile di quanto già non srmbrava.
Non riuscivo a staccare lo sguardo dal vetro che separava i due salottini (che sembrava allungare l'effettiva distanza che c'era tra noi e la stanza accanto), quando una figura imponente mi divise da quel mondo Il signor Andrè Burgeois entrò nella stanza distraendomi dal mio vigilare. Il padre di Chloè era un uomo corpulento la cui massima ambizione era di arrampicare la vertiginosa piramide sociale francese, per quanto fosse già nobile di nascita. Coccolava troppo la figlia fin da piccola, finendo per crescere una ragazza viziata.
Lo seguii con lo sguardo per la stanza, accorgendomi solo dopo della presenza di un meraviglioso piano. Lo sfiorai con le dita. Sentivo il desiderio di suonarlo e poter così rompere la barriera fisica che divideva e me le ragazze. «Signori, che piacere vedervi. » il signor Burgeois si avvicinò al banco degli alcolici, ne tirò fuori tre calici e bottiglie piene di bevande « Brendy e soda per ingannare l’attesa delle signorine? » «Preferirei vino bianco e selz» «Certamente, e tu Nino?» chiese tirando sù una bottiglia da un cassetto in basso. «Cosa? Oh no. Grazie lo stesso» «Ti vedo distratto» dissi io rivolgendomi al mio amico «No no, affatto» «Parlando di cose più importanti: sì è venuta a conoscenza della mancata autorizzazione dello stato per l’insegnamento da parte delle scuole cattoliche…> era così tedioso il padre di Chloè; sempre a parlare di politica con una monotonia tale che solo altri dieci bicchieri del delizioso vino che mi stava versando avrebbero potuto trasformare quella tortura in un’esplosione di risate e diletto.
Sentii una porcellana frantumarsi a terra dall'altra stanza. La parlantina dell'uomo si fermò grazie al cielo, ma appena accorsi nella camera il vestito di Marinette era madido del contenuto della tazza. La scena rasentava il sovrannaturale: Chloè Burgeois si stava scusando vivamente per l'accaduto e sembrava che Marinette non fosse offesa. Che stessero diventando amiche?! Ero pietrificato da quella scenetta amichevole, tale da assomigliare a un rapporto che potevano avere una principessa e una duchessa come dama da compagnia. «Ti prego Marinette vieni con me, ti presto uno dei miei vestiti» Chloè stava per prenderla e portarla al piano di sopra, ma inaspettativamente venne fermata da Nino. «Chloè, non ti scomodare ti prego, andrò io a prendere un vestito a casa per Marinette» era perso nei suoi pensieri, eppure, convinto, prese la giacca e uscì senza nemmeno aspettare che qualcuno ribadisse. «Adrien ci delizieresti con un po’ della tua dolce e magica musica ?» Chiese Chloè prendendomi a braccetto e trascinandomi nella salotto con il pianoforte. Quando le mie dita sfiorarono i tasti non mi riuscii più a fermare. Chloé continuava però a disturbare le mie note con la sua voce irritante e i suoi complimenti. Mi fermai innervosito, ma incontrai lo sguardo di Marinette che si era appena ripresa da un bellissimo sogno che aveva fatto seguendo le mie note. Perché era così bella? Eppure ero sicuro che fosse solo all'inizio della sua fioritura. Tra gli applausi feci cenno a Marinette di mettersi al mio fianco. «Canteresti per me?» gli sussurrai all'orecchio. Iniziò a balbettare guardandosi intorno imbarazzata. Io non le prestai attenzione e iniziai a suonare un arrangiamento di una delle canzoni che cantava più spesso. Le parole strazianti si facevano largo nel cuore di tutti. La storia parlava di una bambina e che come tutti i bambini desiderava i giocattoli, ma la madre concentrata solo ai suoi desideri rigettava il volere della figlia. Al capezzale della piccola morente la madre fece un esame di coscienza e svuota tutta la vetrina del negozio di giocattoli, ma la madre arrivò troppo tardi per accontentare la piccola. Una lacrima solcava le guance di tutti i presenti commossi.
Con la mente mi fermai. Mi sembrò di essere rimasto da solo con Marinette per un istante. Prima di essere ricatapultato nella realtà. Le ragazze erano tornate al loro thè e io dovevo sorbirmi il signor Burgeois e il suo tedioso discorso.
Un dejavù: accorsi nel salotto affianco dopo aver sentito un certo vociare. La più irritante delle due voci sentenziava con false accuse la povera Marinette. Non mi importava ciò che aveva da dire Chloè e schermai Marinette. «Visto!?» Urlò la ragazza viziata «E’ ovvio che tra di loro ci sia qualcosa! E sicuramente un'illegittima come lei sta approfittandosi di un buon di cuore come quello del mio Adrienuccio» concluse la bionda. Mi sentii afferrare la camicia da dietro; era Marinette in lacrime che con voce sommessa mi disse «Adrien…ti prego andiamocene…»
In pochi minuti io e Marinette eravamo fuori da quella casa e io mi ritrovavo alle prese con una lotta interiore: la ragione da un lato e la voglia di tornare indietro a lasciare un manrovescio sulla faccia di quell’arrogante di Chloè dall'altro lato. Marinette mi parlava ma la sua voce mi giungeva ovattata. Si parò davanti a me e mi prese il volto tra le mani. Mi sentii annegare nel blu dei suoi occhi e ciò mi tranquillizzò.
Tornammo a casa con una carrozza di passaggio siccome Ninò non era tornato dalla sua missione. «Mi dispiace. Ti ho fatto fare brutta figura» disse la piccola abbassando lo sguardo «No, non tu. Chloé ha fatto una pessima impressione, come pensavo si è comportata in maniera infantile e maleducata, con me, te e con le altre ospiti» dissi carezzandole il volto e asciugandole un lacrima. La tenni stretta al mio petto. Mi distruggeva il fatto di aver abbassato la guardia e di aver lasciato che qualcuno la trattasse in quel modo.
Arrivammo a casa e a quanto pare Nino era ancora lì, in fatti l'automobile era parcheggiata nel vialetto di fronte a casa. Era strano, avrebbe dovuto solo prendere il vestito e tornare, era si e no un compito da meno di un'ora, e dalla partenza di Nino ci eravamo trattenuti dai Burgeois più di quanto pensassimo. Aprii la porta di casa e la giacca del mio amico era appesa lì, all'attaccapanni che c'era all'ingresso. «Nino sei in casa?» chiesi ad alta voce. «Oh merda!» Non era la risposta che mi sarei aspettato Mi avviai in salotto, seguito da Marinette e non appena vidi cosa stava succedendo le coprii gli occhi con una mano. Nino e Alyà erano sul divano ad amoreggiare, o meglio si stavano sistemando dopo aver sentito il nostro arrivo. «Davvero!?» chiesi stupito «Eddai amico! Ci siamo solo baciati tranquillo ahahah…ma come mai di ritorno così presto?> «A te potrà anche sembrare che sia passato poco tempo dato che eri…occupato, ma per noi è stata un'eternità. E poi,“ come c'era da aspettarsi, Chloé ha dato il peggio di sé. Ma non parliamone per favore» «Adrien!! Non ci vedo basta!» Disse Marinette ,cercando di liberarsi dalla mia mano. «Ma ti sembra? Non ho mica sette anni» mi sgridò. «non mi sembrano cose che tu debba vedere piccolina» dissi ridendo «"Piccolina”!? » disse arrabbiata. «Sì, lo sei.» Mi incenerì con lo sguardo e prendendo Alyà per mano se ne uscì dalla stanza, pochi minuti dopo si sentirono le loro risate. Io e Nino ci guardammo e scoppiammo a ridere.
Angolo autrice: Piccola domanda da porre a voi stessi e se la trovate davvero interessante rispondetemi pure.
Non trovate uno spreco di tempo pensare al tempo in quanto è solo un'inutile convenzione creata da noi stessi? Che secondo dopo secondo ci fa pensare alla nostra utilità al modo?
Un utilità evanescente, il tempo ce lo ricorda. poco rimane di noi e solo di pochi.
#tales of ladybug and cat noir#ladybug and chat noir#chat noir#les adventures de ladybug et chat noir#fanfiction#efp fanfiction#efp#wattpad#fandom#love#tristeza#belleepoch#adrien x marinette#chat noir x marinette#chat noir x ladybug
1 note
·
View note