#diseguaglianze globali
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pier-carlo-universe · 3 days ago
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Auguri di Renato Balduzzi
"Per me, la ragione più importante per annunciare il Vangelo è condividere la mia gioia, condividere il motivo della mia gioia
“Per me, la ragione più importante per annunciare il Vangelo è condividere la mia gioia, condividere il motivo della mia gioia. Quando siamo felici, vogliamo potere condividere la nostra gioia, vogliamo stare con le persone, vogliamo che gli altri siano parte della nostra felicità. Per i cristiani, il motivo più importante è l’amore gratuito di Dio che ci viene annunciato nei Vangeli. Se non…
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scienza-magia · 2 years ago
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Pericolo scoppio bolla del debito pubblico in Africa
Scontro tra Cina, Fmi e Banca mondiale per il debito dei Paesi poveri. Pechino, il maggiore creditore bilaterale internazionale, non vuole svalutare il proprio credito se le organizzazioni legate agli Usa non faranno lo stesso Bloccati i nuovi finanziamenti Sarebbe molto «carino», per dirla con il ministro delle Finanze giapponese Shunichi Suzuki, se la Cina si aggiungesse agli sforzi di Paesi come lo stesso Giappone, l’India e la Francia per risolvere la crisi debitoria di un Paese come lo Sri Lanka, precipitato nel default con 15 miliardi di dollari di debito obbligazionario. Ma la Cina, diventata negli anni sempre più “banchiereesattore” e meno “donatore” nei confronti dei Paesi a medio e basso reddito, per ora non cede: non intende svalutare il proprio debito e chiede, anzi, che anche il Fondo monetario internazionale e le banche di sviluppo multilaterali condividano le perdite nell’ambito della politica comune di ristrutturazione del debito delle economie più fragili. Al G20 finanziario di Washington, il neo governatore della banca centrale cinese Yi Gang ha detto che Pechino è sì disposta a lavorare attraverso il cosiddetto quadro comune del G20 per la risoluzione del debito, ma al di là della dichiarazione di principio di concreto non c’è ancora nulla. E questo in un momento peraltro in cui, ultimi dati Ocse, nel 2022 ben il 14,4% dell’aiuto pubblico allo sviluppo globale (Aps) è rimasto nelle tasche dei Paesi ricchi.
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Una donna con i suoi figli all’interno della favela Rocinha di Rio de Janeiro, in Brasile: l’impennata dei livelli del debito provoca nei Paesi in via di sviluppo la riduzione degli investimenti produttivi nei settori pubblico e privato Gli aiuti globali, insomma, diminuiscono, mentre la “trappola del debito” rischia di strangolare un Paese dopo l’altro, con casi ormai al limite come quelli dello Zambia, Paese al quale lo stesso Fmi chiede ancora di proseguire nella ri-strutturazione del proprio debito con i creditori esistenti per poter accedere a 188 milioni di dollari di nuovi fondi. Il problema, per lo Zambia come per tanti altri Paesi, è che il principale creditore esistente è proprio la Cina: e quindi, se Pechino non accetterà una riduzione delle proprie perdite, il governo di Lusaka quei nuovi fondi non li avrà. Proprio ieri la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (Unctad) ha lanciato un nuovo allarme: il rallentamento economico globale provoca nei Paesi in via di sviluppo un debito crescente, «una crisi sempre più profonda », a fronte di un sostegno internazionale insufficiente. L'impennata dei livelli di debito sta riducendo gli investimenti produttivi nei settori pubblico e privato. Il risultato sarà l’aumento delle diseguaglianze, con 39 Paesi che pagheranno ai loro creditori ufficiali esterni più di quanto hanno ricevuto in nuovi prestiti. L'organismo Onu stima che gli aumenti dei tassi di interesse costeranno ai Paesi in via di sviluppo più di 800 miliardi di dollari nei prossimi anni. Secondo un report Fmi, in Africa la crescita dovrebbe rallentare ancora quest’anno, al 3,6%. Il recente rapporto International Debt Report 2022 della Banca Mondiale sottolinea che ben 75 Paesi che hanno accesso ai prestiti dell’Agenzia Internazionale per lo Sviluppo (International Development Association – IDA) della Banca mondiale oggi spendono oltre un decimo dei loro proventi da esportazioni per sostenere il debito estero, la quota più alta dal 2000, cioè poco dopo la nascita del programma Heavily Indebted Poor Countries (Hipc), promosso congiuntamente nel 1996 dal Fondo Monetario Internazionale e dalla Banca Mondiale. Quel poco che le economie fragili producono ed esportano, insomma, serve per una discreta porzione solo a ripagare debiti, e questa porzione, negli anni, è andata solo aumentando. All’orizzonte c’è il rischio di una crisi del debito di portata globale, considerando che alla fine del 2021 il debito estero di questi Paesi ammontava a 9mila miliardi di dollari, più del doppio rispetto a dieci anni fa. Sulla questione, il ruolo cruciale della Cina, il più grande creditore bilaterale del mondo, è evidente. Dal 2008 a oggi, Pechino avrebbe speso 240 miliardi di dollari per “salvare” Paesi coinvolti nella Belt and Road Initiative, soprattutto per una ventina di Paesi tra cui Argentina, Sri Lanka, Pakistan e diversi Stati africani. Prestando denaro, la Cina allarga la sua influenza nel mondo, oltre a poter mettere nel mirino la infrastrutture chiave di molti Paesi aiutati. Mercoledì, Pechino non ha preso alcun impegno ufficiale nella dichiarazione diffusa da Banca mondiale, Fmi e India, attuale presidente del G20, dopo il primo incontro del nuovo Gruppo sul debito sovrano globale. La dichiarazione stessa, peraltro, ha confermato che sono stati concordati modi per semplificare gli sforzi di ristrutturazione del debito, compresa la condivisione dei dati e calendari più chiari. Tutto, però, resta ancora un po’ vago, considerato che Pechino non intende né cancellare debiti né svalutarli e il Fmi non vuole elargire nuovi finanziamenti senza una svalutazione, nel dubbio che quei fondi, invece che progetti di sviluppo, vadano solo a ripagare i vecchi debiti, in gran parte proprio verso la Cina. Il cane, insomma, continua per ora a mordersi la coda. Read the full article
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crazy-so-na-sega · 4 years ago
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Il compianto Mark Fisher definiva “realismo capitalista” la convinzione diffusa che non vi siano alternative al sistema economico dominante, secondo il quale ogni aspetto della vita privata e collettiva può e deve essere mercificato e/o gestito come un’azienda. E’ il mondo in cui viviamo: un sistema di potere che ha conquistato le menti e imposto una visione del mondo, un linguaggio, una serie di credenze fino a rendere impensabile un altro modo di vivere e organizzare la società.
E’ il perverso miracolo realizzato da un gruppo di economisti radicali, teorici del mercato come unico regolatore della società. Da intellettuali eccentrici e marginali, a dominatori ideologici del nostro tempo: la vicenda di personaggi come Friedrich von Hayek, Milton Friedman e seguaci – i campioni del neoliberismo – è per un verso affascinante, per molti altri agghiacciante. Com’è stato possibile il loro successo planetario? La loro affermazione pressoché totalitaria? Un pezzo di risposta è nel ruolo giocato dai milioni di dollari dei think thank statunitensi (finanziati dai grandi capitalisti del paese) che a partire – almeno – dagli anni Settanta hanno avviato una potente opera di persuasione e propaganda, finanziando università, centri di ricerca, singoli studiosi e apparati di comunicazione. Senza dimenticare il ruolo del Premio Nobel per l’economia, inventato nel 1968 dalla Banca centrale svedese a presidiare il terreno della ricerca accademica.
La narrazione precedente, qualcosa di simile al modello social-liberale affermatosi in Europa, è stata alla fine scalzata dall’ideologia radicale del mercato; nuove parole d’ordine hanno preso il sopravvento: crescere, privatizzare, liberalizzare, abbattere i confini, affamare lo stato, insomma trasformare la vita collettiva secondo i canoni della vita aziendale. E’ il paradigma insegnato agli studenti di economia, applicato dai manager, ripetuto in ogni dove, accettato dalle forze politiche di destra e (ex) sinistra, alla fine subìto dalla popolazione.
E’ una storia di successo cominciata, politicamente parlando, nel Cile di Pinochet, che affidò ai Chicago Boys, economisti devoti all’estremismo di mercato, il miracolo economico della dittatura, a forza di privatizzazioni dei servizi essenziali, abbattimento delle libertà sindacali, riduzione dei salari, esportazioni. Il suggello, sempre politicamente parlando, arrivò con l’adesione al neoliberismo da parte delle socialdemocrazie europee, sull’onda della cosiddetta terza via sposata da Tony Blair e seguaci (fu Margaret Thatcher a indicare beffardamente il “New Labour” blairiano come il suo maggiore successo politico).
E’ una storia da studiare a fondo, come fa Marco D’Eramo nel suo bellissimo “Dominio” (Feltrinelli): solo capendo le ragioni di tale successo, è possibile pensare a una via di uscita.
Fra gli innumerevoli aspetti da considerare, ce n’è forse uno che li riassume tutti: la capacità dei teorici neoliberisti di imparare dai loro avversari. Hanno letto almeno Marx e Gramsci e “rubato” le idee forti della sinistra e degli avversari del capitalismo, per usarle ai loro fini, ribaltandone l’indirizzo. La lotta di classe è anche per loro la dinamica interna della società capitalistica, ma sono riusciti a farlo dimenticare: è così che i capitalisti hanno sopraffatto i lavoratori, mistificando la realtà, ben sapendo d’essere vincitori di un conflitto sotterraneo.
La lotta di classe c’è stata anche quando si è smesso di parlarne: è stata condotta dall’alto e l��hanno vinta i capitalisti. Le abnormi diseguaglianze presenti nascono da qui. I dominatori sono riusciti a far credere che non esistono più le categorie dello sfruttamento e dello schiavismo: la forza lavoro, nella loro narrazione, si presenta liberamente sul mercato e lì compie scelte razionali, massimizzando il proprio utile: le persone accettano certi salari in cambio del lavoro, corrono dei rischi nelle migrazioni in vista di compensi proporzionati e così via. Ogni lavoratore, dicono, è dotato di un capitale umano da spendere sul mercato: non ci sono né padroni, né costrizioni o subordinazioni. Ciascuno è imprenditore di sé stesso…
Il capitalismo, insomma, è lo stato naturale delle cose: affermando questa credenza, le classi dominanti hanno conquistato un’egemonia ideologica incontrastata e via via raffinato gli strumenti di potere, che oggi sono l’indebitamento dei singoli e degli stati; lo smantellamento dei servizi sociali e dell’istruzione pubblica; l’obbligo sociale del consumo. Senza mai dimenticare che tutto o quasi tutto si gioca sul piano delle idee. Le idee, per i dominatori, sono armi.
Il capolavoro, naturalmente, è proprio il “realismo capitalista” colto da Fisher: un’alternativa è diventata addirittura impensabile, mancano anche le parole per definirla e presentarla nel discorso pubblico, indisponibile ad accogliere idee e concetti estranei o contrapposti all’ideologia dominante. E dire che i dominatori hanno un progetto di società che somiglia ormai a un incubo.
La prospettiva, nel contesto ecologico attuale, è un mondo sottoposto a crescenti disastri climatici, a ricorrenti pandemie, a brutali diseguaglianze, con vite quotidiane più simili all’attuale emergenza (mascherine, distanze di sicurezza, segregazione sanitaria, e poi sistemi di capillare controllo sociale e politico, competizione continua per risorse vitali come l’acqua potabile e l’aria respirabile e così via) che a un libero godimento del mondo.
Il futuro è cancellato oppure avvolto da forme di pensiero magico, come l’attesa messianica di tecnologie salvifiche. L’unico adattamento ipotizzato di fronte alla sfida ecologica è l’ossimorica nozione di “sviluppo sostenibile”, inventata per tenere insieme il dogma della crescita di produzioni e consumi con l’evidenza del collasso del pianeta, fingendo di non sapere che solo una riduzione dei consumi globali, quindi un drastico ridimensionamento dell’estrazione di risorse naturali, può mantenere una vita decente per tutti sul pianeta nei prossimi decenni.
Il re, o per meglio dire gli apprendisti stregoni del neoliberismo sono nudi e la pandemia ha gettato un ulteriore potente fascio di luce su tale nudità, ma a quanto pare non basta: il trionfo ideologico dei dominatori è così pervasivo che ogni volta che si affaccia un’idea nuova, un movimento sociale alternativo, una lotta politicamente promettente, si assiste a una generale sollevazione di chi occupa i centri nevralgici del potere politico, informativo, educativo.
Negli ultimi anni, oltretutto, il sistema ha scoperto di poter agevolmente convivere con modelli autoritari di stato: finora aveva preferito le democrazie liberali, purché impegnate a garantire le “migliori condizioni” per il mercato e le imprese, con privatizzazioni, liberalizzazioni, tagli all’istruzione e ai servizi sociali e sanitari e la demonizzazione dell’economia pubblica. La Cina e le esperienze di altri paesi ora dimostrano che il modello neoliberale funziona bene anche in assenza di democrazia: la prospettiva di trasformazioni illiberali degli stati occidentali non pare preoccupare – tutt’altro – le classi dominanti, che si sono dimostrate fra l’altro assai favorevoli, in questi anni, a ricorrere alla forza di polizia per sedare sul nascere rivolte sociali e forme pericolose di opposizione.
Tutto è dunque perduto? No, non è così. Primo, come dice D’Eramo, ricordiamoci che i teorici neoliberali sono stati a lungo emarginati e relegati in una nicchia, un po’ come accade oggi agli oppositori del sistema (tutto è quindi possibile); secondo, non siamo all’anno zero né sul piano delle idee né sul piano dell’organizzazione di forme di resistenza, proposta e azione: esistono movimenti sociali in lotta in tutto il mondo. Il “Dominio” non è per sempre, la lotta di classe e la lotta delle idee sono ancora in corso.
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italianaradio · 5 years ago
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Oxfam, le diseguaglianze si accentuano: ricchezza mondiale concentrata su 2153 ‘paperoni’
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/oxfam-le-diseguaglianze-si-accentuano-ricchezza-mondiale-concentrata-su-2153-paperoni/
Oxfam, le diseguaglianze si accentuano: ricchezza mondiale concentrata su 2153 ‘paperoni’
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Oxfam, le diseguaglianze si accentuano: ricchezza mondiale concentrata su 2153 ‘paperoni’
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Secondo l’ultima fotografia Oxfam, sebbene tra 2018 e 2019 la ricchezza mondiale sia cresciuta, è sempre concentrata tra un’élite di 2153 ‘paperoni’ che detiene una ricchezza superiore al patrimonio di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale.
In Italia il 10% più ricco possiede oltre 6 volte la ricchezza del 50% più povero. Alla fine del primo semestre del 2019, a fronte di una ricchezza nazionale netta di 9.297 miliardi di euro, il 20% più ricco degli italiani ne deteneva quasi il 70% , il successivo 20% era titolare del 16,9%, lasciando al 60% più povero il 13,3%. I primi 3 miliardari italiani della graduatoria Forbes hanno una ricchezza netta (37,8 miliardi di euro a fine giugno 2019), maggiore di quei 6 milioni di persone circa che costituiscono il 10% più povero della popolazione italiana.
Secondo l’indice Gini, gli squilibri rispetto al 2000 sono aumentati di 7 punti in 20 anni. In Italia, ma anche altrove, i ricchi sono soprattutto figli dei ricchi e i poveri figli dei poveri. Le condizioni socio-economiche si ereditano di generazione in generazione.
I giovani italiani inoltre, devono fare i conti con un mercato profondamente disuguale, caratterizzato da grande precarietà. Oltre il 30% dei giovani occupati guadagna meno di 800 euro lordi al mese. Il 13% degli under-29 della Penisola versa in condizione di povertà lavorativa. Una situazione che unita allo scollamento tra la domanda e l’offerta di lavoro qualificato costringe da anni tanti giovani laureati ad abbandonare il Paese.
Quasi la metà della popolazione mondiale vive con meno di 5,5 dollari al giorno. Il patrimonio delle 22 persone più facoltose è superiore alla ricchezza di tutte le donne africane.
“La disuguaglianza economica è un fenomeno ormai fuori controllo”, riassume Oxfam, nel rapporto che scatta la fotografia delle disparità che pervadono il pianeta, pubblicato in occasione del summit del World Economic Forum a Davos.
A far lievitare il patrimonio dei ‘paperoni globali’ – indica il rapporto – ha contribuito il crollo dell’imposizione fiscale a loro carico, grazie alla riduzione delle aliquote impositive, ma anche a deliberati abusi fiscali. Solo il 4% del gettito fiscale globale deriva da imposte sul patrimonio e vari studi dimostrano che i super-ricchi eludono fino al 30% delle imposte a proprio carico. Tra il 2011 e il 2017, mentre i salari medi nei paesi del G7 aumentavano del 3%, i dividendi dei facoltosi azionisti sono cresciuti del 31%.
Secondo l’ultima fotografia Oxfam, sebbene tra 2018 e 2019 la ricchezza mondiale sia cresciuta, è sempre concentrata tra un’élite di 2153 ‘paperoni’ che detiene una ricchezza superiore al patrimonio di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale. In Italia il 10% più …
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Nadia Sessa
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thecermfoundation · 5 years ago
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OECD - Employment Outlook 2019
Quali sono le sfide che i Paesi industrializzati devono affrontare al più presto per preservare il lavoro? L'avvento delle nuove tecnologie e gli scambi sempre più globali, offrono opportunità uniche di incrementare l'ampiezza del mercato. La tecnologia renderà possibili il miglioramento della qualità del lavoro composto da individui sempre più anziani. Sarà facilitato l'accesso al mercato del lavoro a segmenti di popolazione a cui adesso non è concesso. Le stesse opportunità sono contemporaneamente viste come foriere di senari apocalittici, quali automazione estrema, salari sempre più bassi e incremento delle diseguaglianze (che è un importane mega-trend). Lo scenario attuale è infatti caratterizzato da diminuzione della stabilità del lavoro e da sotto-occupazione. Se il saldo tra i lavori distrutti e quelli creati sarà positivo, questo dipenderà dalle politiche pubbliche che per una buona parte hanno un costo limitato mentre alte richiedono ingenti risorse. Tra le prime l'OECD ne raccomanda alcune: far rispettare le regole del mercato del lavoro, rafforzare la contrattazione collettiva. Tra le seconde: garantire l'accesso alla formazione ai lavoratori con basse competenze e migliorare la protezione sociale.
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samdelpapa · 6 years ago
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{debito troppo alto, serve una tassa sulla prima casa figure of aside Riforme fiscali per la crescita Negli ultimi decenni le politiche fiscali dei Paesi si sono concentrate sulla stabilizzazione dell’economia in risposta alla crisi finanziaria del 2008. Con meno enfasi – enfasi richiesta ora - sulle riforme a lungo termine per una crescita inclusiva che segua i cambiamenti demografici e l’avanzamento tecnologico. In molti Paesi, secondo gli economisti del Fondo, il debito pubblico e privato resta troppo alto con prospettive di sviluppo limitate, a fronte di un rallentamento della crescita e diseguaglianze ancora troppo elevate. Le riforme fiscali potrebbero essere la molla per spingere le economie nazionali verso obiettivi di crescita sostenibili e inclusivi, attraverso politiche attive del lavoro, spesa sociale e investimenti in infrastrutture. La cooperazione internazionale in materia fiscale, inoltre, per il Fondo è indispensabile per i temi globali, come la lotta alla corruzione, la tassazione corporate, i cambiamenti climatici e, più in generale, per cercare di raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile al 2030. Preoccupa debito dell’Italia «In Italia, spread sovrani alti a lungo potrebbero pesare sulla crescita e sulle prospettive fiscali e bancarie mentre nuovo stress esercitato da un balzo dei costi per finanziarsi potrebbe intaccare altri Paesi nella regione», scrivono gli economisti del Fondo monetario nel Fiscal Monitor. Secondo il Fmi gli spread nella seconda parte del 2018 sono saliti ma l'effetto contagio nelle altre economie dell'area euro con alti livelli di debito è stato «limitato». Tassa sulla prima casa Secondo il Fmi, in Italia «i patrimoni potrebbero essere tassati attraverso una tassa moderna sulle residenze primarie». Nel Fiscal Monitor si parla anche delle pensioni e della sostenibilità a lungo termine del sistema. Salvaguardare la sostenibilità finanziaria dei sistemi pensionistici richiede un insieme di misure complete, incluse quelle per controbilanciare le implicazioni dei cambiamenti fatti in Spagna e in Italia, sostiene il Fondo monetario, facendo riferimento, nel nostro caso, a Quota 100} Copia e incolla https://www.instagram.com/p/BwJ6UNkgFlJ/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=1b562b9r3v9jf
Ecco perché ritorna la tassa sulla prima casa
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tmnotizie · 6 years ago
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PORTO SAN GIORGIO – Bandiera dell’Europa esposta sulla facciata del Municipio. La Giunta comunale aderisce alla Giornata Europea del 21 marzo, giorno d’inizio della Primavera e di celebrazione di San Benedetto, patrono d’Europa, indetta per rilanciare i valori condivisi che stanno a base dell’Unione.
L’Amministrazione ritiene “fondamentale promuovere i principi del multilateralismo in un contesto internazionale caratterizzato da una crescente interdipendenza economica, finanziaria e sociale, da squilibri insostenibili e dalla minaccia che viene da conflitti sempre meno governabili e dal rischio di una ripresa della corsa agli armamenti nucleari.
Dopo la catastrofe della Seconda Guerra Mondiale, dopo la Shoah, la costruzione della comunità europea, di cui l’Italia è stata protagonista, ha garantito la pace e che il metodo comunitario ha consentito di consolidare lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia, di completare il mercato interno, di redistribuire risorse, di migliorare la qualità dell’ambiente e di estendere i diritti di cittadinanza, di creare forti legami e sentimenti di amicizia e condivisione fra tanti giovani europei.
L’interdipendenza e le minacce globali che incombono, quale la crisi climatica, se non governate da autorità sovranazionali qual è l’Unione Europea, provocheranno criticità sempre più gravi – quali quelle che sono all’origine delle migrazioni – e rendono illusoria la volontà di attraversare gli sconvolgimenti mondiali rinchiudendosi in una arcaica dimensione nazionalista europea, superata nella storia per la responsabilità che ha avuto di aver generato i devastanti conflitti e i totalitarismi del Ventesimo Secolo e dal progredire di grandi stati di dimensione continentale con i quali solo un’Europa unita può confrontarsi alla pari.
Va accelerata la velocità verso un’Europa più unita, più democratica e più solidale, attore di giustizia sociale, di riduzione delle diseguaglianze, di prosperità fondata sullo sviluppo sostenibile, sul valore del lavoro e sul protagonismo delle città e dei territori, attore rilevante per dimensione negli equilibri globali, aggiornandone le politiche e ridefinendone le regole, superando le cause della divaricazione fra i cittadini e le istituzioni europee diventate ingiustamente il capro espiatorio di responsabilità che appartengono principalmente ai governi nazionali che hanno ostacolato o rallentato le decisioni e avallato le politiche sbagliate scelte per affrontare la crisi economica.
Il percorso verso le prossime elezioni del Parlamento Europeo rappresenti il momento di una grande partecipazione attiva dei cittadini per contribuire, pur con diverse culture e diversi orientamenti politici, a dare prospettiva all’Unione Europea, a rendere più democratiche le sue istituzioni, per dare futuro alle nostre comunità”.
La Giunta invita le associazioni culturali e di rappresentanza e tutti i cittadini e le cittadine ad esporre il simbolo degli ideali di unità, solidarietà e armonia tra i popoli d’Europa.
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paoloxl · 6 years ago
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A più di due anni dal referendum che si espresse per la Brexit, l'accordo raggiunto tra il governo May e l'UE per l'uscita del Regno Unito dalle istituzioni comunitarie tradisce molto del pacchetto di cambiamenti che i promotori della consultazione avevano ventilato nella loro propaganda.
Accordo Brexit: difendere i grandi capitali costi quel che costi
Non è detta ancora l'ultima parola, perché il 6 dicembre il parlamento inglese dovrà ratificare l'accordo, che ha già portato a 4 dimissioni tra i ministri e sottosegretari del governo ancora più isolazionisti e ultraliberisti di May. Il 6 dicembre una delle opzioni potrebbe essere anche quella delle dimissioni del governo in caso di voto di fiducia negativo.
Nel partito conservatore infatti la fronda hard brexiteer potrebbe non dare sostegno a May sulla bozza di accordo. La strada più probabile a quel punto sarebbe il cosiddetto no deal e di conseguenza l'uscita senza accordo, che per molti osservatori provocherebbe una probabile recessione per l'economia britannica.
In caso di caduta della May, un'altra strada da non scartare come ipotesi sono elezioni anticipate in cui una nuova maggioranza, presumibilmente laburista, potrebbe rinegoziare ulteriormente la Brexit. Magari andando incontro alle pressioni in arrivo soprattutto da Londra per un possibile secondo referendum che faccia riesprimere sull'uscita dall'UE, come richiesto anche dalla piazza londinese qualche settimana fa.
La fiducia alla bozza di accordo potrebbe non darla nemmeno il Dup. Ovvero il partito unionista nord irlandese che per dare sostegno a May in questo governo tra le condizioni sperava in una Hard Brexit che ripristinasse duri controlli alla frontiera con l'Eire, una frontiera di cui ben conosciamo la storia politica. Finora May non se l'è sentita di aprire anche il fronte nordirlandese, ma non è detto sia sempre così, soprattutto se il governo dovesse cadere e i conservatori dovessero creare una nuova maggioranza ancora più reazionaria.
A trionfare con questo accordo sono soltanto gli interessi della finanza e della grande industria inglese. Queste riescono ancora a prendere tempo, imponendo alla May un altro accordo transitorio (fino al 2020). Salvaguardando al contempo il rapporto economico con il mercato Ue, dato che il Regno Unito rimane nell'Unione doganale. Tracciando la strada per un futuro in cui i suoi profitti siano comunque difesi e mantenuti.
La natura assolutamente contigua dei processi politici genericamente "populisti" di fronte al potere finanziario una volta alla prova di governo si dimostra ancora in un'altra occasione. È un processo a cui ci stiamo abituando: la facciata populista di Trump si configura nei tagli alle tasse per i ricchi e negli attacchi ai diritti dei più poveri della società; in Brasile Bolsonaro affida la sua politica economica all'ultra liberista Guedes e ai suoi piani di privatizzazioni a tutto spiano; in Italia il governo gialloverde "contro l'establishment" tutto ha fatto tranne che attaccare le profonde diseguaglianze sociali del paese.
Si aggiunge alla lista il Regno Unito della Brexit. Che con questo accordo, se passerà, viene incontro alla City e ai suoi bisogni di libera circolazione dei capitali. Altro che risparmio di risorse per attaccare le sacche di povertà e migliorare la sanità inglese come la Brexit prometteva...
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cocconb · 8 years ago
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25 marzo: i 60 anni del sogno Europeo
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Per un’Europa Federale, con e per il popolo europeo. 
Approvato a maggioranza un ordine del giorno, proposto dal Movimento Federalista Europeo e dall’Associazione Europea degli Insegnanti, con il quale si sostiene la manifestazione a Roma indetta per il 25 marzo in occasione dei 60 anni dei Trattati di Roma e per perseguire l'ambizioso obiettivo di un'Europa Federale con e per il popolo europeo.
Dopo la seconda guerra mondiale, onde evitare che l'Europa ricadesse in futuro nel turbinio della guerra, come è sempre stato nella sua storia, su impulso americano, anche tramite il Piano Marshall, si arrivò alla costituzione della CECA (Comunità europea del carbone e dell'acciaio). L'idea era che, integrando il mercato e il know-how di due materie essenziali per l'economia, si sarebbero instaurate relazioni e interessi tra gli stati che avrebbero arginato il rischio di un'escalation di particolarismi nazionali, mantenendo una visione comune, una visione europea.
Se gli accordi che portarono alla costituzione della CECA furono fortemente voluti dagli alleati americani, gli accordi di Roma sono fondamentali perchè l'iniziativa provenne esclusivamente dall’Europa: l'idea era quella di estendere i compiti della Comunità europea del carbone e dell'acciaio ad altri settori, quali i trasporti e le fonti di energia tradizionali e creare una nuova comunità sopranazionale per l'energia nucleare. A Roma, con la firma del trattato, fu il momento costitutivo della Comunità europea.
Questo trattato prevedeva:
l'eliminazione dei dazi doganali tra gli Stati Membri;
l'istituzione di una tariffa doganale esterna comune;
l'introduzione di politiche comuni nel settore dell'agricoltura e dei trasporti;
la creazione di un Fondo sociale europeo;
l'istituzione della Banca europea degli investimenti;
lo sviluppo della cooperazione tra gli Stati Membri.
Per raggiungere questi obiettivi il trattato pone alcune linee guida e definisce il quadro per l'attività legislativa delle istituzioni comunitarie, in particolare riguardo alla politica agricola comune, la politica dei trasporti e una politica commerciale comune .
Venne istituito il mercato comune basato su quattro libertà fondamentali: libera circolazione delle persone, dei servizi, delle merci e dei capitali.
Certo è che in questi anni il progetto di integrazione europea si è arenato: l'Europa ha faticato a dare risposte forti e decise per rispondere alla crisi economica, non ha saputo mettere in campo quegli strumenti che permettessero di dare una risposta comune. In quel clima è prevalso l'interesse particolare, l'interesse di ogni singolo stato alle prese con problemi di legittimazione interna. A farne le spese è stato il processo di integrazione.
L'Europa oggi troppo spesso viene rappresentata come un grande macchinoso burocrate e in parte è vero perchè non abbiamo avuto la volontà e la forza di andare oltre, di ampliare il progetto di integrazione soprattutto ad ambiti non economici. L'Europa oggi ha bisogno di relazionarsi certo con gli stati, ma deve intraprendere la strada del rapporto con il suo popolo.
Non credo che i padri del pensiero europeo immaginassero che in 60 anni i 500 milioni di abitanti del vecchio continente iniziassero a sentirsi cittadini di uno stato, ma anche cittadini europei. In questi 60 anni è nata e cresciuta un'idea di società europea, che ha voglia di conoscersi, di contaminarsi, di muoversi e di viaggiare, di condividere e scambiare culture, un'Europa curiosa, un'Europa che porti avanti un'idea di società comune e condivisa, di stessi diritti e possibilità.
“Un mondo di pace, solidarietà e giustizia esige più Europa di pace, di solidarietà e giustizia. Eppure l’Unione europea può disgregarsi per gravi errori di strategia politica ed economica, per l’inadeguatezza delle istituzioni e la mancanza di democrazia. Sono stati costruiti muri con i mattoni degli egoismi nazionali soffocando l’idea d’Europa che sanciva la libertà di circolazione delle persone. Così rischia di disintegrarsi la comune casa europea, disegnata nel “Manifesto di Ventotene”, che unisce la prospettiva dello stato federale alla democrazia europea, alla pace e alla lotta alle diseguaglianze. E così si cancellano le speranze di milioni di europei.
Negli ultimi dieci anni le politiche di austerità hanno frenato gli investimenti nell’economia reale, esasperato le diseguaglianze, creato precarietà e destrutturato il modello sociale europeo.
L’Europa deve essere terra di diritti, di welfare, di cultura, di innovazione. Dovrebbe aver appreso dalla parte migliore della sua storia e dalle sue tragedie i valori dell’accoglienza, della pace, dell’uguaglianza e della convivenza.
L’Unione europea deve affrontare le grandi sfide della nostra epoca restituendo all’idea d’Europa la speranza nel benessere per l’intera collettività, la forza dei diritti e della solidarietà. E’ indispensabile e urgente ridare senso alla politica per eliminare le disuguaglianze ponendo fine alle politiche di austerità e agli strumenti che le hanno attuate, creare coesione sociale e territoriale, dare priorità all’ambiente come leva e motore per un diverso sviluppo combattendo i cambiamenti climatici, ridurre il divario generazionale e di genere, favorire la partecipazione e la cittadinanza attiva con un welfare europeo, ripudiare le guerre e perseguire il rispetto dei diritti, garantire l’accoglienza dei rifugiati e la libertà di migrare, impegnarsi a risolvere i problemi globali che sono causa delle migrazioni.
Serve una democrazia europea, dove la sovranità appartiene a uomini e donne che eleggono un governo federale responsabile davanti al Parlamento europeo.
Per queste ragioni, intendiamo agire affinché si apra il 25 marzo 2017 una fase costituente che superi il principio dell’unanimità, coinvolga comunità locali, attori economici e sociali, movimenti della società civile insieme a rappresentanti dei cittadini a livello regionale, nazionale ed europeo e si concluda in occasione delle elezioni europee nella primavera 2019. Per queste ragioni abbiamo deciso di promuovere una forte partecipazione popolare il 25 marzo 2017 a Roma e di sollecitare analoghe iniziative in altre città europee.
L’Europa democratica si affermerà solo se i suoi cittadini le faranno cambiare rotta.”
STAND UP FOR EUROPE
n.b. il testo compreso tra virgolette è tratto dai materiali forniti dal MFE per redigere il testo dell’odg.
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theadrianobusolin · 8 years ago
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Ecco cosa ci aspetta nei prossimi dieci anni: disastri ambientali e maggiori diseguaglianze La visione dei prossimi anni sul nostro pianeta non sembra proprio rosea. Il World Economic Forum, in collaborazione con il gruppo Marsh & McLennan Companies e altri partner, ha stillato il rapporto annuale sui rischi globali, un'indagine che offre una prospettiva chiara dei rischi più probabili per il nuovo anno appena cominciato e per il prossimo decennio, a cui hanno lavorato circa 750 esperti.
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paoloxl · 8 years ago
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Da poco si sa che in Italia il 30% della popolazione, considerato tutto insieme, possiede “ricchezza” pari a quanto sono arrivati a possedere i primi sette miliardari nostrani (e cioè, tanto per fare i nomi, Rosa Anna Magno Garavoglia + Giorgio Armani + Gianfelice Rocca + Silvio Berlusconi + Giuseppe De Longhi + Augusto Perfetti + Giorgio Perfetti) e che, sempre secondo Oxfam (nota ed accreditata ong britannica), l'1% della popolazione possiede un quarto della ricchezza nazionale.  Mentre, poi, i media più audaci, in contrasto con l'esperienza diretta di milioni di proletari, si affannano a far passare il concetto che la crisi “ormai” sarebbe stata superata, è filtrata la notizia delle dichiarazioni fatte Venerdì 10 dal Sottosegretario ONU per gli Affari umanitari (affari di cui normalmente si occupa l'Agenzia OCHA), S. O'Brien. Egli ha affermato, durante una riunione del Consiglio di Sicurezza, che “Il mondo si trova di fronte alla più grande crisi umanitaria dal 1945, con oltre 20 milioni di persone colpite da fame e carestia". Si tratta di una cifra impressionante, terribile, e della quale è anche difficile farsi un'idea concreta...  I Paesi più colpiti sono tutti africani, ad eccezione dello Yemen, martoriato dai bombardamenti di una coalizione guidata dall'Arabia Saudita (vedi ALTERNATIVA DI CLASSE Anno IV n. 47 a pag. 3), e dove quasi 19 milioni di persone sono ormai ridotte alla fame; gli altri Paesi sono il Sud Sudan, dove alla guerra civile per il controllo del petrolio si è aggiunta la carestia, la Somalia, dove sono arrivate a quasi tre milioni le persone che non riescono ad avere sufficienti quantità di cibo, e la Nigeria, dove nelle aree del nord-est continuano le stragi jihadiste di Boko Haram, e gli sfollati sono in 2,6 milioni. In particolare, in poco più di un mese in Yemen per altri tre milioni di esseri umani la fame si è cronicizzata!  Le guerre civili che insanguinano questi Paesi non fanno che favorire gli effetti della siccità, che colpisce, ovviamente, anche gli animali; in conseguenza della situazione, aumentano fame e sete. E ciò significherà di certo più diffusione di malattie e di morte. La richiesta di S. O'Brien ai principali Paesi imperialisti che compongono il Consiglio di Sicurezza dell'ONU è urgente per l'evidente emergenza; oltre tutto, la richiesta è precisa: entro Luglio occorre uno stanziamento di 4,4 miliardi di dollari, per “sforzi globali collettivi e coordinati”. I Commissari ONU hanno visto anche di persona quanto sta succedendo in quei Paesi, e questo spiega il tenore del suo intervento!  Per quanto riguarda la Somalia, in guerra civile da ben 26 anni, O'Brien, che fida nel nuovo governo locale, dato che è arrivato a dichiarare lo “stato di disastro nazionale” per la siccità sopravvenuta, ha affermato che è più della metà della popolazione ad avere oggi bisogno di protezione ed assistenza. Un milione di bambini con meno di cinque anni di età sta rischiando la malnutrizione acuta! In Sud Sudan, invece, un altro milione di bambini sta già soffrendo la malnutrizione acuta, e 270mila di loro rischiano letteralmente di morire di fame! Come se non bastasse, dal Giugno scorso è anche arrivato il colera. Nei villaggi del nord-est della Nigeria i bambini più piccoli sono morti per fame, e gli adulti, malnutriti, non riescono nemmeno più a camminare!  E' per lo Yemen, però, che occorrerebbe la metà degli stanziamenti richiesti, visto anche che, degli aiuti già inviati, solo il 6% è finora giunto a destinazione. Lo stesso O'Brien, infatti, ha clamorosamente rivelato che è ormai divenuta normalità il fatto che gli stessi aiuti ONU vengano strumentalizzati dalle “parti in conflitto”, direttamente sostenute dalle potenze di area, l'Arabia Saudita e l'Iran (ma non solo... - ndr): esse, nelle rispettive zone controllate, impediscono un “accesso agli aiuti umanitari” a chi non dimostra di stare dalla loro parte!...  Non è l'unico ostacolo quello coraggiosamente denunciato da O'Brien. Il 23 e 24 Febbraio ad Oslo si è tenuta una Conferenza per l'emergenza nel bacino del Lago Ciad, che riguardava la condizione di Nigeria, Niger, Ciad e Camerun, colpite da siccità e carestia: a fronte del miliardo e mezzo di dollari, richiesti dal Coordinatore regionale di OCHA, lo stanziamento complesivo, promesso dai 14 Paesi ricchi presenti, è stato solo di un terzo (484 milioni di dollari)... Un altro dato è il fatto che oggi le “emergenze” si presentano sì nei quattro Paesi indicati da O'Brien, ma in condizioni non dissimili da essi si trovano anche altri Paesi africani, come, ad esempio, Eritrea, Etiopia, Kenya, Malawi e Tanzania.  In tutti i citati Paesi africani e nello Yemen sicuramente la grande maggioranza della popolazione fa parte della metà della popolazione mondiale (3,6 miliardi di persone) che, tutta insieme, secondo dati Oxfam, possiede la stessa ricchezza degli otto uomini più ricchi del mondo!... Si tratta di diseguaglianze mostruose e rivoltanti, rispetto alle quali le istituzioni borghesi, se non tacciono, propongono “rimedi” certamente non negativi, ma risibili negli effetti, come tassazioni più progressive o, appunto, aiuti umanitari. Eppure non è difficile capire che più povertà c'è, a parità di risorse prodotte, più ricchezza c'è per qualcuno.  Il “Coefficiente di Gini” misura la distribuzione della ricchezza in un Paese, e va dal valore “zero” (0), che corrisponde alla parità di ricchezza per tutti, al valore “uno” (1), che corrisponde ad una persona che ha tutto ed agli altri che non possiedono alcunchè. Ebbene, questo indicatore sta crescendo quasi dappertutto nel mondo!... Le contraddizioni che esistono fra Paesi ricchi e Paesi poveri, sono dello stesso tipo di quelle che esistono sia all'interno dei Paesi ricchi, che dei Paesi poveri (in Africa l'Indice di Gini è quasi sempre alto...); sommando le differenze, si ha, “a palmi”, ma con evidenza, che tra i poveri dei Paesi poveri ed i ricchi dei Paesi ricchi le differenze sono abissali! E' così che le istituzioni più “illuminate” propongono allora la “soluzione” di mettere dei “tetti alle retribuzioni” più alte: non sarebbe un fatto negativo, ma non sarebbe certo risolutivo, dato che i redditi delle persone, in questo sistema sociale, di certo non derivano tutti dal lavoro personale di ognuno!...  Ai “ragionamenti” istituzionali manca qualcosa, e, precisamente, ciò che consegue dall'analisi del carattere della produzione in questo sistema sociale. L'obiettivo della produzione, infatti, non è certo il fabbisogno reale e concreto di beni e servizi (pressochè uguale per tutti, quantificabile e, perciò, tale da permettere una programmazione della produzione stessa), ma il profitto, che deriva dal modo di produzione in atto, e che non viene mai messo in discussione, perchè rappresenta la “molla” di questo tipo di sviluppo. Viene allora propinata dai fautori di questo sistema la logica che, aumentando le risorse prodotte, producendo merci “competitive”, aumenterebbero di numero i ricchi e diminuirebbero i poveri: la falsa “logica” del capitalismo! Ma non è così. Non lo è mai stato, e non lo è ora più che mai!  Il R.O.E. (“Return On Equity”) è un indice di redditività degli investimenti: la Redditività del Capitale proprio. Preso a riferimento un determinato tempo di “esercizio”, è dato dal rapporto fra utile netto (il profitto) di esercizio e capitale proprio medio, impiegato durante quell'esercizio. In epoca di capitale finanziario, come quella odierna, l'investimento è “appetibile” solo quando il R.O.E. supera i valori garantiti dagli investimenti finanziarii. Ebbene, negli ultimi tre anni “metà delle grandi multinazionali ha registrato un calo del R.O.E...”! ...ed oggi “Il 40% delle multinazionali non arriva ad un R.O.E. del 10%...”. Si ha che “Nel 2016 gli investimenti all’estero delle multinazionali sono calati probabilmente del 10-15 %.” e che certamente “Dal 2007 il volume degli scambi commerciali attraverso le filiere internazionali ristagna.”. Così si sta manifestando la crisi strutturale del capitalismo, che è sempre ben lontano dal farsi problemi per il reale fabbisogno...  Ciò che causa il fenomeno della “emergenza povertà”, denunciato da O'Brien, ed il fatto che i poveri sono sempre di più e sempre più poveri, ed i ricchi sempre di meno e sempre più ricchi, dipende da mondializzazione e concentrazione del capitale. Uno dei meccanismi capitalistici che producono tale emergenza è rilevabile anche da un'osservazione della realtà africana, dove le elites al potere sono ben lontane dalle condizioni di miseria dei propri popoli: esse garantiscono al miglior offerente dei Paesi imperialisti la rapina delle proprie risorse naturali, in cambio della guerra che lo scontro interimperialista esporta nei loro Paesi. Non è un caso, infatti, che, in tutti i Paesi dell'emergenza denunciata, sia in corso una guerra, peraltro con armi provenienti dagli stessi Paesi imperialisti, come l'Italia per quanto riguarda lo Yemen (vedi ALTERNATIVA DI CLASSE Anno IV n. 47 a pag. 4), e non solo...  Oltre tutto, lo stesso meccanismo degli aiuti, anche se indispensabili sul piano umanitario, oltre a servire per tentare di coprire le indiscutibili responsabilità imperialiste, finisce per diventare, inevitabilmente, un modo per imporre anche a quelle popolazioni una asfissiante dipendenza dai meccanismi capitalistici internazionali. L'esportazione del capitalismo ormai ha coperto tutti, o quasi, i Paesi del mondo, e le guerre, lì esportate da esso, causano fra l'altro, oltre che morte e povertà, l'emigrazione. La ricerca di una vita migliore da parte degli oppressi degli “estremi Sud” del mondo è divenuta inevitabile, e va salutata, allora, come occasione per continuare ad ingrossare le fila del proletariato. L'unica chance per l'umanità futura, infatti, non è altro che la lotta di classe! Alternativa di Classe
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paoloxl · 8 years ago
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Migranti. Non è aprendo nuovi Cie che ridurremo le tensioni e le paure
Le migrazioni del XXI secolo stanno caratterizzando la nostra epoca ed esse, secondo l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, non si assesteranno prima del 2050. Crescita della diseguaglianza a livello planetario, cambiamenti climatici che stanno rendendo inabitabili vaste aree del pianeta e le guerre hanno accelerato in quest’ultimo ventennio un fenomeno già in atto da tempo. Di fronte alle dimensioni strutturali ed epocali delle migrazioni le soluzioni emergenziali risultano limitate e alla lunga non capaci di tutelare i diritti umani dei migranti. Il tema sarà oggetto di confronto nella prossima videoconferenza che il Centro Studi Pio La Torre promuove con le cento scuole medie superiori italiane che aderiscono al suo Progetto educativo antimafia. Giovedì 12 gennaio 2017 dalle ore 9.00 alle ore 13.00 presso il cinema Rouge et Noir di piazza Verdi a Palermo gli studenti potranno ascoltare e interrogare relatori ed esperti come il prof. Maurizio Ambrosini, titolare della prima cattedra sulle migrazioni dell’Università di Milano, il questore di Palermo, Guido Longo, forte della sua esperienza nel campo dell’accoglienza e della tutela dell’ordine pubblico, del dott. Adam Darawsha, medico palestinese, integrato nella società siciliana e componente della Consulta Multiculturale, il direttore del Centro Astalli di Palermo, Alfonso Cinquemani, esperto di accoglienza, formazione e integrazione dei giovani migranti. La videoconferenza sarà moderata da Franco Garufi, del Centro Pio La Torre, che nella sua lunga esperienza di dirigente sindacale ha imparato a conoscere ed analizzare fenomeni sociali complessi.
L’Italia e l’Europa, nel corso dell’Ottocento e del Novecento, sono stati gli alimentatori del processo migratorio verso le Americhe, l’Australia e poi, dopo la seconda guerra mondiale, dal sud dell’Europa verso i paesi del Nord Europa in rapida ricrescita dopo le distruzioni belliche. Oggi l’Italia e l’Europa sono diventati l’approdo più desiderato dai migranti dell’Africa, del Medio Oriente, dell’Oriente che scappano da miseria, fame e guerre. L’Italia e la Sicilia, al centro del Mediterraneo, sono le sponde più vicine per l’approdo dei migranti, che nel 2016, secondo l’Unhcr, sono stati “soltanto” 181.405 dei 361.678 sbarcati in Europa. Cifra inferiore del 64% rispetto al 2015 quando sono arrivate un milione di persone. Intanto, nel 2016, 5.022 persone nel tentativo di raggiungere l’Europa sono morte in mare.
Pur con tutti gli sforzi prodotti per salvare i migranti in mare, l’accoglienza in Europa è ancora inadeguata. Le vicende dei dieci Cara (Centro d’accoglienza per i richiedenti asilo) e quelli dei Cie (Centri di identificazione ed espulsione) sono illuminanti. Dalla presenza di Mafia Capitale nel Cara di Mineo alla rivolta di Cuna emerge un’inadeguatezza dei controlli e un’impossibilità di gestione di sovraffollati (vere e proprie città) centri d’accoglienza, dati in gestione a strutture non sempre all’altezza di compiti e dedite spesso più a un facile arricchimento sulla pelle di lavoratori alle loro dipendenze e dei richiedenti asilo che ad una gestione rispettosa della solidarietà e dignità umana. Non bisogna dimenticare le difficoltà di gestione da parte dei Comuni, senza soldi, personale e mezzi di formazione culturale, dei minori non accompagnati e della prima accoglienza.
Se l’Ue ha prodotto un grande sforzo organizzativo per salvare le vite dei migranti, lo stesso non è stato fatto per affrontare alla radice i problemi che generano l’emigrazione e il processo di integrazione multiculturale nella società europea dei migranti. Alla radice ci stanno le guerre, dalla Libia alla Siria, la nascita del terrorismo islamista che da Al Qaeda a Daesh ha radicalizzato lo scontro militare e culturale approfittando degli errori dell’Occidente con la guerra in Afghanistan, in Iraq, in Libia, per il controllo delle risorse dell’area petrolifera. Ci stanno, inoltre, le gravi diseguaglianze che la globalizzazione non governata democraticamente ha generato inasprendo le condizioni di sfruttamento e di nuova schiavitù usate dai radicalismi religiosi così come dei populismi occidentali per imporre il dominio di classi dirigenti autoritarie.
Radicalismi e populismi si sconfiggono sul piano della democrazia e delle politiche antidiseguaglianza in tutti i paesi e in tutto il mondo, sia che appartengano all’area opulenta del consumismo occidentale sia che a quella degli oppressi dalla fame. Spetta all’Europa e all’Italia unire il Mediterraneo contro i tentativi di divisione utilizzati dal terrorismo e dalle organizzazioni criminali che controllano i flussi migratori. Spetta all’Ue e all’Italia scegliere la contraddizione tra processi sociali sempre più globali (vedi i diritti umani dei migranti) e un mondo e un’Europa che restano divisi in Stati-nazione. Oggi è urgente, più di ieri, di consolidare una cittadinanza multiculturale europea per il riconoscimento di diritti sociali e umani anche per i migranti, una cittadinanza multiculturale che sappia salvaguardare il riconoscimento identitario con la salvaguardia della coesione sociale.
Non è aprendo nuovi Cie che ridurremo le tensioni e le paure, ma dialogando con tutti i comuni e i loro sindaci per organizzare l’accoglienza e l’integrazione dando loro mezzi finanziari e personale qualificato. I migranti sono una risorsa economica demografica e culturale da valorizzare per impedire l’invecchiamento e l’involuzione dell’Europa e rafforzare i suoi sistemi democratici come esempio positivo per la globalità dei paesi.
http://www.articolo21.org/2017/01/migranti-non-e-aprendo-nuovi-cie-che-ridurremo-le-tensioni-e-le-paure/
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