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#diagnosi sindrome di Rett
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Sindrome di Rett bambini
La sindrome di Rett è una malattia genetica che colpisce in prevalenza i bambini di sesso femminile. Colpisce il sistema nervoso centrale causando un grave o gravissimo deficit cognitivo. Una patologia che si manifesta già nei primi mesi di vita in particolare dai 6-18 mesi di vita, con sintomi visibili, la perdita della motricità, delle capacità manuali e isolamento dal contesto sociale. La sindrome sembra essere causata dalla mutazione di un gene, non vi è modo di diagnosticare la malattia prima della nascita anche perché non vi sono manifestazioni durante la gravidanza e nei primi sei mesi di vita del bambino che sembra essere normalissimo, con uno sviluppo assolutamente nella norma. Purtroppo lo sviluppo subisce un’arresto nella fase successiva tra i 6 e i 28 mesi.
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Le capacità psicomotorie che il bambino ha acquisito fino a quel momento regrediscono in concomitanza con la comparsa di movimenti stereotipati delle mani  o anche indicato come “hand washing”, a cui segue la perdita di interesse per l’ambiente sociale. Possono essere anche presenti respirazione irregolare, anomalie elettroencefalografia ed epilessia. La gravità della malattia è variabile, infatti sono state riconosciute delle varianti atipiche della sindrome di Rett.
Uno dei caratteri che distingue questa patologia è la fase di regressione, infatti le bambine perdono le capacità fino ad allora acquisite assumendo poi degli atteggiamenti di totale isolamento, oltre all’uso volontario delle mani, sostituito da movimenti ripetitivi che ricordano l’atto di lavarsi le mani, o l’applaudire e il portarsele alla bocca. Movimenti considerati stereotipie, uno dei tratti distintivo della malattia.
Successivamente si presentano le prime difficoltà di deambulazione e da li lo sviluppo comincia a rallentare notevolmente. Nella fase successiva la malattia si stabilizza, per poi presentarsi con una serie di sintomi che influisce negativamente sulla vita della piccola e ovviamente dell’intera famiglia.
 Una malattia che spesso viene confusa con l’autismo o anche con un ritardo dello sviluppo generale. Indicata anche come la malattia degli occhi belli, come la definiva colui che l’ha scoperta il professor Andras Rett, il primo a scoprire la sindrome di Rett.  
Un malattia famosa per le conseguenze spesso molto gravi per le disabilità che può provocare. IL blocco dello sviluppo è dovuto secondo gli esperti da un rallentamento della crescita del cranio rispetto al corpo. Una malattia che oltre alle difficoltà motorie e al disinteresse sociale provoca un rallentamento della crescita, con gravi rigidità e atrofie muscolari sempre più evidenti  con l’avanzare dell’età. 
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La diagnosi viene stabilita in relazione sviluppa prenatale e psicomotorio considerato normale nei bambini, in aggiunta alla crescita del cranio in particolare dai 5 ai 48 mesi di vita del piccolo.
La malattia può avere diverse forme, dalla comparsa tardiva, o diversamente con un inizio precoce, o addirittura con forme più lievi in cui non vi è una grave compromissione delle abilità manuali e del linguaggio, anche lo sviluppo del bambino sembra esser e nella norma.
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monicadeola · 3 years
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Se si dice «neuropsichiatria infantile», in Italia e non solo in Italia, si dice Michele Zappella. A 85 anni, il grande medico toscano che divenne famoso negli anni ‘60 e ‘70 per l’impegno contro le classi differenziali — un ghetto per i bambini meridionali — e poi per aver scoperto un paio di sindromi cliniche che ne hanno fatto un’autorità internazionale negli studi sull’autismo, continua il suo viaggio nell’infanzia e per l’infanzia con una passione e un’energia che impressionano. Quest’anno ha appena pubblicato per Feltrinelli un nuovo libro, Bambini con l’etichetta, in cui si schiera contro il dilagare di diagnosi che finiscono, avverte, per creare nuove condizioni di emarginazione. Sono appunto «etichette», è la sua denuncia, che si appicciano addosso al bambino e l’accompagnano fino al suo ingresso nel mondo del lavoro. Troppo spesso dei ritardi, se non delle «transitorie timidezze», vengono a suo avviso confusi per disturbi, dislessia, discalculia, iperattività, fino all’autismo. E queste diagnosi sbagliate vengono anche rese pubbliche, così le etichette diventano sentenze. Parlando con Anna Stefi per una splendida intervista pubblicata da Doppiozero, il vecchio «zio Michele», come si fa chiamare dai bambini che ancora cura — o come a loro si propone quando non parlano — arriva a dire che con la pandemia a molti bambini è andata meglio, perché sono stati di più con i genitori e si sono evitati diagnosi sballate. Diagnosi la cui pubblicità, oltre che gli errori di merito, non si stanca di contestare: «La diagnosi, che è qualcosa di estremamente delicato, non resta tra la famiglia e il professionista, come invece dovrebbe. Certo poi si tratta di capire cosa fare della diagnosi rispetto al bambino, ma che la diagnosi venga conosciuta da tutti a scuola, anche dai compagni e dalle compagne, proprio in quel luogo dove sviluppano la loro socialità, è qualcosa di gravissimo ed è quel che porta al trasformarsi della diagnosi in etichetta, cioè descrivere una persona per un aspetto della sua personalità, un aspetto negativo. Le diagnosi nel contesto scolastico dovrebbero rimanere estremamente riservate. La conseguenza, altrimenti, a partire dai più piccoli, è che l’etichetta viene interiorizzata, i pregiudizi si diffondono, l’ascolto di quel particolare bambino, non riducibile alla diagnosi che è stata fatta, diventa difficile». Poi evidentemente c’è l’altro problema, quello del merito delle diagnosi: «Su cinque bambini che sono indietro nella lettura, indistinguibili tra loro da un punto di vista fenomenico, uno solo tra loro è dislessico, gli altri sono ritardi di lettura dovuti a problemi ambientali o a ragioni differenti. In questo proliferare di diagnosi di dislessia il messaggio che arriva dalle nostre istituzioni agli insegnanti è che dislessia, discalculia, disgrafia, sono caratteristiche biologiche dell’individuo e che, come tali, rischiano di perpetuarsi e vanno gestite in terapia. Si tratta di qualcosa di completamente errato, che toglie alla scuola uno dei compiti principali: insegnare, leggere e fare di conto. Alla scuola questo si chiede, togliere questi strumenti è grave e se ne vedono le conseguenze: se andiamo a vedere le statistiche, sul piano dell’insegnare a leggere, l’Italia è tra gli ultimi paesi, è un paese dove i ragazzi che entrano nella scuola superiore non comprendono un testo». Così, come rileva l’intervistatrice, che nella scuola lavora, c’è il rischio che noi genitori ci siamo adagiati troppo sulla richiesta degli strumenti compensativi e dispensativi previsti dalle diagnosi e che, tra mappe cognitive e interrogazioni programmate, riducono l’impatto con la fatica. Vale per gli adolescenti come vale, sottolinea Zappella, per i bambini: «Il problema di fondo lo leggo in questa maniera: succede ora e non succedeva decenni fa, e questo a mio avviso è un cambiamento di cultura. Cosa è accaduto? La cultura nei riguardi dei bambini e degli adolescenti è cambiata nella direzione di quello che si potrebbe chiamare “la caccia al diverso”, “troviamo la diversità”: inizia con i BCE, poi con i DSA (Disturbi specifici dell’apprendimento), e così via. Gli stessi genitori si trovano a percorrere questa direzione». A Zappella, inevitabilmente, questi percorsi ricordano l’esperienza che l’ha reso celebre: «Ricordo benissimo i tempi delle classi differenziali e speciali. Mi sono trovato protagonista nel favorirne la chiusura e in quell’epoca, prima metà degli anni Settanta, quello che facevo era di andare nel territorio, tra Siena e Firenze. Nelle scuole si tenevano delle assemblee molto partecipate, con anche cinquecento persone. In queste assemblee non intervenivano i genitori ma i cittadini, intervenivano perché era apparso chiaro in quegli anni che nelle classi differenziali andavano i figli dei poveri, in particolare i figli degli immigrati interni, quelli che si muovevano dal sud al nord, che parlavano dialetto e provenivano da famiglie analfabete e che davanti ai test collettivi non rispondevano perché faticavano a capire il tema e dunque la diagnosi prevalente era il ritardo mentale». La chiusura delle classi differenziali liberò risorse, spazi e insegnanti specializzati che furono così indirizzati su bisogni reali: «Un esempio è quello dei bambini sordi, che hanno bisogno di un insegnamento che dura un certo periodo di tempo e li conduce a padroneggiare l’italiano: vi erano classi particolari in cui i bambini sordi portavano avanti questo lavoro, affiancato a momenti in cui stavano con i compagni. Quando poi acquisivano la lingua venivano reintegrati totalmente. Gli insegnanti specializzati intervenivano con i sordi, con i ragazzi in difficoltà, ma non c’era una diagnosi pubblica». Ma tutto questo, sostiene lo psichiatra, è stato a suo volta compromesso dalla sostituzione delle assemblee di «genitori cittadini» con i «rappresentanti dei genitori», e dalla conseguente diffusione delle diagnosi. C’è poi un altro tema — un’altra conseguenza — che Zappella affronta con grande forza nel libro, ed è quello del bullismo: «Il nostro Paese è uno di quelli con più elevato livello di bullismo, percentuali vicine al 50% secondo alcuni studi di inizio millennio. Il termine venne introdotto nel 1974 da un pedagogista norvegese, Dan Olweus dopo che tre ragazzi si erano uccisi. Olweus ha introdotto anche delle strategie antibullismo che attualmente vengono messe in atto a livello nazionale nei Paesi scandinavi. Una delle frasi di Olweus che mi trova molto d’accordo è che dove c’è bullismo non c’è democrazia: se lei ha un figlio che a scuola incontra episodi di bullismo, le pare che possa dire di essere in un paese democratico? Un paese che non rispetta bambini e adolescenti non è un paese democratico, è una finzione». Le «strategie antibullismo» prevedono l’isolamento del bullo e il confronto con lui, con modalità diverse a seconda dell’età: «Generalmente con i bambini più piccini è più facile persuadere il bullo che lui ha delle qualità sociali con cui può rendersi utile. Con gli adolescenti può essere più difficile, possono essere più tosti, dunque il discorso può esser concreto e anche duro: se vuoi ci siamo, se non vuoi, ci rivediamo tra una settimana». Anche il fallimento della lotta al bullismo Zappella lo imputa alla sostituzione delle assemblee con i rappresentanti: «Cosa fanno gli insegnanti in queste situazioni? Situazioni in cui magari i rappresentanti dei genitori sono proprio i genitori del bullo, genitori pronti a minacciare la denuncia al Tar? Molti insegnanti stanno sulle loro, non esiste una direttiva chiara in questo senso». Il «punto chiave», per ognuno di questi aspetti, è che per i genitori è difficile accettare la difficoltà dei figli. Diventa la loro frustrazione e non riescono a sopportarla: «Il collegamento importante è quello sui valori della società dei consumi, quali valori? Se devi entrarci, devi avere due qualità: saperti relazionare bene e leggere e scrivere e fare di conto. Se poi sei troppo irrequieto non va bene, perché sei impulsivo, e nemmeno se sei troppo silenzioso. Da parte dei genitori il problema quale è? Il genitore pensa che il suo obiettivo sia innanzitutto avere il minor numero di problemi e dunque moltiplicare gli interventi attorno al proprio figlio è garanzia di questo. Questa impossibilità di tollerare le difficoltà ha note molto drammatiche, la diagnosi di autismo, per esempio, ha ricadute sulla famiglia devastanti e 50 anni fa non era così. Quattro madri su cinque vanno in depressione e dopo un anno e mezzo la depressione si riscontra ancora: si tratta di depressioni pesanti, che spesso portano anche la famiglia a non reggere». Ma resta il fatto che molte diagnosi sono sbagliate perché non si interviene nel modo giusto nel momento decisivo: «Generalmente il problema si pone intorno ai due anni, i bambini a due anni che rapporto hanno con un adulto? Un bambino di due o tre anni, che non parla granché, ha un altro tipo di comunicazione, una comunicazione nella quale vuole essere rassicurato e divertito. Ogni bambino ha la sua, ci sono bambini più visivi, bambini più musicali. Io spesso borbotto motivetti musicali. Questo passaggio è necessario per creare un’alleanza e l’alleanza è essenziale per capire chi è il bambino che mi trovo davanti. Un altro elemento fondamentale è accogliere i bambini con il loro nome e in un ambiente pieno di giocattoli, distribuiti con sapienza, giocattoli che devono essere presentati a lui come fossero lì per lui. È essenziale che il bambino si senta protetto, in un ambiente sicuro, solo in questa situazione possiamo capire chi sia davvero. I bambini visitati nella corsia di ospedale sono allarmati, mica sono scemi! Sentono l’allarme dei genitori e dunque se ne stanno sul chi va là». E allora, meglio «dimenticare la diagnosi e parlare con i pazienti. Le bambine con Sindrome di Rett, per esempio, sono bambine che non parlano e non parleranno mai, quale è il senso di descrivere ai compagni le caratteristiche e le conseguenze della malattia? Si tratta di bambine che molto spesso si incantano con Mozart, comunicano con la musica. È essenziale vedere questo, vedere il rapporto con l’altro in questa direzione. Le diagnosi cancellano gli aspetti positivi». Alla fine , c’è il senso di una missione che i grandi medici trasmettono in un unico modo, l’esempio instancabile e divertito: «Quando vedo questi bambini di due o tre anni e faccio il pagliaccio io vedo un candore che trasmette un’energia che dura giorni e giorni, e insomma il problema è di mettersi dalla loro parte. Non è tanto facile, ma è possibile. Mi dispiace che il nostro Paese culturalmente sia un po’ tagliato fuori dall’Europa, non c’è comunicazione tra i discorsi educativi, non circolano. Ma io voglio pensare in modo positivo, bisogna battersi, no?».
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frontiera-rieti · 6 years
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Sul tema della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’autismo, pubblichiamo una testimonianza da fuori Rieti, per allargare il panorama e approfondire. A parlare è Carmela, mamma di Eliana, nata con un disturbo che rientra nello spettro autistico. «Abbiamo una chiesa vicino a casa, ma Eliana non vuole entrarci. La domenica c’è anche un gruppo di scout, ho chiesto se potevamo unirci a loro ma ci hanno fatto capire che non era ben accetta». La denuncia: «Quando si diventa maggiorenni, per lo Stato i ragazzi autistici non hanno più bisogno di nulla»
«La Chiesa dovrebbe aiutare i nostri ragazzi, supplendo alle carenze dello Stato». Carmela è la mamma di Eliana, nata con un disturbo che rientra nello spettro autistico. I medici la chiamano sindrome di Rett, e fino ai 2 anni di età i genitori non avevano sospettato nulla: «Poi si sono manifestati grossi problemi, ma per avere la diagnosi abbiamo dovuto aspettare dieci anni. Abbiamo brancolato nel buio per tanto tempo. È una malattia attualmente non curabile, che ha diverse manifestazioni. Ma avere un’etichetta, in fondo, non serve a nulla: meglio concentrarsi sui sintomi da curare».
Cosa si aspettano dalla Chiesa i genitori di figli con autismo?
Che possa fare tanto in questo ambito. Lo Stato ha privatizzato anche il “Dopo di noi”. Mi auguro che la Chiesa possa assolvere questa funzione: non soltanto da un punto di vista finanziario, ma anche relazionale. Posso avere tantissimi soldi, ma pensare di lasciare Eliana in una casa con una badante è triste. Sarebbe sola. La comunità cristiana, invece, potrebbe accoglierla. La Chiesa può creare strutture adatte.
Intanto, come è stata accolta in parrocchia?
Abbiamo una chiesa vicino a casa, ma Eliana non vuole entrarci. La domenica c’è anche un gruppo di scout, ho chiesto se potevamo unirci a loro ma ci hanno fatto capire che non era ben accetta. Poi ho trovato una chiesa meravigliosa, dove ha fatto la Comunione e la Cresima. È la parrocchia Santi Martiri dell’Uganda a Roma. C’è un’accoglienza enorme. Quando entra nessuno si gira a guardarla, e lei non si mette mai ad urlare. Non ho trovato questa attenzione altrove, abbiamo fatto tantissime esperienze insieme e anche un campo estivo. C’è persino un pensiero a quello che sarà dopo.
Come è andata con i Sacramenti?
Sono stata felice dell’esperienza della Comunione e della Cresima. Alla Domenica delle Palme dello scorso anno, la funzione era molto lunga. A un tratto lei mi ha indicato la croce sulla tabella che utilizziamo per comunicare, per dirmi a che punto ci trovavamo. Spiegare il catechismo a Eliana non è facile. Ma io so che lei capisce.
Cosa è successo quando avete saputo della malattia di Eliana?
È stato molto difficile, perché non si sapeva neppure cosa fare. La prima fase è stata caratterizzata da grandi sofferenze fisiche. Eliana aveva problemi allo stomaco, otiti ricorrenti, non dormiva la notte, non mangiava e aveva allergie alimentari. La preoccupazione era di farla stare bene fisicamente. In quel momento abbiamo dovuto imparare a comprendere quello che lei voleva: ha detto “mamma” e poi più nulla. Ora, in più, dice soltanto “papà” e un gorgheggio per chiamare la sorella.
A proposito: com’è il rapporto tra sorelle?
Meraviglioso. Anna Maria ha visto la sorella da subito, ed Eliana l’ha presa in braccio appena rientrati a casa. Per Anna Maria non potrebbe che essere così la sorella, hanno un grande feeling e una capacità comunicativa sorprendente. Capisce molte cose di Eliana che io non riesco a comprendere.
Esistono giornate “normali” in famiglia?
Quando raramente capitano, siamo felici. La mattina laviamo e prepariamo Eliana, poi la vestiamo e la portiamo al pulmino che la viene a prendere per andare a scuola. Frequenta un istituto superiore, ma fa 5 ore al giorno anziché 6 perché si stanca. Dopo il pranzo, attività sportive come basket e nuoto. La psicomotricità con la terapista a casa due volte a settimana, così come lo yoga mirato per lei. Un pomeriggio andiamo in parrocchia, per un gruppo post-cresima. È importante rendere attiva la sua giornata, soprattutto per farla stare insieme alle altre persone e relazionarsi.
Chi si fa carico dei costi di assistenza?
Una parte dell’attività riabilitativa è a carico della Asl fino ai 18 anni: quando si diventa maggiorenni, per lo Stato i ragazzi autistici non hanno più bisogno di nulla. Eliana era seguita da un centro accreditato, e fortunatamente il progetto ancora dura. L’assistenza era già male organizzata quando era piccola, dopo la maggiore età è sparita del tutto. Nella Asl non c’è nemmeno la figura del neurologo che possa dare supporto alle persone come Eliana.
Quindi grava tutto sulla famiglia?
È tutto privato, con risorse economiche ingenti. Ma il problema è anche la scelta. A nessuno interessa dei nostri ragazzi. Noi siamo seguiti all’Istituto Bollea, dove c’è ancora l’idea del servizio pubblico. Ma la struttura sta chiudendo.
E a scuola?
È sempre stata una lotta, è facile accogliere chi parla e sa comprendere anche se ha una disabilità. Più difficile è avere un ragazzo che non può comunicare. Lei ha difficoltà a camminare, anche se fortunatamente riesce ad utilizzare le mani. Riesce a mangiare, ma non può scrivere. Il problema più grande, però, è farsi comprendere: i nostri ragazzi vogliono fortemente stare con gli altri, ma devono avere gli strumenti per comunicare.
Giornata dell’autismo. L’appello di una mamma: «La Chiesa si dovrebbe prendere cura dei nostri figli quando non ci saremo più» --------------------- La domenica di Pasqua, è stata celebrata anche a Rieti la Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’autismo. Le iniziative hanno previsto una prima parte svolta all’Auditorium Varrone, durante la quale è stato proiettato il film “Life Animated”. Sul far della sera, la manifestazione è stata spostata lungo il fiume Velino, dove sono state lanciate in aria 70 lanterne luminose blu. Sul tema della Giornata Mondiale della Consapevolezza sull’autismo, pubblichiamo una testimonianza da fuori Rieti, per allargare il panorama e approfondire.
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occhidibimbo · 7 years
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Il gioco nel bambino con autismo
Il gioco: una delle attività fondamentali per ogni bambino
Il gioco è una delle attività fondamentali per i bambini, il modo con cui essi iniziano a conoscere il mondo che li circonda, si mettono alla prova, crescono e si esprimono. Ogni fase di crescita ha la sua tipologia di gioco, e così si passa dai primi giochi esplorativi a giochi da fare con gli altri, da quelli più semplici a quelli più strutturati. Un’attività, insomma, che segue tutte le fasi evolutive e che stimola innumerevoli attività e abilità, da quelle fisiche a quelle di coordinamento, da quelle didattiche a quelle che riguardano la socializzazione. Uno stimolo che in realtà accompagna tutti e in ogni occasione della nostra vita, anche in età adulta, anche se poi gli dedicheremo tempi diversi e attività diverse. Come detto, il gioco è uno strumento per crescere e per esprimersi, e in questo senso deve essere visto come un mezzo adatto a tutti, senza escludere bambini con disabilità o particolari difficoltà. Il gioco, infatti, è un’attività spontanea per tutti e proprio nei bambini che hanno delle difficoltà particolari dovrebbe essere utilizzato per stimolare e per far sì che il bambino possa avere nuove esperienze e occasioni di crescita. Il gioco, infatti, è lo strumento con cui tutti i bambini possono esprimersi liberamente e in questo senso dovrebbe essere utilizzato favorendo la modalità tipica del gioco di ogni bambino, compresi i bambini con specifiche difficoltà e bambini con autismo.
L’autismo nei bambini
L’autismo è un disordine neurobiologico dello sviluppo che interessa soprattutto il sistema nervoso centrale e che, secondo gli studi, richiama ad anomalie di un circuito neuronale che comprende la corteccia temporo-parietale e prefrontale, il sistema limbico, il cervelletto e il corpo calloso. La diagnosi di autismo viene solitamente formulata facendo riferimento alle due principali classificazioni internazionali attualmente in vigore: il DSM (il manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) e l’ICD (la classificazione internazionale dei disturbi e delle malattie). L’attuale edizione del DSM-5 del 2013 ha introdotto alcuni cambiamenti per quanto riguarda i criteri diagnostici dell’autismo, riunendo in un’unica categoria denominata “Disturbi dello spettro autistico” i vari sottotipi, eccetto che per la sindrome di Rett, che è invece annoverata tra i disturbi neurologici. In generale, la diagnosi di autismo viene effettuata intorno ai 3-4 anni di età del bambino, anche se in realtà già nei primi anni di vita si possono manifestare dei segnali che possono richiamare comportamenti tipici dell’autismo. Tra questi, la difficoltà del contatto visivo, l’assenza del cosiddetto sorriso “sociale”, la mancanza di risposta se il bambino viene chiamato per nome, anomalie nell’attenzione, nel gioco simbolico e nello sviluppo del linguaggio. La diagnosi di disturbo dello spettro autistico richiede la presenza di almeno tre sintomi nella categoria dei deficit della comunicazione sociale e di almeno due in quella dei comportamenti ripetitivi. Il deficit nella comunicazione e nell’interazione sociale in diversi contesti è infatti uno dei tratti tipici dell’autismo, così come l’interesse per poche e ripetitive attività. La diagnosi di autismo, infatti, si basa su criteri comportamentali ed è quindi necessario utilizzare procedure e strumenti di valutazione standardizzati, validati a livello internazionale. Nel DSM-5, infatti, si parla sia di deficit nella reciprocità socio-emotiva, nei comportamenti comunicativi non verbali usati per l’interazione sociale e nella creazione e mantenimento di relazioni appropriate al livello di sviluppo, oltre che di linguaggio, di movimenti o uso di oggetti stereotipati o ripetitivi, attaccamento alla routine, interessi ristretti e iper o ipo reattività agli stimoli sensoriali. Gli interventi terapeutici nell’autismo Gli interventi terapeutici che vengono offerti per quanto riguarda bambini con disturbi dello spettro autistico sono numerosi e spesso la scelta di come muoversi è veramente difficile. In questo senso, vista la difficoltà di scegliere come intervenire terapeuticamente per un bambino con autismo, il Sistema Nazionale per le Linee Guida dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) ha dettato delle linee guida per quanto riguarda i disturbi dello spettro autistico. Un tipo di intervento che oggi è avvalorato da molte prove scientifiche che ne indicano l’effettiva efficacia è quello di tipo educativo basato sui comportamenti, indicato come tecnica ABA (Applied Behaviour Analysis), che viene applicata con vari modelli. Il più conosciuto è il modello UCLA/Lovaas, sviluppato negli anni Ottanta del secolo scorso, che interviene sulle competenze cognitive, linguistiche e di adattabilità del bambino; altra applicazione della tecnica ABA è quella del modello Denver, che si basa sulle specifiche caratteristiche di ogni bambino e sulle sue preferenze di gioco e di attività, sulle quali poi sviluppare un progetto riabilitativo.
L’importanza del gioco per il bambino autistico
Rispettando i diversi livelli di gravità dei disturbi dello spettro autistico come indicato dal DSM-5 e considerando che il gioco è da considerarsi uno strumento di libera espressione per ogni bambino, ciò che sembra importante, secondo gli studi degli ultimi anni, è proporre ai bambini con autismo giochi che siano a loro congeniali e che favoriscano la loro personale soddisfazione del loro modo di esprimersi. Per i bambini autistici, infatti, sarà importante poter valorizzare il gioco nel rispetto della loro neurodiversità, favorendo le modalità di gioco che più stimolano i loro canali espressivi. Sembra infatti che i bambini autistici preferiscano giochi sensoriali che con il loro movimento, soprattutto ripetitivo, diano risultati di causa-effetto e che quindi rispettino il loro continuo bisogno di stimoli sensoriali, facendo diminuire in loro necessità di compiere quei movimenti non finalizzati tipici delle loro stereotipie motorie. I disturbi dello spettro autistico, infatti, originano da una compromissione dello sviluppo che coinvolge le abilità di comunicazione e di socializzazione e sono in generale associati a comportamenti ripetitivi o stereotipati e un’alterata capacità immaginativa. Offrire quindi a un bambino con autismo giochi che gli permettono di soddisfare le sue necessità, che lo stimolano e lo gratificano nel rispetto delle sue caratteristiche, senza forzarlo a far giochi che si ritengono erroneamente stimolanti per sviluppare le sue abilità, significa rispettarlo e dargli la possibilità di esprimersi nell’ambiente nel modo a lui più congeniale. È per questo che è importante che né i genitori né gli educatori insistano perché un bambino autistico si adatti ai giochi che si ritengono più adatti per lui, ma che gli venga data la possibilità di vivere il gioco per quello che è, e cioè l’espressione del proprio essere, delle proprie preferenze e delle proprie esigenze. Se vuoi lasciare un commento, raccontarci la tua esperienza o scriverci in privato, puoi utilizzare il form sottostante. Read the full article
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