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Nella Residenza #Quasi Niente
Aspettando la prova aperta di oggi pomeriggio alcune immagini dall'incontro di ieri tra i ragazzi delle scuole medie di Mondaino e la compagnia in residenza in teatro con Daria Deflorian e Antonio Tagliarini.
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“Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?”
Una donna entra sul palco e la luce si spegne. Prende una radio dal fondo, lentamente la luce si alza e lei si siede al centro. La radio si accende da sola. Prima si sentono rumori che sembrano provenire da un fuori poi una musica. Lei è immobile, il volto sembra impassibile. che da un altro piano di realtà si volta, guarda il pubblico-bambino e lentamente gira la testa per scrutare il luogo che lentamente prende vita e si accende.
Che cosa guardava?
Bimbo1 Guardava spaesata il paesaggio attorno a lei.
Bimbo2 Il vuoto.
Bimbo3 I ricordi.
Un uomo e ... “Ho fatto un sogno”. Il puck e I ricordi di un bambino che si infrangono distruggendo il reale.
Bimbo1 E’ un pò starno che vede tutti questi puck ovunque.
Bimbo2 Ha paura
Bimbo3 Perché non li compra questi puck ora che è grande?
#residenza creativa#residenze 2018#daria deflorian#antonio tagliarini#defloriantagliarini#quasi niente#photooftheday#photography#photographer
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11/05/2018 - 20/05/2018 #Quasi Niente
Inizia oggi e prosegue fino all’apertura pubblica del 20 maggio la residenza creativa per la ricerca e la produzione del nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
[ph. Chiara Ernandes]
Quasi Niente Progetto di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini liberamente ispirato al film Il deserto rosso di Michelangelo Antonioni Collaborazione alla drammaturgia, Aiuto regia Francesco Alberici Con Francesca Cuttica, Daria Deflorian, Monica Piseddu, Benno Steinegger, Antonio Tagliarini Collaborazione al progetto Francesca Cuttica, Monica Piseddu, Benno Steinegger Consulenza artistica Attilio Scarpellini Luci Gianni Staropoli Suono Leonardo Cabiddu, Francesca Cuttica (Wow) Costumi Metella Raboni Direzione tecnica Giulia Pastore Organizzazione Anna Damiani Accompagnamento, Distribuzione internazionaleFrancesca Corona / L’Officina Produzione A.D., Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Teatro Metastasio di Prato, Emila Romagna Teatro Fondazione Coproduzione théâtre Garonne, scène européenne Toulouse, Romaeuropa Festival, Festival d’Automne à Paris / Théâtre de la Bastille – Paris, LuganoInscena LAC, Théâtre de Grütli – Genève, La Filature, Scène nationale, Mulhouse Sostegno Istituto Italiano di Cultura di Parigi, L’arboreto – Teatro Dimora di Mondaino, FIT Festival – Lugano
Oggetto di partenza del nostro nuovo progetto è Il deserto rosso, lo straordinario film del 1964, prima opera a colori di Michelangelo Antonioni, che a partire – sembra – da un breve racconto di Tonino Guerra vede in scena una straziante e fanciullesca Monica Vitti. Giuliana, moglie e madre, attraversa il deserto – in una scena davvero rosso – della sua vita senza che nessuno possa realmente toccarla, senza toccare davvero nessuno. Nemmeno l’incontro con Corrado, amico del marito, per tanti versi simile a lei, riesce a cambiare le cose. Poche le parole, alcune talmente belle da diventare proverbiali (“Mi fanno male i capelli”, la più nota, presa in prestito dalla poetessa Amelia Rosselli) e protagonista assoluto il paesaggio, una Romagna attorno a Ravenna trasfigurata dal regista (“ho dipinto la realtà” ha dichiarato all’epoca) in un mondo la cui malattia è anche la sua bellezza, in un cortocircuito di senso e di sensi che ancora oggi ci sbalordisce. Un oggetto ingombrante, visto, discusso, sviscerato, a differenza di Janina Turek, la protagonista del nostro lavoro del 2012, Reality e delle pensionate greche prese in prestito da Petros Markaris che abbiamo abitato in Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni del 2013, entrambi oggetti di cui pochi o nessuno si era occupato. Il deserto rosso è invece uno dei film centrali – hanno scritto – non solo del cinema italiano e internazionale ma delle arti visive del Novecento.La scelta è quella di essere cinque in scena, tre donne, due uomini. Prima di tutto per evitare il triangolo borghese, moglie-marito-amante, per avere la possibilità di lavorare liberamente attorno alla figura di Giuliana e infine per rispondere alla tensione anti-realistica del film. Infatti, se questa opera ci ha toccato è anche perché il film non è la sua trama e questo ci corrisponde. Da sempre nei nostri lavori siamo attratti da figure marginali, dimesse (quelle lucciole fisiche e di pensiero così ben descritte da Georges Didi-Huberman), abbiamo raccontato casalinghe e pensionate, ci siamo descritti nelle loro cadute e fallimenti. Figure apparentemente lontane da Antonioni e dalle sue ambientazioni medio borghesi. In realtà Giuliana è assolutamente parte di questa galleria di persone riuscite a metà, storte. È una ‘selvatica vestita elegante’, a suo modo una Kaspar Hauser. C’è qualcosa in lei che ci parla di una ricerca di verità che spesso, nella nostra sempre maggiore “capacità” di stare al mondo, abbiamo perso. Ci siamo adattati. Accomodati, abbiamo azzittito domande come quelle che si fa lei: “Ma cosa vogliono che faccia con i miei occhi? Cosa devo guardare?”. Il nostro vuole essere un lavoro non solo sul disagio, la fragilità, sulle crepe, ma anche sulla fanciullezza di questa donna, che il mondo non sembra più interessato ad ascoltare.“C’è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cosa sia. E nessuno me lo dice” dice Giuliana.
Il deserto rosso si interroga in maniera personalissima su quel cambiamento epocale che tutti gli artisti del dopoguerra hanno sofferto e raccontato (definito alienazione per Antonioni, genocidio culturale per Pasolini). Quell’alienazione – termine non a caso desueto – ci appartiene talmente tanto da non avvertirla più. La cerniera tra dentro e fuori in quest’opera è talmente particolare, profonda che non possiamo che essere sollevati dal fatto che il film inizi durante uno sciopero, che lo sfondo sia lo sfruttamento di operai chiamati a sradicarsi, a lasciare la loro terra per lavorare. Questa osmosi tra questi due livelli del racconto in Antonioni non vuole essere risolutiva, ideologica, ma scava, intreccia, sposta, eccoci ancora al rapporto tra figura e sfondo. In questo senso è illuminante la scena sottilmente straziante tra l’operaio e Giuliana, che si sono conosciuti in clinica, che hanno sofferto un male simile, che si riconoscono.
Dove siamo ora?
#residenza creativa#residenze 2018#daria deflorian#antonio tagliarini#defloriantagliarini#quasi niente#michelangelo antonioni#il deserto rosso
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*un ricordo #Parla, mia paura di Simona Vinci
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I “Passages” dalla residenza
Antonio di spalle “Non c’è uno sciopero ma se ci fosse nome ne accorgerei?” A tratti si volta Le gabbie che ci costruiscono attorno e che ci costruiamo noi stessi
Ci rendiamo conto del disagio che viviamo?
Ansia del contagio
Abbiamo tutto
Daria guarda nel vuoto Attaccata a un microfono la luce che le illumina da vicino la bocca Ansia del quotidiano L’ironia si intreccia al dramma e alla sempre più accurata precisione del racconto si condensa l’innalzarsi di una temperatura ansiogena
Luce naturale, lei indietreggia avvicinandosi ad Antonio Sembra uscire dal personaggio e racconta un ricordo con LSD “perché devo sempre trasformare la mia vita in un dramma?” Solo nel momento del fuori norma – attraverso LSD – si riesce a vedere la banalità della realtà e della vita
Parla della famiglia e si accende la luce-finestra sul retro - finestra sui ricordi? Azioni e scelte non prese per paura e mancanza di forza, non sembra esserci nessuna presa di responsabilità
Monica entra, prende la radio che si accende da sola e si siede La radio si accende e le luci iniziano a illuminare gli oggetti non appena sono toccati dallo sguardo di questa donna sola
Precisa attenzione agli sguardi: le figure in scena si osservano molto, dentro e fuori il palco, dentro e fuori le loro azioni
Rosa Blu
“Non mi importa delle cose straordinarie Cerco niente di speciale Cerco spazi di disagio esistenziale Per tornare a immaginare come essere normale”
Suono basso disturbante e Silenzio
Benno e la poltrona, gioco, la stringe in mano e gira vortice tumultuoso Sembra che si scaraventerà sul pubblico da un momento all’altro - sentimento di ansia
Ci fanno affondare sempre più nelle loro nevrosi giocando anche con il ruolo dell’attore Meta-teatralità
“non riesco a mettermi nei panni di una persona che sta male e che non guarirà”
luce alta e si cerca in ogni angolo un fuoriscena un attimo di buio
“Siamo costantemente in guerra”
“Cosa devo guardare?” Escono dalle inquadrature di luce Dicono ai bordi del buio Tremano di quell’ansia dello stare davanti a un pubblico Cercano di nascondersi Evidenziano i confini precisi del luogo che li “ingabbia” Nel dramma giocano con un’ironia spiazzante che rende tutto ancora più reale
Piccoli momenti di non trascurabili psicosi in cui tutti possiamo riconoscere parti di noi
Le canzoni arricchiscono e amplificano il piano di relazione tra realtà e immaginazione: Monica Benno Francesca E la radio Ricordi reali che sembrano personificare la musica: l’attrice canta in scena, di spalle e non appena si gira e guarda il pubblico sembra rendersi conto, impaurita, della situazione in cui è catapultata dall’immaginazione degli altri attori che ascoltando la radio e la guardano poi guardano increduli la radio e si voltano verso il pubblico
“Sapete perché sono qui? Perché mi pagano”
C’è sempre un dentro e fuori le regole della scena Uno scappare dalla scena per ritrovarla non appena si è fuori
*nella residenza #Quasi Niente
#appunti di visione#passages#quasi niente#daria deflorian#antonio tagliarini#defloriantagliarini#residenze 2018#residenza creativa
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Noi sappiamo che sotto l’immagine rivelata ce n’è un’altra più fedele alla realtà, e sotto quest’altra un’altra ancora, e di nuovo un’altra sotto quest’ultima. Fino alla vera immagine di quella realtà, assoluta, misteriosa, che nessuno vedrà mai. O forse fino alla scomposizione di qualsiasi immagine, di qualsiasi realtà. Michelangelo Antonioni
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Aspettando la prossima residenza creativa (11-20 maggio) per la ricerca e la produzione del nuovo spettacolo di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini
Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, Iniziano a collaborare nel 2008 creando Rewind, omaggio a Cafè Müller di Pina Bausch. Nel 2009 presentano un lavoro liberamente ispirato alla filosofia di Andy Warhol, from a to d and back again. E’ del 2011 l’installazione/performace czeczy/cose e del 2012 lo spettacolo Reality per il quale Daria Deflorian ha vinto il Premio Ubu 2012 come miglior attrice protagonista. Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni con la collaborazione artistica di Monica Piseddu e Valentino Villa vince il Premio Ubu 2014 come novità italiana o ricerca drammaturgica e nel 2016 il Premio della critica come miglior spettacolo straniero in Quebec, Canada. Tre dei loro testi sono raccolti nel volume Trilogia dell’invisibile (Titivillus 2014). Hanno creato due site specific Il posto (2014) per la Casa Museo Boschi Di Stefano a Milano e per il Teatro di Roma Quando non so cosa fare cosa faccio (2015). Nel 2016 presentano Il cielo non è un fondale, con la collaborazione di Francesco Alberici e Monica Demuru, il cui testo è pubblicato da Cue Press. Il loro prossimo progetto, liberamente ispirato al film di Michelangelo Antonioni Deserto Rosso, è previsto per l’autunno del 2018.
#residenze creative#defloriantagliarini#daria deflorian#antonio tagliarini#quasi niente#deserto rosso#antonioni#michelangelo antonioni#residenze 2018#pac-paneacquaculture
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Aspettando la prova aperta di oggi pomeriggio, qualche spunto di riflessione.
“[...] Come non paragonare queste ambientazioni alla pittura di Edward Hopper, nell’immobilità atemporale delle sue figure, ognuna delle quali sembra racchiudere una storia, un universo al quale non ci è data la possibilità di entrarvi e dove non resta che arrendersi di fronte all’impossibilità di andare al di là di ciò che viene raffigurato. Come Hopper nella sua pittura così Antonioni nelle sue inquadrature cerca di cogliere la realtà scarnificandone l’involucro. Per questo le sue immagini, fatte di sfondi, paesaggi e figure, sembrano così disadorne ed essenziali, egli tende a togliere, non ad aggiungere, ad andare oltre il visibile, oltre la forma, al fine di coglierne il significato più recondito. [...]”
Raffaella Vitale, Michelangelo Antonioni. Schedatura e analisi del fondo pittoricocustodito presso le Gallerie di Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara
*un ricordo
Hopper, Morning sun, 1952
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Dialoghi dal film Il Deserto Rosso (1964) di Michelangelo Antonioni
Corrado: “Cosa guardi", Giuliana: “Non sta mai fermo, mai, mai, mai, mai… Io non riesco a guardare a lungo il mare, se no tutto quello che succede a terra non mi interessa più .... mi sembra di avere gli occhi bagnati”
[...]
Corrado: “Cosa guardi?” Giuliana indica la parete e dice: “Lì.” Si lascia andare sul letto. Il suo sguardo va al soffitto sul quale appare una macchia di vario colore. Allora si copre con la coperta per non vedere. Poi Giuliana e Corrado sono nel letto completamente nudi, immobili in una luce rosa, irreale. Tutta la stanza è rosa, gli oggetti, i mobili, i vestiti, il pavimento.
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Guardare il Vuoto Ascoltare il silenzio Visioni di realtà
Con queste tre associazioni si potrebbe definire la ricerca cinematografica di Antonioni, una ricerca astratta che il regista stesso paragonava a quella del pittore Rothko. In La visione del vuoto Biondillo parla di quella tecnica di Antonioni che è chiamata del temps mort che consiste citando Weiss
“[…] nello svuotamento dello spazio rappresentato, contenuto o tagliato dall’inquadratura, un luogo abitato fino a un attimo prima che acquista presenza formale – pienezza astratta, quasi pittorica, in virtù di un’assenza narrativa che si rivela allo sguardo dello spettatore. [..]”
Jeffrey Weiss, Temps mort: Rothko e Antonioni
[Mark Rothko, N.7, 1963]
“[...] il fatto di tendere ad un universo non umano e non figurativo, una apoteosi astratta. L’universo si dilata, si dissemina, si raffredda, ma in questa entropia vi è una felicità segreta, la felicità informale delle macchie. Vi è un altro punto di vista, oltre a quello, semplicemente umano, incarnato dai protagonisti, vi è quello che esprime in modo non umano la macchina da presa, quel punto di vista astratto sui movimenti qualsiasi – esplosioni, nuvole, moti browniani, macchie – sullo spazio neutro riempito di movimenti qualunque, nel quale finisce il movimento dei film di Antonioni. [...]”
Pascal Bonitzer, Il concetto di scomparsa
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“Lo stato d‟animo di ogni protagonista dialoga con il luogo in cui si trova, che diventa una specie di riproduzione della sua soggettività. Questa vicendevole influenza dà luogo a un rapporto uomo-ambiente che caratterizza la filmografia del regista ferrarese, dove è possibile ritrovare svariate analogie tra diversi livelli di sguardo. La visione di un certo tipo di “fondo” in relazione con un particolare stato d‟animo o quest‟ultimo che si rispecchia nel luogo dentro il quale si muove il personaggio, determina una fusione di equilibri fra immagini introspettive e immagini dei luoghi. Tutto questo sostituisce per i personaggi ideati dal regista una eterna sospensione in un mondo che si trova sia dentro di loro che attorno a loro, dal quale sembra siano inspiegabilmente incapaci di uscire. Si tratta di paesaggi virtuali, di spazi e luoghi pensati, immaginati, prima che visti, e per questo cercati sì nella realtà, ma riproposti attraverso un‟abile tecnica fotografica e cinematografica che rimanda inevitabilmente all‟acquisizione di una visione pittorica dell‟immagine”
Raffaella Vitale, Michelangelo Antonioni. Schedatura e analisi del fondo pittoricocustodito presso le Gallerie di Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara
Rauschenberg, Red Import (1954)
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[...] In ognuno di questi lavori, dunque, si parte da un oggetto d’arte per parlare di qualcos’altro. L’opera d’arte, nel lavoro di Deflorian/ Tagliarini, non è un mero oggetto di ispirazione-imitazione, è invece un oggetto con cui dialogare, da cui prendere le mosse per arrivare altrove, come accade nelle conversazioni private, fatte di mille digressioni e ritorni. L’arte torna così ad essere un dispositivo di conoscenza, un elemento di un dibattito più ampio nel quale anche Daria e Antonio – autori, personaggi, performer – dicono la loro. Non un lavoro “su”, ma un lavoro “attraverso”, che spinge finalmente fuori l’opera d’arte dalla sua presunta auto-referenzialità per ricollocarla in un ambito di conoscenza e di esperienza del mondo.
Graziano Graziani, Evocare L’invisibile. Il teatro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini.
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