#cowt12
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[Questo disegno partecipa al COWT12 (M1) indetto da Lande di Fandom con il prompt "COWT!verse"]
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Maybe We Could Have Been Friends
Sembravano formiche.
Le persone, da quell’altezza, sembravano davvero tante piccole formiche, incuranti del mondo che le circondava. Incapaci di vedere oltre ciò che avrebbero dovuto e nessuno, ma proprio nessuno alzò la testa e quindi nessuno lo vide.
I piedi erano saldi al grigio cemento del cornicione del St Bartholomew Hospital, e avrebbero potuto tradirlo da un momento all’altro.
Sentì piccole gocce di sudore perlargli la fronte e, la canna della pistola di Moriarty ancora puntata alla schiena, premuta contro il tessuto del suo giubbotto, che non avrebbe di certo fatto da scudo all’esplosione di un proiettile.
Cosa importava? Tanto avrebbe dovuto morire lo stesso e forse, quella dell’arma da fuoco, sembrava la soluzione meno dolorosa.
Era un medico, dopotutto e mentre il tempo scorreva incessantemente e il nemico giurato del suo migliore amico parlava di giustizia, di vincitori e di sconfitti, cominciò a pensare a quale poteva essere il modo migliore per andarsene via da quel mondo subito e indolore.
Di certo il proiettile avrebbe bruciato, avrebbe bucato qualche organo vitale e il rischio di rimanere minuti interi in agonia, sanguinando, non lo attirava per niente.
La caduta, invece, era abbastanza sicura.
L’ospedale dopotutto vantava una considerevole altezza e, una volta arrivato giù, l’osso del collo si sarebbe spezzato e forse, quella, avrebbe decretato la sua morte in un istante.
Sì, forse era meglio così, avrebbe dovuto scegliere di farlo di sua spontanea volontà perchè dopotutto, se non lo avesse fatto sarebbero morti la signora Hudson, Lestrade, Molly e Sherlock…
Già, Sherlock. Era lì per colpa sua, o meglio… per causa sua. Non se la sentiva di incolparlo, perché dopotutto se si trovava in quel guaio era anche colpa della sua impossibilità di tenersi lontano dai guai.
A quel pensiero il suo viso fu attraversato da un leggero sorriso, e quasi si sentì pronto a buttarsi, a farla finita, se quello avrebbe permesso a Sherlock di vivere perché, malgrado fosse fatto come era fatto, il mondo aveva bisogno di lui ancora per un po’.
E fu in quel momento, che tra tutte quelle formiche insignificanti, lo vide differenziarsi, come sempre.
Il cappotto scuro, la sciarpa legata alla meglio, i capelli neri arruffati dal vento e il passo svelto dovuto alla preoccupazione per lui.
Sapeva dov’era, doveva saperlo per forza.
Sherlock, dopotutto, sapeva sempre tutto e questo gli diede un barlume di speranza e quando lo vide fermarsi e tirare fuori il telefono per chiamarlo - difatti poco dopo squillo nella tasca ma non rispose -, sbuffò divertito.
“Lui è più furbo di te. Lui riuscirà a fermarti, e a schiacciarti, e tu non potrai farci nulla perché Sherlock Holmes sarà sempre un passo avanti a te, Moriarty”, gli disse ma non si voltò a guardarlo, continuò a tenere gli occhi fissi sul suo collega, che ora stava correndo verso l’entrata dell’ospedale, forse con l’intento di arrivare fin sopra al tetto e salvarlo.
John ci sperò. Non tanto per salvarsi quanto per vederlo vivo almeno un’ultima volta e poi cadere giù, sentire il collo spezzarsi senza un solo rimpianto.
“Non lo è. Non lo è!”, esclamò Moriarty, ridendo leggermente. “L’unico anello di congiunzione tra te e la tua salvezza sono io e se non ci sono io tu sei morto. Tu sei morto e non sarebbe bello, no? Unisciti a me! Che ne dici? Credo proprio che diventeremo amici.”, mormorò, a denti stretti e, con un gesto celere lo fece voltare, prima di puntargli l’arma al cuore e poi muoverla di nuovo su se stesso per spararsi in bocca.
Jim Moriarty cadde a terra,all’indietro.
Una scura e lenta chiazza di sangue si aprì sotto di lui; lo sguardo euforico di un pazzo che non sa cosa fa, di un pazzo geniale, nel suo contorto modo di ragionare.
Indietreggiò leggermente, ricordandosi in tempo che dietro di lui c’era il vuoto totale e sebbene ormai avrebbe dovuto buttarsi per salvare tutti, voleva almeno aspettare di vedere Sherlock aprire quella porta e provare a salvarlo.
Il detective arrivò, e il tempo si fermò come in un sogno e quando gli fu vicino, col fiatone forse per aver fatto le scale troppo di fretta, lo prese per le spalle.
“Ho pensato a tutto, John. Non c’è bisogno che tu lo faccia, okay? Non… devi farlo!”, gli disse, come se fosse una raccomandazione, come se John avesse davvero il desiderio di fare quel volo, ma sapeva anche che ne era terrorizzato.
“Non è possibile… se non lo faccio, voi morirete ed io non voglio che succeda, tu… tu sei essenziale, il mondo ha bisogno di te, Sherlock”.
La stretta sulle sue spalle si fece più forte, più salda, come se quelle parole avessero acceso un moto di paura nel detective che, tirandolo verso di sé, si accigliò.
“Credi davvero che avrei lasciato che questo… pazzo omicida ti facesse fare un volo simile? Mycroft ha pensato già a tutto, ha già fermato tutto. Sono salvi, sono tutti salvi, John. Anche tu”, gli disse e gli sorrise, quando lui sgranò gli occhi colpito da quella notizia.
Era vero, doveva essere vero.
Sherlock Holmes era sempre un passo avanti a Jim Moriarty, lo era sempre stato e malgrado a volte potesse trovare delle difficoltà, riusciva sempre a dimostrarsi più astuto, forse grazie anche a quel frammento di umanità che albergava in lui.
“Andiamo, John”, lo invitò, poco dopo, togliendosi la giacca per coprire il dottore, che si strinse nell’indumento, lasciandosi pervadere per qualche secondo dal suo odore così unico che poche volte aveva potuto sentire così vicino.
“E’... come il fatto della coperta, questa del cappotto?”.
“Tipo”, rispose Sherlock, mentre apriva la porta che avrebbe permesso loro di scendere le scale per tornare ai piani inferiori, “Non ero attrezzato a dovere”.
“Non preoccuparti, va bene così”, disse, leggermente sollevato, sebbene lo shock e la paura erano ancora turbe fin troppo vivide nella sua testa. “Hai vinto ancora”, gli concesse e Sherlock si limitò a sorridere nella sua direzione, quasi come se gli fosse stato grato, per aver limitato i ringraziarmi a quella frase.
Aveva vinto davvero, e nessuno aveva perso nessuno.
Ora sarebbe andato tutto bene. FINE
[QUESTA STORIA PARTECIPA AL COWT12 (M3) INDETTO DA LANDE DI FANDOM CON IL PROMPT "Credo proprio che diventeremo amici."]
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#COWT12 – la sesta e ultima settimana (termina il 05/04 alle 22:59)
#COWT12 – la sesta e ultima settimana (termina il 05/04 alle 22:59)
La storia fin qui | Regolamento | Guida | Iscrizioni | I taccuini di Cluster Utenza e COWTanza, Giramondi adorati! Il Team Fabian si è aggiudicato la quinta settimana, il Team Meridian è passato in vantaggio grazie all’ottimo risultato nelle missioni secondarie, il Team Calico come la tigna non molla ed è ad appena 31 punti dalla vittoria (e in palio questa settimana ce ne sono molti di…
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[Partecipa al COWT12 (M4) indetto da Lande di Fandom con il prompt "Harry Potter"]
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[Questo disegno partecipa al COWT12 (M4) indetto da Lande di Fandom con il prompt "I tre moschettieri"]
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[Questo disegno partecipa al COWT12 (M4) indetto dal Lande di Fandom con il prompt "Il colore venuto dallo spazio"]
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A Mushroom Business
“Grifondoro!”.
Lo poteva ancora sentire chiaramente, il cappello parlarne che lo assegnava a quella casa, di cui era certo al cento per cento di doverne far parte.
Non tanto perché se lo sentiva, più che altro per una questione generazionale e l’idea di deludere la sua famiglia che capitanava i grifondoro ormai da un’eternità, non gli piaceva per niente.
John Watson aveva diciassette anni, quando si rese improvvisamente conto che la casa di appartenenza non significava proprio niente, almeno a livello umano.
Maghi o non maghi, le persone provavano odio, ma anche amore e se quel giorno di marzo, caratterizzato da una pioggia particolarmente battente non fosse mai arrivato, avrebbe continuato a convincersi e circondarsi solo di persone appartenenti ai grifondoro.
Sherlock Holmes era stato una vera e propria sorpresa, e se poteva definire il sentimento più forte che aveva provato in quel giorno quando lo aveva conosciuto, era il disgusto.
“Avventurarsi in giro con questo tempo… senza prendere in considerazione per lo meno una considerevole percentuale di rischi. Certe volte mi chiedo cosa vi tenga il cervello acceso, oltre l'arroganza di riuscire in faccende che non sono alla vostra portata”, gli aveva detto, quando gli aveva allungato una mano per aiutarlo ad uscire dal fango, dove era caduto rovinosamente per colpa della visuale inesistente.
“Sono uscito per cercare materiale per un progetto, non avevo altra scelta”, gli spiegó lui chiedendosi poi perché si stesse giustificando.
“La scelta era quella di aspettare che spiovesse”.
“E tu sei qui”, constatò John, mentre gli si affiancava nel ritorno verso il castello facendo attenzione a non cadere di nuovo, “Non sei tanto più furbo di me”, commentò.
Non gli piaceva essere trattato come uno stupido, perché sapeva di non esserlo ma quel modo di fare era estremamente fastidioso e lui non aveva nemmeno chiesto aiuto, nel momento in cui era caduto in quella pozzanghera, per cercare i suoi funghi per la ricerca e quale miglior giornata se non quella per dedicarsi a un compito simile?
Pioggia e funghi andavano a braccetto, e la consegna del compito era fin troppo vicina.
Quel tipo, che poi si sarebbe presentato come Sherlock Holmes - molto ma molto più tardi, non avrebbe capito e lui non voleva spiegarglielo.
Non ad un Corvonero, per giunta.
Non era mai andato d’accordo con la gente di quella casa e continua ad essere convinto che non facessero per lui, ma Sherlock Holmes… con lui era diverso.
E lo era rispetto a qualsiasi altro essere umano.
L’arrivo al castello fu un vero e proprio saluto fugace. Se così si poteva chiamare.
Gli aveva solo detto di smetterla di fare le cose senza ragionarci sopra e John aveva risposto di fare altrettanto e se in quei cinque anni di scuola non aveva mai sentito parlare di Sherlock Holmes e lo aveva solo visto di sfuggita ogni tanto, ora era diventato una specie di ossessione.
Non girava un angolo senza incontrarlo e le reazioni a quel fatto erano sempre le stesse: un saluto con la mano, e quello ricambiava veloce, troppo impegnato a tenere il naso sui suoi preziosissimi libri.
Poi ci fu la ricerca insieme, che gli propose di fare solo perché alla fine i funghi del progetto precedente sarebbero potuti servire.
Nulla di importante, solo per quel motivo.
Sherlock Holmes non voleva amici, non ne voleva intorno e mai ne avrebbe voluto.
John aveva accettato, solo perché troppo impegnato per mettersi a cercare un altro compagno, eppure avrebbe potuto ma non lo aveva fatto.
Il cervello gli diceva che era giusto così, il cuore lo contraddiceva e puntualizzava troppo il fatto che stava diventando strano quel rapporto/non rapporto e che dopotutto non gli dispiaceva.
John voleva gli dispiacesse, in realtà.
“Hai già i funghi e a me non andava di andarli a cercare. Non è nemmeno periodo”, gli disse, mentre si sedevano in un angolo della biblioteca e Sherlock Holmes si apprestava a deliziare tutto con uno sguardo disinteressato che metteva pure una certa inquietudine.
“Chi ti ha detto che ne ho ancora? Non me lo hai nemmeno chiesto”.
“Sei uno preciso. Ne hai presi di più per paura che non ti sarebbero bastati e che avresti buttato del preziosissimi materiale e ne saresti rimasto sprovvisto. E poi la busta, quel giorno, era veramente stracolma”, osservò l’altro.
“Deduzione brillante, signor detective”, si lasciò sfuggire John, con un sorrisetto e fu pronto a ricevere uno sguardo omicida, ma questo non arrivò, anzi.
“Grazie”, rispose, rovesciando totalmente la prima impressione che aveva avuto di lui.
Forse non riceveva abbastanza complimenti, forse non ne riceveva proprio, fatto sta che quell'impacciato grazie cambiò tutto.
John Watson aveva bisogno di aprire i suoi orizzonti, non era vero che frequentava solo gente del grifondoro. Non frequentava proprio nessuno e Sherlock Holmes… lui era fin troppo uguale a lui.
Così nacque un’amicizia, strana ma nacque e quel giorno che entrò bagno dei prefetti, dopo che Sherlock lo aveva invitato, non poté che alzare un sopracciglio alla vista di quei funghi del cavolo che avevano dato inizio a tutto e che non volevano saperne di lasciarlo in pace.
“Ci fai tutto, con quella roba", gli disse, mentre lo vedeva girare un intruglio in un calderone, che emanava una coltre di nebbia rossa e puzzava di piedi.
“Sono buoni per un sacco di intrugli strani e oggi devo sperimentare una cosa”, gli spiego, senza guardarlo, senza salutarlo come sempre perché era tipo sottinteso, come se dopotutto salutarsi fosse solo una perdita di tempo.
“In che modo faccio parte del tuo piano?”, chiese John, divertito, e lui tamburelló una mano sul pavimento e sorrise sornione, invitandolo a sedersi accanto a lui.
“Lo vedrai”.
Ci volle qualche minuto, prima di veder spuntare una densa e per nulla appetitosa bevanda, che continuava a puzzare enormemente.
Sherlock la infilò in una boccetta e la bevve, senza fare storie.
“È una pozione della verità”, spiegò, poi si pulí la bocca col dorso della camicia visibilmente disgustato da quel sapore, ma anche palesarlo sarebbe stato una perdita di tempo, “sono schietto, rude, dico sempre quello che penso ma ho paura che non sia mai abbastanza. Insomma, come se non dicessi proprio tutto quello che mi passa per la testa”.
“Sherlock, questo è un bene. È un gran bene. Sei già abbastanza pungente così, non c’era bisogno che bev-”.
“Dimmi qualcosa. Chiedimi qualsiasi cosa. Ti risponderò nel modo più schietto possibile, se la pozione funziona”, lo interruppe e il mondo di John si rivoltó di nuovo.
Qualunque cosa? Implicava davvero tutto? Voleva anche dire… scoprire cose che si stava chiedendo da troppo?.
Deglutí in groppone, poi si passò una mano tra i capelli, distogliendo lo sguardo.
“John?”, lo spronò Sherlock, corrugando la fronte, in attesa.
“Un attimo”, si lamentó lui, stizzito e imbarazzato.
Sbuffò.
Non sapeva che fare, non sapeva che dire. Era confuso, perché quella possibilità aveva aperto fin troppe strade e tra questa c’era quella di una consapevolezza personale che da troppo teneva nascosta persino a se stesso.
“Coraggio! L’effetto non dura per sempre, eh”, rispose Sherlock dando l’impressione che avrebbe presto perso la calma, così, senza pensare, sbottò.
“Sei innamorato?”.
“Sì”, rispose lui, subito, senza uno straccio di imbarazzo. John dubitó stesse parlando davvero sotto l’effetto di quella pozione.
“È qualcuno che conosco?”.
“Sì, anche bene”.
“E… ne sei innamorato”, ripeté e Sherlock sbuffò.
“Mi hai già fatto questa domanda, John. Sì, sì ne sono innamorato”, disse quasi scocciato.
John arricciò le labbra, non sapendo se voleva davvero sapere di chi stesse parlando ma era più forte di lui e per quanto avesse paura di sapere e al tempo stesso di consapevolezzare quel sentimento che aveva cercato di tenere lontano e attufato.
Come se fosse solo qualcosa di passeggero e privo di importanza.
“Chi… chi è?”, chiese, con incertezza e si sentiva dannatamente stupido.
“Sei tu. Possiamo virare su argomenti meno ovvi, John?”, gli disse e l’imbarazzo non era veramente per nulla di casa, nel viso di Sherlock, così sicuro di sé, quasi come se quel fatto fosse una verità assoluta di dominio pubblico.
“Virare su argomenti meno ovvi? Sherlock, per tutte le ampolle di pozioni, hai appena detto di amarmi!!”, quasi urlò, col cuore in gola e una profonda rabbia per quella leggerezza con cui lo aveva detto.
“E tu lo sei di me”, rispose ancora Sherlock, sbrigativo, come se davvero tutto quel dire non fosse importante perché doveva fare la solita drama queen con i suoi accidenti di esperimenti astrusi, “chiarita la questione andiamo avanti. Ho usato ingredienti che mi sono costati una fortuna”.
“Sherlock… oddio. Tu… tu sai di me? E tu sei innamorato di me? E non hai mai detto niente? Perché?”.
“Perché tu sembravi sempre così spaventato dalla cosa che ho preferito non dirti nulla. Hai paura di soffrire, di aver sbagliato persona di cui innamorarti. Pensi addirittura che non sia amore, ma solo un senso di affetto nato dal fatto che prima di me non hai avuto interesse per nessun altro. Sei spaventato a morte dalla cosa, io non lo sono ma sono un disastro nei rapporti umani e stavo solo aspettavo che chiarissi le idee”, rispose infine, sommergendolo di parole, poi sospirò e aggiunse, stizzito. “E questa pozione non funziona. Devo aver dimenticato qualcosa tra gli ingredienti, dannazione”, si rimproveró.
“Sherlock…”, lo chiamò John. Una mano sul cuore a cercare di alleggerire quel senso di confusione e quel battito così forte, “Tu non… non sei spaventato da questa cosa?”.
“Io?”, domandò l’altro, indicando con il pollice, “Nah. Prendo sempre con filosofia certi scherzi che il cuore a volte mi fa”.
“Quindi… è solo uno scherzo per te. Lo dovevo immaginare….dopotutto non ho davanti la persona più dolce della terra, ma un vero e proprio robot”, rise, senza alcun entusiasmo, rispondendo a quella leggerezza che ancora continuava a palesare. “Tanto tra i due sarò sempre io il cuore, tu rimarrai la ragione e sarà sempre il motivo che ci dividerà”.
Sherlock non parve prendeva quel commento con rabbia, o paura. Lo guardò, si limitò a fare quello, prima di alzare una mano sulla sua guancia, racchiuderla tra le dita ed avvicinarsi per baciarlo.
Fu un gesto improvviso, ma atteso e John non credeva che, dopo quella frase che gli aveva detto, potesse reagire a quel modo.
Con una calma disarmante e una dolcezza fuori dal comune.
Quando si staccarono dopo attimi interminabili, John arricciò le labbra, come a voler chiudere quell’esperienza assaporando l’ultimo frammento di saliva che Sherlock gli aveva lasciato addosso.
“Cosa?”, chiese e si sentì stupido, di nuovo.
“Cosa?”, ripeté l’altro, poi rise leggermente, “Cuore o ragione, che importa? L’amore non è solo una di esse, è entrambe no?”.
“Questo non lo so… so solo che in questo bacio c’era del cuore… persino da parte tua”, ammise John, alzando le spalle, leggermente in imbarazzo.
Sherlock gli prese la mano, la strinse con visibile goffaggine ma fu dolce, quando cominciò a accarezzargli il dorso con il pollice.
“E c’era anche il cervello… da parte tua, quando hai esitato per un attimo, con la paura di non avere abbastanza certezze”.
“Poi è sparito tutto”, sorrise John, avvicinandosi per reclamare un altro bacio, quando anche l'altro parve volerne uno, “Sia cuore che ragione. Cosa è rimasto, quindi?”.
Sherlock sbuffò divertito, poi, prima di unire le sue labbra alle sue disse, semplicemente: “Noi”.
Fine.
[questa storia partecipa al COWT12 indetto da lande di fandom con il prompt "pioggia" cw: 1894]
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Siamo Antitesi
Di nuovo, come sempre, in largo anticipo aveva risolto il caso prima di lui.
Non che la cosa lo sorprendesse ancora, ma John Watson era quasi stufo di fingere che le cose andassero bene, che quel fatto fosse ormai normale.
Non c’era niente di normale, in quella relazione e il fatto che dovesse condividere il suo cuore con un uomo profondamente consapevole di ogni cosa, che non gli lasciava finire una frase che già sapeva cosa stava succedendo, lo destabilizzava.
Anzi, più precisamente, lo irritava da morire.
Si lasciò scivolare con poca grazia sulla poltrona, poggiando i gomiti ai braccioli e, controllando distrattamente il cellulare, rimase in silenzio per minuti interminabili, mentre il suo compagno era al telefono con Lestrade e gli spiegava per filo e per segno quello che aveva fatto per risolvere l’ultimo caso, cui John era stato solo uno spettatore a suo parere inutile.
“Non è servito nemmeno il supporto medico di John. L’uomo è morto tra le due del mattino e le tre, e a confermare la cosa è stato l’orologio che si è spaccato nel momento esatto in cui è caduto - anzi, stato gettato dalla finestra”, stava dicendo e il dottore non riuscì a reprimere l’istinto di alzare gli occhi al cielo e sbuffare, davanti a quella frase che lo aveva decisamente sminuito, quasi mortificato.
Così, quando Sherlock attaccò e si sedette sulla poltrona di fronte alla sua, sospirando come se fosse stanco morto, sebbene fosse ancora in vestaglia e non avesse fatto nulla per tutta la mattina a parte deambulare per casa senza una meta, lo guardò.
“Cosa?”, chiese, dopo aver preso il violino per tentare forse di accordarlo, sentendo il suo sguardo addosso.
“Dovevi proprio?”, chiese John, corrugando la fronte, con la voce stizzita che avrebbe voluto che fosse uscita meno dura.
“Dovevo proprio cosa?”, gli chiese Sherlock, ignaro.
C’erano delle cose che quell’uomo, forse il più intelligente che avesse mai conosciuto, non riusciva proprio a capire e per quanto si sforzasse di sembrare una persona normale da quando stavano insieme, John sapeva che era impossibile che ciò accadesse e per di più, ogni volta che cercava di sembrare un essere umano come gli altri, finiva per trasformarsi nell’essere più inquietante della storia della Gran Bretagna.
“Puntualizzare sul fatto che io non ho fatto niente e tu hai risolto il caso senza il mio aiuto?”, gli fece notare.
Sherlock alzò un sopracciglio, continuando a non capire e, occupandosi ancora dello strumento, chiese: “L’ho fatto?”.
“Sì, lo hai fatto”.
“E allora? Ho detto le cose come stavano. Sta volta il tuo consulto medico non è servito, ma questo non significa che nel prossimo caso io non ne abbia bisogno”.
“Non è questo il punto, Sherlock…”, sospirò, e riprese il cellulare, per fingersi disinteressato alla questione, ma gli rodeva lo stomaco e i denti… sapeva che li stava digrignando.
“Smettila, finirai per farti venire un’infiammazione alla mandibola”, lo riprese il detective, che come sempre riusciva a vedere cose che nessun altro avrebbe potuto, in nessuna circostanza.
“E cosa ti importa? Tanto anche se dovessi perdere l’uso della parola, non ti sarei utile comunque”.
“John, stiamo litigando?”, chiese Sherlock e in altre occasioni John avrebbe riso, perché certe uscite, certe domande, erano sempre così stupide ma allo stesso tempo adorabile se si pensava a chi le stava facendo.
“No, no… non stiamo litigando”.
“A me pare di sì”, constatò l’altro, poi sospirò, “Senti, so che il problema non è questo. Hai sempre accettato il fatto che tra i due io sia quello più intelligente”.
“Se non sapessi cosa vuoi dire davvero ti darei un pugno in faccia… certe cose non dovresti nemmeno pensare, per quanto so per certo che tu non lo dica in cattiva fede, ma fanno male. Almeno ad un essere umano come me”, puntualizzò il dottore e Sherlock si allungò verso di lui, con i gomiti sulle ginocchia.
“Essere più intelligente non significa essere migliori”. Due antitesi, erano esattamente questo. L’uno l’antitesi dell’altro: uno intelligente e scaltro, l’altro razionale e a volte incapace di formulare un verdetto con la stessa freddezza mentale di Sherlock. Uno era più propenso alla logica, lui troppo attaccato alle questioni di cuore (era un medico mica per nulla, dopotutto).
“Questo è quello che vuoi farmi credere, perché non vuoi discutere, perché la cosa ti piace e perché non sei tu a fare la figura dello stupido ogni accidenti di volta”.
“Nemmeno tu fai la figura dello stupido, ogni accidenti di volta”, gli fece il verso l’altro, alzando leggermente la voce e guadagnandosi un’occhiata omicida.
John avrebbe voluto rispondere, ma John sapeva anche a volte faceva bene a tacere, a non dire quello che realmente pensava perché se Sherlock a volte poteva sembrare un mostro, lui quando era arrabbiato lo diventava davvero.
Si limitò ad abbassare gli occhi sul telefono e a smettere di guardarlo, e di parlare, e finse che non fosse lì e Sherlock, stranamente, lo capì.
Si alzò dalla poltrona e si sedette sul bracciolo appena vicino a lui e con una goffa dolcezza, chiese: “Qual è il vero problema?”.
“Sei tu”.
“A parte me? Il problema che rende me un problema qual è?”, chiese ancora, carezzandogli i capelli con fare distratto e quasi bastò quello a tranquillizzarlo.
“Sai tutto. Io sono lì, dietro i te. Pendo dalle tue labbra, sono al margine della tua infinita sapienza. Faccio uno sforzo immane a starti dietro e tu… tu sembri non capire che la cosa fa male. Non sai che vuol dire essere oscurato dalla persona che si ama senza essere sia felice che profondamente invidioso. È un comportamento immaturo, lo so”.
“È un comportamento umano… che io non saprei gestire perché sono cosí lontano dall'esserlo. E non sai quanto invidi te. Vorrei avere le tue stesse paura, i tuoi stessi accorgimenti. Vorrei vivere la nostra relazione stando male anche io, ogni tanto. Deve essere bello dissipare dei dubbi e poi stare bene. O no?”, chiese Sherlock, con tono interessato e attento di quando risolveva un caso e fu tenerissimo.
John non riuscì a trattenere un sorriso e uno sbuffo divertito, poi disse, consapevole di star provando proprio quella sensazione di conforto che Sherlock aveva descritto così bene pur non avendo mai provato niente del genere.
“Già… hai ragione”.
“Quindi… non stiamo più litigando?”, chiese il detective e lui, prima alzò un sopracciglio poi rise: “No, non stiamo più litigando".
“E dopo aver fatto pace che si fa?”.
John si alzò in piedi, ridendo ancora sotto i baffi e, prendendolo per mano e incamminandosi verso la camera da letto al piano di sopra, rispose: “Te lo mostro subito”.
Fine.
[questa storia partecipa al COWT12 indetto da lande di fandom con il prompt "antitesi" cw: 1106]
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[Questo disegno partecipa al COWT12 (M4) indetto da Lande di Fandom con il prompt "005. Giappone dei Daimyo"]
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[Questo disegno partecipa al COWT12 (M4) indetto da Lande di Fandom con il prompt "008. Egitto dei Faraoni"]
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[Questo disegno partecipa al COWT12 (M4) indetto da Lande di Fandom con il prompt "003. Selvaggio West"]
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Questo disegno partecipa al COWT12 (M2) indetto dal lande di fandom con il prompt: David Bowie - Space Oddity
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Punto di Non Ritorno, identità rivelata - Randall Ascot / Gentleman Masked
(Questo disegno partecipa al COWT12 (M1) indetto da Lande di Fandom con il prompt "Punto di Non Ritorno")
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Notte sull'Acqua - Over The Garden Wall
[Questo disegno partecipa al COWT12 (M2) indetto da Lande di Fandom con il prompt "Notte Sull'Acqua" (10)]
#otgw#over the garden wall#wirt#greg#cowt12#myart#the beast#the beast otgw#digital#beatrice#notte sull'acqua
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La Caduta Dei Giganti - AoT
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