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“La scrittura è un viaggio verso l’ignoto”: dialogo con Filippo Tuena
Al principio fu la folgorazione. Antartica. Perché mi piace Antartide? Non lo so. Sarà per la ‘bianchezza’, direbbe Herman Melville. Io direi l’innocenza. L’innocenza è innaturale e uccide. Forse Antartide è la mascella del Dio carnivoro e incarnato. Ma qui, davvero, devio. Sta di fatto che, antarticamente, la narrativa italiana mi annoia. Dieci anni fa, ebbi la benedizione dello shock antartico. Filippo Tuena, romano, classe 1953, scrive il libro sulla spedizione avventata di Robert Falcon Scott, alla conquista del Polo Sud. Il libro s’intitola Ultimo parallelo, per fortuna non piace solo a me – nel 2007 ottiene il Premio Viareggio. Il libro è bello davvero, qualcosa di assolato nel nevaio della letteratura recente. Tuena è una specie di Robert Falcon Scott della letteratura italiana. Si avventa verso le pozze d’ombra della Storia. Scava nei personaggi assoluti, ne rileva le ambiguità, i tenebrosi lirismi. Una specie di incrocio tra Plutarco, Marco Polo e uno storico confuciano con l’ansia della sintesi, di chi costeggia le catacombe con una fiera di candele. Così, Tuena è entrato dentro Michelangelo (Tutti i sognatori), dentro Schumann (Memoriali sul caso Schumann), dentro Shakespeare, perfino (Com’è trascorsa la notte). C’è un’altra cosa che mi affascina di Tuena. Anzi, due. Primo. Non crede nell’altarino della narrazione ‘tradizionale’. Cioè non crede in un tizio deputato a essere scrittore che di sana pianta s’inventa una vicenda pretendendo che noi, pallidi cretini, nell’era dell’informazione percussiva e permanente, gli crediamo. Per questo, feconda la Storia con granate di meraviglia. Secondo. Non molla l’ignoto. Tuena ha fede nelle sue ossessioni. Così: dietro al romanzo su Michelangelo c’è la cura del carteggio michelangiolesco (La passione dell’error mio) e dopo Ultimo parallelo c’è una collana, ‘Tusitala’, edita da Nutrimenti. Per cui Tuena ha curato, per dire, Scott in Antartide e i Diari antartici di Scott, Shackleton e Wilson. “La conquista del polo non è la conquista di un punto geografico riconoscibile – una vetta, una sorgente, i ruderi di un’antica città sepolta”, scrive Tuena in una postfazione piuttosto esemplare, Esploratori al limite. “Il panorama è indistinguibile – un immenso altopiano imbiancato – e soltanto attente misurazioni possono determinare il punto d’arrivo”. Poi, alla fine, il colpo di genio. Tuena coniuga la ricerca forsennata e determinata del Polo al “nitore di una bella frase o la perfezione d’una forma artistica”. Lo scrittore scrive sulla neve, si muove nel bianco rapace, brancola nel biancheggiare. Esplora il limite, fino all’ultimo verbo lecito. E ce lo consegna.
Partirei da qui. Dal come e dal perché hai iniziato a scrivere (precocemente pubblico). E dalle letture. Hai avuto dei maestri, dei libri ‘maieutici’?
Lui è Filippo Tuena
A parte romanzi quasi adolescenziali, scritti sulla Olivetti Lettera 22, ai tempi dell’università ho bazzicato un po’ i teatrini romani, scrivendo testi, ma soprattutto mi sono dedicato alla Storia dell’arte. Poi, intorno al 1989, mi è presa la voglia di rischiare con la narrativa. Se non ricordo male – ma non ricordo male – concorsero due libri italiani a spingermi a cimentarmi nel genere: Le menzogne della notte di Bufalino e Notturno indiano di Tabucchi. È stato un azzardo. Avessi continuato con i saggi d’arte forse sarei diventato uno storico rispettabile; ora mi sembra di essere un narratore eccentrico. Ero totalmente estraneo alle lettere. Ricordo che mandai il dattiloscritto del mio primo romanzo a quattro editori – Adelphi, Einaudi, Feltrinelli, Bompiani – con questa formula completamente anonima: ‘Gentile casa editrice, v’invio questo mio romanzo…’. In realtà non conoscevo proprio nessuno. Foà mi rispose dopo poche settimane, con una lettera personale e firmata nella quale diceva che avrebbe preso in considerazione il testo; la Einaudi mandò un biglietto prestampato; Feltrinelli rimandò il manoscritto indietro; Bompiani rispose dopo tre anni quando già il romanzo era stato pubblicato. Dopo un anno di attese mi telefonò Pontiggia che aveva letto il testo all’Adelphi e lo aveva apprezzato. Col tempo diventammo amici. È stato lui il maestro, il confidente, lo stimolo. Il libro poi uscì con Leonardo Mondadori, che aveva appena aperto la sua casa editrice. Il secondo romanzo uscì con la Longanesi, per espressa richiesta di Mario Spagnol. Ecco, le persone che mi hanno incoraggiato in quei tempi ormai lontani: Giuseppe Pontiggia, Leonardo Mondadori, Mario Spagnol.
La cosa che mi conquista dei tuoi libri è che penetri il frammento di una storia, e da lì esplodi. Penso al libro su Schumann. Ecco, come si lavora a un libro come a quello su Schumann? Ha senso, per quel che ti riguarda, la categoria di ‘romanzo storico’?
Mi piace che adoperi il verbo ‘esplodere’. È effettivamente quello che mi accade quando affronto una storia. E, alla fine, i libri che scrivo documentano più quell’esplosione che la vicenda storica che racconto. Sono colpi di fulmine, legati a un’impressione esterna, a un particolare, a qualcosa d’immateriale che scrivendo si manifesta. Sai, per Schumann m’interessava lavorare non sulla storia d’amore con Clara – che noia – ma sulla crisi finale, sullo sfaldarsi del corpo (un po’ com’era stato per Scott), sullo scontro tra l’esuberanza giovanile di Brahms e la debolezza, la fragilità di un uomo maturo. Nel momento in cui affronto le Geistervariationen, una composizione così frammentaria, così titubante, così antischumanniana (almeno riferita allo Schumann giovanile) il libro prende per forza quel tono frammentario. Del resto puoi lavorare solo con i frammenti che emergono dalle macerie. Quanto al romanzo storico – se per romanzo s’intende il genere ottocentesco – lo digerisco poco. Tanto poco quanto poco digerisco le narrazioni d’invenzione. Mi piace la realtà, mi piace la storia ma credo che sia necessario scrivere quanto più scarno possibile; non aggiungere, non edulcorare. Ricordo una bella frase che scrisse Debenedetti su le Variazioni Reinach: ‘Rifugge dalle lusinghe del romanzesco’. Sì, le aborro proprio. E tuttavia scrivo narrativa, su questo non credo ci siano dubbi. Ma tra narrazione e romanzo c’è una bella differenza. Credo che la chiave di volta sia quella che dicevo prima: racconto lo stordimento che subisco dopo l’incontro con una vicenda che mi travolge. L’impatto che ne segue.
Michelangelo, Shakespeare: come è possibile azzannare tali titani? Penso all’ultimo tuo libro, una indagine (stilisticamente proteiforme) dentro il ‘Sogno’ shakespeariano: da dove è venuta l’ispirazione?
Foà diceva spesso che al narratore conviene frequentare i grandi perché qualcosa rimane attaccato. È quello che faccio. E in realtà più sono grandi e più sono accoglienti. Frequento il carteggio di Michelangelo da una ventina d’anni e, per me, è una sorta di breviario laico. Mi accompagna, mi dà soluzioni. È un riferimento costante. Inflessibile. O lo accetti o lo rifiuti in toto. I testi di Shakespeare, al contrario, consentono incursioni ardite, capovolgimenti, interpretazioni. Sul ‘Sogno’ ho lavorato semplicemente ‘osservando’, facendo collegamenti piuttosto evidenti (almeno ai miei occhi) ma poco frequentati. È un autore proteiforme – almeno quello che emerge dai testi a stampa – che, sono convinto, si devono a un lavoro di collaborazione tra più autori e che non sono i testi che venivano messi in scena al Globe. Shakespeare (chiunque sia) è un teatrante. Calca costantemente il palcoscenico. Nel mio libro ho provato a fare una regia teatrale, forse memore della mia passione giovanile per il palcoscenico. E poi è uno che dice le cose come stanno. L’esordio del Riccardo III sempre mi sgomenta: ‘Now, is the winter of our discontent…’. Quel Now, è meraviglia pura: annuncia, determina, dà inizio.
Mi è piaciuto molto ‘Ultimo parallelo’, sono un fan delle avventure verso l’assurdo ignoto, il polo. Che cosa ti ha affascinato dell’impresa di Scott? E come hai pensato di farne materia narrativa, attraverso quali espedienti?
Ultimo parallelo è un libro letterario, totalmente, assolutamente letterario. È un libro sulla scrittura e sulla lettura ed è per questo che è un libro che racconta un viaggio verso l’ignoto, così come sono ignoti i sentieri della scrittura e le pulsioni che la muovono. Quanto più sei simbolico, tanto più raggiungi l’obbiettivo. Quanto più filtri, tanto più vai al cuore del problema. Le Variazioni Reinach, per esempio, non lo considero un libro sulla Shoah, ma sul rapporto tra padri e figli. L’ho scritto con quest’idea in testa. La chiave per capire Ultimo parallelo si ha quando Atkinson entra nella tenda e comincia a leggere i diari degli esploratori. Allora i fantasmi prendono vita. Allora avviene la coincidenza tra il lettore e il personaggio.
Una cosa che ti distingue. La tua ricerca letteraria non si esaurisce in un romanzo. A volte è come se la materia fosse troppa, deve sviscerarsi altrove. Mi riferisco ai lavori sui diari di Scott e sulle lettere di Michelangelo, consecutivi alla fiction. Come se a quel punto tra documento fittizio e reale non ci sia più differenza. Spiegaci.
Mi sembra un dovere verso il lettore mostrare le pezze d’appoggio delle mie narrazioni. Per questo non soltanto pubblico fotografie ma quando posso, quando trovo un editore disposto ad affrontare il rischio, pubblico un libro a sostegno di un altro libro. È accaduto con Michelangelo per il carteggio; è accaduto con Scott, per i diari; è accaduto anche con Schumann, di cui ho pubblicato con Anna Costalonga le lettere dal manicomio. I reperti archeologici della letteratura, della musica, della storia vanno segnalati. Al narratore spetta il compito di metterli in relazione tra loro, di assemblare. Bisogna suggerire percorsi al lettore fatti sia di letteratura o bello stile che di documentazione.
Cosa leggi oggi? Pensi che la narrativa italiana sia all’altezza del tempo presente, se così si può dire? Qual è la scrittura del futuro venturo?
Di solito leggo i libri che mi servono per scrivere i miei libri; dunque ogni due/tre anni cambio sostanzialmente panorami. In qualche caso li protraggo a lungo. Per esempio, colleziono libri sull’Antartide, su Michelangelo e su Roma durante l’occupazione nazista (per via di Tutti i sognatori). Sono molto fedele alle passioni. Per questo stesso motivo cerco di leggere tutto di un autore, se mi piace. Leggo poca narrativa ma quella che leggo è abbastanza simile a quella che produco. Mi piace il lavoro che fanno alcuni autori italiani. Non li cito perché loro lo sanno e se me ne dimenticassi qualcuno mi dispiacerei e si dispiacerebbero. Lavorano più o meno come lavoro io sulla narrazione. È inevitabile che ci s’incontri. Voglio loro del bene e fanno bei libri. Le due cose per me coincidono. Ci sono dei giovani che seguo con interesse anche se mi piace poco questa sorta di manierismo che mi sembra contagiare la letteratura emergente. La lingua dev’essere sempre al servizio della pagina (questo è un insegnamento di Pontiggia) e non viceversa. Aggiungo un altro paio di regole fondamentali sulle quali baso il giudizio sui libri altrui e che sono alla base dei miei: ‘Non bisogna raccontare tutto, ma solo quello che serve’; ‘Fare narrativa non è fare un resoconto, è ricordare’.
Che libro avresti voluto scrivere? Che libro stai scrivendo?
Finora sono soddisfatto dei libri che ho scritto. Cerco di alzare l’asticella ogni volta e se magari il lettore preferisce titoli di qualche anno fa, io ho sempre la passione per l’ultimo uscito o per quello che sto scrivendo. È normale. Altrimenti non scriverei o non pubblicherei. M’interessa sempre il rapporto tra individuo e genere, tra storia individuale e collettiva. Alla fine racconto sempre di persone che sbattono il grugno e mi ritrovo sempre a parlare di me: di come sbatto il grugno scrivendo. Il libro a cui sto lavorando adesso è un ritorno al passato, ai miei studi di storia dell’arte. Una sorta di autobiografia affettiva attraverso le opere d’arte. Indago i motivi dei miei amori, delle mie passioni e finisco inevitabilmente di parlare di me. Che cosa mi dice quella tale scultura greca? Perché quel quadro di Velazquez m’innamora? Fin dove arriva nel profondo? Cosa smuovono certi dipinti nel mio passato che credevo assopito? Insomma, una sorta di autoanalisi. Mi sembra un bel cimento. Ho sempre voluto scrivere un libro di lettere d’amore e di lettere d’addio. Forse lo sto scrivendo.
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Gian Ruggero Manzoni dixit. I social? “Un cazzeggio mantrico votato a venerare il dio del niente”. Il poeta? “Che si ammanti di martirio”
Bisogna andarseli a cercare e meritarseli con le candele sulla fronte. I maestri, dico. Per far fronte al disastro. Cercare avanzi d’uomo con le dita a forma di candela, in questa notte millenaria. Gian Ruggero Manzoni, classe 1957, da Lugo, è maestro di coerenza. Ha attraversato la storia culturale degli ultimi quarant’anni di questo paese di poeti, di pupari e di marionette – repertorio smilzo: ha lavorato con Omar Galliani e Mimmo Paladino, con Andrea Pazienza e John De Leo, ha conosciuto Keith Haring e Giovanni Testori e Anselm Kiefer, ha organizzato una Biennale di Venezia (anno 1984) con Valerio Magrelli, ha fondato varie riviste e scritto alcuni dei libri più importanti degli ultimi decenni, Caneserpente, Il morbo, Le battane di bronzo, Il dolore, ad esempio, libri spesso, come quelli autentici, oggi, da stanare come cercatori d’oro bibliografico, di salvezze impreviste. Per questo, ora, più di altri, GRM è la sentinella sulla tenebra che incombe. Assiste alla mattanza del cuore umano – e reagisce, verbo in pugno. Per questo. Accade che Gian Ruggero Manzoni mi scriva. Una colta indagine su un brano del mio apocrifo, Pseudo-Paolo. Lettera di san Paolo apostolo a san Pietro. Chiosa, “stai attento… molto attento…”, fa. Mi colpisce. Come si fa a non vedere la devozione decuplicata di quel libro, come chi passi i giorni a lustrare la stimmate, con abitudine contadina? Poi mi fermo. GRM è un maestro. Non esiste altra reazione che l’ascolto. Da questo episodio, nasce il dialogo che leggete. Che, come sempre, nel caso di GRM, è un richiamo alla rettitudine in un tempo decrepito, una chiamata. Fondamentale. Fondante. Occorre razzia dell’ego, razzolare nella povertà, azzeramento, per rialzarsi, con sfida e coraggio nelle ginocchia.
Che compito ha lo scrittore o il poeta, oggi?
Gian Ruggero Manzoni in panni ‘vescovili’ in atto, forse, di scagliare l’anatema sull’era presente…
Dovrebbe essere testimone di una positività, come sostiene una cara amica, la poeta e teologa Francesca Serragnoli, ma finisce per rimanere, esclusivamente, teologo del bello, non del buono, visto che il buono dimora nel sacrificio, ma, appunto del sacrificio, tuo o di un altro, interessa ben poco alla gente, così che, seguendo la nostra tradizione, anche il povero Gesù si ritrova a fare addobbo entro le chiese, infatti più nessuno si prende la briga di deporlo dalla croce, lavarlo, ungerlo, avvolgerlo nel sudario e dargli degna sepoltura. Questo dovrebbe essere il compito dello scrittore e del poeta, oggi, cioè l’essere testimone di una fine… di una morte… di una perdita… quindi l’immergersi nell’oscuro, nell’Ade, al fine di recuperare il recuperabile, poi lavarlo, ungerlo, avvolgerlo nel sudario e deporlo nel sepolcro, quindi pregare, sì, pregare a lungo, prima che la pietra tombale vada a sigillare il mausoleo, perenne reliquario di ciò che fu la tua origine. Logico che chi crede ben sa che dopo tre giorni la vita risorge, la rinascita avviene, ma, oggi, chi mai continua a credere? Quindi, altro compito per chi fa letteratura, risulta il dimostrare di credere, non solo il dire di credere, e il porsi quale esempio in ciò. Risulta un sacrificio questo? È sacrificale tutto questo? Bene, che ci si ammanti di martirio, che le carni vengano sferzate, che i chiodi vengano piantati, che si frughi, come induci a fare tu, Davide, mio fratello di pena, entro le stigmate e nella lacerazione del costato, quindi si dica, se si ha da dire, oppure si taccia per sempre… come dovrebbe essere per i più.
Affascina la tua idea per cui l’impeto estetico deve congiungersi alla forza etica. Cosa significa? Te lo chiedo perché oggi i più si fabbricano in casa, alchimisti del niente, la propria idea di ‘etica’ e di ‘estetica’. Chiarificaci i termini.
Quale primo chiarimento, entrambi i termini nulla hanno a che fare col libero arbitrio, così da porre subito un bel paletto e non andare oltre, infatti sono essenza prima del trascendente, della divinità, cuore e fegato del mito, archetipi, principi guida, inalienabili e, come dici, non frutto di un bricolage casalingo… ma vogliamo scherzare o cosa!!!??? Entrambi gli aspetti, facce della stessa medaglia, sono i pilastri della Legge Eterna, come la definiva Sant’Agostino, cioè quella che dà forma ad ogni realtà creata per un fine ultimo: l’accogliere la grazia, il custodirla, quindi il tramandarla. Perciò estetica ed etica non sono che doni, neoplatonicamente parlando, atti a interpretare quindi a sancire la realizzazione di ogni idea contenuta in quell’assoluto che ci sovrasta e che ci vive. Sono un “talebano” in questo? Sì, da grande peccatore per come sono stato e, forse, per come sono ancora, risulto un talebano. Riguardo la componente fideista, che sia rivolta a Dio o a una idealità, a un ideale, non si può che essere dei talebani, mai ho amato gli adoratori del dubbio perché, dietro a tale feticcio, cioè il dubbio, passa tutto e il suo contrario. Quindi estetica quale possibilità umana di dare forma al gesto liturgico creativo, bello, perciò sublime, o brutto che sia… infatti esiste anche un’estetica dell’orrido, del demoniaco, dell’antisublime, ma attenti a ficcarci il naso dentro!!!… nonché etica quale approccio a detta umana creazione, a detta esplicazione del dono. Quindi, entrambe le componenti, sia che si compenetrino sia che mantengano una loro disgiunzione, sono patrimonio della coscienza in noi infusa, si spera tendente al bello e al buono, ma, per chi, appunto, dilaniato dal dubbio, possono anche risultare veicoli di caos, confusione, abbaglio, ignoranza, inconcludenza, perdita, frammentazione, polverizzazione dell’essere. In sintesi… estetica quale indicazione divina del fare, etica quale compartecipazione divina nell’eseguire un compito. Tutto il resto risulta umano e, dell’umano, detto fra noi, sempre meno mi importa, soprattutto se smarrito. Del resto come si può essere smarriti dopo ciò che ad esempio il Cristo ha detto e fatto, e, dopo di Lui, ciò che anche altri hanno detto poi fatto, sia in nome Suo sia in nome di una fede?
Cos’è il regno dei social, della virtualità imperante, che fine farà?
Spesso il luogo dove l’Io imperversa entro un canto fra sordi, entro un udire fra muti. A volte il mare al quale si affida la bottiglia col messaggio, nella speranza, se non nell’illusione, che un qualcuno prima o poi la trovi su lontane spiagge. Sempre un misurarsi più col proprio Es, o Id che sia, cioè con la propria coerenza fideistica, ideale, che con l’altrui Ed, o Id, quindi una sorta di cartina di tornasole del proprio Ego, smisurato o misero che sia. Poi una sorta di Fiera delle Vanità più che una cattedrale in cui si cantano lodi insieme. Una vetrina per certuni. Una necessità di comunicare per altri. Una comodità per chi si è stancato del mondo reale. Un passatempo per chi non ha abbastanza soldi per passare l’inverno ai Caraibi e l’estate in Provenza. Un ricettacolo di balle galattiche. Una maitresse da bordello al fine di poi trovarsi in un albergaccio a ore e farla in barba a marito, moglie, fidanzato, fidanzata. Un cazzeggio mantrico votato al venerare il dio del niente. Eccetera. Dove andrà a finire tutto questo? 99,999999 volte nel nulla perché il web è strumento che non è congeniale al mantenimento della memoria, seppure tutto venga registrato e nulla, pare, vada perduto. Allora, dirò meglio, tutta questa frenesia di socializzare si perderà tra uno sbadiglio e, si spera, una risata, considerato che l’incontro a viso, l’incontro in carne, a parte il quando si decide di andare nell’albergaccio, quasi mai avviene. Dirò ancora meglio… un palliativo, un surrogato di umanità, un lenitivo, un lamentatoio, un facile lavarsi la coscienza, affidandosi al bla bla bla, senza mai agire, o delegando altri al farlo per te. Per me, cioè per quel che mi riguarda, considerato che in web ci sono da oltre vent’anni, un conato di poesia o, a momenti, un grido.
Tu sei stato protagonista della storia letteraria recente. Penso, ad esempio (e te ne chiedo giudizio), a Pier Vittorio Tondelli, recentemente riportato in auge, amato anche dai vicinissimi a Papa Francesco (Antonio Spadaro). Cosa ne è di quella vicenda, nel suo complesso?
Ho amato Tondelli perché ha segnato e ancora segna la mia vita, perché l’ho conosciuto… eravamo al DAMS di Bologna negli stessi anni… e, assieme, abbiamo parlato, abbiamo condiviso alcune esperienze, abbiamo avuto amici comuni. Di lui due sono i libri che restano, almeno per me, “Altri libertini”, cioè la bibbia laica di una generazione, la mia, la nostra, quella degli adesso sessantenni, e “Un weekend postmoderno”, in cui Pier Vittorio ha testimoniato una stagione intellettuale, i restanti li ho sentiti meno, o, forse, valgono molto meno, dal punto di vista letterario, infatti così credo. Perché il cattolicesimo, oggi, si interessa di lui? Per lo stesso motivo per cui si è interessato a suo tempo di Testori… cioè rimbalzi su rimbalzi al fine di sdoganare l’omosessualità di certi credenti. Il Papa e i preti non possono farlo direttamente, cioè perdonare certe passioni che, per alcuni di loro, sono passioni alla pari di quelle di Tondelli e di Testori, quindi si affidano a una sorta di redenzione umana, passando dalla componente creativa. Come dire: beh, sono stati bravi a dire Messa, perciò perdoniamo le loro tendenze sessuali. I soliti alibi che si crea la Chiesa Cattolica, sempre bravissima nel trovare il modo di raggirare l’ostacolo in barba a ciò che è scritto nel Vecchio e nel Nuovo Testamento. Antica storia, che ben conosciamo. Ciò non toglie che sia Tondelli, sia Testori, sia qualunque altro gay credente in Dio non abbia il diritto di, appunto, amare e farsi amare da Dio, ma questo lo dico io che non sono né il Papa né un prete. Ora non si manda più al rogo alcuno, ma lo si sdogana… e, forse, ciò è peggio, per certuni, del finire arrostiti, perché detto stratagemma, infatti di uno stratagemma si tratta, senza voler tirare fuori chissà quali reconditi motivi di ordine culturale, risulta ipocrita.
Dici di voler andare via dall’Italia (così leggo qua e là): è vero? Abbandoni il fronte? Cosa può salvare questo pezzo di mondo?
Sono stanco di questo Nazione non Nazione, di questo Paese di intrallazzoni, delinquenti privi di senso estetico e di senso morale, privi di Dio, privi di cultura, privi di ormai tutto, solo capaci di mangiare, bere, fottere, fregare e farsi fregare. Sono stanco di entrare nel bar del mio piccolo paese posto vicino alle Valli di Comacchio e ritrovarmi in mezzo ad arabi, neri, cinesi, esquimesi, peruviani, australiani, slavi, islamici eccetera che bivaccano senza che alcuno sappia più giocare a briscola, e ciò lo dico non tanto perché mi stiano sul cavolo i suddetti, o che altro, ma con rimpianto nei confronti di un tempo che fu, di una mia giovinezza, di una vita paesana in cui si condividevano usi, costumi, dialetto, giochi, bestemmie, battute ironiche, cibo, e ci si sentiva parte di una comunità, non uno smarrito a casa propria, perciò, perso per perso, ogni tanto penso nel vero di perdermi in un altrove che non è mio, come poi hanno fatto e fanno i migranti che stanno giungendo da noi. Loro arrivano in una terra che non li ha visti nascere e, come ha fatto di già mia figlia, io me ne vado al fine di morire in una terra non mia. Poi rinsavisco, poi mi guardo allo specchio, poi mi dico: ma tu sei Gian Ruggero Manzoni, la tua famiglia è in Romagna da oltre 500 anni, e sei parte di una storia, sei parte di un essere, sei parte di una comunità, quindi non puoi che continuare a risultare fra ciò che sarà, anche, un divenire. Al che mi calmo e, al massimo, da San Lorenzo di Lugo mi trasferirò a Lugo centro, e continuerò a battermi qui per quello in cui credo. L’estero, i Paesi stranieri? Ci andrò in vacanza o per mettere a punto certe idee che poi, tornando in patria, cercherò di concretizzare qui. Comunque, ogni tanto, necessita distaccarsi dai propri luoghi al fine di amarli ancora di più, questo è certo.
Dimmi a quale opera stai lavorando. E poi, visto che hai la dote del ‘formatore’, che cosa stai leggendo, che cosa dobbiamo leggere.
Presto uscirà un libro riguardante i garibaldini romagnoli che hanno combattuto per unificare questa Nazione, in particolare quelli di umili origini che si sono impegnati o sacrificati nell’impresa dei Mille, perché quella è stata gente che nel vero si è sacrificata per la fede che aveva. Quella è stata gente con gli attributi sotto, non come quella d’adesso. Poi sto limando una raccolta di poesie che si intitola “Nel profumo delle catacombe”, nella quale ho trattato il tema dello sparire, dello sprofondarsi in una realtà sotterranea al fine di raccogliersi, a livello cenacolare, attorno a una fede, a una immagine condivisa, a un reliquiario, a una sacralità riacquistata o, meglio, riconquistata. Quindi sto rimpolpando un romanzo che tratta, appunto, degli anni ’70, quelli in cui frequentavo Tondelli e una certa Bologna. Titolo dello stesso “Il sacrificio dei pedoni”, e ancora il sacrificio viene fuori. Inoltre, come ben sai, dipingo o scrivo presentando bravi artisti. Quindi onoro il mio compito e i doni che il Supremo mi ha dato, sia in accezione estetica sia etica. Cioè sono bello, bravo e buono… o, almeno, me lo dico, me la racconto… infine, ogni giorno, devo fare i conti col demone… con la bestia che mi vive… che continua a vivermi. Ed è una bestia non facile da trattare. Cosa leggo? Sul comodino ho sempre il Libro di Giobbe, così da ricordare che non bisogna mai perdere la fede e, come diceva mio padre, bisogna sempre credere nella Provvidenza e nella divina Misericordia.
Davide Brullo
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