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L’apprendimento e l’esecuzione dei processi decisionali nel contesto sociale: studio dei circuiti cerebrali sottostanti
L’apprendimento e l’esecuzione dei processi decisionali nel contesto sociale: studio dei circuiti cerebrali sottostanti
Gli esseri umani sono animali sociali che interagiscono quotidianamente tra loro creando spazi sociali condivisi all’interno della società. Pertanto, le decisioni umane si configurano spesso come decisioni sociali riguardanti gli altri e/o influenzate da essi. (more…)
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Il Disturbo Antisociale di Personalità che cosa è?
Il Disturbo Antisociale di Personalità
Il disturbo antisociale di personalità può assumere varie forme: l’espressione del comportamento antisociale può cambiare in modo considerevole dall’essere subdolo, manipolativo e approfittatore fino all’attacco diretto. Si caratterizza per un atteggiamento di disprezzo, inosservanza e violazione dei diritti delle altre persone e si manifesta con comportamenti di ostilità e/o aggressioni fisiche. L’inganno e la manipolazione sono le modalità comportamentali privilegiate di questo tipo di personalità. In molti casi, i comportamenti ostili e aggressivi possono comparire già durante l’infanzia e l’adolescenza. L’infanzia è di solito caratterizzata da piccoli furti, menzogne e scontri con chi rappresenta l’autorità. L’adolescenza è segnata generalmente da episodi di abuso di sostanze (marjuana, cocaina, eroina), gesti violenti nei confronti di persone e/o animali.
Una volta adulti questi soggetti sono incapaci di assumersi responsabilità, conservare un’occupazione e mantenere una relazione affettiva in maniera stabile. Il modo di rapportarsi agli altri è drasticamente connotato dalla superficialità e dalla mancanza di rispetto per i sentimenti e le preoccupazioni di chi li circonda. Elemento distintivo del disturbo antisociale è la mancanza del senso di colpa e rimorso per le azioni commesse. Le persone con questo disturbo possono, infatti, rimanere completamente indifferenti in seguito alla messa in atto delle proprie azioni di danneggiamento dell’altro.
La parola chiave per questo disturbo è “irresponsabile”, dal momento che gli individui sono tutti estremamente irresponsabili in ambito lavorativo, finanziario, familiare, o nell’impatto delle loro azioni sugli altri.
Questo tipo di problematica ha un’incidenza del 3% nei maschi e dell’1% nelle femmine. Come la maggior parte dei disturbi di personalità, il disturbo antisociale diminuisce con l’avanzare dell’età a partire dai 40-50 anni.
Caratteristiche psicologiche del Disturbo Antisociale di Personalità
È utile analizzare le caratteristiche psicologiche degli individui con disturbo antisociale di personalità in termini di visione di se stessi e degli altri, credenze intermedie e profonde, strategie di coping (affrontamento) ed emozioni principali:
Visione di se stessi: si considerano come solitari, autonomi e forti. Alcuni pensano di essere stati abusati o maltrattati dalla società e quindi giustificano la loro vittimizzazione nei confronti degli altri perché credono di essere stati a loro volta vittime. Altri pazienti possono assegnarsi un ruolo di predatore in un mondo di “cane mangia cane” in cui rompere le regole della società è normale, persino desiderabile
Visione degli altri: vedono gli altri in due modo differenti, come approfittatori e, quindi, meritano di essere sfruttati come ritorsione, o come deboli e vulnerabili, e quindi meritano di essere vessati
Credenze intermedie e profonde: “devo guardarmi le spalle”, “devo essere l’aggressore altrimenti sarò la vittima”, “gli altri sono tonti e deboli”, “gli altri sono sfruttatori e quindi devo approfittare di loro a mia volta”. I pazienti con disturbo antisociale di personalità credono di essere autorizzati a rompere le regole, considerate arbitrarie e volte a proteggere i “doveri” piuttosto che i “divieti”. Questa visione è in contrasto con quella degli individui con disturbo narcisistico di personalità che credono di essere così speciali e unici da essere sopra le regole – una prerogativa che credono tutti dovrebbero riconoscere facilmente e rispettare. Le credenze intermedie sono “prendilo prima di essere preso”, “è il tuo turno adesso”, “prendilo. Te lo meriti”. Le assunzioni sono “se non faccio pressione sugli altri, o li manipolo, li sfrutto, non avrò quello che merito”
Strategie di coping: le strategie principali sono di due tipi. La personalità antisociale attacca apertamente e aggredisce gli altri, oppure un tipo più sottile cerca di persuadere gli altri e, attraverso una manipolazione insidiosa e nascosta, li sfrutta o ne approfitta
Emozioni principali: quando presente, è essenzialmente la rabbia per l’ingiustizia perchè gli altri hanno quello che in realtà meriterebbero i pazienti antisociali oppure perchè si sentono ostacolati nel raggiungimento dei loro obiettivo
Sintomi della personalità antisociale. Come capire se una persona soffre di Disturbo Antisociale di Personalità:
Sé e altri:
Identificazione e ricerca di approvazione da parte di frequentazioni devianti (“non ho nulla in comune con le persone che hanno una vita corretta”)
Disprezzo degli altri, mancanza di empatia, assenza di rimorso, e insensibilità (“non ha senso preoccuparsi se si ferisce qualcuno”)
Evitamento dell’intimità e vulnerabilità (“se mi mostro a qualcuno, approfitterà di me”)
Ostilità e sospettosità verso il personale della giustizia criminale (“i poliziotti sono i veri criminali”)
Grandiosità e senso di diritto (“tutte le donne mi vogliono”)
Tentativo di dominare e controllare gli altri (“nessuno può dirmi cosa fare”)
Interazione con l’ambiente:
Ricerca del brivido e di eccitazione (“non c’è niente di più bello del brivido quando rubo”)
Sfruttamento o manipolazione delle situazioni o delle relazioni per tornaconti personali (“non ha senso lavorare full time se si può prendere la disoccupazione”)
Ostilità verso regole, regolamenti e leggi (“le leggi sono lì per ostacolarti, piuttosto che per aiutarti”)
Giustificare o minimizzare comportamenti pericolosi (“se non vendo droga ai miei vicini, lo farà qualcun altro”)
Atteggiamento volutamente lassista (“le cose si aggiusteranno da sole”)
Abbandonare di fronte alle avversità (“quando le cose sono difficili, rinuncio”)
Sottostimare le conseguenze negative (“non andrò mai in prigione per aver venduto droga perché conosco tutti i miei clienti”)
Il disturbo antisociale della personalità si distingue per i seguenti sintomi:
Gli elementi caratteristici del disturbo antisociale di personalità possono essere così riassunti:
Senso grandioso di autostima
Incapacità di accettare le norme sociali come regole del comportamento sociale
Irresponsabilità nei rapporti interpersonali
Incapacità a provare emozioni come il senso di colpa e la vergogna
Assenza di gratitudine e di rimorso
Frequente sperimentazione della rabbia, della noia e del disprezzo
Bisogno di stimolazione e tendenza alla noia
Incapacità di apprendere dall’esperienza
Mancanza di coscienza morale e di umana simpatia
Egoismo, incapacità di lealtà, insensibilità verso gli altri
Tendenza a essere indifferenti, cinici e sprezzanti nei confronti dei sentimenti altrui
Impulsività
Temperamento disinibito
Assenza di timore delle punizioni
Incapacità di imparare dall’esperienza e dalle punizioni
Tendenza a biasimare gli altri o a offrire plausibili razionalizzazioni per il loro comportamento
Incapacità di provare empatia, cioè di comprendere i sentimenti degli altri, in particolare di come gli altri si sentono per le conseguenze delle loro azioni
Incapacità di identificarsi con la vittima
Incapacità di provare sentimenti di colpa per gli effetti che le proprie azioni lesive producono sulle altre persone
Sfruttamento degli altri per il proprio tornaconto personale
Stile relazionale sado-masochistico fondato sul potere piuttosto che sul legame affettivo
Bassa tolleranza alla frustrazione
Basso evitamento del pericolo
Bassa dipendenza dalla ricompensa
Secondo il DSM–5 non è possibile fare diagnosi di disturbo antisociale della personalità prima dei 18 anni
Quali sono le cause del Disturbo Antisociale di Personalità?
Le cause del disturbo antisociale di personalità non sono note. Alcuni autori ritengono che al suo sviluppo concorrano fattori genetici e temperamentali altri invece ipotizzano l’intervento di un ambiente invalidante. In realtà è plausibile che vi sia un’interazione fra fattori: uno stile educativo disorganizzato, trascurante e abusante in concomitanza una precedente diagnosi disturbo della condotta e/o deficit di attenzione e iperattività (ADHD) può contribuire a una aumentata probabilità di incorrere a partire dai 18 anni in questo tipo di problematica.
Fattori di rischioAspetti principali
Storia di comportamenti antisociali
Un pattern di comportamenti devianti con inizio nell’infanzia fino all’età adulta
Personalità antisociale
Segni e sintomi della personalità antisociale, disturbo dissociativo di personalità e psicopatia
Pensieri antisociali (ragionamento criminale)
Atteggiamenti, valori e convinzioni che facilitano il comportamento antisociale e autodistruttivo
Frequentazioni antisociali
Frequentazioni strette o ricerca di approvazione da parte di amici antisociali; relativo isolamento rispetto a influenze prosociali
Famiglia/relazione di coppia
Legami familiari e di coppia che mancano di nutrimento e ignorano, rinforzano o modellano il comportamento antisociale
Scuola/lavoro
Bassi livelli di performance e di soddisfazione scolastica o lavorativa; atteggiamenti negativi verso la scuola e il lavoro
Attività piacevoli e ricreative
Bassi livelli di svago e soddisfazione in attività prosociali; intraprendere attività rischiose; divertimento tratto da attività antisociali
Abuso di sostanze
Abuso di alcool o droghe; atteggiamento positivo verso l��uso
Conseguenze del Disturbo Antisociale di Personalità
La tendenza delle persone con disturbo antisociale di personalità a non curarsi dei bisogni dell’altro, l’atteggiamento di totale indifferenza e l’assenza di rimorso pregiudicano gravemente la nascita di relazioni personali sincere con queste persone. Gli unici rapporti sviluppati sono basati sullo sfruttamento dell’altro finalizzato al raggiungimento dei propri scopi. A livello lavorativo la mancanza di disponibilità, le ripetute assenze ingiustificate e la tendenza a non rispettare le scadenze finanziare e le regole, possono portare questi soggetti a numerosi problemi legali.
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I videogiochi violenti multiplayer, nello specifico Fortnite, potrebbero favorire la cooperazione e l'aiuto piuttosto che la violenza. Uno studio è giunto a tali conclusioni confrontando il comportamento di 845 studenti delle elementari in seguito a sessioni di Fortnite o Pinball. 📊 L'esperimento prevedeva una condizione in cui si chiedeva quanto volessero spendere, del premio in denaro, in beneficenza, e un'altra in cui lo sperimentatore chiedeva al soggetto se volesse trattenersi per aiutarlo negli esperimenti, e per quanto tempo. Il gruppo che aveva giocato al gioco violento Fortnite tendeva a mostrare con più probabilità comportamenti prosociali rispetto a chi aveva giocato al gioco neutro Pinball, donando più soldi o prestando più aiuto agli sperimentatori. I ricercatori ipotizzano che, oltre al ruolo cooperativo del gioco, ciò possa essere dovuto alle emozioni positive indotte dal godimento del gioco in sé, sebbene violento. Ho parlato dell'influenza dei media violenti sul comportamento nella rivista Psicopuglia n°22 (link in bio su linktree). Fonte: 📄 Shoshani, A., & Krauskopf, M. (2021). The Fortnite social paradox: The effects of violent-cooperative multi-player video games on children's basic psychological needs and prosocial behavior. Computers in human behavior, 116, 106641. 🧠 Per news scientifiche, videoarticoli, memi e altro riguardo il cervello e la psicologia, è possibile seguirmi sui social: IG 📷 @federicorussopsi FB 👥 @federicorussopsicologo Sito: 🌍 psicologofedericorusso.it 📅 Per appuntamenti (anche online) e info, anche via WhatsApp o Telegram:📱 327 1582852 o via mail: 📧 [email protected] 📍Via G. Pappacoda, 2, / 📍Via S. Lucia 27, #Manduria (TA) #fortnite #psicologia #scienza #divulgazione #psicoterapia #gaming (presso Dott. Federico Russo - Psicologo Psicoterapeuta) https://www.instagram.com/p/CQRZ2hSg3i-/?utm_medium=tumblr
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Nudge & donazioni: 4 chiacchiere live l’11.11.2020
E’ possibile stimolare comportamenti prosociali attraverso il nudging? In che modo?
Su questo tema vi segnaliamo l’evento live dell’11 Novrembre alle ore 13 organizzato da FundraisingMix a cui parteciperà Massimo Cesareo, co-founder di aBetterPlace.
Trovate il programma e tutte le informazioni nella locandina e sulla pagina Linkedin: https://www.linkedin.com/events/nudgeedonazioni-4chiacchiereliv6730151293354065920/ .
Basta un semplice click per partecipare!
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Quando accadono eventi che riteniamo imprevedibili cerchiamo di trovare ad essi delle spiegazioni per noi accettabili. La complessità di queste spiegazioni dipende dalle conoscenze che abbiamo accumulato e, se si tratta di epidemie, dalla percezione che riusciamo ad avere della malattia.
Se le conoscenze scientifiche alle quali possiamo accedere sono limitate o contrastanti non abbiamo altra scelta che fare leva sul nostro giudizio per affrontare le incertezze.
Tuttavia, il nostro giudizio può essere niente di più ingannevole non solo per le ampie distorsioni cognitive alle quali siamo vulnerabili nelle scelte decisionali ma anche quando si tratta di percepire visivamente la realtà non riusciamo a vederla proprio com’è. Questi aspetti sono particolarmente rilevante ai fini della percezione del rischio associato, ad esempio, a un’infezione virale e dell’attuazione dei comportamenti necessari a controllarlo.
Le illusioni ottiche rappresentano un elegante esempio degli inganni che ci sottopone il nostro cervello nel ricostruire i dati di realtà, restando solo ai livelli della percezione visiva.
Nei seguenti esempi non vediamo quello che c’è, vediamo quello che non c’è, vediamo solo da uno dei due punti di vista possibili.
Una volta svelata l’insidia (i cerchi tra i rettangoli dell’illusione del forziere, il triangolo bianco apparente di Kanizsa, la giovane o la vecchia) riusciamo a guardare ogni figura con maggiore consapevolezza e a vederne la molteplicità di elementi anche se resta l’effetto dell’illusione.
L’accesso alle informazioni ci permette quindi di andare oltre le nostre percezioni sensoriali e di imparare a gestire la complessità, a meno che non decidiamo deliberatamente non solo di accontentarci delle nostre visioni soggettive ma di spacciarle come oggettive e affidabili per una varietà di scopi, dalla sfida interna alla nostra piccola cerchia all’attivismo antiscientifico in una comunità.
In tal caso si può continuare a insistere che nella seguente figura i due quadrati A e B siano di un grigio diverso mentre alla prova dei fatti condividono proprio la stessa tonalità:
Ricorre a questa illusione la fisica e divulgatrice Sabine Hossenfelder nel suo ultimo video rivolto a spiegare il fondamento delle posizioni dei 'terrapiattisti', coloro che ritengono la terra sia piatta.
Per Hossenfelder una logica di questo movimento anacronistico e antiscientifico è comunque rintracciabile e consiste nel fare affidamento sulle proprie evidenze sensoriali o percezioni soggettive: “per quello che vedo, per quello che sento, per quello che calpesto la terra tonda non è”. Al giorno d’oggi sono sufficienti poche informazioni da un altro punto di vista per dimostrare l’infondatezza di questa posizione. Nelle persone che hanno dei dubbi, l’accesso a queste informazioni è determinante per accrescere la conoscenza scientifica e ridurre l’affidamento alle sole evidenze soggettive. Non è così per chi ha un approccio fideistico e crede per dottrina nella rivelazione della piatta terra oppure amministra organizzazioni dedicate.
Quando questa attitudine si applica alla salute la situazione diventa più problematica.
Qualcosa di analogo sta, infatti, accadendo per il nuovo coronavirus: “per quello che vedo e che sento non ci sono ammalati quindi chi ne parla crea psicosi”.
È quello che è accaduto per l'articolo sui sintomi cronici e complessi della Covid-19 che ha scatenato reazioni aggressive e negazioniste.
Leggi anche >> Perché è importante capire gli effetti persistenti e a lungo termine della COVID-19
C’è da dire che l'informazione su giornali e tv ha una notevole responsabilità in questo scetticismo verso la malattia perché ha fatto e continua a far circolare di tutto, genera confusione che sia intenzionalmente o meno, enfatizza le infrazioni alle regole sui comportamenti non sicuri inducendo emulazione in diversi gruppi di persone, trascura gli aggiornamenti sulla situazione attuale di ammalati, di operatori, dell’organizzazione dei servizi, delle risorse, ecc.
Si pensi che questa abitudine a presentare una specie di informazione pericolosamente “bilanciata” è uno dei fattori responsabili del persistere della credenza che l’autismo sia causato dai vaccini. È quanto rilevano ancora oggi Monica Pivetti (Università di Bergamo), Giannino Melotti (Università di Bologna) e Claudia Mancini (Università di Chieti-Pescara) in uno studio qualitativo sulle percezioni di 18 madri di bambini autistici, pubblicato lo scorso aprile. Se è vero che lo sconcertante articolo di Wakefield del 1998, che riportava senza dati attendibili un’associazione statistica tra vaccino e diagnosi di autismo, è stato ritirato nel 2010 dalla rivista The Lancet, ancora persistono gli effetti devastanti del dubbio che ha inoculato questa falsa scienza nell’opinione pubblica generale. La pressione dei movimenti anti-vaccinazione e una copertura mediatica che ha dato lo stesso credito a fonti scientifiche e antiscientifiche sono le cause principali, rilevano Pivetti e collaboratori. Giova ricordare che il caso italiano si è arricchito anche della sentenza di primo grado che a Rimini nel 2012 aveva riconosciuto il risarcimento da parte della ASL alla famiglia di un bambino autistico. La sentenza fece scalpore e fu riportata con grande enfasi su giornali e tv. Per Pivetti e collaboratori questo è stato l’innesco che ha fatto dilagare i dubbi sulle vaccinazioni. La sentenza fu poi ribaltata dalla Corte d’Appello di Bologna nel 2015 ma l’eco mediatica di questa importante notizia è stata irrisoria. Solo due delle madri intervistate nello studio di Pivetti, Melotti e Mancini riferiscono che l’autismo sia dovuto a cause genetiche, per sei madri l’autismo del proprio bambino è stato causato dal vaccino (è da ribadire che vi è solo al più una coincidenza temporale tra l’età di somministrazione del vaccino MPR e l’esordio della regressione comportamentale) e per le restanti, hanno un ruolo entrambi i fattori. Ci vorrà ancora del tempo per ristabilire verità scientifica e fiducia che permettono anche di elaborare in modo consapevole la diagnosi, gestire l’ansia per l’imprevedibilità delle manifestazioni e attenersi agli interventi riabilitativi.
All’attuale situazione di confusione e frastuono nella quale ci troviamo ad affrontare l’emergenza della Covid-19 – che non giova all’adozione di comportamenti sicuri e prosociali - non poco hanno contribuito quegli esperti che si sono profusi nel diffondere con ogni mezzo le proprie evidenze soggettive, pensieri positivi o addirittura le più fantasiose tesi cospirazioniste.
In qualche tranello sono caduti anche gli esperti più affidabili, nel momento in cui sono stati richiesti di esprimere opinioni su temi al di fuori delle proprie competenze o semplicemente per le scarse abilità di comunicazione.
La macchina antiscientifica sta oliando tutti i suoi ingranaggi: falsi esperti, fallacie logiche, aspettative impossibili, selettività delle fonti, teorie cospirazioniste. Si tratta di un modello che si applica a tutte quelle situazioni in cui è in atto il negazionismo scientifico, come l’emergenza climatica, le vaccinazioni e quest’anno il nuovo coronavirus.
Con la stessa alacrità sta fabbricando nuove barriere lo stigma sociale che da noi già contava su solide fondamenta.
Come riporta un documento del Ministero della Salute:
“Lo stigma sociale, nel contesto della salute, è l'associazione negativa tra una persona o un gruppo di persone che hanno in comune determinate caratteristiche e una specifica malattia. In una epidemia, ciò può significare che le persone vengono etichettate, stereotipate, discriminate, allontanate e/o sono soggette a perdita di status a causa di un legame percepito con una malattia”.
Già con la pandemia da H1N1 nel 2009 si era prodotto un preoccupante stigma sociale verso gli infetti. I pregiudizi e gli atteggiamenti negativi nei loro confronti erano superiori a quelli dichiarati verso le persone positive a HIV, come riportarono in uno studio del 2013, Valerie Earnshaw (Università di Yale) e Diane Quinn (Università del Connecticut), richiamando anche all’urgenza di predisporre le strategie per ridurre lo stigma in vista delle future pandemie.
A dire il vero il documento del Ministero sopra riportato elenca i motivi per i quali la Covid-19 sta producendo stigma sociale:
1) è una malattia nuova per la quale esistono ancora molte incognite;
2) abbiamo spesso paura dell'ignoto;
3) è facile associare quella paura agli "altri".
Inoltre, ne descrive l’impatto:
Lo stigma può minare la coesione sociale e può indurre ad un isolamento sociale dei gruppi. Ciò potrebbe contribuire a creare una situazione in cui il virus potrebbe avere maggiore - non minore - probabilità di diffusione. Ciò può comportare problemi di salute più gravi e maggiori difficoltà a controllare l’epidemia.
Lo stigma può:
Spingere le persone a nascondere la malattia per evitare discriminazioni
Indurre a non cercare immediatamente assistenza sanitaria
Scoraggiare l’adozione di comportamenti sani
Infine, elenca le possibili strategie per ridurre lo stigma sociale associato alla Covid-19:
Il modo con cui parliamo di COVID-19 è fondamentale per supportare le persone a intraprendere azioni efficaci per aiutare a combattere la malattia e per impedire di alimentare la paura e lo stigma. È necessario creare un clima in cui la malattia e il suo impatto possano essere discussi e affrontati in modo aperto, onesto ed efficace.
Ecco alcuni suggerimenti su come affrontare il crescente stigma sociale e come evitarlo:
Le parole contano: cosa fare e cosa non fare quando si parla del nuovo coronavirus (COVID-19)
Fai la tua parte: idee semplici per allontanare lo stigma
Suggerimenti e messaggi di comunicazione.
Se si scorrono i dettagli e gli esempi di queste tre strategie ci si rende conto che stiamo andando nella direzione giusta per accrescere giorno per giorno e irrimediabilmente lo stigma sociale.
Pensiamo al disprezzo con cui viene trattata ogni persona contagiata, se giovane o migrante è poi un bersaglio perfetto per chi urla notizie che si adattano ai pregiudizi
Le persone che hanno affrontato i sintomi acuti o stanno affrontando i sintomi persistenti e complessi della Covid-19 e i loro familiari hanno bisogno di essere visti, andando un po’ oltre le ristrette percezioni sensoriali, in modo da riconoscerne le sofferenze e i bisogni, garantire loro esistenza sociale e assicurare le cure farmacologiche, riabilitative e psicologiche necessarie. Le persone e le famiglie che hanno subito lutti, le/gli operatrici/tori sanitarie/i e socio-assistenziali che hanno affrontato le situazioni più dolorose hanno bisogno di essere ascoltate.
Se non allarghiamo il nostro campo percettivo mentre gli eventi accadono, il processo di dimenticanza di questa pandemia sarà ancora più rapido del previsto.
C'è un pressante bisogno di accrescere le conoscenze e di una più estesa educazione scientifica: i primi progetti da realizzare alla riapertura delle scuole potrebbero essere proprio legati alla pandemia non solo per aiutare bambine/i e ragazze/i che hanno affrontato con maggiori fragilità i mesi scorsi a re-integrarsi ma anche per aiutare a distinguere le informazioni affidabili da quelle dannose e soprattutto a mantenere comportamenti sicuri.
Quanto aiuterebbe ad affrontare le incognite dei prossimi mesi, a partire dagli esperti e dalle istituzioni, una comunicazione rispettosa - senza insulti né allarmi -, equilibrata, che aiuti a mantenere la lucidità nell'incertezza e a discernere le percezioni individuali (spesso illusorie) dalle prove dei fatti su larga scala!
Da dove si comincia?
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Comportamenti prosociali o cose da fare ieri che vanno fatte oggi
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SANT’ELPIDIO A MARE – Al Teatro Cicconi di Sant’Elpidio a Mare si terrà l’incontro conclusivo del primo anno del progetto “Stare bene nella comunità scolastica, promuovere comportamenti prosociali per affrontare il bullismo, il cyber bullismo e l’inclusione” realizzato all’ISC di Sant’Elpidio a Mare nell’anno 2019.
Il progetto triennale è il frutto di un patto di collaborazione per il bene comune tra scuola, istituzioni ed esperti del settore. Questa sinergia collaborativa ha permesso, attraverso preziosi contributi, la realizzazione e la messa in atto di un intervento di mediazione scolastica indiretta teso alla diffusione della cultura pro-sociale.
La mediazione permette di ripensare alle relazioni all’interno del contesto scolastico promuovendo nuove modalità relazionali tra allievi ed insegnanti, tra gli allievi stessi e tra scuola e famiglia. Infatti, grazie ad un modo diverso di sperimentare l’incontro con l’altro, questo diventa lo spazio in cui si impara a convivere ed instaurare relazioni. Partendo da queste premesse, sappiamo che la scuola si trova costantemente in prima linea nello sviluppo di strategie preventive ed educative finalizzate alla riduzione dei comportamenti a rischio e in particolare dei fenomeni legati al bullismo e quindi alla diffusione dei comportamenti protettivi in età evolutiva.
Nel corso della serata, si parlerà di bullismo e promozione della prosocialità con le professioniste del Centro Co.Me.Te Arezzo-Cortona, ideatrici del progetto, e dell’esperienza della mediazione scolastica, competenze, strumenti e risorse nelle classi 2° e 3° dell’ISC di Sant’Elpidio a Mare con gli psicologi del Centro Co.Me.Te Fermo, la Dott.ssa Marini Rachele e il Dott. Giuseppe Torti.
Saranno esposti i lavori realizzati dagli alunni nel corso del progetto Nel 2014 il MIUR ha riconosciuto il progetto coerente con gli obiettivi del dipartimento dello Studente e l’Università di Firenze ha svolto il progetto di ricerca e rilevazione dei risultati.
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[EMPATIA ED EMOZIONI NEL REGNO ANIMALE] ✅ Non è solo #istinto. Gli animali provano #emozioni, sanno bene chi sono e sanno perfettamente come comportarsi con gli altri. Lo confermano gli studi che dimostrano che anche gli animali sperimentano l'#empatia. 📌 In particolare, si tratterebbe di un circuito ad una sola via, poiché è l’uomo che influenza empaticamente l’animale, trasmettendogli #valori e #pensieri, pur senza riuscire a percepire autenticamente cosa egli provi. 📌 Qualora serva precisarlo, bene confermare che le emozioni nella razza umana servono a costruire comportamenti #prosociali, cioè orientati alla costruzione di collettività che sopperiscano, ove sia necessario, ai #bisogni dei singoli. 👉 Per il resto, c'è molta affinità. E, a volte, moro sono anche migliori di noi.
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La coevoluzione cultura-gene
[...] ora, giacché la NTC prevede anche la migrazione/dispersione opportunista d’organismi che si spostano nello spazio, cioè che si trasferiscono in nuovi ambienti (delocalizzazione) dove devono sperimentare altre condizioni, si pensi alla portata dell’affermazione sulle dinamiche transgenerazionali di nicchia se oggetto di studio diventa il genere Homo, là dove tutto il suo vissuto è fenomeno leggibile anche come effetto di una costruzione di nicchia transgenerazionale che si basa sulle dinamiche esperienziali di delocalizzazione e domesticazione dell’ambiente (v. supra) da parte d’una collettività d’organismi guidata dal cervello sociale (di cui s’è parlato diffusamente sopra e che sarà definito a seguire); questo dato che, s’è vero che le informazioni e i comportamenti acquisiti dagli organismi attraverso processi ontogenetici non possono essere ereditati in quanto si perdono dopo la loro morte, processi come l’appreso dai suoi discendenti in un contesto sociale, possono essere di notevole importanza per la sopravvivenza di questi (trasmissione verticale), per la loro diffusione promossa tra i componenti all’interno della generazione presente (trasmissione orizzontale) e per la trasmissione dell’appreso a una generazione più giovane messa in atto da un qualsiasi componente d’una generazione precedente (trasmissione obliqua), giacché il dispositivo dell’ereditarietà ecologica può permettere al cervello sociale di valutare e controllare in modo dinamico e plastico i parametri critici della costruzione di nicchia attraverso le modalità di circolazione dell’appreso (intesi i parametri critici come tutto ciò che può ridurre l’incertezza negli ambienti selettivi rispetto agli interessi manifestati dagli organismi riguardo alla loro fitness, cioè controllando il ventaglio degli ambienti di sviluppo cui possono essere esposti gli eredi), con la clausola che l’appreso dalla collettività d’organismi sia poi inteso in termini di flussi di conoscenze accumulate, di comportamenti e di pratiche acquisite; un insieme, dunque, ch’è veicolato da un cervello sociale in un processo di sociogenesi ininterrotta che, come mostra l’iter del genere Homo, implica dei cambiamenti tanto nel trasferimento transgenerazionale dell’ereditarietà ecologica quanto nella loro stabilizzazione (selettiva) storicamente data e determinata; e in special modo nel momento in cui la costruzione di nicchia gli permette di persistere, cioè di sussistere e riprodursi, nelle condizioni ambientali frammentate, instabili e ostative, ossia inospitali e proprie al vissuto di domesticazione dell’ambiente da parte del genere Homo (v. per esempio, supra, l’effetto di tamponamento, o buffering), condizioni d’antropizzazione che come si vedrà creano poi le premesse per la domesticazione e la colonizzazione dell’intero pianeta da parte di Homo sapiens; senza però dimenticare che questo dato di fatto, cioè che l’ereditarietà ecologica influenza fortemente le dinamiche evolutive, vale tanto per il genere Homo quanto per le centinaia di specie sociali di mammiferi, uccelli e pesci, così come per gli insetti eusociali (quali termiti, formiche, api, vespe e altre ancora), cioè in tutte quelle specie in cui la capacità d’interagire con l’ambiente, grazie al detto dispositivo di conoscenza e comportamento acquisito promosso dall’ingegneria ecologica, non è una capacità ch’è garantita dalla presenza di geni selezionati dall’evoluzione; o, detto altrimenti, è sempre sottinteso che questo dispositivo d’ereditarietà ecologica rappresenta un’eredità extragenetica che allarga il concetto stesso d’ereditarietà di là dalla genetica di trasmissione, ciò che sottolinea, in generale, come non tutto lo sviluppo sia sotto stretto controllo genetico (e sempre fatta salva la causalità reciproca e ricorsiva tra eredità ecologica e eredità genetica); ora, l’appreso dalla citata collettività d’organismi rimanda a quello che qui s’intende con il termine cultura, termine ombrello di difficile esplicitazione semantica a causa del suo uso polisemico (o, volendo, del suo uso come concetto passe-partout che difficilmente trova unanime consenso), che qui s’adotta nella sua valenza di strumento di trasmissione e modellamento sociale grazie al quale il genere Homo ha potuto costruire le sue nicchie in grado di modificare l’ambiente abiotico e biotico degli ecosistemi a suo vantaggio (e con ricadute evolutive anche per piante e animali, che sfociano infine nella selezione artificiale; per esempio, v., infra, la loro domesticazione) e che possiamo tradurre, come sopra accennato, attraverso il ricorso ai flussi di conoscenze, di comportamenti e di pratiche acquisite trasmesse (in modo non passivo) con lo stoccaggio delle memorie e delle competenze che transitano nei cervelli e con la loro esplicitazione attraverso il linguaggio o l’imitazione o con altri modalità d’apprendimento sociale (o social learning), oppure con altri strumenti e metodi d’immagazzinamento esterno della memoria (v. infra), tratti che sono tutti d’interfaccia nell’interazione via via più complessa dell’organismo con l’ambiente e che possono essere indicizzati grazie al tasso d’uno sviluppo economico e sociale storicamente dato (e sono tratti d’interfaccia perché lo stoccaggio della memoria culturale ci dovrebbe rendere edotti del fatto che la cognizione immagazzinata non è qualcosa che capita solo nel nostro cervello alla stregua d’una routine biologica, ma che la cognizione in gioco che abita e che transita nella nostra mente è la risultante storica dei cambiamenti che intervengono nelle strutture d’assemblaggio e in quelle di relazione tra le eterogenee componenti biotiche e abiotiche d’un ambiente, d’una realtà); tasso di sviluppo economico e sociale storicamente dato, dunque, che poi può essere indicizzato, più o meno in dettaglio per gli ultimi 100 000 anni, questo ricorrendo alla tipologia delle risorse utilizzate, ai mezzi di produzione utilizzati per trasformarle in prodotto (e, a seguire, a distribuirlo per il consumo) e dai rapporti sociali che si creano nella collettività in riferimento alle possibilità di sfruttamento delle risorse offerte dallo stato dei mezzi di produzione e dall’accesso al consumo dei prodotti, ivi compreso il lavoro e la sua parcellizzazione (con tassi di delega allo stoccaggio specializzato delle conoscenze accumulate che variano al variare delle complessità sociale e della divisione complessiva del lavoro necessario per mantenere in essere e permettere la riproduzione sociale della struttura economica); e giacché ruoli e compiti che alterano il comportamento degli individui del genere Homo in una società storicamente situata lo fanno in un modo plastico e radicale, la modificazione dell’insieme (che, come vedremo a seguire, si basa sulla produzione materiale) include anche l’organizzazione degli stati mentali (epistemici o meno che siano, e là dove l’episteme riguarda l’indagine razionale del percepito), l’intrecciarsi dei vissuti emotivi (prosociali) e dei vincoli paradigmatici che i sistemi delle credenze e i sistemi valoriali (insomma i sistemi legati allo stato delle forze produttive e delle visioni del mondo, o Weltanschauungen), stabiliscono e plasmano all’interno delle collettività proiettate verso la loro riproduzione sociale in fase d’assestamento o di stabilizzazione (ciò che comprende anche la gestione della violenza istituzionale verso l’esterno e della violenza intraspecie all’interno) e altro ancora; con la clausola, ritornando alla costruzione di nicchia, che il serbatoio dell’appreso transgenerazionale (o eredità culturale, cultural inheritance) è poi da intendersi come una componente dell’eredità ecologica, un suo sottoinsieme che può essere definito come costruzione d’una nicchia culturale (cultural niche construction) o, detto altrimenti, che l’eredità non è tripla (genetica, ecologica e culturale), ma duale (genetica e ecologica) essendo la costruzione della nicchia culturale solo una componente, sia pur molto pervasiva nell’antropizzazione dell’ambiente, dell’eredità ecologica (o, detto altrimenti, non tutta la costruzione della nicchia umana è costruzione della nicchia culturale, e non tutta l’eredità ecologica umana è eredità culturale); e a proposito della pervasività di questo tratto della costruzione culturale, e fatto salvo il caso che l’eredità ecologica possa implicare un processo culturale senza alcuna ricaduta genetica, si presenta il problema dell’evoluzione dell’eredità genetica umana che si combina con l’eredità culturale (o coevoluzione cultura-gene, detta anche teoria dell’eredità duale, o Dual inheritance theory, DIT), il tutto come un effetto endogeno della costruzione di nicchia che potrebbe influenzare la selezione naturale dei geni nel genere Homo, selezione che, a sua volta, potrebbe a volte poi influenzare l’espressione dei processi culturali e l’antropizzazione dell’ambiente.
LA COEVOLUZIONE CULTURA-GENE
Detto che si stima che centinaia di geni siano stati oggetto di selezione positiva (relativamente) recente, e spesso in risposta alle attività umane, e sottolineato che in moltissimi casi deve ancora essere dimostrato il fatto che la causa di selezione del gene sia derivata da una pratica culturale, quest’ipotesi della DIT suggerisce che i processi culturali possono influenzare notevolmente l’evoluzione genetica con il tasso di variazione delle frequenze alleliche innescate come risposta a una modificazione delle condizioni ambientali, e sempre fatto salvo il fatto che sia presente un tempo sufficiente affinché si fissi l’allele benefico associato alla modificazione (come dire che la costruzione di nicchia culturale, introducendo una variante extragenetica che rende una mutazione vantaggiosa solo per date variabili ambientali, è in grado d’alterare positivamente l’esito previsto dalla trasmissione puramente genetica); dinamiche d’innesco delle variazioni alleliche che sono poi, in generale, più veloci, nel tempo richiesto per la fissazione dell’allele benefico associato, rispetto alle condizioni richieste dalle dinamiche evolutive convenzionali (o che, come pressioni selettive culturali, possono essere dismesse più velocemente, s’è il caso), questo perché operano con una frequenza maggiore e su un ventaglio più ampio e variato di situazioni; tanto che le pratiche culturali innovative, nei confronti d’una mutazione genetica che obbedisce ai tempi evolutivi standard, hanno solitamente risposte più rapide alla selezione, anche perché la popolazione sulla quale agisce la diffusione d’una innovazione culturale è di fatto numericamente amplificata dalla rapidità della sua diffusione, ciò che fa sì che s’amplifichi nella popolazione anche l’intensità della selezione della variante genetica dimostratasi vantaggiosa; ora, visto che gli ultimi 100 000 anni hanno prodotto, date la nicchie culturali presenti, una pressione selettiva sui fenotipi legata a nuovi habitat e climi; visto che la pressione selettiva s’è esercitata là dove la densità abitativa ha via via promosso l’esposizione a nuovi patogeni legati allo stile di vita antropomorfo (per esempio, alla sedentarietà; v. infra) e dove la vicinanza ad animali domesticati (o in fase di domesticazione, v. infra) ha favorito la diffusione di malattie legate a patogeni zoomorfi (dette zoonosi; v. infra); visto poi che la pressione selettiva s’è storicamente assestata con la transizione dalle società di caccia e raccolta a quelle pastorali e agricole che, affermatesi a partire dagli ultimi 10 000 anni, sono state, infatti, caratterizzate da un rapido e vincente incremento demografico; visto tutto questo, possiamo dunque dire che le situazioni demografiche venutesi a creare potrebbero avere poi permesso ad alcune mutazioni di poter essere vantaggiose e di creare un nuovo genotipo adattato, diciamo così, alla densità abitativa (ragione per cui è possibile che il passaggio dallo stile di vita nomade proprio ai cacciatori-raccoglitori a quello sedentario e ad alta densità demografica degli agricoltori abbia facilitato la diffusione di agenti infettivi legati a un’ampia casistica, ciò che potrebbe avere portato a un rapido incremento della frequenza degli alleli in grado di proteggere contro questi agenti e molto altro ancora); in generale, e partendo dall’assioma che la costruzione di nicchia umana è informata da una piattaforma unica di conoscenze culturali che sono potenti in quanto storicamente cumulatesi (e, bene o male, autoimpostesi), si può poi dire che alla base dei principali eventi che portano alla selezione sui geni umani (e alla formazione di genotipi inediti) ci sono dunque le innovazioni culturali legate alle nuove risorse trofiche, solitamente connesse con la colonizzazione di nuovi habitat, con le pratiche della loro produzione e con le strategie economiche e sociali di trasmissione dell’insieme (ma senza dimenticare che la detta velocità dell’eredità culturale accumula però errori su errori i cui effetti producono spesso conseguenze maladattative non previste, passando, come esemplificano gli ultimi 10 000 anni, dall’alterazione degli equilibri ambientali alla creazione di strutture economico-sociali destabilizzati perché inegualitarie e altre nefaste conseguenze proprie all’Anthropocene); di risultati certi che gli studi genetici hanno confermato essere soggetti a una selezione (relativamente recente) legata alla coevoluzione cultura-gene ne esistono (anche se, come sopra detto, ci sono moltissimi casi in cui deve ancora essere dimostrato che la causa di selezione del gene è derivata da una pratica culturale), e tra questi l’esempio più studiato d’una mutazione vantaggiosa è quello della c.d. tolleranza al lattosio; e si tratta d’una mutazione che ha permesso ai portatori una chance di sopravvivenza alimentare aumentata (cioè l’accesso a un surplus di calorie che ha dato ai portatori una possibilità d’avere più figli rispetto ai non portatori, specialmente nei periodi di carestia), ciò che ha permesso la diffusione nella popolazione e nelle generazioni a seguire della mutazione legata, nei climi freddi o nei climi caldi e aridi (v. infra), all’ambito della tolleranza al latte d’origine animale dopo lo svezzamento dal latte materno; ciò che rimanda alla comparsa storica della domesticazione del bestiame da latte nelle società pastorali e della produzione dei prodotti caseari fermentati ricavati dal latte (per esempio, yoghurt o formaggio, v. infra), evento di una costruzione di nicchia culturale che ha alterato gli ambienti selettivi di queste società per un numero sufficiente di generazioni (poche centinaia di generazioni) che sono così state in grado, persistendo la pratica culturale, di selezionare quelle mutazioni che conferiscono maggiore tolleranza al lattosio negli adulti e di aumentarne, pertanto, il carico calorico disponibile offerto dall’ambiente (questo perché il latte è un’importante fonte di proteine e grassi; per esempio, è stata stimata sui 400-600 kg la produzione di latte di una mucca nel periodo preistorico durante il periodo dello svezzamento dei vitelli, di cui 150-250 possono essere sottratti per l’alimentazione umana, ciò ch’è, in calorie, quasi equivalente al consumo carneo dell’intera mucca, ciò che ha quantomeno permesso di fare un uso più economico del bestiame e di meglio valorizzare il bestiame femminile rispetto a quello maschile, cioè di programmarne il consumo secondo le esigenze demografiche che si presentano); come detto sopra, è poi il gene LCT quello che poi fornisce le istruzione per produrre l’enzima della lattasi (lattasi florizin-idrolasi, o lactase-phlorizin hydrolase, LPH), enzima che aiuta, durante il transito intestinale, a digerire uno zucchero complesso presente nel latte, il lattosio (LPH è poi prevalentemente espresso nell’intestino tenue, v. infra, dove idrolizza il lattosio in glucosio e galattosio, due zuccheri che sono facilmente assorbiti nel circolo ematico); mentre la lattasi è smessa d’essere prodotta dall’organismo dopo lo svezzamento del lattante, generando, in questo modo, un deficit di lattasi congenita che non gli permette più di digerire il latte d’origine animale (sindrome di malassorbimento detta intolleranza al lattosio), è capitato che dei polimorfismi a singolo nucleotide (v. supra) nelle regioni circostanti al gene LCT che la produce siano associati, negli organismi che presentano queste mutazioni, con la persistenza (ereditabile) della lattasi dall’infanzia fino all’età adulta, ragion per cui questi organismi possono consumare latte d’origine animale senza problemi di malassorbimento, e questo grosso modo si sospetta sia avvenuto in un’economia di sussistenza già dedita alla pastorizia ca. 6 000 anni fa, specificamente in una popolazione nomade di pastori di renne (sulla domesticazione della renna, Rangifer tarandus tarandus, v. infra) vicino ai monti Urali, in Russia (si ricorda che altri dice che la tolleranza al lattosio data a partire da ca. 10 000 anni fa e che solo via via la frequenza dell’allele è poi aumentata, a basse frequenze 8 000-7 000 anni fa e poi, dal 6 000 e solo in certe aree geografiche, ad alte frequenze); in ogni caso, la distribuzione del fenotipo tollerante al lattosio si sovrappone al reperimento dei siti che, in quest’arco temporale di 10 000 anni, mostrano presenza d’attività pastorali legate all’allevamento di animali da latte e all’attività di produzione, di stoccaggio e di distribuzione del latte e dei prodotti caseari (sovrapposizione in cui l’insorgere della mutazione segue l’adozione della pastorizia, ossia una costruzione di nicchia culturale, dunque una coevoluzione cultura-gene che va sotto il nome di Cultural Historical hypothesis; la cui contro-ipotesi è quella che afferma che la tolleranza al lattosio è stata consentita prima dall’insorgenza d’una mutazione cui solo a seguire s’è affermata con la diffusione dell’allele collegata alla pratica culturale della pastorizia che ne ha permesso la persistenza) e che si ritrova nei climi aridi e caldi e alle alte altitudini; nei climi aridi e caldi là dove ci sono popolazioni di pastori nomadi che vivono in zone steppose e desertiche, qual è il caso, per esempio, della Penisola Araba, dove il latte di dromedario (Camelus dromedarius, v. supra e infra) è usato dai pastori nomadi, i beduini, e a partire da ca. 4 000 anni fa, come alimento di base che risulta essere, per coloro che lo consumano, oltre che una fonte di cibo, anche una preziosa sostanza liquida incontaminata; mentre nei climi freddi il consumo di latte da parte delle popolazioni nomadi di pastori, oltre che ai citati benefici, apporterebbe loro anche il calcio, ciò che permetterebbe d’evitare la diffusione nella popolazione delle patologie delle ossa (rachitismo e osteomalacìa, v. infra), presenti nei detti climi delle alte altitudini a causa d’una scarsa irradiazione solare (detta Calcium absorption hypothesis; v. infra; sul problema della tolleranza/intolleranza al lattosio, v. supra e infra); un altro esempio di coevoluzione cultura-gene in atto lo si ritrova nelle popolazioni che appartengono alla famiglia linguistica Kwa dell’Africa occidentale e che coltivano yams (lo yam, o Dioscorèa, della famiglia delle Dioscoreacee, è un tubero d’amido commestibile d’una pianta rampicante presente nei paesi tropicali e subtropicali) e i cui i metodi di coltura, vale a dire di gestione antropica dell’ambiente, hanno favorito l’emergere nelle popolazioni di un’emoglobina (Hb) con una mutazione che ha dato origine all’emoglobina S (HbS) che protegge i portatori sani dell’anemia falciforme dalla malaria; bisogna, infatti, sapere che per fare crescere queste colture di yam gli agricoltori hanno dovuto tagliare delle radure nelle foreste marginali, ciò che ha avuto l’effetto, durante le piogge (e lo yam s’inizia a coltivare quando inizia la stagione delle piogge), d’aumentare la quantità di acqua stagnante a causa delle diverse modalità di drenaggio dei suoli, ciò che a sua volta ha creato, complice anche il clima con temperature che s’aggirano sui 25-30° C, la possibilità d’incrementare la presenza di popolazioni di zanzare apportatrici di malaria (zanzare femmine infette del genere Anopheles) e, pertanto, la diffusione della malaria nelle popolazioni che hanno creato queste stagnazioni (v. infra); fatto salvo che la malaria ha una fase di sviluppo che coinvolge i globuli rossi dell’organismo infettato, è questa diffusione della malaria che ha creato le condizioni per una coevoluzione gene-coltura, nel senso che la pratica antropica di deforestazione a fini alimentari ha favorito la formazione di varianti dell’emoglobina, ossia mutazioni del materiale genico codificante l’emoglobina, ciò che ha portano a emoglobinopatie, quale è il caso dell’emoglobina S, o HbS, che presenta in dati casi una più alta resistenza alla malaria, ciò che conduce a un significativo vantaggio evolutivo (se pur relativo) per i portatori di tale mutazione ch’è molto frequente nelle popolazioni per le quali risulta più alto il rischio di contrarre la malaria; questo perché, se la malaria è molto diffusa in una data area geografica, essere portatori di un solo allele falciforme nell’emoglobina conferisce un vantaggio ai portatori sani dell’emoglobinopatia che sono soggetti a sintomi meno gravi quando sono infettati (l’allele è poi detto falciforme perché è la cellula, deformandosi per una carenza d’ossigeno, crea una struttura a falce, o sickle, da cui la sigla HbS che aggiunge a Hb la S di sickle); infatti, è da ricordare che l’emoglobina permette il metabolismo energetico aerobico, ed è una proteina combinata con il ferro ch’è raccolta nei globuli rossi del sangue ed è dotata della funzione di combinarsi reversibilmente con l’ossigeno molecolare O2, cioè d’assumere ossigeno a livello dei polmoni e di cederlo ai vari tessuti del corpo per permetterne la respirazione cellulare e, nella fase seguente della respirazione, di trasportare il diossido di carbonio, CO2, dai tessuti ai polmoni per l’espulsione; ancora, che l’anemia falciforme (o falcemia o sickle-cell disease) è una forma ereditaria di carenza d’ossigeno nei globuli rossi causata dalla detta mutazione del gene che codifica la catena β dell’emoglobina che, negli individui eterozigoti che possiedono nella catena mutante un allele normale e uno mutante produce effetti non gravi e protegge dalla malaria (e quelli che portano un solo tratto falciforme, o Sickle-cell trait, sono detti portatori sani), a differenza della gravità dei sintomi (che portano a una ridotta aspettativa di vita) che si presenta negli omozigoti che, nella detta catena, presentano una coppia di alleli mutanti; da ricordare che qui la variabile cruciale, cioè la quantità d’acqua stagnante nell’ambiente conseguenza della coltivazione yam, è in sé una variabile ecologica e non una variabile culturale che, in parte, dipende da fattori che sfuggono al controllo della popolazione (cioè dalla quantità delle effettive precipitazioni nell’area coinvolta; quindi, in senso stretto, il legame tra l’eredità culturale e quella genetica non è diretto giacché i due sistemi ereditari, genetici e culturali, necessitano dell’intermediazione d’una variabile intermedia di tipo abiotico ed ecologico; ma, il fatto che si possa poi affermare che le popolazioni adiacenti a quelle degli agricoltori yam che, in Africa occidentale, presentano pratiche agricole non legate alla produzione di questa risorsa trofica, non mostrino lo stesso aumento nella frequenza allelica dei coltivatori di lingua Kwa può essere di supporto a una conclusione che affermi che le pratiche culturali possono guidare l’evoluzione genetica; come lo yam, ch’è un tubero ricco d’amido, contengono amido anche le patate, le farine di frumento, di mais, d’orzo, d’avena, di segale, il riso etc., e il consumo di questi prodotti amidacei nella dieta umana si presenta come fortemente strutturato a partire dalle società agricole, questo perché l’amido ha costituito e costituisce il carboidrato (o glucide) tra i più importanti nella dieta umana, tanto che questi, per il tramite del suo massiccio consumo nella costruzione d’una nicchia culturale in fase d’espansione, ha ingenerato anche risposte genetiche per favorire la sua assimilazione; l’amido, che appartiene al gruppo dei polisaccaridi, si forma nelle parti verdi delle piante per fotosintesi da acqua e diossido di carbonio, e s’accumula quale sostanza di riserva nelle radici, nei tuberi, nei semi (là dove rappresenta una riserva d’energia per la pianta in crescita) e le quantità più elevate d’amido si trovano nelle cariossidi (v. infra) dei cereali e nei tuberi della patata, se pure ne ritrovano, ma in minori quantità, anche nei legumi, nella frutta etc. (e ci si ricordi, a questo proposito, di quanto sopra detto rispetto alle variazioni di consumo di bulbi, tuberi, radici e rizomi nel genere Homo, cioè degli organi di riserva sotterranei, o USO, underground storage organs, che sono cibi ad alto valore nutritivo, cioè amidi che potrebbero avere facilitato la comparsa iniziale e la diffusione di Homo erectus dall’Africa; per inciso, dal punto di vista nutrizionale l’amido apporta, per ogni grammo, 4,2 kcal); nell’organismo la digestione degli amidi si presenta a partire dall’insalivazione nella bocca dei detti cibi masticati (dove di fatto avviene, a livello di quantità, una notevole digestione dell’amido) e sono le ghiandole salivari che, per il tramite dell’amilasi prodotta, catalizzano il primo passaggio nella digestione degli amidi (dove l’amilasi rappresenta un gruppo d’enzimi che catalizzano l’idrolisi del legame α-1,4-glicosidico dei polisaccaridi costituenti l’amido per arrivare poi a formare una miscela di glucosio e maltosio; l’amilasi salivare, o α-amilasi, è detta anche ptialina, v. infra, ed è la prima espressione dell’amilasi); è poi il gene AMY1 che codifica l’enzima presente nella saliva come amilasi salivare (v. infra), e poiché il consumo d’amido in Homo sapiens si stima si sia storicamente presentato a partire da ca. 200 000 anni fa per poi differenziarsi nelle varie società presentandosi, a partire dalla transizione neolitica, come una caratteristica alimentare propria alle società agricole, e questo a differenza delle società dei cacciatori-raccoglitori delle foreste fluviali e dei territori circumartici (escluse dunque quelle società di cacciatori-raccoglitori che hanno operato e operano in ambienti aridi, per esempio, gli Hadza, v. supra) e di quelle pastorali, che consumano molto meno amido, è allora possibile che queste differenze alimentari portino a pressioni selettive diversificate in società culturalmente diverse nelle modalità di sfruttamento antropico dell’ambiente, cioè che le differenze di dieta nell’esposizione agli amidi, dovute ai vincoli storici contingenti via via presentatisi, abbiano agito sull’amilasi salivare, come mostra, per esempio, il fatto che gli individui provenienti storicamente da popolazioni che hanno praticato diete ad alto contenuto d’amido (o high-starch) hanno, mediamente, più copie AMY1 rispetto a quelli con diete tradizionalmente a basso contenuto d’amido (o low-starch), là dove il più alto numero di copie AMY1 è nei fatti ipotizzabile come opera d’una selezione naturale che ha plasmato una variazione del numero di copie AMY1 in funzione del miglioramento digestivo degli alimenti ricchi d’amido (si ricorda, ancora, che l’amilasi salivare persiste nello stomaco e nell’intestino dopo l’ingestione, ciò che aumenta in tal modo l’attività enzimatica dell’amilasi pancreatica nel piccolo intestino, come dire che un numero di copie superiore di AMY1 è in grado di migliorare l’efficienza con cui diete ricche d’amido sono digerite in bocca, nello stomaco e nell’intestino potendo, così, anche tamponare gli effetti di riduzione della fitness di problemi intestinali eventualmente presenti); ed è notevole il fatto che la transizione neolitica (in tutte le aree dov’è avvenuta) abbia coinvolto anche la dieta del cane (Canis familiaris, v. infra), all’epoca in fase di domesticazione, dando inizio ad una coevoluzione biologica e culturale cane/uomo, coevoluzione che s’ipotizza con il fatto che la dieta del cane in questo periodo muta profondamente poiché, come mostrano alcune indagini paleogenetiche sul DNA antico (ancient DNA, aDNA) di alcuni esemplari di canidi (v. supra; qui si tratta di cani e lupi) sparsi in Eurasia, inizia a digerire gli amidi provenienti dai cereali, cioè da risorse trofiche di scarto, ma edibili, dei prodotti agricoli coltivati da Homo sapiens (il quale modifica, a sua volta e come sopra visto, dieta e modalità digestive), e questo grazie all’enzima dell’amilasi pancreatica codificato dal gene AMY2B, che nel DNA del cane presenta un’amplificazione genica, tanto che questo gene arriverà, dalle iniziali 2 copie precedenti a 8-7 000 anni fa, a essere presente con copie via via più numerose con il decorrere del tempo (e con l’affermarsi definitivo delle pratiche agricole in Eurasia) fino alle attuali e possibili 34 copie, ciò che traduce il passaggio da una dieta esclusivamente carnivora a una onnivora, e questo mentre un parente stretto, il lupo (Canis lupus, v. infra), con il suo tipo di dieta radicalmente carnivora ne presenta a tutt’oggi, e nella più parte dei casi (60 %), solo 2, ciò che può fornire ai cani domesticati un forte vantaggio adattivo in un contesto agricolo, legato probabilmente questo più al cambiamento della dieta e delle abitudini alimentari di Homo sapiens durante il Neolitico piuttosto che a un rilassamento delle naturali pressioni selettive legate a una fase della domesticazione del cane (e un’analoga ristrutturazione dietetica è stata vissuta anche durante la domesticazione dal gatto, Felis catus, come si sostiene per i gatti di Quanhucun, in Cina, che hanno modificato e allungato le loro viscere per l’estrazione e l’assimilazione dei principi nutritivi presenti nel consumo del miglio comune, Panicum miliaceum, loro offerto dagli agricoltori all’altezza 6-5 000 anni fa, v. infra); e che il tutto sia probabilmente legato al cambiamento della dieta e delle abitudini alimentari di Homo sapiens, cioè alla costruzione di una nicchia culturale, questo lo mostra anche il fatto che alcuni canidi selvatici o semidomesticati, quali i dingo australiani (Canis dingo) e i siberian husky, che provengono da regioni dove le pratiche agricole erano inesistenti, o si sono presentate tutt’al più recentemente (come dire che si parla di canidi la cui dieta storica predilige, per il dingo, la carne e, per i siberian husky, la carne e il pesce), presentano, i dingo, 2 copie del gene AMY2B al pari del lupo e, i siberian husky, da 4 a 8 copie; e senza dimenticare, primo, che l’adattamento a una dieta amidacea (e relativamente ricca di scarti) da parte del cane ha avuto un impatto non solo sulle funzioni digestive, ma anche sui tratti morfologici legati al mordere e al masticare (per esempio, sui denti, il cranio e la conformazione della mandibola); secondo, che analisi genetiche di popolazione canine hanno permesso di identificare un elenco di geni sotto selezione positiva durante il processo della loro domesticazione che si sovrappone a lungo con la relativa lista dei geni selezionati positivamente nello stesso periodo negli esseri umani, tanto che c’è chi sostiene che quest’evoluzione parallela (dove la selezione naturale, spinta da pressioni ambientali fra loro convergenti, potrebbe avere lavorato su una serie analoga di geni nei genomi tanto di Canis familiaris quanto di Homo sapiens) è più evidente nei geni implicati nella digestione, nel metabolismo, nei processi neurologici (v. infra) e, infine, nell’insorgere di forme tumorali maligne; sempre restando nell’ambito della dieta del genere Homo, si possono valorizzare le modalità di cottura degli alimenti sulle braci di legna (per esempio, della carne o degli USO, underground storage organs) al fine d’incorporare un ventaglio più ampio di risorse trofiche (v. supra e infra), modalità che però presentano un fattore negativo, di rischio, in quanto fanno sì che ci s’esponga al fumo, cioè che s’inalino durante la cottura degli elementi nocivi causati dalla parziale combustione di sostanze organiche (il detto legno), principalmente idrocarburi policiclici aromatici (Polycyclic aromatic hydrocarbons, PAH); lo stesso se si usa il fuoco per riscaldare un ambiente che poi diventa fumoso e può causare asfissia da fumo (per esempio, quando il genere Homo trova un riparo contro il freddo a fronte d’ambienti ostili, e laddove i focolari sono poi posti in una posizione centrale nelle profondità delle caverne, là dove avvengono le pratiche sociali legate alla sopravvivenza) o, volendo, con l’uso controllato del fuoco da parte dei cacciatori-raccoglitori per stanare le prede o per essiccare o affumicare la carne (rendendola così adatta allo stoccaggio o al trasporto), o per preparare il terreno a pratiche di coltura in società seminomadi, cioè per arricchire il suolo di azoto al fine di renderlo fertile per la semina per una stagione (v. infra), o perché serve a controllare lo sviluppo di un certo tipo di vegetazione, oppure quando lo si usa come strumento di difesa contro i predatori e d’offesa contro i nemici, o in quanto permette la visione notturna, o, a partire dal Neolitico, quando s’usa il fuoco regolato per manipolare i metalli e le argille per la costruzione di strumenti etc.; insomma quando si presenta una costruzione di nicchia che, grazie alla tecnologia del fuoco (v. supra), introduce un nuovo regime ecologico estremamente versatile (che rimanda, per inciso, alla profonda alterazione d’un equilibrio naturale e d’un paesaggio) e che, in quanto costruzione di nicchia culturale, cioè socialmente trasmessa, diventa irreversibile; ossia da quando il genere Homo è stato in grado di controllare il fuoco opportunistico (v. supra), ecco che si presenta un effetto collaterale non previsto, un metabolismo xenobiotico (v. infra) che porta a effetti negativi per Homo Neanderthalensis, ma che, grazie a una mutazione intervenuta in Homo sapiens, permette la convivenza, diciamo così, con gli idrocarburi policiclici aromatici; infatti, l’uso continuato del fuoco, oltre ai benefici, ha un costo per la salute del genere Homo in quanto il fumo prodotto dalla combustione (di legno o d’altro materiale organico) genera un insieme di fini particelle solide (o particolato) che contiene svariate sostanze chimiche tossiche e irritanti, compresi i citati PAH; particolato che, ad alte concentrazioni, può causare reazioni tossiche acute e una successiva tossicità cronica che, nelle citate collettività, potrebbero arrivare a un’alta frequenza percentuale (o a un elevato tasso di morbilità), tra cui, a causa dell’esposizione materna al fumo, a un aumento della morte programmata delle cellule germinali femminili (o apoptosi degli ovociti) e a un aumento del tempo di gravidanza e, per i neonati, a un elevato rischio di basso peso legato a un’alta mortalità infantile e, nei maschi, a una ridotta spermatogenesi e, in generale, a infezioni respiratorie acute e all’introduzione di fattori mutanti che sono in grado di causare dei tumori (sono cioè fattori oncògeni); ora, s’è detto, sopra, metabolismo xenobiotico, là dove con il termine xenobiotico si rimanda a quell’insieme di sostanze naturali (cui s’aggiungono, oggi, le sostanze attive sintetizzate ex novo da Homo sapiens) che sono estranee al normale metabolismo dell’organismo, dunque a ciò che mangia, beve o respira; sostanze che possono presentarsi come atossiche o tossiche, e dove il grado di tossicità è presente quando queste sostanze sono in grado di produrre un danno a carico dell’organismo che si ritrova a metabolizzarle, danno che nel caso dei tossici idrocarburi policiclici aromatici è alleggerito in Homo sapiens (diversamente che in Homo neanderthalensis) come mostra una recente analisi dei dati di sequenze paleogenetiche sull’esoma (grossomodo con il sequenziamento delle regioni codificanti del genoma d’un individuo in grado d’esprimere proteine) di 3 Homo neanderthalensis (uno nello strato 11 della grotta di Denisova nei Monti Altai, in Siberia, Russia, detto Altai Neanderthal; uno dalla Cueva [cava] del Sidrón nelle Asturie, a Nord-Ovest della Spagna e l’ultimo dalla grotta di Vindija, nel Nord della Croazia) e di un uomo di Denisova (sempre dalla grotta di Denisova, da cui deriva il suo nome, dove sono stati trovati, tra gli strati 9-11, dei suoi reperti fossili che lo imparentano, come ominine, con Homo neanderthalensis; questa grotta, inoltre, è stata frequentata oltre che dal detto Homo Neanderthalensis, anche da Homo sapiens); questi dati sono poi stati confrontati con il DNA di 9 Homo sapiens (3 d’origine sub-sahariana, 3 d’origine europea e, infine, 3 d’origine asiatica); a seguito delle analisi, la discontinuità tra Homo neanderthalensis e Homo sapiens è emersa grazie alla differenza che si presenta nel recettore arilico per gli idrocarburi (aryl hydrocarbon receptor, AHR; scritto anche come Ah Receptor), cioè in quel recettore che regola la risposta metabolica dell’organismo ai PAH (questo perché l’AHR è coinvolto nella regolazione dell’espressione di numerosi geni, per esempio quelli che codificano per enzimi coinvolti nel metabolismo, come il gene CYP1A1, ossia è una proteina che, come fattore di trascrizione del DNA, posta a fronte delle molecole di idrocarburi policiclici aromatici può presentare degli errori di trascrizione recettore; da non dimenticare però che questo recettore, oltre a funzioni esogene, influenza anche numerose funzioni endogene, tra cui il metabolismo lipidico e la funzione immunitaria); infatti, in Homo sapiens, rispetto a Homo neanderthalensis, questi composti tossici prodotti dal mangiare carne cotta alla brace e dall’esposizione al fumo, grazie a una differenza presente nel recettore arilico, ossia a una mutazione, sono metabolizzati molto più lentamente, con meno danni all’organismo; vale a dire che presentano un cambiamento funzionale significativo nella tolleranza ambientale, un’evoluzione nella risposta al fuoco/fumo e alle sue componenti xenobiotiche che si traduce, in Homo sapiens, a una versione mutante della proteina AHR ch’è di 150-1 000 volte meno sensibile agli effetti deleteri del fumo rispetto a Homo neanderthalensis; in dettaglio, nella proteina AHR il cambiamento riguarda un singolo aminoacido, che in Homo sapiens presenta nella posizione 381 una valina (Val381; variante derivata), mentre in Homo neanderthalensis e in Homo di Denisova in questa posizione c’è un’alanina (Ala381; variante ancestrale), mutazione scritta come A → V381 AHR; mutazione, lo si ripete, che permette a Homo sapiens una desensibilizzazione nei confronti di date sostanze xenobiotiche tossiche, ossia rallenta la produzione degli enzimi in gioco per la trasformazione degli idrocarburi che sono responsabili della generazione dei metaboliti tossici, mentre, al contrario, in Homo Neanderthalensis si presenta un’accelerazione nella produzione degli enzimi che dovrebbero metabolizzarli, fenomeno che sovraccarica il metabolismo e produce una tossicità cellulare perniciosa (da ricordare, infatti, che i metaboliti svolgono anche una funzione di regolazione del metabolismo dato che variazioni della loro concentrazione sono in grado d’influenzare la velocità e l’andamento delle reazioni in gioco decelerandole o accelerandole; là dove un metabolita è poi il prodotto d’una reazione e, insieme, la causa di un’altra reazione nel complesso di tutte le reazioni di biosintesi e di degradazione proprie all’organismo, cioè di trasformazione delle molecole); per inciso, ancora, l’alanina, o acido α-aminopropionico, è un aminoacido non essenziale; la valina, o acido α-aminoisovalerianico, è un aminoacido essenziale, v. supra); di qui, dato l’articolato sopra esposto di fatti, s’è sviluppata nei ricercatori l’ipotesi d’un vantaggio selettivo contro gli effetti collaterali negativi della PAH per la specie (tra i quali la detta spermatogenesi e l’apoptosi degli ovociti), vantaggio dunque che sarebbe legato poi a un miglioramento, nella popolazione di Homo sapiens, della fitness; questo in base al noto principio che se una mutazione genera una variabilità genetica casuale in una popolazione (per esempio, Homo sapiens che presenta una mutazione che protegge il suo organismo dagli effetti nocivi del PAH), si ha che, quando una popolazione sperimenta nella costruzione di nicchia un’esposizione a livelli elevati di PAH, ecco che gli organismi che trasportano la mutazione sono in grado di sopravvivere e riprodursi in presenza di questi livelli elevati di PAH e in più risultano favoriti nella riproduzione perché lasciano agli eredi un genoma adattato a quella specifica nicchia culturale, con l’effetto transgenerazionale finale d’avere geni che codificano per la resistenza alla PAH che si ritrovano via via sempre più diffusi nelle popolazioni che si susseguono e che adottano lo stesso stile di vita (oltre che in Homo sapiens, questo meccanismo si presenta anche in alcune popolazioni di pesci all’interno di habitat altamente inquinati, ciò che fornisce una forte evidenza al fatto che i vertebrati possono adattarsi a una pressione evolutiva dovuta a una persistente esposizione a ligandi AHR ambientali tossici, come mostra il rilascio industriale ad alta concentrazione, durato per ca. 30 anni, nel fiume Hudson, negli Stati Uniti, dei planari bifenili policlorurati, planar polychlorinated biphenyls o PCB, riconosciuti per essere dei potenti ligandi AHR, ciò che ha portato le popolazioni di Atlantic tomcod, o Microgadus tomcod, che lo abitano a evolversi, e nel giro di poche generazioni, si suppone ca. 60 anni, in un modo all’incirca analogo a quello sperimentato da Homo sapiens, in un modo cioè che permetta loro di resistere a molti degli effetti negativi dovuti all’esposizione al PCB, per esempio la mortalità embrionale acuta in condizioni di sovraesposizione dell’AHR ligando; sul concetto di ligando, v. supra); sempre nell’ambito della manipolazione degli alimenti, della loro cottura, legate a uno sviluppo culturale che vede implicati meccanismi di regolazione del cervello, dei denti e del tubo digerente, e di cui si parlerà a seguire a proposito della pratica del cucinare, è interessante un fenomeno che riguarda il gene MYH16 che codifica la principale proteina contrattile che costituisce i tessuti dei muscoli, denominata miosina, implicata nei muscoli masticatori dei primati non umani, e che ha subito una delezione nel lignaggio degli ominini, dove con delezione s’intende una mutazione genica che consiste nella perdita di uno o più nucleotidi in una sequenza di DNA; ora, si sospetta che questa mutazione possa provocare una massiccia riduzione nei muscoli masticatori della mascella (la mutazione è riconducibile a ca. 2,4 milioni d’anni fa), vale a dire che s’ipotizza che la riduzione marcata delle dimensioni di singole fibre muscolari e di interi muscoli masticatori, ossia il decremento (in termini di dimensioni) dei muscoli masticatori la cui causa si ritrova nell’inattivazione di MYH16, abbia rimosso, a partire da ca. 2 milioni d’anni fa (nel passaggio da Paranthropus a Homo ergaster/erectus, v. supra), un vincolo evolutivo sull’encefalizzazione negli ominini, questo permettendo ai piccoli muscoli della mascella di rimodellare il cranio giusto quando la capacità cranica è in fase d’espansione, questo perché la ridotta dimensione dei muscoli della mascella ha necessità di una regione del cranio molto più piccola per il fissaggio di questi muscoli alla struttura ossea (e va da sé che il gene MYH16 dei primati non umani fa sì che questi continuino a presentare presentano potenti muscoli in una mascella massiccia ch’è legata alla loro dieta crudista, muscoli che, causa il loro ampio spazio d’ancoraggio richiesto alla struttura ossea, non hanno lasciato spazio all’espansione del cranio); la figura seguente mostra che la dimensione relativa dei muscoli masticatori è molto diversa tra primati non umani e Homo sapiens; partendo da destra, abbiamo due crani di primati non umani, specificamente un cranio di Macaca fascicularis (un primate principalmente frugivoro, con dieta completata da foglie, fiori, radici, cortecce, insetti, uova d’uccelli e piccoli vertebrati) seguito dal cranio di Gorilla gorilla (un primate folivoro, frugivoro e, in modo opportunistico, insettivoro nel privilegiare termiti e formiche); a sinistra in cranio di Homo sapiens (un primate con dieta onnivora); le differenze nella muscolatura nei tre crani (robuste vs. fragili) si riflettono in alcune caratteristiche delle morfologie craniofacciali, quali la fossa temporale e zigomatica evidenziate in rosso nei tre crani:
Figura n. . Fonte (modificata): Stedman et alii, 2004, p. 417.
Il tutto che s’è cercato di descrivere s’è poi verificato con una cadenza temporale che grossomodo può coincidere con la probabile comparsa storica della cottura (là dove la masticazione di cibi cotti d’un ominine onnivoro è facilitata rispetto alla masticazione specializzata dei cibi crudi nei primati non umani, v. supra); se quest’ipotesi sarà confermata (poiché non tutti gli studiosi sono in ciò concordi, lo stesso per la data della mutazione spostata, per esempio, a 5,3 milioni d’anni fa), è come dire che siamo in presenza del fatto che un processo culturale ha contribuito a rimuovere un vincolo genetico che impediva un cambiamento morfologico, specificamente quello in grado di correlare la morfologia craniofacciale con la modificazione della forza della contrazione muscolare masticatoria (ed è poi più che probabile che diverse altre delezioni geniche possano essersi verificate in collaborazione con i cambiamenti nella dieta del genere Homo); la tabella seguente, a riassunto, indica i geni identificati come oggetto d’una selezione rapida, storicamente recente, dovuta a pressioni selettive culturali:
GENI [1]
FUNZIONE O FENOTIPO
PRESSIONE CULTURALE
LCT, MAN2A1, SI, SLC27A4, PPARD, SLC25A20, NCOA1,
LEPR, LEPR, ADAMTS19, ADAMTS20, APEH, PLAU, HDAC8,
UBR1, USP26, SCP2, NKX2‑2, AMY1, ADH, NPY1R, NPY5R
Digestione del latte e di prodotti lattiero-caseari; metabolismo dei carboidrati, dell’amido, di proteine, di lipidi e fosfati; metabolismo dell’alcool
Produzione di latte e uso alimentare del latte; preferenze di tipo alimentare; consumo d’alcool
CITOCROMO P450 [2] (CYP3A5, CYP2E1, CYP1A2 E CYP2D6)
Disintossicazione
da composti secondari della pianta
Domesticazione delle piante
CD58, APOBEC3F, CD72, FCRL2, TSLP, RAG1, RAG2, CD226,
IGJ, TJP1, VPS37C, CSF2, CCNT2, DEFB118, STAB1, SP1,
ZAP70, BIRC6, CUGBP1, DLG3, HMGCR, STS, XRN2, ATRN,
G6PD, TNFSF5, HbC, HbE, HbS, Duffy, α‑globin
Immunità e risposta ai patogeni;
resistenza alla malaria e ad altre
malattie da affollamento (crowd
diseases)
Processi di dispersione (di distribuzione d’una popolazione su un’altra vasta area); attività agricole (compresi contatti con il bestiame domesticato); fenomeni d’aggregazione e di successiva esposizione a nuovi agenti patogeni
LEPR, PON1, RAPTOR, MAPK14, CD36, DSCR1, FABP2, SOD1,
CETP, EGFR, NPPA, EPHX2, MAPK1, UCP3, LPA, MMRN1
Metabolismo energetico, tolleranza al caldo o al freddo; geni heat-shock [3].
Dispersione e successive
esposizioni a nuovi climi
SLC24A5, SLC25A2, EDAR, EDA2R, SLC24A4, KITLG, TYR,
6p25.3, OCA2, MC1R, MYO5A, DTNBP1, TYRP1, RAB27A,
MATP, MC2R, ATRN, TRPM1, SILV, KRTAPs, DCT
Caratteristiche del fenotipo visibili esternamente, quali pigmentazione della pelle, spessore dei capelli, colore degli occhi e dei capelli, lentiggini
Dispersione e adattamento alla situazione locale e/o selezione sessuale
CDK5RAP2, CENPJ, GABRA4, PSEN1, SYT1, SLC6A4, SNTG1,
GRM3, GRM1, GLRA2, OR4C13, OR2B6, RAPSN, ASPM, RNT1,
SV2B, SKP1A, DAB1, APPBP2, APBA2, PCDH15, PHACTR1,
ALG10, PREP, GPM6A, DGKI, ASPM, MCPH1, FOXP2
Sistema nervoso, funzioni cerebrali e processi di sviluppo; competenze linguistiche e apprendimento vocale
Stato d’esistenza d’una attività cognitiva complessa con la quale la cultura s’intreccia per potersi manifestarsi [4]; intelligenza sociale; uso della lingua e
apprendimento vocale
BMP3, BMPR2, BMP5, GDF5
Sviluppo scheletrico
Dispersione e selezione sessuale
MYH16, ENAM
Fibre muscolari della mascella; spessore dello smalto dei denti
Invenzione della cottura; dieta [5]
[1] si ricorda che esiste una convenzione internazionale riguardante il modo con cui i nomi dei geni e delle proteine sono scritti; s’usa, per geni e proteine appartenenti al genere Homo, sempre la lettera maiuscola, scritta in corsivo per i geni e in testo pieno (non in corsivo) per le proteine codificate dai geni; per le altre specie, pur mantenendo il corsivo per i geni e il pieno testo per le proteine, si scrive, di solito, in maiuscolo solo con la prima lettera.
[2] Il citocromo P450 (CYP) metabolizza tanto le sostanze xenobiotiche o no che vengono ingerite (anche composti potenzialmente tossici), quanto le sostanze interne, quali le tossine che si formano all'interno delle cellule (come dire ch’è un detossificante dell’organismo).
[3] Il termine heat-shock è traducibile come shock termico, e i geni heat-shock limitano i danni causati da esposizione a stress ambientali di qualsiasi tipo (specie in condizioni estreme) e facilitano il recupero cellulare.
[4] V., infra, il cervello sociale.
[5] Termine da intendersi come l’insieme dei nutrienti utilizzati per garantire il fabbisogno alimentare dell’organismo.
Tabella n. . Fonte (adattata): Laland, Odling-Smee e Myles, 2010, p. 143.
Detto delle evidenze empiriche avanzate dalla genetica sulla ristrutturazione da parte della cultura del genoma del genere Homo (coevoluzione cultura-gene), restano ora da indagare le modalità di trasmissione degli adattamenti cognitivi propri alla cultura e quali sono state le sue modalità evolutive, insomma avvicinarsi a capire come funziona l’essere in esistenza del repertorio delle pratiche e delle informazioni da cui dipende il genere Homo per la sua sopravvivenza (perché, come ha detto qualcuno, soli e deprivati della nostra cultura, siamo senza futuro come specie), e si sospetta fortemente che l’efficacia dimostrata da questo processo evolutivo della cultura nelle specie del genere Homo (che si forma per accumulazione della memoria storica) dipenda dalla formazione biologica d’una processualità cervello-mente a livello individuale, dalla dimensione delle popolazioni (e dei rapporti fra gli organismi che la compongono) e dalla qualità dell’interconnessione fra le reti nella trasmissione dei pacchetti culturali, reti che sono poi socialmente prodotte grazie all’insieme del lavoro materiale/immateriale fin lì accumulato e disponibile in un dato momento storico; e sarà questo l’argomento a seguire.
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Il ruolo dell’ippocampo nell’apprendimento dei processi decisionali sociali e dei comportamenti prosociali
Il ruolo dell’ippocampo nell’apprendimento dei processi decisionali sociali e dei comportamenti prosociali
Gli esseri umani sono animali sociali che interagiscono quotidianamente tra loro creando uno spazio sociale comune, noto anche come società. Pertanto, le decisioni umane si configurano spesso come decisioni sociali riguardanti gli altri e/o influenzate da loro. Queste decisioni possono essere raggiunte tramite l’esperienza del singolo (apprendimento individuale) o tramite l’osservazione degli…
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Nudge & Donazioni : Pt. 2
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Contenuto elaborato da: Vittoria Perego e Chiara Curiale
Ricordate l’evento live che vi abbiamo proposto qualche giorno fa sul Nudging e la promozione di comportamenti prosociali? Nel caso in cui ve lo siate perso o vogliate approfondire maggiormente la tematica potete trovarlo disponibile al seguente link: https://www.youtube.com/watch?v=ZCGFHXnEZU4&feature=youtu.be
Durante la diretta si è parlato di come il Nudging, se applicato correttamente, possa tradursi in interventi coinvolgenti e in grado di favorire il benessere delle persone.
In particolare, il nostro Massimo Cesareo ci parla di fundraising e comportamenti prosociali. E’ una chiacchierata della durata di circa mezz’ora in cui a momenti di inquadramento teorico in materia di Behavioral Economics si alternano momenti in cui vengono descritti alcuni interventi di Nudging che si sono già dimostrati efficaci nel guidare le persone ad adottare comportamenti prosociali.
Tu cosa aspetti? Clicca sul link e scopri questo mondo interessante!
FONTE: https://www.youtube.com/watch?v=ZCGFHXnEZU4&feature=youtu.be
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SAN BENEDETTO – Sabato 17 e domenica 18 novembre, presso la sala consiliare del comune di Acquaviva Picena, l’Istruttrice cinofila Claudia Tomassini e l’associazione onlus l’amico fedele organizzano un workshop teorico esperenziale dedicato agli animal workers ovvero tutti coloro che si occupano di animali in ambito professionale, personale e di volontariato.
Il comportamento di cura, ovvero l’insieme delle azioni finalizzate alla nutrizione e alla protezione di un altro individuo da sempre è stato considerato l’emblema dei comportamenti prosociali, volti cioè a promuovere il benessere dell’altro. E’ impensabile quindi pensare che chi “salva” animali dalla strada possa essere considerato un maltrattatore, ma teorie scientifiche e fatti dimostrano che non sempre questa è la verità.
“Quando si parla di esseri viventi e senzienti, infatti, il principio sine qua non da cui partire è la conoscenza dell’altro inteso come specie, razza ed individuo, non ci stancheremo mai di ribadirlo. Per conoscere bisogna saper riconoscere sia in termini di dotazioni di conoscenza rispetto alle esigenze dell’altro sia in termini di capacità/equilibrio mentale.
Se io sono convinta che la massima protezione che posso prestare ad un gatto sia quella di chiuderlo in una stanza o ancor peggio in una gabbia lontano dai pericoli stradali, dalle intemperie e dagli uomini neri che girano per le strade significa non che sono una cattiva persona ma che manco di conoscenze scientifiche e/o di equilibrio mentale e quindi non posso essere considerata una salvatrice e non può essere considerato giusto ciò che compio” – afferma la vicepresidente Alice Agnelli – addetta ufficio stampa
Il dovere di una qualsiasi organizzazione o professionista che si occupa di animali – come di qualsiasi figura che si occupi dell’altro in verità – dovrebbe essere quello di mantenere il piu’ possibile equilibrio e lucidità onde evitare che – seppur inconsapevolmente – i buoni propositi si trasformino in un inferno per gli animali.
Per cui nel lodevole comportamento di cura che caratterizza tutti coloro che operano con gli animali ovvero gli animal workers possono innescarsi derive patologiche aventi ripercussioni dannose sia a livello individuale che sociale.
Un esempio è l’accumulo di animali o animal hoarding, fenomeno che si sta diffondendo sempre piu’ anche in Italia e ad essere riconosciuto – anche se non a livello ufficiale come in America ad esempio – e che consiste nel possedere un gran numero di animali che supera la capacità della persona di garantire loro gli standard minimi di nutrimento, igiene e cure veterinarie.
Ma esistono anche altri fenomeni che devono essere tenuti sotto controllo in chi si occupa di animali come ad esempio la compassion fatigue.
In queste due giornate quindi verrà proposto il punto di vista scientifico su tali argomenti dall’’esperta Dott.ssa Ilaria Falchi, Psicologa e Psicoterapeuta, analista transazionale ad approccio integrato, oltre che essa stessa professionista in ambito animale come referente di Intervento negli IAA , Coadiutore del cane, del gatto e del coniglio negli IAA , Responsabile di Attività Assistite con gli Animali.
L’evento ha ricevuto il patrocinio dei Comuni di Acquaviva Picena e Grottammare. Info: Claudia 3333548936 – [email protected] – programma visitabile sulla pagina www.lamicofedele.it
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