#classici russi
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Ne, Il sosia, Dostoevskij narra di un individuo che non osa essere sé stesso ——— nemmeno davanti allo specchio ——— proprio perché vuole apparire una persona per bene. Gli dà il buffo cognome di Goljadkin che in russo suona come "Nudarelli" ( da golyj, "nudo"), un nom parlant che da subito annuncia ai lettori la fatale inutilità di tale finzione: è chiaro, da quel nome, che tutti vedranno ciò che Goljadkin crede di poter nascondere di sé. Un caso banale, dirai tu, dato che molti tuoi conoscenti sono dei Nudarelli; ma a Dostoevkij interessa la profondità scespiriana di questa banalità. In una delle sue crisi d'angoscia al pensiero di quale impressione stia facendo agli altri, Goljadkin dice fra sé e sé: "Ammettere che sono io, o no? Oppure far finta di non essere io, di essere qualcun altro che mi assomiglia in modo strabiliante, e fare come se niente fosse? Ecco, appunto: non sono io! Io non sono io, e basta"
#il sosia#dostoevksy#fyodor dostoevsky#fyodor dostoyevsky bsd#dostoyevski#citazione#citazioni#citazioni libri#citazione libro#frasi#letteratura#letteratura russa#classici#classici russi
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Siccome ho un nome russo da ragazzo mi sono fatto affascinare dalla letteratura russa, i miei preferiti sono Gogol' e Bulgakov, russo è anche l'unico autore vivente che riesco a leggere, Viktor Pelevin, i cui libri mi tengo cari come fossero dei classici (sono ormai fuori catalogo, si possono trovare solo nelle biblioteche o nell'usato). I romanzieri russi sono una spanna sopra gli altri, la Russia è un gigantesco pentolone di follia che produce cose meravigliose, e nel computo ci aggiungerei anche Nabokov di cui possiedo un'edizione di Lolita del 1963. Non mi interessa che i russi siano ritornati a essere i cattivi, è un ruolo che si sono sempre fatti ritagliare addosso egregiamente, in ogni caso io sono apposto con la coscienza: Gogol' e Bulgakov erano ucraini e quindi sono fiducioso che gli illuminati europei non ne faranno un grande falò e misericordiosamente li risparmieranno. (Tarkovskij, mi sono dimenticato di Tarkovskij, e di Majakovskij).
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Manuel Dallori: dinner show, The Beach, Cava e innovazione. Ogni sera
"Oggi molti sembrano puntare sui dinner show. Succede anche in Italia ma in realtà, purtroppo, non sono molti i locali che, come The Beach Luxury Club, propongono davvero spettacoli che prendono vita durante la cena. Per capirsi, un dj set o un artista che fa pianobar all'ora di cena o dopocena è difficile considerarli un vero show. Noi invece proponiamo vere performance collettive, con continuità, dal 2018".
Abbiamo incontrato Manuel Dallori, imprenditore e manager toscano che da sempre si occupa di intrattenimento, ristorazione e non solo. In realtà nel suo background c'è anche molto altro. "Nel mio percorso di crescita dovrei ringraziare molte persone. Un ruolo importante nel mio lavoro lo ha avuto la famiglia Versace, che mi ha aperto una visione completamente diversa del mondo", spiega Dallori, che oltre a gestire i suoi brand (The Beach Luxury Club, Cava Restaurants è Corporate Entertainment Director di Domina, una delle realtà italiane più affermate nel turismo nel mondo. "Non posso che sentirmi fortunato per continuare da tempo a lavorare con Domina, che offre un palcoscenico davvero internazionale, visto che i suoi resort sono frequentati da turisti di ben 32 nazionalità diverse. Se proponi un format in questo contesto, capisci subito se funziona oppure no... e soprattutto, che direzione devi prendere per andare incontro alle esigenze di persone di culture così diverse".
C'è una vera crescita del format dinner show?
"In diversi contesti, soprattutto quelli relativi al lusso come Lio ad Ibiza (e non solo) o l'Opera Saint Tropez il successo dei dinner show costante, anzi crescente. Purtroppo o per fortuna, però, organizzare veri spettacoli nei locali non è facile. C'è bisogno di un vero corpo di ballo, di coreografi, di scenografi, di costumi e costumisti, di lunghe prove, di artisti che si alternano tra loro, di show che cambiano col tempo. Ecco perché molti chiamano dinner show eventi con un un solo artista".
The Beach è un format di lusso?
"In un certo senso sì, ma il nostro è lusso accessibile. Proponiamo serate per tutti o quasi. Abbiamo ovviamente ogni tipo di Champagne e siamo contenti che alcuni dei nostri ospiti possano regalarsi una bottiglia speciale, ma non è necessario farlo per godersi i nostri dinner show. Cerchiamo poi di sorprendere tutti, proponendo, ad esempio, sempre pasta, pane e focacce fatti in casa, regalando ai nostri clienti qualcosa di semplice e allo stesso tempo speciale".
Come è possibile proporre spettacoli con continuità?
"E' dal 2018, quando abbiamo dovuto fermarci per un mese o due per via del Covid, che regaliamo emozioni con i nostri spettacoli. Riusciamo a farlo perché The Beach, a Sharm, è aperto tutto l'anno, mentre in Sicilia, proponiamo spettacoli dalla primavera alla fine dell'estate. Anche gli artisti hanno bisogno di continuità, per poter crescere. Dà soddisfazione vedere che artisti nati con noi poi lavorano in tutto il mondo, che so a Dubai, in tournée con il Cirque du Soleil. Mediamente, sul palco ogni sera mettiamo 12 artisti, tra ballerini, performer e coreografi. E non solo, ci vogliono anche i tecnici audio e luci, per confezionare spettacoli che emozionino davvero".
The Beach è spesso ospitato all'interno dei resort Domina, per cui il pubblico a volte è fatto da intere famiglie formate da persone di età molto diverse...
"I nostri spettacoli devono piacere a persone molto diverse tra loro, non solo per età. Anche per quel che riguarda la nazionalità. Russi, ucraini, italiani, svizzeri... hanno gusti musicali spesso molto diversi tra loro. Ad esempio, raramente proponiamo reggaeton e puntiamo più spesso su classici come quelli di Mina, o il repertorio anni '70, '80, '90"conosciuti in tutto il mondo.
Ti senti un innovatore?
"Non mi definirei un innovatore, ma un rinnovatore. Non amo ripetermi e voglio sempre che i miei locali come gli spettacoli cambino nel tempo. Senz'altro frequento altri spazi e sono sempre alla ricerca di idee da riproporre, cambiandole sempre, a modo nostro. Senz'altro oggi fare rivoluzioni è però impossibile, mentre cambiare sempre è necessario. Ad esempio, un tempo proponevamo un numero con il fuoco all'interno del dinner show ed oggi lo proponiamo all'ingresso, come anteprima della serata. Anche i ritmi cambiano. Fino a qualche tempo fa interrompevamo la cena per lo spettacolo, oggi abbiamo creato tre momenti diversi che si mescolano quindi con l'esperienza culinaria. In certi spettacoli, ad esempio in 'Welcome to my World', osiamo un po' di più, ma sempre in modo non volgare".
The Beach Luxury Club
https://www.instagram.com/thebeachluxuryclub/
Cava Restaurants
https://www.instagram.com/cavarestaurants_/
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Manuel Dallori: dinner show, The Beach, Cava e innovazione. Ogni sera
"Oggi molti sembrano puntare sui dinner show. Succede anche in Italia ma in realtà, purtroppo, non sono molti i locali che, come The Beach Luxury Club, propongono davvero spettacoli che prendono vita durante la cena. Per capirsi, un dj set o un artista che fa pianobar all'ora di cena o dopocena è difficile considerarli un vero show. Noi invece proponiamo vere performance collettive, con continuità, dal 2018".
Abbiamo incontrato Manuel Dallori, imprenditore e manager toscano che da sempre si occupa di intrattenimento, ristorazione e non solo. In realtà nel suo background c'è anche molto altro. "Nel mio percorso di crescita dovrei ringraziare molte persone. Un ruolo importante nel mio lavoro lo ha avuto la famiglia Versace, che mi ha aperto una visione completamente diversa del mondo", spiega Dallori, che oltre a gestire i suoi brand (The Beach Luxury Club, Cava Restaurants è Corporate Entertainment Director di Domina, una delle realtà italiane più affermate nel turismo nel mondo. "Non posso che sentirmi fortunato per continuare da tempo a lavorare con Domina, che offre un palcoscenico davvero internazionale, visto che i suoi resort sono frequentati da turisti di ben 32 nazionalità diverse. Se proponi un format in questo contesto, capisci subito se funziona oppure no... e soprattutto, che direzione devi prendere per andare incontro alle esigenze di persone di culture così diverse".
C'è una vera crescita del format dinner show?
"In diversi contesti, soprattutto quelli relativi al lusso come Lio ad Ibiza (e non solo) o l'Opera Saint Tropez il successo dei dinner show costante, anzi crescente. Purtroppo o per fortuna, però, organizzare veri spettacoli nei locali non è facile. C'è bisogno di un vero corpo di ballo, di coreografi, di scenografi, di costumi e costumisti, di lunghe prove, di artisti che si alternano tra loro, di show che cambiano col tempo. Ecco perché molti chiamano dinner show eventi con un un solo artista".
The Beach è un format di lusso?
"In un certo senso sì, ma il nostro è lusso accessibile. Proponiamo serate per tutti o quasi. Abbiamo ovviamente ogni tipo di Champagne e siamo contenti che alcuni dei nostri ospiti possano regalarsi una bottiglia speciale, ma non è necessario farlo per godersi i nostri dinner show. Cerchiamo poi di sorprendere tutti, proponendo, ad esempio, sempre pasta, pane e focacce fatti in casa, regalando ai nostri clienti qualcosa di semplice e allo stesso tempo speciale".
Come è possibile proporre spettacoli con continuità?
"E' dal 2018, quando abbiamo dovuto fermarci per un mese o due per via del Covid, che regaliamo emozioni con i nostri spettacoli. Riusciamo a farlo perché The Beach, a Sharm, è aperto tutto l'anno, mentre in Sicilia, proponiamo spettacoli dalla primavera alla fine dell'estate. Anche gli artisti hanno bisogno di continuità, per poter crescere. Dà soddisfazione vedere che artisti nati con noi poi lavorano in tutto il mondo, che so a Dubai, in tournée con il Cirque du Soleil. Mediamente, sul palco ogni sera mettiamo 12 artisti, tra ballerini, performer e coreografi. E non solo, ci vogliono anche i tecnici audio e luci, per confezionare spettacoli che emozionino davvero".
The Beach è spesso ospitato all'interno dei resort Domina, per cui il pubblico a volte è fatto da intere famiglie formate da persone di età molto diverse...
"I nostri spettacoli devono piacere a persone molto diverse tra loro, non solo per età. Anche per quel che riguarda la nazionalità. Russi, ucraini, italiani, svizzeri... hanno gusti musicali spesso molto diversi tra loro. Ad esempio, raramente proponiamo reggaeton e puntiamo più spesso su classici come quelli di Mina, o il repertorio anni '70, '80, '90"conosciuti in tutto il mondo.
Ti senti un innovatore?
"Non mi definirei un innovatore, ma un rinnovatore. Non amo ripetermi e voglio sempre che i miei locali come gli spettacoli cambino nel tempo. Senz'altro frequento altri spazi e sono sempre alla ricerca di idee da riproporre, cambiandole sempre, a modo nostro. Senz'altro oggi fare rivoluzioni è però impossibile, mentre cambiare sempre è necessario. Ad esempio, un tempo proponevamo un numero con il fuoco all'interno del dinner show ed oggi lo proponiamo all'ingresso, come anteprima della serata. Anche i ritmi cambiano. Fino a qualche tempo fa interrompevamo la cena per lo spettacolo, oggi abbiamo creato tre momenti diversi che si mescolano quindi con l'esperienza culinaria. In certi spettacoli, ad esempio in 'Welcome to my World', osiamo un po' di più, ma sempre in modo non volgare".
The Beach Luxury Club
https://www.instagram.com/thebeachluxuryclub/
Cava Restaurants
https://www.instagram.com/cavarestaurants_/
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Sapete cosa faccio quando mi sento nervosa e non ne posso più del mondo, del suo folle chiacchiericcio?
Mi siedo sulla poltrona, davanti a una bella tazza di tè e un libro in mano e mi sento di nuovo bene. Perché so che mi aspettano delle meravigliose ore di lettura. Mi basta allungare il braccio per essere in compagnia del mio amato Dostoevskii, per ritrovarmi nella campagna inglese di Jane Austen o correre su una troika assieme alla famiglia Rostov. E con un libro in meno anche voi sarete liberi: liberi di viaggiare nel tempo, di avere un dialogo con le menti più belle di sempre, di soffermarvi su parole che poi ricorderete tutta la vita.
Ecco perché ho scritto «Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera»: per farvi innamorare della letteratura, come me ne sono innamorata io. Di cosa parla? Di quei libri che ognuno di noi dovrebbe leggere almeno una volta nella vita, quei libri che vi susciteranno un fremito lungo la spina dorsale e che vi faranno rabbrividire o sospirare di piacere. Perché ci emozionano e ci fanno riflettere e tanto: sulla verità, sulla follia, sul bene e sul male.
Vedete, il segreto della grande letteratura è proprio questo: la letteratura ti insegna a guardare. Ti dà la possibilità di alzare lo sguardo oltre la superficie, oltre il tran-tran quotidiano; ti trascina nel cuore delle storie e, al tempo stesso, ti permette di osservarle con distacco: è come avere una telecamera puntata nell’occhio del ciclone. E ricordatevelo sempre: la grande letteratura ha sempre inizio dai perché.
Qual è il significato della celebre frase naufragar m'è dolce in questo mare? Perché uno dei romanzi più famosi di Dostoevskij si chiama L'idiota? Cosa voleva dirci davvero Orwell? Qual è il segreto per leggere Kafka e i romanzi russi? Perché tutte le fiabe hanno inizio con «c’era una volta» e perché in 1984 due più due fa cinque? Queste saranno le stelle guida che ci orienteranno in questo viaggio. E se non avete ancora letto « Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera», lasciate che vi guidi alla scoperta dei classici più belli che la mente umana abbia mai concepito.
«Innamorarsi di Anna Karenina il sabato sera» (Feltrinelli editore)
Guendalina Middei
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I Demoni - Fëdor Dostoevskij
#libro#libri#i demoni#fedor dostoevskij#dostoevskij#photo#reading#leggere#letteratura#classici#classici russi#books#book
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oggi sull'11 ho parlato con un signore anziano, capelli e barba bianchi, che ha attaccato bottone dopo che ho tirato fuori "una questione privata" di fenoglio. mi ha raccontato della sua passione per i classici russi, dei film che sta guardando, di com'era la sua scuola ai suoi tempi e delle occupazioni di palazzo nuovo nel '68.
poi diceva di sé "noi giovani" e mi guardava dicendo "voi vecchi".
è stato un piacere dialogare con lui e i suoi occhi azzurri pieni di vita ancora.
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“ Ho esaminato la biblioteca di Manette. Dei classici Garnier, qualche Pléiade che le avevamo regalata noi. Molte di quelle opere non avevo piú avuto l’occasione di rileggerle da molto tempo; le avevo dimenticate. Pure, mi sentivo pigra, all’idea di rileggerle. Man mano che si va avanti, uno se le ricorda, o almeno ne ha l’illusione. La novità della prima lettura è perduta. Che cosa potevano darmi ancora, questi scrittori che mi avevano fatta ciò che ero e che non avrei piú smesso di essere? Ho aperto qualche volume, l’ho sfogliato; avevano tutti un sentore quasi altrettanto ripugnante di quello dei miei libri, un sentore di polvere. Manette ha alzato gli occhi dal suo giornale: – Comincio a credere che vedrò con i miei occhi degli uomini sulla luna! – Con i tuoi occhi? Farai il viaggio? – ha domandato André col riso nella voce. – Hai capito benissimo. Saprò che ci sono arrivati. E saranno i russi, piccolo mio. Gli americani, col loro ossigeno puro, hanno fatto un bel fiasco. – Certo, mamma, certo che vedrai i russi sulla luna, – ha detto André in tono affettuoso. – E pensare che abbiamo cominciato nelle caverne, e l’unico utensile che avevamo erano le nostre dieci dita, – ha ripreso Manette in tono meditabondo. – E siamo arrivati dove siamo arrivati. Vorrai ammettere che è una cosa che incoraggia. – È vero che la storia dell’umanità è bella, – ha detto André, – peccato che quella degli uomini sia cosí triste. – Non lo sarà sempre. Se i tuoi cinesi non fanno saltare in aria la terra, i nostri nipoti conosceranno il socialismo. Vivrei bene un’altra cinquantina d’anni, per vederlo! – Che salute di ferro! La senti? – mi ha detto André. – Farebbe la firma per altri cinquant’anni! – E tu no, ragazzo mio? – No, mamma, francamente no. La storia segue strade cosí strane che ho quasi l’impressione che non mi riguardi. Mi sento sull’orlo. Figurati, fra cinquant’anni!... – Lo so, che non credi piú a niente, – ha detto Manette con riprovazione. – Non è del tutto vero. – A che cosa credi? – Alla sofferenza degli uomini, e che è una cosa abominevole. Bisogna far di tutto per eliminarla. A dirti la verità, nessun’altra cosa mi sembra importante. “
Simone de Beauvoir, L’età della discrezione, in:
ead., Una donna spezzata, trad. Bruno Fonzi, Einaudi (collana Nuovi Coralli, n.20), 1975³; pp. 207-08.
[ Ed.ne or.le: La Femme rompue, Gallimard, 1967 ]
#Una donna spezzata#Simone de Beauvoir#progresso#raccolte di racconti#letteratura francese del XX secolo#libri#letteratura francese del '900#letteratura europea del XX secolo#letteratura europea del '900#citazioni letterarie#letture#leggere#classici#biblioteche#narrativa francese#Bruno Fonzi#umanitarismo#filosofia del XX secolo
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Che tipo di libri ti piacciono?
Amo i libri di psicologia e psicoterapia, non divulgativi ma tecnici.
Poi mi piacciono molto i libri di poesia, romanzi classici italiani e russi, ma anche autori attuali.
Per il resto ogni tanto cerco di leggere qualcosa relativo ad ambiti che conosco meno e mi possano fare crescere.
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professore: leggete quattro libri classici a scelta fra quelli che ho elencato nella scheda di trasparenza
io: leggo sei libri, tre dei quali sono fuori programma; vado a rispolverare vecchie letture fatte in modo incosciente al liceo arrivando a un totale di circa otto; leggo l'introduzione di tutti i libri citati a lezione e non contenta mi vado a cercare un libro intitolato i russi sono matti solo per avere la conferma di non essere l'unica al mondo a pensarlo
#nerd#ho un modo strano tutto mio di studiare#forse avrei dovuto seguire la scheda di trasparenza#rassvetal
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E se dovessi riassumere in una frase quel che mi sembra di aver capito, del rapporto tra noi e il potere, in quarant'anni di letture dei classici russi, direi che la cosa principale che mi hanno detto, quei libri lì, è che si può decidere che vita fare. E che il potere, dopotutto, significa, molto semplicemente, quello che uno è capace di fare. E che si può essere molto potenti anche senza aver nessun ruolo preciso dentro un organigramma.
Paolo Nori, I russi sono matti
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Venezuela: mai visto un golpe simile
Come al solito, l’informazione sul Venezuela non aiuta a capire molto. Sembra impossibile una analisi che non sia condizionata dal tifo per Guaidó o per Maduro, mentre in realtà è evidente che milioni di venezuelani hanno fatto scelte diverse, in primo luogo riversandosi nei paesi vicini. Un segno di sfiducia in chi governa, ma anche in chi sosteneva di essere l’alternativa, mentre nel suo programma c’è solo la cacciata del presidente. Ho aspettato per giorni informazioni diverse da quelle basate sul pregiudizio che si sono riversate anche sui nostri giornali, ma anche a Caracas la situazione non è chiara. Certo non è facile decifrare il senso di un “golpe” che ignora i bersagli classici (radio e TV, ministeri, nodi del traffico) e per tutto il primo giorno non ha a disposizione neanche un modesto camion con amplificazione da concerto, e deve arringare la folla con un modestissimo megafono; che ha a disposizione un piccolo nucleo di militari, ma evidentemente non ben organizzati, tanto che hanno risposto ai lacrimogeni inseguendoli in ordine sparso per rilanciarli alla polizia che difendeva la base de La Carlota. Non è assurdo pensare a una trappola in cui gli aspiranti golpisti sarebbero caduti in base a false informazioni, probabilmente fornite dagli stessi agenti del SEBIN (la polizia politica) che custodivano López e che lo avevano liberato pensando di interpretare i sentimenti di un settore importante della truppa, ma è inverosimile pensare che la trappola sia stata ordita da esperti russi o cubani come è stato annunciato subito da Washington. Ma mi permetto di dubitare anche della versione speculare che vede ovunque la regia della CIA, che ha accumulato non pochi fiaschi nella sua storia ma che non può essere ridotta così male. Che López sia passato dai domiciliari all’ambasciata spagnola, dopo essere stato rifiutato da quella cilena, non sembra un gran successo.
Comunque che il tentativo di Guaidó e López sia fallito lo si capisce non dalle proclamazioni trionfaliste di Maduro ma dal mutamento di atteggiamento di molti paesi latinoamericani, e anche europei. Basti pensare alla Spagna, che con i suoi diplomatici e anche con la sua stampa, molto seguita nell’America ispanofona, aveva osteggiato sempre con estrema faziosità Chávez, e ora sembra pentita di essersi esposta a favore dell’inconsistente Guaidó, come ha fatto capire Pablo Iglesias (https://www.aporrea.org/internacionales/n341473.html ) anche se smentito da una dichiarazione del ministro degli esteri, irritato per l’indiscrezione.
Più che la conseguenza del (relativo) successo del PSOE, un eventuale ammorbidimento di Madrid potrebbe essere la conseguenza di una conoscenza diretta del Venezuela attraverso i molti canali non solo diplomatici di contatto. La Spagna, infatti, è il secondo paese investitore nel Venezuela, subito dopo la Cina, che negli ultimi anni ha superato gli Stati Uniti, cosa che ovviamente preoccupa Washinton, ma anche Wall Street più della retorica di Maduro.
Ma cos’è stato questo strano “golpe” senza nessun obiettivo da conquistare? Perché ha sbagliato così le previsioni? Guaidó assicurava di avere l’85% di consensi ma le due piazze il primo maggio erano più o meno equivalenti. Una ipotesi credibile delle cause dell’insuccesso lo attribuisce all’esodo di alcuni milioni di venezuelani verso i paesi vicini: appare infatti verosimile che tra i migranti in fuga dal paese sia più bassa la percentuale di sostenitori del governo, anche perché gli aiuti sotto forma di pacchi alimentari dei CLAPS (Comité Local de Abastecimiento y Producción), arrivano solo a chi accetta il cosiddetto “Carnet de la Patria”, una carta elettronica considerata dagli oppositori uno strumento di controllo e quindi rifiutata. Ma pesa anche la comprensibile delusione di una parte degli oppositori per l’incapacità di Guaidó di dare seguito alle sue minacce e promesse.
Va detto peraltro che la composizione sociale e politica dell’ultima migrazione non è stata ancora analizzata. Da un lato dalle cronache risulta presente una rappresentanza della piccola criminalità venezuelana, indifferente allo scontro tra governo e opposizione, e che ha innescato con le sue attività reazioni xenofobe in Brasile, Ecuador e altri paesi, dall’altro il governo del Perù ha espulso in blocco 50 venezuelani perché avevano taciuto la loro appartenenza alla polizia. Erano venuti spontaneamente per le stesse ragioni di tutti, o si erano infiltrati per controllare gli altri?
Ero tentato di aspettare ancora per trarre un bilancio di questa fase, ma ho deciso di cominciare a segnalare alcuni dati fuorvianti che emergono dai primi commenti. Ad esempio Tommaso Di Francesco sul manifesto del 3 maggio continua a ripetere la classica fake news su Guaidó che ha frequentato “la scuola di rivolte sanguinose” che per conto degli Stati Uniti manipolerebbe ogni movimento (“dalle molte primavere arabe alla Georgia all’Ucraina”). E continua, come Pino Arlacchi o Giorgio Cremaschi a confondere le carte parlando del numero di elezioni che ci sono state in Venezuela, sorvolando sul fatto che la situazione è cambiata dopo la perdita della maggioranza chavista nell’Assemblea Nazionale nel 2015. È solo dopo di allora che le elezioni sono state solo formalmente democratiche perché gli organismi di controllo che dovevano essere neutrali erano invece faziosissimi e ostacolavano la presentazione di candidati e di intere liste, spingendo all’astensione.
Solo il regime di Maduro e l’opposizione di destra hanno la parola nella sinistra italiana, che ignora così l’ampiezza del settore chavista che rimprovera a Maduro, più che la faziosità e la sopraffazione delle minoranze, soprattutto i rapporti oscuri con le grandi multinazionali petrolifere ed estrattive che hanno fatto affari con Caracas fino a un anno fa. (vedi ad esempio https://www.aporrea.org/actualidad/n336254.html )Le vere sanzioni sono scattate solo ora, esattamente il 2 maggio u. s., e non 5 anni fa come ripete Di Francesco. Le precedenti erano mirate a singoli esponenti del regime accusati per varie ragioni, compreso il narcotraffico. Tanto è vero che tutto il sistema petrolifero venezuelano era rimasto fino all’ultimo ancorato agli Stati Uniti, come destinazione del prodotto grezzo, raffinazione e smercio. La drammatizzazione del conflitto, con la brusca interruzione totale dei rapporti diplomatici con gli USA subito dopo la autoproclamazione di Guaidó, era finalizzata soprattutto a giustificare sul piano interno l’interpretazione della catastrofe economica come conseguenza di una guerra economica condotta dall’esterno mentre l’eccezionale inflazione era dovuta non solo all’irresponsabile produzione di carta moneta ma al sistema di cambio che doveva favorire le importazioni e ha ingigantito corruzione e speculazioni su importazioni fittizie.
L’amministrazione USA può essere stata tentata dalla possibilità di approfittare di un nuovo aumento delle tensioni per intervenire, ma è difficile immaginare che abbia organizzato un tentativo così maldestro. Non le manca il cinismo per giocare col fuoco, innescando una fase cruenta dello scontro per avere il pretesto di intervenire almeno con un corpo di mercenari, ma il suo successo sarebbe altamente improbabile ed anzi rischierebbe di essere una versione moderna dell’avventura di Playa Girón. Dovrebbe essere affidata a una nuova apposita impresa militare privata diretta dal fondatore della Blackwater Erik Prince, grande elettore e finanziatore di Trump. Ne ha parlato, con singolare tempestività, l’agenzia Reuters il 30 aprile. Ma con quali e quante possibilità di successo in più di allora? Il successo della Blackwater in Iraq e in Afghanistan era assicurato e facile dato che colpiva prevalentemente civili di cui nessuno si preoccupava, qui si scontrerebbe rapidamente con un vero esercito ben armato, sostenuto da una parte consistente della popolazione.
E un’impresa così palesemente “paracadutata” dall’esterno rafforzerebbe Maduro, che non è amato né venerato come reincarnazione di Chávez (che col passar del tempo ha fatto dimenticare i suoi limiti e i suoi errori), ma indubbiamente si è rafforzato per l’ostilità tenace dell’impero nei suoi confronti. Di Maduro ho scritto più volte senza reticenza, ad esempio in La democrazia secondo Maduro, ma a differenza di quel che fanno i suoi sostenitori incondizionati quando descrivono come fascisti Guaidó, López o altri oppositori, senza doverlo presentare come un mostro: semplicemente dico che non ha nulla di “socialista” o meno ancora di marxista, ma ha tuttavia una capacità notevole di usare una retorica patriottica “bolivariana” e chavista, che attribuisce agli yankee ogni responsabilità per lo sfacelo del paese. Il suo “zoccolo duro” ha resistito e resiste grazie alla riproposizione incessante di una visione manichea che attribuisce ogni male alla controparte, facilitata dal controllo ormai totale dei mezzi di informazione, che erano rimasti nel complesso pluralisti sotto Chávez, e che ora raggiunge anche siti della sinistra critica, come Aporrea, bloccata spesso sui due server governativi e raggiungibile in ogni caso con difficoltà: https://www.laizquierdadiario.com.ve/Como-saltar-el-bloqueo-a-Aporrea-en-Cantv-y-Movilnet
Più che la milizia bolivariana, che dovrebbe arrivare a inquadrare due milioni di venezuelani, sarebbe probabilmente la mobilitazione dei barrios più poveri (anche se più difficile e meno ampia che in passato) a costituire un ostacolo a un’invasione. Più ancora dell’esercito, che è ben armato, ma è da almeno quindici anni impegnato soprattutto a fornire ministri, governatori (e manager all’industria estrattiva) più che a prepararsi a uno scontro, specie se ad esso partecipasse anche la forza armata della Colombia con cui ha avuto in diversi momenti forme di non limpida collaborazione alle spalle della protezione politica accordata da Chávez alle FARC.
Come molti altri eserciti con ruoli politici quello venezuelano è stato viziato con raffiche di promozioni (oggi avrebbe ben 2000 generali in servizio attivo, più di quanti ne abbiano gli Stati Uniti e l’intera NATO, a quanto afferma il comandante del Southcom, ammiraglio Craig S. Faller), che significano ovviamente cospicui aumenti di stipendio. Ma ha subito in varie occasioni epurazioni e sostituzioni che rivelano l’esistenza di contraddizioni.
Concludendo, non c’è dubbio che bisogna fermare l’avventurismo dei Bolton e dei Pompeo, pericolosi perché ignoranti e bugiardi, ma senza rinunciare a combattere Maduro, che già nel 2015 aveva regalato all’opposizione una maggioranza nettissima nelle ultime elezioni non truccate. I due schieramenti si alimentano a vicenda, non è il rafforzamento di Maduro e della “boliborghesia” che può fermare gli appetiti degli Stati Uniti, che senza nessun pudore ritengono sia arrivato il momento in cui potranno non accontentarsi degli sconti e delle facilitazioni che hanno ottenuto finora e puntare direttamente alle ricchezze del Venezuela. Trump può essere tentato dalla possibilità di sferrare un colpo basso non solo a Cuba, ma anche a Cina e Russia che vi hanno investito decine di miliardi di dollari, ma un intervento del genere non sarebbe facilmente accettato dalle molte altre multinazionali che hanno fatto affari d’oro nel Venezuela chavista. Le proteste russe intanto sono state molto apprezzate dalla sinistra “campista”, ma sarebbe bene non dimenticare i molti precedenti storici che insegnano che far dipendere da queste potenze le sorti di un paese può essere pericoloso.
Una mobilitazione popolare per riprendere in mano il Venezuela e le sue ricchezze è l’unica strada, molto difficile finché lo scontro avviene solo tra la casta che ha governato il paese e chi aspira semplicemente a prenderne il posto. Ma non è impossibile, se riescono a entrare in campo i tanti che avevano creduto nel progetto utopico di Chávez collaborandovi come ministri e consiglieri, e che sono stati bruscamente sostituiti da Maduro con famelici incompetenti, e che non vogliono accettare che la casta corrotta venga sostituita dai nostalgici della vecchia “Venezuela saudita” che era stata spazzata via al momento del golpe fallito del 2002. Finora la loro voce è stata soffocata dal monopolio dell’informazione, e anche dagli assalti teppistici a conferenze stampa in cui ex ministri e collaboratori di Chávez esponevano la loro spiegazione della catastrofe economica.
Molti di loro si sono impegnati individualmente ma altri hanno cominciato a collegarsi con le organizzazioni che li avevano preceduti nella critica, come Marea Socialista o la Plataforma Ciudadana en Defensa de la Constitución, ecc. Ignorate qui in Italia, dove ci si schiera per l’uno o per l’altro, senza argomenti se non il numero dei manifestanti o quello delle vittime degli scontri di piazza. Questo sito ha cercato di dare voci a questi compagni, che non si stancano di dire che tanto Maduro come Guaidó rappresentano la continuità della miseria, la perdita della sovranità del paese di fronte a interessi esterni, la corruzione dei vertici e degli affaristi, la mancanza di democrazia reale per la grande maggioranza del popolo manipolato e oppresso. Per questo respingono il tentativo golpista senza tuttavia riporre fiducia nel governo di Maduro e dei militari, e senza abbassare la guardia di fronte ad esso, avendo l’obiettivo di convocare una vera, libera e sovrana Assemblea Nazionale Costituente per iniziare la ricostruzione del paese su nuove basi. È la parafrasi delle conclusioni di un documento di Marea Socialista, che riproduco sotto in originale, ma nello stesso senso si muovono la Plataforma Ciudadana en Defensa de la Constitución e altre associazioni.
La sinistra marxista e anticapitalista deve sostenerle, rifiutando il ricatto assurdo che dice “Se non stai con Maduro, stai con Trump”. Non è vero, e ricordiamo bene i danni che ha fatto anche da noi questa logica, che ha usato lo spauracchio del Berlusconi o del Salvini di turno per far ingozzare un Renzi o un Minniti, o per far baciare e ingoiare rospi. (a.m.)
http://mareasocialista.org/2019/04/30/rechazamos-la-intentona-de-golpe-militar-de-guaido-lopez-y-sus-socios-imperialistas/
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Tolleranza, rispetto, ascolto dell’altro, a voi sembrano buoni principi? Sono sufficienti oggi per essere accusati di essere “filo Putin”.
Non sto scherzando, è ciò che mi è accaduto proprio su questa pagina alcuni giorni fa. Un signore mi ha lanciato l’accusa di strumentalizzare Socrate in un mio articolo per promuovere una propaganda filo putiniana. A quanto pare dovrei controllare il mio conto in banca e aspettarmi un lauto compenso da parte allo zar. Sempre questa settimana un altro signore con un tono non proprio educato ha accusato la mia pagina di “parlare un po’ troppo spesso della letteratura russa”.
Parlare dei russi non è patriottico. Non è corretto, politicamente parlando. È in qualche modo sospetto, no? Perché tutto questo interesse per Dostoevskij, per Tolstoj, per Cechov? Non potrei parlare di Manzoni o di uno scrittore americano magari? È questa la domanda che mi è stata mossa. E non è la prima volta che mi capitano episodi simili.
Internet, i social in particolare, sembrano aver delegittimato la presunzione, l’arroganza, la maleducazione. Chiunque si sente in diritto di dirti cosa devi fare, qual è il modo giusto di pensare, di cosa dovresti scrivere. Usi un dipinto in un post che per qualche ragione non piace al maleducato di turno? Sei un idiota. Scrivi qualcosa che urta il moralismo di un altro? Ciò che scrivi è pericoloso e fuorviante. Parli dei russi? Semplice, sei alle dipendenze dello zar.
Ricordo ancora, e lo ricorderò per sempre credo, che quando uscì il mio romanzo Clodio, subito dei completi estranei, mai visti e mai conosciuti prima, senza neanche aver letto una riga del libro, incominciarono ad attaccarmi. Gli antichi romani fanno schifo, sono soltanto dei sanguinari, brutali conquistatori, nulla più, ecco cosa mi dissero. Oggi lo stesso viene detto dei russi. È inutile parlare, argomentare, tentare di spiegare: loro hanno ragione e tu hai sempre torto. Prima però al massimo ti accusavano di “scrivere delle oscenità”. Oggi invece ti accusano di fare della propaganda e di promuovere la disinformazione. E minacciano di querelarti. Scusate lo sfogo, ma c’è un limite a tutto, e il dipinto di Courbet oggi rispecchia bene il mio stato d’animo.
G.Middei, anche se voi mi conoscete come Professor X Potete seguirmi anche su Instagram, dove vi parlerò dei grandi classici, mi trovate a questo link: bit.ly/ilprofessorx
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Ucraina: lo scrittore russo Shishkin, 'russofobia aiuta propaganda Putin, non fate il suo gioco' - Adnkronos.com
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Pocket Penguins
Nel maggio 2016 la casa editrice inglese Penguin ha lanciato una nuova versione dei suoi classici tascabili. Le copertine delle nuove edizioni sono monocromatiche e prive di immagini. A seconda della lingua originale di ogni libro è stato scelto un diverso colore: verde oliva per i classici in tedesco, rosso per quelli russi, blu scuro per i francesi, turchese per l’italiano e così via. I classici in lingua inglese invece hanno la copertina arancione, il colore da sempre legato al marchio Penguin.
#039DBF Ceco
#2B1378 Francese
#682C6B Latino
#7AD4D8 Italiano
#867D43 Tedesco
#ACB9A2 Giapponese
#C4017B Yiddish
#C7102A Russo
#D1EF66 Cinese
#FE5000 Inglese
#FFA100 Spagnolo
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Big Band - quali erano le migliori?
Le migliori orchestre jazz
Il suono di una big band è uno dei suoni più impressionanti di tutto il jazz. In questo articolo daremo un'occhiata ad alcune delle migliori big band della storia, alle loro musiche e ai bandleaders responsabili di aver fatto storia. Ci sono jazz band di tutti i tipi di formazione e dimensioni. Alcuni degli album più celebri sono stati realizzati da intimi trii, duo e persino musicisti solisti. All'altra estremità dello spettro dell'ensemble, che fornisce potenza e gamma dinamica quasi ineguagliabili, c'è la musica da big band. La big band, o orchestra jazz, come talvolta viene anche chiamata, apparve per la prima volta negli anni '10, prima di raggiungere la massima popolarità negli anni '30 e '40 durante l'era della musica swing. Le implicazioni finanziarie della guida di gruppi più grandi e il cambiamento dei gusti del pubblico significarono che il periodo di massimo splendore del jazz da big band come musica popolare mainstream giunse al termine. Ma rimasero grandi big band e orchestre jazz che facevano una vasta gamma di musica, e questa ricca tradizione continua ancora oggi. Le Formazioni tipiche della Big Band e le aggiunte. La formazione strumentale di una big band varia da ensemble a ensemble, ma è tipicamente composta da circa 17 musicisti, divisi in quattro sezioni: - cinque sassofoni - quattro tromboni - quattro trombe - una sezione ritmica di pianoforte, contrabbasso e batteria Le aggiunte solitamente includono: chitarra, corno francese, tuba o un cantante. Le grandi band negli anni '20 e '30 tendevano ad essere leggermente più piccole. Un gran numero di musicisti come questo rende più complicata l'improvvisazione collettiva, quindi le grandi band tendono a utilizzare molto più materiale scritto rispetto a gruppi jazz più piccoli come trii e quartetti, sebbene le caratteristiche di assoli improvvisati appaiano ancora in abbondanza per fornire contrasto con le sezioni dell'ensemble. Quindi, senza ulteriori indugi, ecco il nostro sguardo ad alcune delle migliori big band e orchestre jazz di sempre, con una registrazione consigliata per ognuna. In questo articolo conosceremo le seguenti Big Band: - Fletcher Henderson e la sua Orchestra - la Duke Ellington Orchestra - Count Basie Orchestra - Benny Goodman - Dizzy Gillespie - Woody Herman e The Herd - Buddy Rich Big Band - l'Orchestra di Thad Jones / Mel Lewis - Gil Evans - l'Orchestra Maria Schneider
Fletcher Henderson e la sua orchestra
Il pianista, arrangiatore e compositore Fletcher Henderson non è riuscito a raggiungere il tipo di successo mainstream a lungo termine come alcuni degli altri leader di questa lista, ma il suo contributo allo sviluppo del jazz e al linguaggio musicale per big band è stato incredibilmente significativo .
La sua orchestra jazz con sede a New York era la band afroamericana più popolare degli anni '20, e i suoi arrangiamenti ebbero una notevole influenza sulle band di enorme successo dell'era swing nei due decenni successivi. C'era una tradizione esistente di gruppi da ballo che suonavano principalmente materiale scritto, che Henderson fondeva con lo stile pesantemente improvvisato che si era sviluppato a New Orleans per creare un suono da big band jazz. Un'altra innovazione è stata la separazione della band nelle sezioni strumentali che vediamo oggi. Louis Armstrong ha preso d'assalto la scena jazz quando si è trasferito a New York per unirsi all'Orchestra nel 1924, mentre Coleman Hawkins, il padre del sassofono tenore nel jazz, era un altro solista in primo piano. Anche i trombettisti Henry "Red" Allen, Roy Eldridge e i sassofonisti Benny Carter e Chu Berry, tutte le voci principali dell'era swing, hanno suonato con la band in vari momenti. Purtroppo a causa di un misto di fattori finanziari e sfortuna Henderson fu costretto a sciogliere la band nel 1934 e vendere alcuni dei suoi arrangiamenti a Benny Goodman. Album di Fletcher Henderson consigliato: Fletcher Henderson and the Birth of Big Band Swing Include brani classici come "Sugar Foot Stomp", dove è presente un ottimo assolo di Armstrong.
La Duke Ellington Orchestra
Il repertorio musicale che Duke Ellington ha composto e arrangiato per la sua Orchestra è così ampio, unico e significativo che richiederebbe virtualmente il proprio sottogenere. In effetti, la produzione del pianista e bandleader è spesso descritta come "beyond category". Duke è salito alla ribalta per la prima volta al Cotton Club di Harlem, dove ha guidato una band di 11 elementi, a partire dal 1927 e, complessivamente, ha diretto la sua orchestra per ben 51 anni, dal 1923 fino alla sua morte nel 1974. In un periodo così lungo ovviamente la formazione della sua band è cambiato nel tempo. Un'edizione particolarmente significativa è stata la "Blanton-Webster band". Con il gigante del sassofono tenore Ben Webster e il pioniere del contrabbasso Jimmy Blanton, ha registrato brani classici come "In a Mellow Tone", "Cotton Tail", "Never No Lament" e "C Jam Blues" nei primi anni '40, che rimangono tutti parte integrante del repertorio jazz standard di oggi. Un contributo chiave al mondo del suono di Ellington è stato il compositore, arrangiatore, pianista e paroliere Billy Strayhorn. Il braccio destro di Ellington ha aggiunto numerosi brani al repertorio della band, tra cui "Take the 'A' Train", il tema musicale dell'orchestra. Ellington ha iniziato la sua carriera suonando musica per ballerini swing, ma il repertorio che ha prodotto per l'Orchestra comprendeva anche ambiziose forme estese, musica da film e opere sacre, ed è considerato da molti uno dei compositori americani più significativi di qualsiasi genere. Album di Duke Ellington consigliato: Ellington at Newport Questo classico album dal vivo del Newport Jazz Festival del 1956 include il famoso assolo blues di 27 ritornelli del sassofonista tenore Paul Gonsalves. Il lungometraggio dell'altoista principale Johnny Hodges su “ I Got it Bad (and That Ain't Good) ” è un altro punto culminante.
Count Basie Orchestra
Per molti, la Count Basie Orchestra, con il suo suono intriso di vibrato e profondo swing, è la quintessenza della big band del jazz. Basie aveva suonato il piano con i Blue Devils di Walter Page e l'orchestra di Bennie Moten - due importanti prime band swing - prima di formare il suo gruppo con sede in Kansas dai resti di quest'ultimo, dopo la prematura morte di Moten nel 1935. La sua band a metà degli anni '30 comprendeva musicisti come il sassofonista tenore Lester Young, il chitarrista Freddie Green, il batterista Jo Jones e i cantanti Helen Hume e Jimmy Rushing, e suonava in uno stile "jam session" di Kansas City, con assoli competitivi accompagnati da riff a base di accompagnamenti. Negli anni '50 Basie guidò quella che è conosciuta come la versione del "Secondo Testamento" della band. Ora utilizzando strutture complesse prese da arrangiatori esterni come Neal Hefti, Sammy Nestico e Quincy Jones, hanno sviluppato un suono istintivamente riconoscibile. Molti di questi arrangiamenti sono ancora oggi eseguiti da big band di tutto il mondo. L'Orchestra ha anche collaborato con cantanti durante questo periodo, tra cui Frank Sinatra, Ella Fitzgerald e Billy Eckstine. La band ha continuato a girare e registrare dopo la morte di Basie nel 1984, e dal 2013 è stata diretta dal trombettista Scotty Barnhart. Registrazione consigliata di Count Basie: The Atomic Mr. Basie Questo classico album da big band del 1958 contiene composizioni e arrangiamenti di Neal Hefti, brillantemente suonata dalla Count Basie Orchestra.
Benny Goodman
La musica swing era lo stile dominante del "pop" americano tra il 1935 e il 1946, e i leader di big band come Artie Shaw, Duke Ellington, Glenn Miller e Tommy Dorsey erano grandi star. Il virtuoso clarinettista Benny Goodman è stato soprannominato "il re dello swing", ed è stato uno dei leader più famosi durante questo periodo. Durante un periodo di segregazione razziale negli Stati Uniti, Goodman, figlio di immigrati ebrei Russi, guidò una delle prime band razzialmente integrate, assumendo gli afroamericani Teddy Wilson e Charlie Christian, che furono i pionieri della chitarra elettrica nel jazz negli anni '30. Uno dei suoi più grandi successi è stato "Sing, Sing Sing", un classico per big band, con assoli lunghi per clarinetto e batteria. Registrazione chiave di Benny Goodman: The Famous 1938 Carnegie Hall Jazz Concert Questo disco documenta la prima esibizione in assoluto di una band jazz nella famosa Carnegie Hall di New York.
Dizzy Gillespie
Dizzy Gillespie era un innovatore nello stile bebop degli anni '40, che si concentrava sul jazz per piccole formazioni, dopo il materiale probabilmente più populista dell'era swing. Ma il leggendario trombettista guidava anche una big band, che era molto influente, colmando il divario tra il suono rauco, i ballabili della musica swing e il futuristico movimento bebop che stava emergendo. Gillespie aveva suonato in big band come giovane sideman, inclusa una guidata dal cantante Billy Eckstine, e con talenti come Miles Davis, Charlie Parker, Sarah Vaughan e Dexter Gordon, tutti musicisti che avevano già avuto delle loro rispettive carriere come solisti. Sebbene il grande ensemble di Gillespie fosse relativamente di breve durata e non registrasse neanche lontanamente così prolificamente come le altre band di questa lista, ebbe una notevole influenza sul linguaggio del jazz moderno. Il "First Great Quintet" di Miles Davis, uno dei più famosi gruppi hard bop degli anni '50, ha preso parte del suo repertorio dalla Gillespie Big Band - Brani come "Two Bass Hit", "Salt Peanuts", "Woody'n You , "E Tadd's Delight "- con gli arrangiamenti ridotti per l'ensemble più piccolo. Il Modern Jazz Quartet, uno dei gruppi più popolari del movimento Cool jazz, è stato formato dalla sezione ritmica della band: John Lewis (piano), Milt Jackson (vibrafono), Ray Brown (contrabbasso) e Kenny Clarke (batteria) , anche se Brown è stato sostituito da Percy Heath. Gillespie è stato anche un pioniere nella creazione del jazz afro-cubano, e ha incluso questa influenza latina in molte delle sue classifiche di big band, come "Con Alma", "Manteca" e "Tin Tin Deo". Album Dizzy Gillespie Big Band consigliato: Birks Words - The Verve Big Band Sessions Queste registrazioni degli anni '50 mettono in risalto la tromba del leader su arrangiamenti eccellenti suonati da una band con grande swing. C'è una bella dose di umorismo su brani come "Hey Pete! Let’s Eat Mo’ Meat”.
Woody Herman e The Herd
Il clarinettista e sassofonista Woody Herman guidò un ensemble a metà degli anni '30 noto come "The Band That Plays The Blues", prima di avere un successo con "Woodchopper's Ball" nel 1939, che vendette cinque milioni di copie. Quando il bebop emerse negli anni '40, Herman abbracciò la nuova musica, ingaggiando Dizzy Gillespie per scrivere alcuni arrangiamenti per la sua prima big band, che chiamò The First Herd. Herman ha anche sperimentato con la musica classica e ha incaricato Igor Stravinsky di scrivere Ebony Concerto che vede una parte di clarinetto impegnativa per il leader da esibire alla Carnegie Hall nel 1946. L'edizione più amata di Herman della band è stata The Second Herd, che ha formato nel 1947. L'ensemble era anche conosciuto come The Four Brothers band, un epiteto preso dal titolo di un brano di Jimmy Giuffre che presentava la sua famosa sezione di sassofoni composta da Zoot Sims, Serge Chaloff, Herbie Steward e Stan Getz. Tutti e quattro sono stati fortemente influenzati dallo stile fresco e leggero del sassofono tenore di Lester Young, alunno di Basie. Herman guidò un Third Herd dal 1950 al 56 e continuò a girare e registrare con varie edizioni della sua big band fino alla sua morte nel 1987. Assunse un cast rotante di giovani musicisti di talento e assunse l'influenza del rock 'n' roll, dimostrando il suo desiderio sempre presente di adattarsi alle nuove tendenze. Album di Woody Herman consigliato: Blowin 'Up a Storm! The Columbia Years 1945-47 Questa compilation include alcune delle registrazioni più importanti di Herman, come Ebony Concerto di Stravinsky, e "Four Brothers", la famosa sezione di sassofono suonata da The Second Herd.
Buddy Rich Big Band
Buddy Rich era un bambino prodigio come batterista, cantante e ballerino di tip tap, prima di iniziare la carriera dietro la batteria con gruppi swing guidati da Artie Shaw, Tommy Dorsey e Bunny Berigan. Ha anche suonato in piccoli gruppi con Charlie Parker e Dizzy Gillespie, Ella Fitzgerald e Louis Armstrong e Lester Young. Dal 1966 ha guidato la sua big band nonostante il fatto che la popolarità delle orchestre jazz fosse diminuita dalla seconda guerra mondiale. La band comprendeva i migliori jazzisti e musicisti della West Coast, e gli arrangiamenti a tutto gas si sono concentrati fortemente sulla virtuosa batteria di Rich, con numerosi assoli. Nonostante la sua grande abilità come batterista, Rich non ha mai imparato a leggere la musica, quindi quando la band suonava un nuovo arrangiamento un altro batterista suonava per primo la parte, permettendo al direttore della band di impararla ad orecchio. Era famoso per il suo temperamento focoso e per essere un duro taskmaster con i suoi sidemen, come mostrato in una serie di famose registrazioni che furono segretamente fatte di lui mentre rimproverava i suoi musicisti su un tour bus negli anni '80. Album Buddy Rich consigliato: Swingin 'New Big Band Registrato nel 1966, contiene il famoso "West Side Story Medley" della band, una suite di arrangiamenti di canzoni del musical di Leonard Bernstein.
L'orchestra di Thad Jones e Mel Lewis
Vanguard Jazz Orchestra Il trombettista, compositore e arrangiatore Thad aveva suonato con la Count Basie Orchestra negli anni '50, contribuendo con assoli e arrangiamenti ad alcuni degli album più amati della band. Mel Lewis era un batterista che ha trascorso la sua carriera a Los Angeles ed era considerato una specie di grande specialista di ensemble, avendo lavorato con la Concert Jazz Band di Gerry Mulligan, l'Orchestra di Stan Kenton e Dek- Tette di Marty Paich. Con Lewis che ora vive a New York, la coppia ha fondato un'orchestra jazz nel 1965, concentrandosi su nuovo materiale avventuroso che era tuttavia profondamente radicato nella tradizione classica della big band. La band è stata ribattezzata Vanguard Jazz Orchestra e dopo la morte di Jones e Lewis continua a esibirsi ogni lunedì sera al Village Vanguard nel Greenwich Village di New York. Registrazione consigliata di Thad Jones: Presenting Thad Jones/Mel Lewis and the Jazz Orchestra Classifiche come "Three in One" e "Mean What You Say" sono estremamente impegnative e rimangono popolari tra le big band avanzate oggi.
Gil Evans
Gil Evans è meglio conosciuto per le sue collaborazioni con Miles Davis, con i suoi arrangiamenti sofisticati che brillano su album di ensemble più grandi come Birth of the Cool, Miles Ahead, Sketches of Spain e Porgy and Bess. Evans non ha guidato una big band in tournée con personale coerente nel modo in cui hanno fatto personaggi sgargianti come Duke Ellington e Count Basie, e ha fatto una vasta gamma di lavori freelance per altri artisti, ma il canadese ha registrato una serie di album sotto il suo proprio nome. Evans è considerato uno dei più grandi orchestratori jazz di tutti i tempi, e il suo stile di arrangiamento distintivo fa uso di strumenti non standard nella Big Band, come il corno francese e la tuba, oltre ad aver preso influenze da compositori classici impressionisti come Debussy e Ravel. Album di Gil Evans consigliato: The Individualism of Gil Evans Un cast impressionante compone la big band in questo album del 1964, tra cui Phil Woods, Wayne Shorter, Eric Dolphy e Thad Jones.
L'Orchestra Maria Schneider
Maria Schneider ha lavorato come copista e assistente per Gil Evans, prima di studiare con Bob Brookmeyer (ex trombonista, arrangiatore e direttore musicale per la Thad Jones - Mel Lewis Orchestra). Ha diretto il suo grande ensemble dall'inizio degli anni '90, con 18 dei migliori musicisti jazz contemporanei di New York, e in gran parte concentrandosi su musica originale evocativa del genere. Schneider ha aperto la strada al modello di crowdfunding, che le consente di raccogliere fondi per registrare costosi album di grandi gruppi in modo indipendente attraverso le prevendite online. Ha vinto un Grammy per la collaborazione della band nel 2016 con David Bowie, il singolo "Sue (Or In A Season of Crime)" e l'Orchestra continua a fare molti tour. Album consigliato dalla Maria Schneider Orchestra: Concert in the Garden Questo programma di musica originale, che mostra varie influenze latine, ha vinto un Grammy Award come miglior album nel 2005. Read the full article
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