#cioè ora non so se è per una questione di ruoli perché alla fine forse non ha spazio per quello
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provo a fare un post normale aperto instagram e ho visto che desch**** non ha convocato benp ora non sono in condizione mentale di approfondire ma mi sembra così boh forse è proprio vero che l’inter è sempre scagata immeritatamente non so
#cioè ora non so se è per una questione di ruoli perché alla fine forse non ha spazio per quello#ma io seguivo il chelsea x hakim e quindi un po’ mi ricordo di fof*na non mi sembra imprescindibile#ma magari nel frattempo è cresciuto boh non so#di quanto giocano i sostituti tanto vabbè#ma io me lo ricordo scarso poi magari nel frattempo è migliorato boh
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So chi sei e perché l’hai fatto
Finalmente un fine settimana ricchissimo, quello appena trascorso sui migliori canali della tivvù: alla tanto attesa seconda puntata del coming out dell’ormai eroe nazionale dei diritti LGBT ospite a Verissimo segue a sorpresa su La7 un approfondimento da inchiesta graffiante sull’AresGate con Giletti che intervista addirittura Tarallo in persona, altrimenti noto come Lucifero, praticamente estraneo a ogni apparizione tv. Un polittico che contrappone da una parte un nuovo Garko, loquace, prolisso e spesso tendente alle lacrime e dall’altro l’affermato produttore, pacato, dai toni misurati, che però sul finale ricordano quelli della malavita organizzata.
Ma andiamo con ordine.
L’intervista a Garko è una discreta palla che un po’ ho pure dormito un quasi monologo ricco di sfumature. A differenza delle precedenti ospitate che ci offrivano un divo misterioso e sfuggente dai mille segreti, qui sviscera con riflessioni e digressioni ogni punto, facendo riferimento anche al suo percorso psicanalitico, di fronte a una Toffanin (distante sei metri come da normativa) che per gran parte dell’intervista se ne resta in silenzio, con una espressione permanente sul volto da “esticazzi” ma che sembra direi anche “fossero tutti questi i problemi Gabriè”. Mentre lui, pur ricordando a ogni piè sospinto che non intende fare la vittima, narra delle sue sofferenze e dei suoi dolori di un percorso che alla fine regala pochi scoop. La storia di mamma e papà che hanno sempre saputo, la negazione per poter lavorare nel settore, i paparazzi ovunque, il rapporto con Eva Grimaldi, Adua con la quale a malapena si incontravano, la sua riservatezza intrinseca e, severo ma giusto, una battuta di profondo sdegno e di buonsenso contro chi nei giorni scorsi lo ha accusato di aver ricevuto cachet stellari per il suo coming out, che alla fine a ogni ospitata televisiva sossoldi e non si capisce perchè queste ultime due debbano fare eccezione (Selvaggia Lucarelli, per caso vai a fare ballando con le stelle a gratis? Eh??).
A un certo punto la Toffanin (che per lo più pare davvero disinteressarsi dell’andamento dell’intervista) interviene con toni sobri: “Sì va bene ma tu hai mai avuto degli amori tuoi? O hai del tutto ucciso te stesso?”. Segue emozione di Garko, un sorso d’acqua dal bicchiere, silenzio, turbamento, lacrime, Garko invoca la pubblicità, lo sa che ora può parlare ma non ce la fa, è più forte di lui. Mentre lei hai ripreso la sua posizione da sfinge e se ne sbatte. Qualcosa di più esce, un fidanzato di 11 anni che finge di essere solo un amico e di abitare in un altro luogo anche agli occhi della governante di casa Garko (giuro, dice veramente governante), la storia con Gabriele Rossi che ora è finita e una storia che sta muovendo i suoi primi passi ma insomma anche qui sbadiglioni interrotti solo dal momento comico in cui lei poi citando il libro di Garko uscito qualche tempo fa ricorda tra le altre cose “alcuni pregiudizi in merito alle tue capacità di recitazione da parte della critica”. Alcuni.
Certo, con un’ingenuità che va ben oltre l’ingenuità standard Mediaset e che la Toffanin tenta di arginare, ma con un modo anche tutto sommato decente che ci dice “nessuno mi ha costretto”, Garko accenna i contorni di una tassonomia dei mestieri dello shobiz sui quali sia stata sdoganata l’omosessualità e quali no: il cantante sì, il calciatore no, e via discorrendo. Del resto, aggiungo io, così a bruciapelo vi viene in mente il nome di un altro attore italiano dal successo nazional popolare che sia omosessuale dichiarato? Perfino la Toffanin cede e si trova a citare il triste destino di Rupert Everett.
Si conclude chiedendo a Garko, che è poi la questione che ci sta più a cuore di tutte, se questo suo coming out inciderà sui ruoli che interpreterà in futuro (su questo vorrei anche rimandare i lettori ad approfondire la posizione del manzissimo Darren Chriss in merito), e se si orienteranno più su personaggi etero o gay: non so se mi ri offriranno parti come quella di Tonio Fortebracci dice lui (e questo ci getta nella disperazione, ndr) ma del resto ho già interpretato ruoli di omosessuali come ad esempio - interpretazione fantastica ci tiene a sottolineare la Toffanin - nelle Fate Ignoranti. E qui chiuderei, rimembrando l’unica interpretazione del nostro beniamino veramente degna di questo nome, che però, ricordiamolo, credo sia racchiusa tutta in 3 battute da malato terminale che per gran parte del film giace su un letto o atterrito sotto la pioggia.
Ma per svegliarci un poco spostiamoci nello scoppiettante studio di Giletti dove lui ci attende con l’espressione delle inchieste più serie e delicate! I più attenti ricorderanno che dopo le dichiarazioni di Adua del Vesco - alias Rosalinda - e quell’altro del grande fratello vip, gravissime come ricorda Giletti stesso, che lanciavano come petali dalla finestra accuse di sequestro di persona, plagio e istigazione al suicidio, si erano susseguiti in settimana pareri autorevoli divisi a squadre: Manuelona nostra e nientepopodimeno che Ursula Andress si erano levate sdegnatissime in favore della generosità e integrità di Tarallo, Giuliana de Sio e Nancy Brilli avevano solo lievemente preso le distanze dal modus operandi della Ares sottolineando come non avessero poi granchè piacere a lavorarci e il buon Francesco Testi, meglio noto come Renè Rolla dei nostri cuori, ha fatto una sintesi brillante tipo l’amico un po’ regaz dichiarando che finché la regola della casa di produzione era di scopare in giro senza fidanzarsi a lui era andata poi bene, ma che lui poi è una persona quadrata e quindi non teme condizionamenti.
E a questo punto arriva in tivvù Tarallo, insignito da Giletti del titolo di Re delle Fiction. Tarallo che viene da una famiglia devota a Padre Pio, Tarallo che ha fatto il coming out a 14 anni, Tarallo che è in studio solo per onorare la memoria del suo compagno Teodosio Losito. Losito che, ricordiamolo, prima di questo momento era stato seppellito con una certa furia nei campi dell’oblio, e solo noi e pochi altri ne sentivamo una struggente mancanza.
Tarallo che accompagnato passo passo da Giletti costruisce una narrazione di sé di vero e proprio, generosissimo, benefattore di tutti gli attori, nel ridente contesto di Zagarolo che, tra ville di attori famosissimi, dependance di Vip e Vippissimi, santo cielo vi prego qualcuno mi ci porti. Lui ha sempre fatto il bene di tutti, aiutando, formando, lanciando, offrendo lavoro, seguendo e consigliando, facendo anche da supporto psicologico, senza mai obbligare nessuno. Lui insieme a Teo, si capisce, che era l’animo più sensibile. Quasi mai contrasti con nessuno, solo una volta “Quando diedi ad Adua e Morra da leggere Il Giovane Holden e Il piccolo principe” (faceva parte della formazione a quanto pare, che bellissimo) e mi prendevano in giro fingendo di averli letti” (capre!!). Una immagine questa poi confermata da 3 attori che interverranno dopo in studio per raccontare la loro esperienza con la Ares e osannare Tarallo. Si difende con sdegno dalle accuse ricevute e infila su Adua una serie di affermazioni che la fanno uscire, così cos,ì come una psicolabile diciamo.
E poi. Poi si prepara per il gran finale. Cioè dopo aver tenuto per tutta l’intervista un tono mediamente sobrio, un modo affabile e pacato da professionista della TV, mette la freccia e supera a destra Garko e il picco trash della lettura della lettera ad Aduarosalinda.
Sempre spalleggiato da Giletti, si alza e tra le lacrime, con alle spalle una foto di Teo, legge la lettera che Losito gli ha scritto poco prima di suicidarsi. Così, senza motivo, se non per difendersi dall’accusa gravissima lanciata da Auda. Ma no, non è Adua, Adua è solo uno strumento: è stata plagiata poverina che è mezza instabile, dietro a lei e a Morra c’è una macchinazione di una persona che si muove contro di lui.
E quindi infine, con uno sguardo degno del migliore fetuso, sibila "A questa persona voglio dire: “So chi sei e so perchè l’hai fatto. Chi ha distrutto Teo non distruggerà me, perchè io sono più forte”.
Cala il sipario. E forse questo climax è il miglior omaggio a Losito in cui potessimo sperare.
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TRE PICCOLI IMPRENDITORI ITALIANI CHE AFFRONTANO LA SFIDA DEL POST COVID-19
Oggi nel filone: LE INTERVISTE DI GWAM, vi vogliamo parlare della storia di tre amici: tre piccoli imprenditori italiani che di fronte al problema regionale, nazionale, mondiale del Coronavirus e del lockdown hanno reagito con lucidità e pragmatismo. LA STORIA DI TRE PICCOLI IMPRENDITORI ITALIANI CHE AFFRONTANO LA SFIDA DEL POST COVID-19 Gli imprenditori sono: Enzo, Augusto, Mimmo. Cosimo (Mimmo) Saracino, è il più giovane imprenditore del trio. 28 anni, di origine pugliese (Taranto) è il classico ragazzo del Sud che ha tentato la fortuna al di fuori dell'Italia. Tra Germania e Spagna ha cambiato qualcosa come 12 lavori e 20 dimore. Poi nel Saronnese ha concretizzato una sua folgorante ed innovativa ed emozionale idea: far provare a tutti l’ebbrezza di guidare una Super Car in pista. In meno di due anni la sua CarSchoolbox è diventata un riferimento nazionale; il suo parco auto dalle 2 auto iniziali è cresciuto fino ad avere oggi 9 auto; l’exploit della sua start-up è stato oggetto di studio nelle Università di Economia di Milano e Roma. Augusto Lotorto, 52 anni, di Saronno. Nel 1995 ha aperto la sua prima attività con un posteggio al Terminal 2 di Malpensa, attività che cederà nel 2003. Nel frattempo, nel 2001, a causa delle Torri Gemelle subisce una contrazione del lavoro e quindi attua una prima conversione della sua attività verso il servizio di NCC (Noleggio con conducente) e a seguire con la FlySafeBag entra nel settore della protezione ed avvolgimento valigie passando in 8 anni da 30 a 250 dipendenti e coprendo pressoché tutta l’Europa continentale. Nel 2008, decorsi i 5 anni di patto di non concorrenza cede l’attività di posteggio, crea la JetPark (che oggi conta 32 dipendenti) alla quale si dedicherà completamente dall'anno successivo perché, anche a seguito della nascita della sua quarta figlia, decide di vendere la FlySafeBag. Enzo Muscia è.…Enzo Muscia! È sicuramente il più famoso tra gli imprenditori dei tre. 50anni, ex dipendente, poi direttore commerciale, poi Titolare della A Novo Italia, specializzata nella assistenza post-vendita di prodotti elettronici. Qualsiasi cosa scriva qui su Enzo sarebbe fortemente riduttiva rispetto a tutto ciò che ha fatto e per come lo ha fatto, e che lo ha anche meritatamente portato ad essere nominato Cavaliere al Merito della Repubblica Italiana. A lui e alla sua storia è stato dedicato anche il film TV “Il Mondo sulle spalle”, interpretato da Beppe Fiorello. Tre Amici, tre piccoli imprenditori, ognuno con la propria azienda ben avviata. Poi, improvvisamente e senza preavviso, arriva la mannaia del Coronavirus e del conseguente lockdown! L’attività di Mimmo si blocca, anzi, si azzera dalla sera alla mattina: piste chiuse; telefoni muti, prenotazioni rinviate. L’attività di Augusto, dopo qualche giorno dedicato alla restituzione della auto rimaste ferme nel posteggio - per es anche portandole fino al confine svizzero per consegnarle di persona ai legittimi proprietari - si blocca. Posteggi vuoti! L’attività di Enzo si è parzialmente bloccata: la Filiale di Torino chiusa, mentre la sede di Saronno, seppur con mille difficoltà ha continuato a lavorare. Che fare quindi come imprenditori? Disperarsi? Imprecare? Attendere passivamente i tanto sbandierati aiuti alle PMI? Nell'attesa di tutto ciò, ma consapevoli, per esperienze di vita, che i veri miracoli sono quelli che si compiono con le idee ed il lavoro, i tre piccoli imprenditori, Enzo ed Augusto dapprima, ma subito dopo i primi passi coinvolgendo anche Mimmo, si sono riuniti facendo il classico brainstorming e si sono chiesti: Cosa sta cambiando? Cosa c’é da fare in questo periodo di lockdown? Cosa cambierà per le aziende alla riapertura delle attività? Pensato...detto...fatto! Preso atto della nuova esigenza di dover proteggere i collaboratori in azienda è nata prima l’idea e poi la decisa volontà di mettere in contatto gli esperti necessari per risolvere questa nuova esigenza (i chimici; chi aveva già contatti con altre aziende; ecc..) e, in meno di una settimana il contorno dell’originaria idea è diventata una nuova srl: la NovOzone Srl, per la sanificazione ad ozono e la disinfestazione ambienti (aziende, scuole, uffici, capannoni) da virus, batteri, muffe. Pronta la società, pronta la sede, pronti i servizi, pronto il sito.
WALTER VALLI Ragazzi, che dire? La vostra fantasia, vitalità, voglia di fare, fa restare senza parole! Quindi, dite voi! Chi vuole parlare per primo? ENZO Parlo io per primo per dire che sapevamo che dentro di noi c’era la volontà di fare qualcosa che potesse poi durare nel tempo. Ed è così che cogliendo il cambio di cultura nell'ambito del vivere quotidiano, soprattutto laddove si passa gran parte del tempo di una giornata, cioè, oltre alla casa, il luogo di lavoro, si è deciso di non accodarci ai tanti improvvisati semplici venditori di mascherine, ma di creare una nuova realtà aziendale, fondata su due principi fondamentali per noi: la serietà e la professionalità. AUGUSTO Tutti e tre siamo abbastanza vulcanici e con la voglia di fare. E, complice il lockdown, durante i primi 45 giorni di blocco in noi è stata chiara la presa di consapevolezza che il mondo stava cambiando; che un così minuscolo organismo ci stava mettendo tutti in ginocchio e che quindi avremmo dovuto da imprenditori cambiare le nostre e abitudini e stili di vita, mettendo come priorità la necessità di tutelare i nostri cari e i nostri luoghi di vita e lavoro. Peraltro, l’ozono e la sanificazione non sono presidi medici che abbiamo inventato noi; noi abbiamo solo colto da imprenditori la necessità di portare la consapevolezza e l’utilità della sanificazione a chi ne ignora l’importanza. MIMMO Io posso solo dire che in Enzo e Augusto ho trovato non solo due “amici veri” ma anche due imprenditori “soci veri”. Perché forse per via delle nostre esperienze di vita o forse perché la vita ti fa sempre incontrare chi la pensa come te - e in quel caso devi capirlo subito - so che gli approcci alla vita in generale ed al lavoro in particolare, quali il sognare, il guardare in avanti, il crederci, il perseverare, sono sempre stati sia per me che per loro il vero motore del nostro agire. WALTER VALLI Si può quindi dire che tra di voi non c’è una mente e un braccio, siete tutti allineati, che avete tutti, dentro di voi, il “sacro fuoco degli imprenditori” e, quello che c’è da fare, si fa?? ENZO Si, sì, è così. Siamo tutti d’accordo nel vedere il famoso bicchiere sempre mezzo pieno e nel cogliere da un disastro generale come quello del Covid le nuove opportunità e poi farle, realizzarle. AUGUSTO Io vado oltre... ottimismo totale... e vedo l’acqua che tracima dal bicchiere e io la sto asciugando sul piano del tavolo. MIMMO Questo è il nostro spirito: non fermarsi a lamentarsi, ma rimboccarsi le maniche e fare. Nel nostro caso, tra di noi, abbiamo capito che l’unione fa davvero la forza; e come nuova opportunità di attività abbiamo cercato di capire cosa sarebbe servito, si ora subito ma poi anche per sempre, a noi stessi, cioè al comune cittadino come noi. WALTER VALLI Ma, ognuno di voi, prima o poi (ovviamente, si spera il più presto possibile!!) dovrà ri-occuparsi della propria attività originaria. Cosa e come avete pensato in merito? ENZO Questa nuova attività rimarrà x me, ma son sicuro di parlare anche per i miei due amici e soci, una “culla” che seguirò comunque in prima persona perché nelle cose che faccio mi piace sempre metterci la faccia al fine di garantire la continuità e la professionalità che mi ha sempre contraddistinto. AUGUSTO NovOzone rimarrà un’ottima ed autonoma struttura con compiti e ruoli ben definiti e con persone, che abbiamo già individuato, che saranno preposte nei ruoli chiave, perfettamente preparate e formate con specifici corsi adeguati al loro ruolo. MIMMO Anche io continuerò a seguire in prima persona NovOzone soprattutto perché questa nuova cultura impone che anche dopo questo virus si continui a sanificare gli ambienti in cui viviamo e lavoriamo. WALTER VALLI Siete giovani e pieni di energia e pienamente lanciati. Vi fermerete qui, o avete già altre idee e progetti nel cassetto? ENZO Certamente ne abbiamo altri. Questa situazione e questa nuova attività hanno già scatenato altre idee e progetti complementari a questo. Ma ciò che abbiano in testa è per ora è un “segreto industriale”. Te lo faremo sapere tra un po’.... AUGUSTO I veri imprenditori non trovano mai definitivo appagamento. Non appena un’attività è avviata, subentra la noia e si deve per forza intraprendere un altro percorso. Per questo so già che non mi fermerò qui. MIMMO Oramai il settore ambientale ci ha presi. Sappiamo già cosa altro fare. Vedrai.... WALTER VALLI Alla luce delle vostre esperienze di vita e professionali, secondo voi, IMPRENDITORI si nasce o si diventa? ENZO Si nasce. All 80% lo spirito imprenditoriale ce l’hai dentro dalla nascita. Poi è solo questione di tempo nel sapere individuare e cogliere l’occasione giusta. AUGUSTO Si nasce assolutamente. Se nasci tondo non puoi morire quadrato o viceversa. Io sono imprenditore da 25 anni (Mimmo allora aveva 3 anni). In ogni caso, per fare l’imprenditore devi essere un supereroe perché gli ostacoli sono tali e tanti, ma tu lo sai che sei un supereroe e che lo devi fare. Chi molla alla prima crisi vuol dire che era un imprenditore per caso. Il vero imprenditore è chi non molla mai e sa reinventarsi, soprattutto se è partito “senza soldi” o comunque senza un sostanzioso aiuto familiare dietro. MIMMO Concordo anche io: si nasce. E posso dire, per esperienza diretta, che si può essere anche dei dipendenti stipendiati ma con dentro lo spirito imprenditoriale che è quello che ti fa vivere il posto di lavoro con una pro attività di cui non puoi e non riesci a fare a meno. Poi, quando ti senti davvero pronto, un’ulteriore energia interna ti fa capire che “è il momento” di fare il salto, di mettersi in proprio! WALTER VALLI Ragazzi, che dire per finire? Non siamo ancora fuori dal lockdown. Alcune categorie forse non si riprenderanno più. Altre dovranno ridimensionarsi sensibilmente. Gli aiuti “pubblici” stentano e/o tardano ad arrivare. Ma voi avete non solo resistito, ma avete rilanciato! Qual’è il vostro slogan o messaggio a tutti i piccoli imprenditori? ENZO Riuscire a vedere “sempre” il bicchiere mezzo-pieno; sforzarsi di guardare così la vita. Lamentarsi, è veramente meno faticoso e più comodo, ma è completamente inutile. Prendeteci come esempio. Non corsi di magia, ma esempi concreti. Noi lo siamo. Una parola molto usata è: Resilienza. Ma non solo teorica, ma pratica. Giorno per giorno. Essere pratici, pragmatici, concreti, attivi, presenti sempre, e resilienti...tutti i giorni sul campo! AUGUSTO Diciamoci le cose come stanno: ogni piccolo imprenditore, se non ha soldi di famiglia propria non può stare a sperare negli aiuti delle banche e/o pubblici, quindi ci si deve “aiutare tra di noi”. Inoltre, bisogna avere un approccio molto diretto e pragmatico: definizione del problema, breve analisi, soluzione. Fondamentale in tutto questo processo è l’intuito personale, che è una cosa inconscia che la si ha o non la si ha; poi la caparbietà e l’esperienza fanno il resto. MIMMO Perseverare. Non abbattersi. Mai abbattersi. Rimboccarsi le maniche. C’è e ci sarà sempre un lavoro da fare. C’è sempre una luce in fondo al tunnel.
WALTER VALLI Ragazzi, è spettacolare ascoltarvi. Trasmettete un’energia incredibile. E, a sentirvi, sembra tutto facile. Ma in realtà so che non è assolutamente così. In ogni caso incarnate perfettamente lo spirito del fare italiano. So che ci sono tante belle parole in lingua inglese per descrivere tutto ciò che siete e fate ma qui voglio terminare con alcuni “slogan” in italiano che ben vi descrivono: in ogni attività imprenditoriale, ma soprattutto nelle PMI, il Capitale Umano è proprio al centro di tutto; per gli imprenditori non è importante solo il punto di partenza e di arrivo ma lo è soprattutto il Cammino, il Percorso! Read the full article
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24 GIU 2019 00:15''SESSO PRIMA DELLA PARTITA? NON SONO MAI STATO IN GRADO DI ORGANIZZARE IL MIO, FIGURIAMOCI QUELLO DEGLI ALTRI''. GRANDE INTERVISTA A GIOVANNI GALEONE, ALLENATORE-MITO. ''NON ESAGERIAMO. ME NE ANDAI DI CASA A 16 ANNI MA PERCHÉ AVEVO IL CULO PARATO'' - RIVELA CHE IL FIGLIOCCIO MAX ALLEGRI ''PER LA JUVE CI È RIMASTO MALE, SI È SENTITO TRADITO, DISPIACIUTO IN PARTICOLARE PER ANDREA AGNELLI'' - IL DOPING, LE DONNE, L'OMOSESSUALITÀ NEL CALCIO, JARDEL DROGATO 'MA CON UNA BELLA MOGLIE', LE CATTIVERIE SU SACCHI, LE SUE LETTURE. ''PRÉVERT? UNA LEGGENDA. È NOIOSO, IL MIO CALCIO ALLEGRO''
Alessandro Ferrucci per ''il Fatto Quotidiano''
Sul pianale posteriore della macchina la guida del 2018 dedicata a Relais e Chateaux prende il sole. È vissuta, sfogliata, non è lì per caso.
Mister, lei se la gode. "Accanto c' è pure la pubblicità delle sigarette, anche se non posso più fumare".
Giovanni Galeone è un uomo in grado di mantenere un equilibrio raro tra goliardia e cultura, autoironia e profondità; piacere e senso del dovere; una spiccata passione per le donne, e se racconta dell' ultimo concerto di Mina, quello leggendario alla Bussola di Viareggio, non parla della performance canora, "ma delle sue gambe strepitose"; e poi non è banale neanche sui libri, non finisce sul solito Soriano, "perché amo più i francesi"; un uomo che quando entra nel ristorante preferito di Pescara ("qui da Michele vengo da 33 anni"), discute brevemente su quale vino stappare, perché il padrone di casa non si avventura in troppe repliche: "Giovà, tanto ne sai più di me, sei come un sommelier".
A 78 anni non intende più allenare, e non è una questione di età, "ma solo perché oramai non c' è alcun rapporto vero con i giocatori: oggi se ne rimproveri uno o non lo schieri tra i titolari, mica ti viene a parlare, a cercare delucidazioni. No. Manda il procuratore a rompere le palle".
Non teme l' aspetto nostalgico: "Il calcio di trent' anni fa era più bello", e non si riferisce solo a schemi di gioco, o protagonisti, bensì a storie da raccontare, persone da crescere, altre con le quali poter condividere anche sigaretta e caffè alla fine del primo tempo. O sorridere e stupirsi come è accaduto raramente in Serie A, pochi casi, quasi tutti finiti nel mito, come il Genoa di Bagnoli, la Roma di Liedholm ("lui è il maestro"), il Parma di Sacchi ("sia ben chiaro: Arrigo è arrivato dopo"), o il suo Pescara, protagonista negli anni Ottanta di leggende e promozioni, calciatori scoperti e altri sottovalutati, oggi immortalato da Lucio Biancatelli nel libro Poveri ma belli: il Pescara di Galeone dalla polvere al sogno. In quel Pescara giocavano Massimiliano Allegri e Gian Piero Gasperini, e in carriera ha allenato Marco Giampaolo; in sostanza tre big della Serie A sono suoi figliocci o quantomeno allievi.
Viene trattato da mito.
È un po' esagerato.
Ne è certo?
Ci sono anche altre squadre che non hanno ottenuto i successi e l' attenzione che meritavano, eppure hanno cambiato la storia del calcio.
Tipo?
Corrado Orrico ha applicato pressing e zona anni prima di Arrigo Sacchi e il Bari di Enrico Catuzzi (1982) era uno spettacolo, ma nessuno cita questo disgraziato che è pure morto.
E lei?
Ribadisco: non sono il solo e ho la fortuna di una vita divertente e vissuta nel calcio.
Da che età?
A 16 anni sono andato via di casa, e già giocavo nella Nazionale Juniores, una squadra formidabile, con dentro Enrico Albertosi, Mario Corso e Giovanni Trapattoni.
Ma i suoi erano contenti?
Non importa, sono andato e basta; poi quando mio padre veniva a Trieste per trovarmi, e giocavo già nell' Udinese, palesava sempre lo stesso cruccio: comprarmi una casa, o darmi dei soldi.
Rifiutava?
Non ne avevo bisogno e non mi sembrava giusto.
Guadagnava.
Anche mio padre stava bene: era ingegnere, dirigente all' Ilva e vivevamo a Napoli; progettava gli altiforni.
Sperava nel figlio ingegnere.
Mai nella vita, per fortuna aveva un altro maschio; comunque viaggiava molto, costruiva impianti: è in mezzo al disastro di Taranto, l' altiforno lo ha creato lui, il primo in Europa a colata continua.
Insomma, viene da una famiglia molto borghese.
Mio padre liberale, credeva in Giovanni Malagodi (segretario dal 1954 al 1972); mamma era nostalgicamente monarchica, cresciuta nei salotti partenopei, e a casa, quando avevo dieci o undici anni, si leggeva Il Borghese, o i libri di Julius Evola o Giovannino Guareschi.
Le interessavano?
La mia vita andava verso altri lidi, e nessuno mi ha inibito.
Cioè?
Preferivo stare in strada con chi aveva meno di me, e se potevo davo una mano.
Se n' è andato a 16 anni
Sì, e quando le persone mi dicevano e dicono "come sei stato bravo", da sempre sento un po' di fastidio.
Perché?
Avevo il culo parato con il paracadute dei miei; quindi non ci vuole coraggio, sarei potuto tornare a casa sempre e accolto con amore.
Quindi, a Trieste.
Non vivevo in un quartiere centrale, ma a Servola, dove spesso arrivavano i profughi slavi, in particolare dall' Istria, e le scritte erano ancora bilingue.
Come si trovava?
Una meraviglia, grandi giocatori, bravi in ogni sport, gente con cultura e tradizione, allora motivate dalla fame patita; mentre quelli di città non li cagavamo.
La politica l' interessava?
Più il sociale, mi ha sempre affascinato la realtà delle persone, le loro storie; quando vivevo a Trieste, arrivavano camion pieni di carbon coke da scaricare all' Ilva, e subito si ammassavano le donne per caricarne sacchi, e accendere il fuoco.
Ciò la colpiva.
Sì, perché a casa avevo la luce elettrica e la possibilità di spendere; se non sei un cretino devi avvertire l' evidente disuguaglianza.
Si sentiva in colpa?
No, venivo da una famiglia splendida, papà mi ha rifilato solo uno schiaffo.
Per?
Forse un brutto voto a scuola, ma non ricordo bene; ma dopo il ceffone mi sono chiuso in bagno e ho spaccato lo specchio con un pugno: ero furioso con me stesso.
Quando ha scoperto i libri?
Da ragazzo leggevo molto, ne sentivo il bisogno, amavo i gialli e i francesi.
Dicono che portava Prévert in panchina
Leggenda sbagliata lanciata da non so chi: Prévert è noioso, il mio calcio allegro.
Ha mai manifestato?
Un paio di volte, e ho preso delle randellate.
Per cosa?
Contro un comizio di Giorgio Almirante a Udine; per sfuggire mi sono rifugiato in un portone; in un' altra situazione mi hanno caricato su una camionetta della polizia.
Il suo rapporto con i calciatori.
Gli lasciavo tutta la libertà.
Potevano uscire la sera?
Non erano affari miei.
Se andavano a donne?
Non me ne fotteva niente. E lo dicevo pure a Luciano Gaucci: "Guarda, non sono un guardiano di mucche".
Sesso prima della partita.
Non sono mai stato in grado di organizzare il mio, figuriamoci quello degli altri.
Donne cacciate dal ritiro?
Mai, anche perché non ci andavo. Mangiavo fuori.
Un divieto?
Mi infastidivano i telefonini, era il periodo delle scommesse, temevo ci cascassero.
L' allenatore è un guru.
Forse qualcuno, io no; non credo neanche Allegri, e poi oggi i giocatori fanno quello che vogliono, hanno un potere contrattuale esagerato, non rispettano più i ruoli, e magari come con Icardi pretendono di parlare con il presidente.
"Giampaolo è un secchione", ha dichiarato.
È un ragazzo molto attento, e a voler essere critici, non è un talento puro per il ruolo di allenatore, però è uno che si informa, studia, cresce e legge abbastanza bene le partite.
Allegri?
Max è uno raro.
Ha un debole per lui
(Ride) Non è così: con Gasperini mi sono scontrato più di una volta, eppure lo considero un genio, e quando mi dicono "Gasperini ha imparato da lei", rispondo che sono io ad aver appreso da lui.
Addirittura.
Non sbagliava un movimento, giocava sempre a culo in avanti; poi s' incazza, carattere terribile, ma bravissimo.
Allenatore già in campo.
È fondamentale, solo chi gioca può capire veramente la partita, e anche in questo Allegri era il numero uno.
Collovati sostiene che il calcio è solo per uomini.
Stupidaggine, ed è una tesi di Bettega, solo che a lui nessuno ha mai osato replicare.
Non sia mai.
Era Juventus-Milan, palla al centro, pronti via, riceve Rivera, arriva Tardelli e gli rifila un' entrata terribile; a fine match domandano a Bettega un giudizio, e lui: "Il calcio non è da signorine". Oggi sarebbe stato massacrato.
Il Mondiale femminile lo guarda?
No perché non lo conosco, non riuscirei a valutarlo.
Le dichiarazioni dei calciatori sono spesso banali
Da vent' anni è così, da Sacchi in poi.
Stuzzica sempre Sacchi.
Non è vero, nel 1988 sono stato l' unico allenatore invitato alla sua festa scudetto.
Vi conoscete da una vita.
Insieme già al corso di allenatori; ogni tanto mi lancia qualche pugnalata, io rispondo (prende il cellulare e divertito mostra le loro discussioni).
Che vi scrivete?
Nell' ultimo esordisce con "Caro Giovanni, ti ho sempre stimato e sempre considerato un amico". Ho risposto: "Arrigo l' ho sempre saputo e nel peggiore dei casi sperato".
Si diverte.
Lui si incazza, però sono stato con Arrigo nelle due finali di Coppa Campioni vinte nel 1989 e 1990 e pure sugli spalti agli Europei del 1988; anzi nel 1990 dopo la partita e post cena, siamo rimasti fino alle 6 del mattino con Berlusconi a parlare di moduli: "Arrigo, lei mi consente".
Ne capiva?
Ogni tanto le sue formazioni erano di 12 elementi.
Insomma, agli Europei?
Andiamo da Valentini (storico dirigente Figc) e gli chiediamo due biglietti per assistere a Olanda-Inghilterra. Li trova. "Tranquilli, posti ottimi".
Macché! Entriamo allo stadio e finiamo in mezzo agli hooligan inglesi, Arrigo preoccupato: "E ora?". Lo guardo e lo rassicuro: "Stai tranquillo, togli la maglietta e fingi".
A torso nudo?
Tutto il tempo, e mi rompeva su un giocatore. Fissato.
Chi?
Impazziva per l' attaccante inglese Gary Lineker, lo voleva, e io: "Hai Van Basten, cosa te ne fai di questo?".
Un suo ex attaccante, Mario Jardel, ha dichiarato la sua vecchia tossicodipendenza.
Povero. Però aveva una bella moglie.
Oltre la moglie?
Con lui in campo, spesso era come giocare in dieci.
È capitato spesso di calciatori con problemi?
Ogni tanto, uno pure bravo: arrivava la mattina al campo completamente fiacco, annebbiato. Sicuro si faceva.
Cosa non tollera?
L' ipocrisia e la menzogna.
Sarri è stato disonesto nell' accettare la Juventus?
Fa un po' di casino, non è preparato per certe situazioni; quando l' anno scorso leggevo alcune dichiarazioni, riflettevo se fossero opportune.
Come?
Anche questa voglia di apparire di sinistra, troppo; Giampaolo non ne parla mai, eppure era bertinottiano, uno di Rifondazione, infatti ora Berlusconi gli vuole parlare (e scoppia a ridere).
Cosa si diranno?
Marco non resta zitto, non è uno che si fa scivolare le cose addosso come Max
Pure Allegri ha carattere.
E della Juve ci è rimasto male, si è sentito tradito, dispiaciuto in particolare per Andrea Agnelli. Non ha superato l' addio; e sono anni che gli consiglio di andare via. Comunque con Ambra è contento.
Bene.
Sa stare con uno come lui, quando viene circondato dai fan non si scoccia, resta in disparte e osserva col sorriso.
La Juve non la sopporta.
Dal 1958.
Un sentimento recente
Giocavo a Coverciano contro la Nazionale A, noi ragazzi rispettosi dei grandi, emozionati evitavamo ogni contatto, eppure Giampiero Boniperti alzava continuamente il braccio e chiamava "fallo".
Ahi.
Prepotenza da padroni.
Lei alla Juventus?
Non mi avrebbero mai chiamato, mentre mi sarebbe piaciuto andare alla Roma di Dino Viola o al Napoli di Maradona, invece ho perso sia l' una che l' altra; il Napoli per colpa di Moggi e Ferlaino.
Ha avuto presidenti particolari, come Gaucci.
Mai visto uno così generoso, impressionante, elargiva soldi a tutti, in particolare ai giocatori. E non mi ha mai chiesto una formazione.
Lei e le donne.
Sono solo favole.
Sicuro?
Come per Max, solo favole.
Anzi, lui non sa neanche cosa sono le discoteche, ed è un' impresa dargli il secondo bicchiere di vino.
Cosa sognava da ragazzo.
Ancora oggi sogno di giocare a calcio; mai da allenatore.
Il suo mito?
Luisito Suarez.
Un amico?
Gianni Mura. Usciamo e beviamo le nostre bottiglie di vino, poi scattano le gare mnemoniche, anche con altri; uno fortissimo era Giorgio Faletti, sapeva tutto. Ah, secondo Gianni non capisco nulla di portieri e Amarone.
Ha ragione?
Sì. Mi piaceva solo Angelo Peruzzi. La prima volta che l' ho visto in allenamento era un ragazzino, con quattro o cinque "senatori" della Roma che gli tiravano delle bordate (pallonate). Lui niente. Li sfidava. Gli andava sotto e con modi spavaldi li invitava a continuare.
Tra Messi e Ronaldo?
Messi tutta la vita.
In Italia?
Ho amato Totti, ma chi mi ha impressionato è Cassano: eccezionale, in allenamento spiazzava tutti, uno spreco, e poi è ruffiano, quando incontra qualcuno sono baci e abbracci.
Tabù: i gay nel calcio.
Ci sono, oggi più di ieri.
Altro tabù: il doping.
Quando giocavo ci rifilavano di tutto, ed era normale.
Un rimpianto?
Io? (Sorride con occhi e labbra, e i suoi occhi e le sua labbra hanno l' età dei sogni, quando giocava a pallone). Mi sono divertito
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Damien Hirst e Carmelo Bene
Sette paia di scarpe ho consumato....
Primo paio
All’avvio di questo blog, in un post dei primi, davo un’immagine sintetica del mondo dell’arte, paragonandolo a una piramide il cui vertice è occupato dai collezionisti, lo strato immediatamente inferiore dai galleristi, quello sotto ancora dai critici e curatori e la base infine dai paria, gli artisti. La grossolanità di questa rappresentazione può procurarmi rogne, perché non mancano forme miste, di cambio di casacca e di osmosi, che so, che un gallerista scriva o un artista collezioni ecc; ma
la sua efficacia a fini dialettici sta nel facilitare il chiarimento di funzioni e ruoli. Nel mondo così detto libero, il nostro, quello in cui il capitalismo ha trionfato alla grande (cioè, con buona pace della Corea del Nord, il mondo tout court), la funzione del vertice della piramide sembra essere fondamentale: l’intera costruzione, il sistema nel suo complesso (soltanto una piccola isola, una delle tante del vastissimo mare della globalizzazione) si regge sul bisogno che esso esprime di beni di consumo spirituale e non di beni di scambio.
Ma qui si verifica la prima difficoltà: quali sarebbero questi benedetti beni di consumo? In medias res e tanto per fare un esempio significativo legato alla recentissima mostra di Damien Hirst a Venezia: il bene di consumo spirituale sta nello spettacolo o nel colosso di bronzo e negli altri reperti rimasti a Palazzo Grassi per i visitatori che non hanno assistito allo spettacolo? Per semplicità chiamiamoli feticci.
Non so se tutti hanno presente il fatto che l’arte non si può consumare che in un unico modo: creando altra arte o altro spirito (il che è possibile anche a un qualsiasi collezionista sincero che acquista non per scambiare, ma per tenere e far vedere - quale altro scopo per una collezione seria?) E poi si dirà: l’arte è allergica a queste divisioni schematiche e da un po’ di tempo, ben prima dell’avvento Hirst, i musei si sono riempiti di feticci: basti pensare alla grande installazione di Beuys al museo di Stuttgart. La questione allora, quando lo spettacolo dello sciamano è terminato, si sposta sul valore evocativo del feticcio. Inoltre si può discutere se lo spettacolo sia più importante del feticcio, se l’aver messo sotto torchio un decennio fa l’organizzazione dei trasporti, l’industria siderurgica tedesca e infine L’Ente della Biennale fosse più importante dell’effetto spaziale delle due spirali ideate da Richard Serra per l’Arsenale. Questioni di lana caprina? Forse il mondo sta per dividersi fra quelli che, come nel settecento, smaniano per gli spettacoli pirotecnici con allestimenti costosissimi e quelli che chiamano Gian Battista Tiepolo ad affrescare i soffitti di casa propria. Già allora si poneva la questione e quanto ci rimane di quegli spettacoli sembra dare una risposta. Comunque forse è arrivato il momento di capire quali sono le caratteristiche specifiche dell’arte visiva e se questa non si sia trasformata in teatro e nei suoi sottoprodotti. Il mondo naturalmente è in continua trasformazione e il bisogno di spettacolo in epoca democratica è indiscutibile. Un grande artista come Carmelo Bene lo aveva capito già cinquant’anni fa e aveva messo in crisi, proprio sfruttando le conquiste dell’arte visiva, il mondo dal quale veniva, quello dello spettacolo e specificatamente prima il cinema, poi lo stesso teatro e infine la televisione. Ma a questo punto occorre chiedersi che fine sta facendo l’arte visiva tradizionale, quella appunto sfruttata tra l’altro da CB, quella che caparbiamente si rifiuta alla performance, perché crede che il suo prodotto, intendo il corpo di ciò che rimane finito lo spettacolo, abbia ancora aperte tutte le sue potenzialità di comunicazione, senza o con spettacolo annesso. Ha ancora uno scopo? Ritorniamo alla piramide.
E’evidente che quando la sparuta schiera di coloro che occupano il vertice e sentono il bisogno di consumare beni spirituali si assottiglia troppo, per lasciar posto a quelli che vedono l’arte solo come un bene di scambio e si accontentano dei giganti, che siano di Michelangelo (sommessamente affermo che il famoso David è stato un errore) piuttosto che di DH, le cose finiscono per andare molto male per tutti gli occupanti gli strati inferiori. La stessa base, che tradizionalmente assolve il compito di produrre appunto quei beni, si assottiglia in maniera preoccupante (scende a terra, nel senso che se ne va a coltivar patate o si nasconde, insomma esce dai meccanismi della produzione). E’ vero che gli artisti lavorano, lo hanno sempre fatto, anche nei peggiori momenti di crisi, ai margini, e comunque poco si preoccupano del sistema che, impadronendosi del loro prodotto, ne fa merce o lo ficca in un caveau. Il “va canzone va” assolve quest’indifferenza e comunque facilita anche l’esigenza, funzionale alla creatività autentica, che impone di dimenticare il già fatto, anzi preferibilemente distruggerlo, per farne del nuovo. E queste non sono questioni di lana caprina: bisogna tener conto bene di come si muovono “Gli ultimi”, per capire i meccanismi che generano la piramide.
Quando sette anni fa, cosciente di quanto sopra, ho detto a me stesso che bisognava fare qualcosa e un po’ utopisticamente ho aperto Fuori dai denti, sperando di suscitare una reazione sull’isola alla quale appartengo (per il lavoro che faccio la più importante dell’arcipelago), sono caduto in seria contraddizione. L’invenzione di Nobel, che ha permesso a Napoleone di penetrare nel Sancta Sanctorum della piramide di Cheope, per quella alla quale appartenevo non serviva a un piffero. F d d ha sparato per sette anni a vuoto e per il semplice motivo che il cemento che tiene insieme l’ammasso di blocchi è prodotto da ciascun componente lo stesso. Anche da me: nel momento in cui, sudando sette camicie, riesco a produrre qualcosa e si fa avanti qualcuno che se ne vuole impossessare, visto che nella società alla quale appartengo non so fare altro, mi vedo costretto a stabilire un prezzo: le camicie costano! Nessuno le ripagherà tutte, ma almeno esiste un vago, approssimativo termine di paragone: il denaro che quello mi offre anche lui l’ha sofferto e non è giusto non tenerne conto. Si finisce a un compromesso molto ragionevole e, con l’intermediazione del secondo strato (anche quello deve vivere), si stabilisce un prezzo. Tutti contenti!
Non proprio. Quella cosa lì, quel prodotto, inutile, fondamentalmente presuntuoso (pretende di aver inventato la dinamite, come Nobel), illusorio (non c’è miccia che non travolga anche te), ha un’unica qualità: nasce da profonda generosità, non bada a fatica, spese, tempo sprecato per far venire alla luce il pupo (le sette camicie, che a volte sono sette volte sette): quello deve nascere, per i tuoi figli prima di tutto, ma anche per gli altri, per tutti indistintamente. Guardatemi io sono qui, inerme e passivo, se ti interesso mi prendi, altrimenti mi lasci dove sono. Per prendermi poi non devi pagare nemmeno un euro, nemmeno i soldi che costa un libro, perché basta che mi guardi. Certo devi guardarmi bene, devi imparare a farlo, perché non è stato ancora inventato il modo per guardare me, io stesso l’ho inventato, altrimenti che ci sto a fare a questo mondo se non per un nuovo sguardo? Parlo per me ma va bene per tutti.
Insomma tutte le volte che sono costretto a dichiarare un prezzo cado in serio imbarazzo: se devo fare paragoni (è noto il narcisismo dell’artista), non è mai sufficiente, se lo lego all’effettiva fatica che mi è costato, a volte è addirittura superiore, anche se più spesso invece non ne ripaga la millesima parte, ma la solfa non cambia. Finisce per prevalere il paragone e qui inizia la bagarre: per quanto la caratteristica fondamentale del vero artista, malgrado il suo incommensurabile narcisismo, sia appunto la generosità e quindi anche la generosità nei confronti dei colleghi che ti hanno regalato qualcosa con il semplice sguardo, la corruzione sul prezzo nasce proprio nel momento dei confronti con i colleghi e non ci sono santi, la piramide se ne starà bella stabile sulle sua base e non corre alcun pericolo di precipitare. Ecco allora che si fa avanti lo spettacolo: dividere le due funzioni, quella performatica e quella della comunicazione legata al feticcio. Niente di più semplice. Per il primo non si bada a spese, tanto verranno ripagate dal secondo, perché lo spettacolo, quanto più pirotecnico sia, più rende il secondo vendibile (siamo in democrazia, nella democrazia del denaro e dello spettacolo e quelli che badano allo scambio sempre più numerosi).
Un epifenomeno del terremoto che da trent’anni a questa parte interessa la piramide, senza peraltro metterla minimamente in pericolo, è il panico che invade soprattutto lo strato superiore ai paria, quello dei teorici. La cosi detta critica sta dubitando della propria funzione e forse acquista coscienza della necessità del suo ridimensionamento. Era ora! Più di quarant’anni fa Carmelo Bene (parlando di cinema, ma il discorso era valido per tutta l’arte) affermava: “io rifiuto qualsiasi funzione di mediazione critica e aggiungeva “è l’opera stessa che in quanto artistica è anche critica, non ha quindi alcun bisogno di esser criticata”. Per non avvallare facili equivoci e chiarire il rapporto fra le due funzioni, critica e creativa, citava Oscar Wilde: “La fantasia imita, ma è lo spirito critico che crea”. Più chiaro di così.
Insomma negli ultimi cinquant’anni i produttori sono stati esautorati da una società democratica di massa che non si fida di loro e ha affidato a terzi, appunto gli studiosi, i curatori e i critici, l’organizzazione della piramide. I primi non hanno opposto resistenza: l’epoca dei Carrà è tramontata e anche più recentemente quella dei Fabro. Del resto non è nel DNA dell’artista scrivere e leggere e quindi tutti contenti. Solo che il sistema della piramide fa un po’ acqua senza l’apporto della seconda delle sorelle indicate da Milo De Angelis (poesia e teoria) e poi il mercato dello scambio è necessario, finché lo si subisce, non quando lo si alimenta con teorie capziose e corrotte e soprattutto senza una vera cultura.
Comunque per terminare in leggerezza voglio far presente a chi mi legge che lo spettacolo ha del comico: tutti bravissimi a vedere nell’altro il responsabile della situazione di stallo. Per i teorici del secondo strato, che CB divide in “gazzettieri, travesti e supermaschi” (cioè nel coro, i primi, quelli che producono il rumore di fondo, poi i secondi che concepiscono la critica come mediazione, i peggiori, e infine i terzi, quelli che inventano l’opera a livello pretestuale) non c’è più scampo: galleristi e collezionisti li snobbano e nessuno legge più alcun loro prodotto, al massimo si limitano ai titoli di testa. Il colmo del ridicolo è lo spettacolo delle manciate di fango che cercano di buttare a destra e a manca, ma sempre in orizzontale o meglio, perché più facile, in basso: “sei colluso col sistema”. Beh è noto che la diffamazione è l’arma principale di chi vuole nascondere le proprie colpe e quindi la produzione di fango non stupisce, ma a proposito di comicità, consiglio di andarsi a rivedere quel cortometraggio di Iacopetti prodotto per la TV negli anni cinquanta: mostrava dei cani in una gabbia, un casino della madonna, una carneficina, tutti contro tutti e più se ne infilava dentro più si azzanavano.
FDL
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Sulla poesia facile, vendibile, tribunizia di Franco Arminio. Ovvero: la schiacciante vittoria della società dello spettacolo e del pensiero mainstream
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Nel 1989 Beppe Grillo intervenne come comico al Festival della canzone di Sanremo con un monologo che fungeva da intermezzo tra le canzoni. Disse tra l’altro: “Io qua però non ci dovrei essere, perché se sono qua, vuol dire che denuncio la mia sconfitta; sì, Sanremo è la mia sconfitta, come uomo e come professionista! Sono un fallito, come voi giornalisti! …giornalisti che avevano un decoro, gente con tre lauree, che andava a… Kabul! Adesso li vedi che dicono: ‘Dov’è Peppino di Capri, che sono rovinato!’. Questa è la vostra sconfitta, siete dei falliti anche voi!”. Beppe Grillo si prese delle querele per quei monologhi, ma ricordo che ciò che disse, oltre ad essere spesso esilarante, lasciò un segno in molte persone, molto più delle pessime canzoni di quell’anno (eccetto Mia Martini), della conduzione imbarazzante, dell’istanza ecologista demandata a una canzone di… Albano e Romina!
Erano decisamente altri tempi. Grillo ovviamente non era un capo-partito, ma solo un comico. Nel 1989, pochissimi giorni prima di Sanremo, era finita la guerra in Afganistan, quella provocata dall’invasione sovietica, respinta dai mujaeddin foraggiati dagli americani, che sarebbero poi diventati i talebani. Ho detto sovietica, perché il muro di Berlino non era ancora crollato (succederà a novembre di quell’anno) e con esso resisteva la divisione dell’Europa e del mondo in due blocchi politico-militari. C’erano ancora la Democrazia Cristiana, il Partito Comunista e il Partito Socialista: tempo due tre anni e l’inchiesta cosiddetta “mani pulite” avrebbe spazzato via anche loro. Il giornalismo era un’altra cosa, e a questa fa riferimento Beppe Grillo: i quotidiani nazionali vendevano ancora centinaia di migliaia di copie e l’informazione via internet, compresi i mondi social, stavano ancora al di là dell’orizzonte del futuro. E i giornalisti andavano in giro per il mondo a cercare le notizie rischiando anche la pelle, anziché sbirciare come fanno oggi sui profili social di questo o quel personaggio.
Silvio Berlusconi era già famoso, ma non come politico: all’inizio degli anni Ottanta le sue televisioni, in primis Canale 5, avevano iniziato la scalata all’audience trasformandosi da tivù locali a network nazionali e compiendo quella che è stata la vera grande riforma berlusconiana, cioè una rivoluzione del modo di concepire la televisione, lo spettacolo e anche un po’ la cultura: ciò che conta è l’audience, appunto, la quantità, il profitto, la diffusione di merci e show. Nel monologo di Beppe Grillo a Sanremo si cita lo scandalo provato dall’intellighenzia, tutta di sinistra, per il fatto che sulle reti berlusconiane i film era interrotti dalla pubblicità, indecorosa novità per le menti raffinate di quei tempi. Di fatto la vera riforma del Cavaliere è stato un gigantesco collasso del gusto popolare in fatto di musica, cinema, spettacolo, informazione e persino sport. L’asservimento della qualità alla quantità per fini commerciali. La società dello spettacolo di debordiana memoria stava avendo la sua schiacciante vittoria.
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La poesia di Franco Arminio mi ha fatto tornare in mente queste cose. Nel 2019 è uscita da Bompiani la sua ultima raccolta, L’infinito senza farci caso, lanciata sul mercato come una saponetta, e mi sono chiesto se occuparmene non fosse il segnale del mio fallimento, così come per Grillo quei giornalisti che a Sanremo andavano a cercare Peppino di Capri. Non dico del mio fallimento come scrittore, poeta o critico letterario, ruoli di cui non posso autoinvestirmi. Ma sono un insegnante, e soprattutto di lingua e letteratura italiana. Insegno continuamente la poesia, a discenti che vanno dalla scuola primaria, ai licei, persino all’università, fino ai colleghi insegnanti, essendo titolare, come esperto, di continui corsi di formazione. Eppure non capisco quello che scrive Franco Arminio in una specie di dichiarazione di poetica: “Molti poeti, anche molto bravi, mi sembra che ormai scrivono testi che girano a vuoto, testi assorti in una religione senza fedeli. Ognuno può scrivere quello che vuole, ma non si può pretendere che i testi disertati dai lettori siano i migliori in via di principio, come se il lettore fosse sempre colpevole e il poeta fosse sempre innocente. In realtà bisogna avere l’umiltà di considerare che oggi i lettori sono più avanti dei poeti. I lettori hanno una naturalezza, una capacità di abbandono che molti poeti hanno perduto. Ed è chiaro che nessuno vuole impedire a questi poeti di essere astrusi e incomprensibili, ma loro neppure possono pensare che chi non li segue è colpevole di non capire la poesia. Ho come l’impressione che ci sia un tempo tutto pronto alla poesia e i poeti siano clamorosamente impreparati. Per lungo tempo hanno atteso di essere interrogati. E ora che questo tempo è venuto non sanno cosa rispondere, vanno avanti con congegni verbali concepiti per un altro tempo e per un’altra umanità. Non sto dicendo che la poesia deve avere il passo dell’attualità. Sto dicendo semplicemente che oggi la poesia si trova nel cuore di chi legge più che nel cuore di chi scrive”.
Ora, dichiarazioni così generali contengono una scorrettezza, l’assoluta mancanza di nomi. Chi sono i “molti poeti, anche molto bravi” che non capiscono che i lettori sono più avanti di loro e che non sanno intercettarne la disponibilità a leggere? Vediamo un po’: io, insegnando, uso poesie di Caproni, Luzi, Sereni, Bertolucci, Betocchi, Bigongiari, Pasolini e via via più vicino, tipo Raboni, Fortini, Loi, Baldini, Guerra, De Angelis, Conte, Magrelli, fino a poeti miei coetanei e anche più giovani e ogni volta, immancabilmente, i miei discenti entrano in rapporto con le loro poesie, le amano e ringraziano. Mi sono tenuto sempre più vicino al contemporaneo, non ho citato gli autori più canonici (Montale, Ungaretti, gli altri…), saranno questi i poeti ad “essere astrusi”? Se è per questo, propongo anche poesie più difficili, che so, di Celan, Mandel’štam o Eliot, che non hanno testi esattamente sanremesi, ma il risultato di “piacevole interazione” (Mandel’štam) tra i miei lettori e quelle poesie non cambia.
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Allora a chi si riferisce Arminio? Forse ai poeti che “vendono poco”? Può essere. Credo si faccia forza delle ripetute, millantate ristampe dei suoi libri di poesia, cosa su cui non ho elementi per dubitare. È questo il criterio? Molto berlusconiano, non c’è che dire; vorrei ricordare allora che i poeti che vendono di più sono personaggi come Francesco Sole, Guido Catalano o Gio Evan, tanto per fare qualche nome e per mostrare quale poesia “si trova nel cuore di chi legge più che nel cuore di chi scrive”. Non capisco. Il fatto è che ad ogni soffio di vento nasce qualcuno che tuona contro l’oscurità della poesia, la colpa dei poeti di non farsi capire, di essere astrusi. Credo che si tratti di una forma di demagogia letteraria: “Sto dalla parte del popolo dei lettori contro le èlite della letteratura, così antiquate e lontane dal sentimento popolare, che io invece so interpretare. Infatti mi comprano”.
Dice infatti Arminio: “Lo sguardo è più importante/ della poesia, mi fanno pena/ i letterati che non vedono niente,/ che giocano a imitare altri ciechi/ in un tempo in cui non vedere/ forse era una resistenza,/ ma ora lo sguardo è tutto,/ abbiamo solo lo sguardo e il mondo/ e le gambe per camminarci dentro:/ il poeta da salottino/ è una macchia d’unto, una reliquia/ di un tempo in cui essere difficili/ serviva a sembrare intelligenti”.
Eccola l’accusa ai poeti “che giocano a imitare i ciechi”; sarebbe interessante chiedere di quale salottino si stia parlando: diomio, i salotti dove si leggevano poesie si sono estinti decenni fa, oggi nei salotti dell’intellighenzia non so cosa si faccia, suppongo quello che racconta Sorrentino nella Grande bellezza! Che strepitoso luogo comune! Tutto ciò svela in modo chiaro il dispositivo consueto con cui persino i politici scaltri diventano rappresentativi: non circostanziare, lanciare accuse vaghe, generare un nemico dai contorni illusoriamente definiti. Tutto qui. Ascoltiamo ancora Arminio: “La poesia non ha bisogno di ispettori/ per segnalarne gli abusi, la poesia/ oggi ha tante facce, tanti nomi:/ è una questione di chi ha la morte/ sulle dita (davvero qui non capisco cosa significhi, anzi sì: sembra che voglia dire qualcosa di grande, invece è solo vago), di chi è costruito con la carne/ di un secolo prima e con l’anima/ in un secolo che deve ancora venire/ (quindi? La tradizione letteraria e addirittura – orrore! – metrica è importante o no?!). Ecco, non è materia/ d’istruzione (grazie per averci detto che da anni facciamo un mestiere sbagliato), non è cosa per bande,/ per innovatori da canile,/ per psicopatici patinati, per sapienti/ annoiati./ Io canto la fine della poesia come imbroglio,/ come soggezione a giochetti da niente/ che non capisce nessuno”.
Non occorre commentare oltre, emerge chiaramente, anche dal tono oratorio, l’autoelezione a tribuno del popolo lettore. E ricordiamo che questo testo è una poesia, direi piuttosto coerente: nessuna metrica, nessuna musica, nessun ritmo; nonostante vi vengano richiamati il corpo, le dita, le mani, non c’è neppure nessun corpo, né scritto né sonoro: è solo una lunga omelia, banalmente retorica, incapace di circostanziare e di spiccare il volo di un’immagine che non sbatta su un soffitto di banalità. Certo, immediata, facile da leggere. E da comprare.
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A un certo punto nasce l’urgenza di una domanda: ma cosa dice in definitiva questo poeta? La sua notorietà, si sa, è affidata alla strana specializzazione inventata per se stesso: paesologo. Ho fatto una lettura pubblica una volta assieme a Franco Arminio. A San Severo in Puglia, nei fascinosi sotterranei di una cantina ristrutturata a ristorante, davanti ai tavoli del pubblico commensale, ho letto alcune mie poesie, poi è stato il suo turno. Arminio ha imbastito lì per lì una specie di gioco a quiz in cui diceva i nomi di piccoli paesi e cittadine e interrogava il pubblico per vedere se sapevano collocarli in questa o quella regione d’Italia. Poi ha letto qualcosa sulla bellezza di abitare nei piccoli borghi, o forse ha fatto solo un discorso senza leggere niente. È stato un successo, grazie anche al tono simpatico e da show televisivo sfoderato nell’occasione. Io sono stato velocemente oscurato, tipico poeta astruso da colpevolizzare. Sono tornato a San Severo qualche mese dopo, però, e tutti avevano contrappassisticamente dimenticato anche Arminio.
Al nostro tavolo aveva continuato sull’argomento: la cosa che mi colpì di più era l’idea di Roma o Milano che, come metropoli, sono corpi tumorali in una terra come l’Italia, adatta ai piccoli centri a suo parere. La questione che pone Arminio in realtà è interessante e perfettamente moderna. Se la modernità infatti è stata la scoperta dell’io, della deflagrazione dell’individuo col suo portato positivo di diritti e garanzie individuali e con quello negativo dell’individualismo che a livello politico si traduce in distruzione della società, la domanda implicita del suo lavoro mi sembra giusta: che cosa rende possibile una comunità? Una comunanza, una solidarietà fra gli uomini e anche con la natura? Qualche dubbio in più ce l’ho sulla risposta, che è l’abitare in piccoli centri, possibilmente isolati. Il problema, più che teorico, è empirico: il fatto è che conosco splendide comunità innestate nelle grandi città, e orribili e chiuse non-comunità che caratterizzano luoghi fatti di poche case. Scomodare la letteratura – che so, Silone – è inutile, e persino De Andrè, sono cose che conosciamo tutti. La risposta allora a questa giusta istanza è semplicistica, astratta, alla fine ideologica. Ancora una volta. D’altronde il poeta dice: “Molte poesie hanno un additivo intellettuale che i lettori non chiedono, come se il poeta avesse paura di non essere abbastanza sofisticato. Ma la poesia è un moto ondoso che viene dalla contentezza o dalla disperazione di un corpo, non è la gara a chi meglio conosce la metrica”. Niente additivi intellettuali, dunque. Rimaniamo nel “moto ondoso” del corpo.
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E vediamolo questo moto ondoso, per cercare di capire come funziona una poesia siffatta. Quando dice “Una goccia d’acqua/ potrebbe farti da vestito” nell’immediato mi colpisce (anche se io, che non sono molto serio, alla lettura di quei due versi ho pensato a Marilyn Monroe: «What do I wear in bed? Chanel N°5, of course») e penso: carino. Passato l’immediato, però, mi chiedo: “Ma cosa vuol dire?”. Poi mi accorgo che tutta la poesia di Arminio mi porta sempre sulla stessa soglia, l’intuizione di qualcosa da dire generata da un trucco linguistico, raramente un fuoco d’artificio, dietro il quale non so più cosa trovare: “In un giorno così puoi fare l’amore con l’aria, /col tempo che passa,/ non hai bisogno di spogliare una donna/ o di spogliarti”, carino, ma quindi? Il tema più forte è quello della natura, come dimostra il successo del libro precedente, poiché già da sempre per il poeta l’umanità non è solo prerogativa degli uomini, ma “appartiene/ anche agli animali,/ agli alberi, alle nuvole” e “Ogni uomo, ogni donna/ è un corpo celeste/ arato dal respiro”. Confermo, carino. Come dice una recensione “congiungersi con la natura può essere dichiarato simile al fare l’amore”: “Se non c’è una bocca/ bacia un ramo” ed eccolo quindi l’altro grande argomento che fa cassetta, l’amore universale, la libertà dell’amore di tutte le sue forme. La perfetta ideologia moderna. Fa notare ancora una studiosa: sarebbe infatti presuntuoso pensare di astrarsi dal mondo in nome del proprio sentimento (“L’uno e il due/ sono presunzioni”). Ma alla fine siamo nel pieno del pensiero di moda oggi: ecologia, animalismo, panteismo moderno, amorismo libero, come chiamarlo? Questa non è originalità, è mainstream. Che fa vendere, è ovvio. Poi però occorrerebbe evitare tirate tribunizie para-marxiane come: “Il virus del pianeta è l’uomo delle prime file,/ i banchieri, i potenti mercanti/i più lesti tra i politicanti./ Nelle retrovie dell’umanità/ancora batte il cuore,/ la figlia va a trovare la madre/ e la madre teme che la figlia si ammali,/ il barbiere di pomeriggio/ non sa bene che fare,/ ora per lui è sempre lunedì”. Perché occorrerebbe far notare che essere pubblicati da un editore industriale e nazionale è pur sempre essere scelti da “l’uomo delle prime file”, quello che pubblica qualcosa se vende. Ma la continuazione della poesia svela anche il dispositivo generale: si tratta di evocare immagini che stimolano subito il livello sentimentale del lettore, il quale capisce subito, sente il moto ondoso dell’emozione, non impegna il pensiero ed è finita lì. Ecco, l’aggettivo che mi ritrovo più adeguato è “sentimentale” perché evidentemente per l’autore un approfondimento maggiore del pensiero ma anche nel vero corpo della poesia, che è la parola, è un’astruseria intellettuale di cui il poeta si deve sentire in colpa rispetto al lettore.
Dopodiché mi fermo qui. Mi sono già spremuto troppo per un libro che non capisco, sospettando che il motivo stia nel fatto che non c’è granché da capire. Ma non è questo che sento come fallimento: temo che avesse più ragione Beppe Grillo.
Gianfranco Lauretano
L'articolo Sulla poesia facile, vendibile, tribunizia di Franco Arminio. Ovvero: la schiacciante vittoria della società dello spettacolo e del pensiero mainstream proviene da Pangea.
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