#chefinviaggio
Explore tagged Tumblr posts
Text
9-12 feb. 2019
San Carlos De Bariloche - Ruta de los Siete Lagos [Argentina]
San Carlos de Bariloche sembra una tappa obbligata, non tanto perchè pensiamo di trovarvi qualcosa di particolarmente stupefacente, quanto più per il suo nome altisonante e le tante raccomandazioni ricevute nel corso dei mesi da numerose persone. "Andate a Bariloche, non potete perdervela". Ebbene, avevano ragione, e noi torto. Tanto meglio, perchè Bariloche è una gemma preziosa incastonata tra laghi immacolati e montagne lussureggianti. L'autostop che ci porta in città è di quelli fortunati: la coppia di argentini che ci tira su non brilla per simpatia né per loquacità, però si offre di farci da "tour guidato" per quello che si chiama circuito chico, un percorso di quasi 60km ad anello, ad ovest della città, attraverso i laghi del Parque Nacional Nahuel Huapi.
I sentieri ai miradores sono tantissimi, ma quello che porta al Cerro Llao Llao regala una vista panoramica mozzafiato: il cielo è azzurrissimo e macchiato da nuvole candide, si riflette nell'acqua cristallina dei laghi circostanti; le montagne maestose solamente spezzano l'azzurro della volta celeste con il loro verde scuro. Uno spettacolo che ci lascia a bocca aperta e che ci fa pentire di aver pensato che ormai i panorami siano tutti uguali. Le parole non bastano, ogni aggettivo è sprecato di fronte a tanta bellezza.
Quando il sole sta ormai andando a dormire all'orizzonte, ci godiamo una birra alla fabbrica della cerveza Patagonia, ammirando le piante di luppolo ed il tramonto dietro le montagne. Torniamo in città tardi, felici ma un po' irritati perché il tour guidato si è protratto ben oltre il necessario e noi siamo cotti ed affamati.
Esclusa la periferia, Bariloche è decisamente bella, sicuramente si posiziona ai primi posti tra tutti i luoghi visitati finora. Le vie del centro sono un susseguirsi di negozi di artigianato, ristoranti, birrerie e cioccolaterie coloratissime. Si dice che qua producano il miglior cioccolato d'Argentina e noi non possiamo esimerci dal provarlo.
Forse anche per questa ragione la descrivono tutti come la "Svizzera d'Argentina", ma l'immensità dei paesaggi qua è disarmante. Per contro, la bellezza dei paesini di montagna elvetici è ben altra cosa, qua siamo pur sempre in Argentina. Ciò che è meno argentino è invece il costo della vita, decisamente meno accessibile per noi poveracci. Così, in due soli giorni ci vediamo costretti ad abbandonare questo bellissimo diamante ed il confortevole ostello che ci ospitava.
La prossima tappa si chiama Ruta de los Siete Lagos, una strada di 110km che collega la vicina Villa La Angostura a San Martin de los Andes, passando per laghi e montagne. "Fatela in auto, moto, autobus...Però fatela", dice la Lonely. Che fai? Non le dai ascolto?
Così, all'improvviso, discutendo su quale possa essere l'opzione migliore, abbiamo il lampo di genio. Perché non farla in bici? Arriviamo carichissimi a Villa la Angostura con la lista della spesa da campeggio per i prossimi 3/4 giorni e mentalmente pronti a metterci in sella fin dal primo pomeriggio. Però, ogni tanto, bisogna saper assecondare le voglie del momento ed essere pronti a cambiare piani, soprattutto se ti si para davanti un negozio che affitta moto: l'opzione comporta meno fatica, meno notti in tenda, meno cibo di merda da campeggio; chiamateci pure pigri, ma la moto vince. Tanto, sempre due ruote sono! Due ore dopo siamo in sella alla Poderosa, "sfrecciando" a 50km/h tra laghi e montagne (povera moto, un 150cc con poca grinta sulle salite).
Incrociamo diversi ciclisti, ai quali lanciamo segni di incoraggiamento a suon di clacson: un paio di mani alzate in risposta, mai un sorriso, tutti concentrati sulle pendenze, grondando sudore. Sarà stata la scelta giusta preferire la moto alla bici? La via facile a quella faticosa? I ciclisti avranno forse modo di godersi di più i panorami per i quali sudano tanto?
Scacciamo i pensieri fermandoci a comprare quelle che ci hanno detto essere le migliori tortas fritas della regione dei laghi. Ne abbiamo già ordinate una mezza dozzina quando capiamo di non essere nel chiosco che stavamo cercando, la signora Rosa si trova di fronte, in parte nascosta dagli alberi. Ridiamo con lei dello sfortunato accaduto e, gentile com'è, finisce per offrirci una torta frita ciascuno, in modo tale da poter davvero assaggiare la sua specialità.
Saturi di fritto e di birra Quilmes, ci fermiamo a dormire a metà strada in un campeggio lungo le sponde di un lago. Riprendiamo la strada solo al mattino, con calma, arrivando a San Martin de los Andes, ultima tappa del nostro viaggio in Argentina, proprio ad ora di pranzo. E come concludere al meglio la nostra permanenza in questo paese se non con un pranzo in quello che la Lonely definisce il miglior ristorante della zona dei laghi, se non di tutta l'Argentina? Lo incontriamo per caso, quasi fosse un segno del destino. Scegliamo la parrilla libre, ovvero l'equivalente del nostro all you can eat: i tagli di carne si susseguono al tavolo in un trionfo di sangue e brace. Agnello, vacca, maiale, facciamo il bis e poi il tris..Il Malbec e le patatine fritte aiutano il tutto a scendere.
Il fato ci è amico e dopo due mesi e mezzo di tentativi falliti, mangiamo la vera, famosa e squisita parrilla argentina. Ciliegina sulla torta il gelato al Lemon Pie e Mousse de Limon da Pragelato, perché, si sa, il limone aiuta la digestione! Torniamo in sella alla Poderosa con il sorriso sulle labbra, grati per questo ultimo pranzo regale.
Salutiamo questa terra affascinante, accogliente e sorridente, dai grandi contrasti sociali e dalla natura maestosa ed immensa. Brindiamo alla sua gente disponibile e generosa, ai cani randagi che ci hanno accompagnato e talvolta spaventato, a tutte le empanadas ed alle pizze, buone e meno, ai ghiacciai, ai fiumi ed ai laghi che ci hanno impressionato, alle foreste ed ai parchi nei quali abbiamo lasciato le nostre impronte, a tutti gli animali ammirati. Brindiamo alla vita, al viaggiare come fonte di scoperta e comprensione del mondo e delle culture che lo popolano, alla tolleranza, al rispetto, all'antirazzismo ed all'uguaglianza.
Il nostro piatto di Bariloche e della Ruta de los Siete Lagos è: la parrilla libre del ristorante Bamboo brasas
La nostra canzone di Bariloche e della Ruta de los Siete Lagos è: Eagles - Take It Easy
2 notes
·
View notes
Text
28 nov. - 3 dic. 2018
Puerto Iguazú - Colonia Carlos Pellegrini [Argentina]
Varchiamo il primo confine via terra e salutiamo il Brasile con la consapevolezza che, prima o poi, vi faremo ritorno. Ne abbiamo esplorato una porzione talmente ridotta che siamo sicuri meriti un secondo viaggio in futuro.
"Bienvenido a la Argentina", recitano i cartelli dopo un viaggio lungo e faticoso, anche se per certi aspetti ci sembra di aver fatto un passo indietro verso casa. A partire dalla lingua, lo spagnolo, molto più familiare a noi italiani: quando non sappiamo come esprimerci, ancora più che in Brasile, vale la regola del "parla la tua lingua". E qui, quasi sempre, ci capiscono. Passando poi per il cibo, rispetto al quale i richiami all'Italia sono tantissimi: pizza, pasta fresca, cotoletta alla milanese... Rimangono purtroppo irriducibili per quanto riguarda la salsa bolognesa, le lasañha della mamma, gli ñouchi, ed apprezziamo lo sforzo di fantasia nel chiamare i ravioli sorrentinos, ma siamo pur sempre dall'altra parte del mondo.
Certo, il legame Italia-Argentina è storicamente molto forte, ma rimaniamo comunque sempre stupiti, e sotto sotto anche fieri, di come un piccolo paese come l'Italia possa aver esportato nei secoli così tanta cultura, tradizione, storia, al punto che queste si siano fuse con quelle locali ed abbiano raggiunto nazioni che si trovano oltreoceano. Essere italiani, all'estero, suscita ammirazione; solo in Italia, ci si vergogna di esserlo.
Non potremmo iniziare meglio la nostra permanenza in Argentina se non con la visita delle cataratas do Iguazù. Le aspettative sono in disaccordo: per uno sono "solo acqua che cade", l'altra ne è affascinata. Questo spettacolo della natura ci mette però d'accordo. Maestosità, grandiosità. Sono questi gli aggettivi adatti a descrivere questo luogo affascinante che lascia attoniti e meravigliati.
La forza della natura si esprime qua in una delle sue forme più pure, fa regredire noi piccoli uomini a quella che è la nostra vera dimensione naturale. L'energia dell'acqua è prorompente, inarrestabile, incessante ed è sottolineata dal boato costante che domina l'area in cui essa si sprigiona.
Tutto sembra immenso, al Parco Nazionale Iguazú: a partire dal fiume, che attraversiamo solo in parte su di una passerella che sembra interminabile, fino alle cascate, talmente alte che gli spruzzi che ne scaturiscono ne impediscono la vista completa; e poi il cielo, macchiato solo da poche candide nuvole, sembra perdersi fin oltre l'orizzonte, quasi accentuandone la curvatura.
Le foreste circostanti sono popolate da farfalle colorate, animaletti dalla faccia simile ad un formichiere, scimmie, coccodrilli, iguane, uccelli bizzarri.
Iguazù è questo e pochissimo altro, le parole possono davvero poco dinnanzi a questa natura, si può solo ammirarla in silenzio. Di certo, è valsa le 27 ore di autobus da Rio.
La Colonia Carlos Pellegrini, unica porta accessibile al Parque Ibera, sembra un'oasi dimenticata dal mondo. Effettivamente, la difficoltà per raggiungerla conferma questa impressione. Più di 100 km di strada sterrata persa nel nulla, color rosso fuoco e arsa dal sole, sono solo l'ultimo tratto da percorrere in autobus, a 30 km/h, per raggiungere la Colonia.
La fatica, almeno, è premiata da un luogo incantevole: in questa baia semi paludosa si parla una sola lingua, quella della natura. Qua, sono gli esseri umani a essere ospiti, sono loro ad essersi ritagliati un piccolo spazio nell'ecosistema, senza violentarlo né modificarlo. Questo è l'habitat di centinaia di uccelli colorati, capibara, caimani e cervi delle paludi, serpenti e insetti di ogni genere. L'uomo c'è, ma è perfettamente inserito nell'ambiente.
L'orizzonte è una linea continua, in qualsiasi direzione ci si volti. Il cielo, incredibilmente azzurro, si staglia su una vegetazione verdissima, nonostante il sole arda come il fuoco. Di notte, si trasforma in un tappeto luminoso, stelle mai viste prima appaiono sulla volta celeste, lo spettacolo esige silenzio e rispetto, suscita gratitudine e pace.
Estasiati da questa atmosfera zen, per la prima volta dall'inizio del viaggio, decidiamo di fare camping, inaugurando la nostra tenda Zelda.
Conosciamo tre ragazzi tedeschi: loro condividono il cibo, noi offriamo le nostre padelle e la birra in una cena a base di pasta con salsa al pomodoro, fagioli, lenticchie, piselli e peperoni. Un mischione da farci venire i brividi, ma non è il momento di fare gli italiani e trangugiamo senza fare commenti. Mangiamo a modo nostro il giorno seguente, andando in carniceria e lanciando sulla griglia un filetto di quello che probabilmente è maiale, o il giorno dopo ancora, con pasta al pomodoro.
Il Parque Iberà, tra campeggio, cielo stellato e tranquillità, in qualche misura, è proprio quello che cercavamo.
La nostra canzone di Puerto Iguazú e Parque Ibera è La Vela Puerca - Mi diablo
Il nostro piatto di Puerto Iguazú e Parque Ibera è Surubì (pesce d'acqua dolce) con sottiletta e papas fritas
1 note
·
View note
Text
5-8 mar. 2019
Potosì - Sucre [Bolivia]
Uyuni ha segnato per noi l'ingresso in Bolivia e, con essa, in un nuovo mondo. Sembra impossibile che due paesi confinanti siano così tanto diversi, eppure la Bolivia, sin da subito, ci appare come un mondo a parte. A cominciare dal paesaggio, che dopo Uyuni in direzione nord-est verso Potosì si trasforma nell'altiplano boliviano, una serie interminabile di montagne rocciose color rosa-arancio che superano i 4000 m e canyon verdeggianti su cui si arrampicano piccoli villaggi rurali, strade coraggiose ed impervie puntellate di cactus e cespugli, prati lussureggianti popolati da lama. Con il paesaggio, cambiano i trasporti: i lenti autobus argentini e cileni si trasformano in lentissimi bus boliviani che arrancano sulle salite e sfrecciano in sorpassi folli sulle discese. Così, per coprire i 205 km che separano Uyuni da Potosì, impieghiamo la bellezza di 6h. Se non altro, il prezzo dei biglietti è davvero irrisorio, così come il costo della vita in generale. Scopriamo che con 5-6€ si può avere un abbondante pasto completo, compreso di zuppa, piatto principale, contorno e dolce, e quasi con gli stessi soldi si possono trovare alloggi ben più che decenti. Un vero toccasana dopo il grande esborso cileno! Ovviamente, volendo andare al risparmio totale, si può mangiare nei mercati locali per poco più di 1€ e dormire in hospedajes che nemmeno esistono su booking.com, ma noi non siamo così disperati...
Anche le persone sono decisamente cambiate. Già da questi primi giorni, i boliviani ci appaiono riservati e poco abituati ai turisti occidentali, ma non per questo scontrosi. L'anatomia poi non passa certo inosservata: la pelle si è fatta più scura e spessa, sembra cuoio; i capelli e gli occhi nerissimi, la fronte più sporgente ed il naso più grezzo. A questo, si aggiungono le vesti colorate, i cappelli a bombetta, le trecce nere con pendenti, i grembiuli, i maglioni di lana, le scarpe col tacco e le calze colorate. I boliviani sono forse mediamente meno belli rispetto agli altri sudamericani incontrati finora, ma hanno una loro personalissima grazia che a volte stupisce: capita di doversi fermare per strada, abbagliati dalla bellezza di un bimbo boliviano o dall'eleganza povera di una donna vestita a festa per il carnevale. Già, il carnevale.
Se da un lato entrando in Bolivia siamo finalmente scampati alla temporada alta che da mesi ci insegue (qua sta iniziando la stagione delle piogge), dall'altro arriviamo a Potosì negli ultimi giorni del carnevale, che qua in Bolivia è una festa sentita più del 4 luglio negli USA. Questo si traduce in ristoranti, negozi ed attrazioni principali chiusi, trasporti meno frequenti e soprattutto... un caos folle e meraviglioso per le vie della città. Le strade sono intasate di auto e camioncini decorati a festa con ghirlande colorate, nell'aria si mischiano il suono perenne dei clacson, la musica di qualche banda locale e gli schiamazzi dei ragazzini che corrono senza sosta, lanciandosi coriandoli o spruzzandosi con acqua o schiuma. Noi siamo rimasti vittime di questi ultimi, ma non ci si può sottrarre a questa bolgia, è inevitabile. Le bancarelle di strada offrono ogni genere di cosa, tutta la città si riversa per le vie. Proviamo un po' a perderci in questo caos per noi così estraneo, camminiamo boccheggiando a causa dell'altitudine: Potosì è una delle città più alte del mondo, con i suoi 4100 m. Ogni passo sembra un'impresa, i polmoni cercano disperatamente l'ossigeno da mandare al cuore, che batte all'impazzata.
Potosì è anche nota per essere la città da cui si estraggono argento e silicio. Nelle sue miniere, ancora oggi attive, lavorano più di 15000 minatori. Inutile dire quanto a questo luogo siano legate storie tragiche di morte e sofferenza. Dopo un po' di indecisione ci convinciamo a prendere parte ad un tour guidato delle miniere: decidiamo che sapere in che condizioni lavorano queste persone vale il prezzo da pagare a quelle agenzie che fanno i soldi sulla pelle dei minatori stessi. Per fortuna (o sfortuna, ancora non sappiamo dirlo) il giorno del nostro tour le miniere sono deserte, i lavoratori sono tornati ai loro villaggi per festeggiare il carnevale. Così, dopo aver comprato foglie di coca, un candelotto di dinamite ed una bibita omaggio da lasciare nei cunicoli per i lavoratori, ci dirigiamo alla cava travestiti da minatori. Ci addentriamo negli anfratti bui, freddi ed umidi, camminando lungo la rotaia sulla quale i bambini spingono i vagoni colmi di pietre. Le gallerie formano un labirinto indecifrabile, non ci sono indicazioni, non c'è nessun sistema di sicurezza. Forse per questo, in diversi angoli della miniera c'è un fantoccio di cartapesta dalle fattezze diaboliche, il Tio, cui i minatori offrono coca, alcool ed altri doni in cambio di protezione.
Le gallerie si sviluppano su più livelli, da diversi metri sotto la città fino alla sommità della montagna retrostante. Ad un certo punto la guida si ferma, ci mostra un minuscolo buco nel terreno che, attraverso una scala, conduce ad una galleria inferiore. "È per voi, per fare un'esperienza completa", ci dice radiosa. Noi siamo interdetti, speriamo di non aver capito bene. Invece lei imbocca a fatica il cunicolo, quasi rimanendovi incastrata, scende le scale e, da sotto, ci invita a raggiungerla. Uno ad uno scendiamo tutti, tranne una ragazza piuttosto in carne che non se la sente. "Adesso accendiamo un candelotto di dinamite, due di voi vengono con me a tirarlo in fondo al tunnel e poi tutti risaliamo dalla scaletta. Abbiamo un minuto e mezzo, non possiamo tardare". Speriamo che stia scherzando, ma prima ancora di rendercene conto ha già acceso la miccia ed è sparita nell'oscurità del tunnel. Da qui in poi è il caos, tutto si fa concitato: siamo in 10 a dover risalire, abbiamo 9 secondi ciascuno. Le prime due ragazze ci impiegano un'eternità, la gente in fila scalpita ed impreca. Poi è il nostro turno. Uscire non è affatto facile, il buco è stretto e le scale non coprono per intero l'altezza della parete, gli ultimi centimetri per guadagnarsi la libertà vanno superati facendo leva sulle braccia. La gente urla sempre di più, quasi isterica. Anche la guida, di ritorno dal tunnel, urla: "Non possiamo tardare, muovetevi!". Il tempo scorre, sembra davvero che qualcosa stia andando storto... "Boooom!". Tutto si ferma, ognuno è immobile, terrorizzato, impietrito. Ci guardiamo intorno. Ci siamo tutti? Manca la nostra guida. La signora è rimasta là sotto, non ha fatto in tempo ad uscire... Poi all'improvviso sbuca la testa, quindi il corpo emerge del tutto: è coperta completamente di polvere ed è incazzata nera. Si scrolla le macerie di dosso maledicendoci per esser stati troppo lenti, poi si calma, respira e si scioglie in un sorriso, invitandoci ad un applauso collettivo. Nessuno però ha più voglia di scherzare, ci siamo cagati addosso ed ora vogliamo solo uscire da questa tomba. Se non altro, forse per un istante abbiamo provato quello che provano i minatori decine di volte al giorno. Esistono pietre o metalli preziosi che valgano tutto questo?
[Claire: Con Claire, non c'è compleanno senza sorprese. E Marco dovrebbe saperlo bene! Eppure, anche questa volta, riesco a sorprenderlo. È da tempo che mi scervello su cosa regarargli: mille idee, ma ben poche fattibili. Così, dopo nottate insonni sugli autobus, negli ostelli o in campeggio, mi decido che prenotare una stanza in un bell'hotel sia la scelta migliore. La sera del 6 marzo, seduta proprio di fianco a lui nell'ostello di Potosì e con fare indifferente, guardo le foto dei vari alloggi disponibili a Sucre. Esiste un solo 5 stelle, ma le recensioni dicono che la colazione non è all'altezza: bocciato in un nanosecondo. Procedo nella scrematura degli hotel fino ad averne due papabili: la scelta è tra una stanza più carina o una colazione più ricca. Conoscendoci, c'è davvero bisogno di dire chi abbia vinto? Prenoto, quindi scrivo alla struttura che è il compleanno del mio ragazzo e che mi piacerebbe avere dei palloncini e altro. Ho paura nella sorpresa pacchianata, con cuori e candele, però, come dice mia mamma "Quando ti ricapita di festeggiare un compleanno in stile boliviano?". Il 7 mattina mi scuso per non essere riuscita a fargli un regalo "Siamo sempre insieme", "Non mi molli mai" e blablabla. Ci casca. Prendiamo il bus per Sucre e continuo a fingere indifferenza, anche se, chiaramente, sto esplodendo dentro. Arrivati a destinazione cominciamo il nostro giro per ostelli, io continuo a dire di volerne vedere altri e Marco mi segue. Quando penso che sia ormai fatta, tira fuori l'applicazione di maps.me e se ne esce con "Qui dobbiamo girare a sinistra, giusto?". Ma mannaggia a te! L'hotel è giusto ad un paio di isolati dritto davanti a noi, inutile mentire oltre. "Auguri! Ho prenotato una stanza in un 4 stelle!" "Ma cosa dici?".]
[Marco: Sucre è l'ennesima sorpresa di questa persona incredibile che ormai da 5 anni viaggia con me. È un hotel magnifico nascosto tra le vie del centro, il cui portone si apre su un giardino lussureggiante, un porticato in pietra, fontanelle eleganti e luci soffuse. Al piano superiore, un ampio terrazzo soleggiato permette una vista incantevole sulla città, un rustico forno a legna ci fa sognare le prelibatezze che ne usciranno... La stanza è un paradiso, dopo mesi di ostelli e campeggi. Ci abbandoniamo per un giorno intero al lusso di questo posto incantevole, abusando della ricchissima colazione, del letto comodissimo, delle docce perfette. Hai reso anche stavolta il mio compleanno un giorno memorabile, colmando la mancanza della mia famiglia e dei miei amici. È il terzo anno che manco da casa in questo giorno, ma le persone che più amo hanno comunque trovato un modo per raggiungermi fino in Bolivia.]
In sottofondo c'è questa città, Sucre, che, con il suo clima tranquillo e rilassato, è cornice perfetta per questo giorno speciale: il centro curatissimo ed ordinato ed il parco con una tour Eiffel rossa tarocchissima ci fanno sorridere; gli edifici coloniali candidi come la neve ci trasportano in un'altra epoca; il japponese per cena offre un'alternativa nuova al nostro stomaco annoiato dai soliti pasti. Ci ingozziamo, ma non troppo, vogliamo essere pronti per il buffet del mattino successivo.
La colazione è una favola, per due ingordi come noi: ci riempiamo di dolci locali, frutta, latte e cereali, panini col formaggio, quindi attacchiamo la postazione dei caldi: ognuno ordina un'omelette con prosciutto e formaggio, quindi un waffle con caramello. La cuoca comincia a guardarci male, ma noi non ci arrendiamo allo stomaco ormai pieno e chiediamo un pancake, dopotutto ci manca solo quello da provare! Torniamo in stanza, soddisfatti, e facciamo la muffa fino alle 11:30, giusto per approfittare appieno del tempo a disposizione in hotel. Si sta così bene qui! Bisognerebbe dormire ogni notte in un luogo del genere!
Il nostro piatto di Potosì e Sucre è: la colazione a buffet del Mi Pueblo Samari Hotel Boutique
La nostra canzone di Potosì e Sucre è: Five Finger Death Punch - Wrong Side of Heaven
0 notes
Text
4 mar. 2019
Uyuni [Bolivia]
[Marco: Descrivere a parole il Salar de Uyuni è come provare a spiegare la sensazione che suscita un odore legato ad un evento del passato oppure la più intima emozione per un ricordo di infanzia: si possono usare tanti aggettivi e tanti avverbi, ma resta impossibile riprodurre l'emozione provata in quel momento. Il Salar è un'esperienza personale, intima, privata che ognuno di noi dovrebbe fare nella vita. Le immagini solamente possono dare un'idea della bellezza, le emozioni non hanno parole.]
[Claire: La Bolivia ci dà un benvenuto col botto, grazie al Salar de Uyuni. Prendiamo una jeep nel pomeriggio, tra centinaia di giapponesi rumorosi. Vedendo la fila di macchine che si dirige verso il Salar, abbiamo la sensazione che sarà una fregatura. Ci mettiamo ben poco a ricrederci: davanti a noi una distesa d'acqua infinita, uno specchio a riflettere quelle poche nuvole che passeggiano tra un cielo azzurrissimo.
Scendiamo dalla jeep e, indossando degli stivali di gomma molto fashion, camminiamo in questo luogo surreale, di cui è impossibile distinguire la fine. Alla guida della nostra jeep c'è Pablo, un ragazzo di Uyuni che da 5 anni porta i turisti a vedere questa meraviglia. Non si stufa mai di ciò che vede: ogni giorno, ogni notte, ogni stagione dona spettacoli diversi. Ci coinvolge in diverse foto e video di gruppo, mentre noi pensiamo che vorremmo solo poter godere di questo luogo, senza fare gli scemi. Dobbiamo però ricrederci. Pablo sa il suo: le foto sono divertenti e i video rendono bene quanto possa essere difficile distinguere la vere figure dal loro riflesso.
Al tramonto le due palle infuocate del sole e del proprio gemello corrono una verso l'altra, come a fondersi in un abbraccio, prima di sparire oltre l'orizzonte e lasciare spazio all'oscurità. Una notte limpida e piena di stelle che si riflettono nel Salar a creare un manto celeste su cui poter camminare.]
Il nostro piatto di Uyuni è: non classificato
La nostra canzone di Uyuni è: Bomba Estéreo - To My Love
0 notes
Text
1-3 mar. 2019
San Pedro de Atacama [Cile]
[Claire: Me lo aspettavo simile ai deserti visti in Giordania, Israele o Marocco: dune arancioni o color sabbia, a perdita d'occhio. Qualche sporadica casa con le pareti di stoffa e il pavimento fatto di tappeti, abitata da grandi bevitori di té. La realtà, tuttavia, è ben lontana dal mio immaginario. Me ne accorgo fin da subito quando, ancora mezza addormentata, distinguo i primi raggi del sole sul paesaggio desertico. Una distesa piatta, tagliata solamente dalla strada asfaltata su cui corre l'autobus notturno in cui ci troviamo. Arriviamo a San Pedro de Atacama ed ecco l'ennesima sorpresa: mi immaginavo di trovare una cittadina e, dietro di essa, una sorta di barriera da sorpassare unicamente sui sedili posteriori di un 4x4 che sballonzola sulle dune. Invece, non esiste nessuno stop: le auto possono scorrazzare sulle strade in perfette condizioni.]
[Marco: Già prima di partire per questo viaggio, il nome San Pedro de Atacama suscitava in me un brivido di emozione ed euforia. In effetti, di tutti i posti visitati finora, San Pedro è il primo ad esser stato marchiato con il fuoco nella mia bucket list. Ed ora, trovandomi a qualche centinaia di kilometri da un sogno, l'emozione è tantissima e, con essa, il timore di una delusione cocente. Più si sogna in grande, più si rischia di soffrire per le aspettative mancate; una vita senza sogni, d'altro canto, sarà sempre una vita piatta, senza sorprese, senza emozioni. Quella ad Atacama voglio davvero con tutto me stesso che sia un'esperienza indimenticabile, da scolpire nella memoria per gli anni a venire. Forse per questa ragione non riesco proprio ad arrendermi all'idea di finire a prenotare uno dei tantissimi monotoni e standard tour guidati, trovandomi a scattare le foto in fila con altre centinaia di persone come fuori dal cinema, ascoltando il ritornello imparato a memoria da guide annoiate e noiose. Voglio un'esperienza mia e mia soltanto, turbata il meno possibile da presenze estranee.]
La scelta più logica è quindi quella di affittare un'auto. Il prezzo è elevato, ma non ci facciamo scoraggiare né da questo né dai tanti venditori di tour che cercano di intimorirci prospettandoci strade completamente inagibili o parchi chiusi per i turisti privati. "Si entra solo con i tour, la polizia non vi farà proseguire" affermano categorici. Peccato che noi non siamo più turisti di primo pelo e certe storie non funzionano più. Passiamo la mattinata tra le agenzie, raccogliendo tutte le informazioni che ci servono, quindi ci mettiamo alla ricerca di un'altra coppia con cui condividere le spese per l'auto. Percorriamo in lungo e in largo le vie polverose di questo villaggio ai margini del deserto, importunando come due bagarini tutte le coppie che sembrano andarci a genio (ben poche, a guardar bene): molte hanno già prenotato uno dei tour, principalmente per pigrizia, altre si scansano infastidite come con un insistente venditore di rose. È più difficile di quanto pensassimo! Siamo perplessi, offriamo gli stessi tour delle agenzie a metà prezzo, con il vantaggio di essere in pochi, quattro al massimo. Che problemi ha la gente? Teme la fregatura? Dopo numerosi tentativi falliti li troviamo: Yan e Dora, due ragazzi della Repubblica Ceca, sono seduti nella piazza centrale e sembrano davvero due ciechi nel deserto. Con charme ed eleganza esponiamo loro il nostro programma dettagliatissimo, con tanto di prezzi, orari e distanze. Lei accetta subito con entusiasmo, mentre lui rimane in silenzio, senza espressioni. Ma a noi basta riuscire a pagare meno, per cui ci carichiamo il muto e la sua ragazza a bordo della nostra Suzuki 4x4 e partiamo in direzione Valle de Marte, storpiato negli anni in Valle de la Muerte.
Entrambi i nomi calzano a pennello per questo deserto di montagne rocciose arancioni con striature bianche e dune di sabbia sulle quali i turisti provano il sandboard. Sembra allo stesso tempo un paesaggio extraterrestre ed un luogo dove la vita non ha accesso, se non per una breve visita. Aspettiamo tutti insieme l'imbrunire, sperando che i raggi dorati colorino le montagne in modo spettacolare. Tuttavia il cielo è coperto ed il tramonto finisce per portare con sé solamente il famoso freddo della notte desertica: in pochi minuti la temperatura crolla, quasi ad avvertirci che è meglio tornare ai nostri alloggi, il tempo di visita concessoci è terminato.
La mattina seguente la sveglia suona alle 5:00. L'obiettivo è di cogliere l'alba sulle lagune altiplaniche, a 4200 m. La strada è lunga e sale dolcemente, concedendo il tempo necessario al corpo per abituarsi a queste altitudini. Appena fuori San Pedro, l'oscurità più totale inghiotte la nostra auto: pare che siamo i primi ad essersi messi in marcia, la strada non ha illuminazione, le luci della città sono lontane. Accostiamo, spegniamo i fari dell'auto e scendiamo: un silenzio magico ed irreale ci travolge, il freddo ci da i brividi, il cielo ci commuove. Peccato solo non poter fotografare questo spettacolo, le immagini resteranno comunque impresse nella nostra memoria.
Quando raggiungiamo le Lagune, il sole ha appena fatto capolino da dietro le montagne, svelando ai nostri occhi una strada meravigliosa che corre in mezzo ad una steppa verdeggiante costellata di specchi d'acqua ed incorniciata dai profili perfettamente conici di numerosi vulcani innevati. Vicuñas assonnati e placidi danno il benvenuto ai primi visitatori della giornata. Quando già ce ne stiamo andando, diretti di gran carriera verso la Laguna Chaxa e la Laguna Piedra, vediamo arrivare nell'altra direzione i primi furgoncini dei tour guidati.
La Laguna Chaxa è alle porte del Salar de Atacama, una distesa bianchissima di sale e acque rosa, popolata da buffi fenicotteri che sgambettano in cerca di gamberetti rosa di cui cibarsi. Il sole arde con foga, tenere gli occhi aperti è un'impresa, il caldo è spossante. Andiamo quindi a rinfrescarci e rilassarci facendo un bagno nella Laguna Piedra, le cui acque, dotate di alta concentrazione salina, permettono di rimanere a galla senza bisogno di muoversi, come in una sorta di Mar Morto. Appena fuori dall'acqua, sulla pelle si crea uno strato bianchissimo che trasforma le persone in statue di sale e rende i costumi rigidi come la cartapesta.
Il giorno seguente abbiamo in programma i Geyser di El Tatio e la Valle de La Luna. Pare che la strada per raggiungere i geyser sia davvero brutta, 100 km ripidissimi di ghiaia e rocce, ma ciò che ci preoccupa veramente sono i possibili effetti dell'altitudine, soprattutto per la rapidità con cui passeremo dai 2600 ai 4300 m. Seguiamo quindi i consigli di chi ci dice di andare a letto presto, bere molta acqua, evitare gli alcolici, mangiare leggero, rimandando al giorno dopo una bella birra ghiacciata ed una cena coi fiocchi. Sembra che l'attività dei geyser sia più intensa alle prime luci del mattino, così ci alziamo alle 3 per dirigerci verso El Tatio. Ancora una volta siamo i primi ad essersi messi in marcia, la luce dei fari illumina giusto la corsia di percorrenza dell'auto, i cechi dormono sui sedili posteriori, dalla radio proviene una musica sudamericana troppo scatenata per l'orario... Non abbiamo idea di cosa ci circondi, l'oscurità è assoluta. La strada effettivamente è ripida, tanto che l'auto fatica a procedere, la ghiaia fa slittare le ruote, il termometro scende improvvisamente a -4°C. Quando arriviamo alla zona dei geyser sono solo le 6, il parco ha appena aperto, fa un freddo cane e l'alba è ancora lontanissima. Così ci abbandoniamo ad un breve sonno nell'auto che sta diventando un igloo... Quando riapriamo gli occhi il parcheggio deserto si è trasformato in una bolgia di turisti, un via-vai di auto e camioncini, guide intente ad imbandire ricche tavole per le colazioni dei visitatori. Noi sgranocchiamo tristemente qualche cereale e scendiamo dall'auto, ormai convinti che la magia del luogo sia svanita da un pezzo.
Fuori fa un freddo tremendo, contro il quale le nostre giacchettine antivento possono ben poco. Cerchiamo di scaldarci con il vapore dei geyser, senza successo, mentre i due cechi si spogliano e raggiungono una moltitudine di turisti in una pozza termale. Sarà per il numero eccessivo di persone, per il freddo che ci ha colti impreparati, per le aspettative troppo alte su questo luogo o semplicemente perché i geyser non sono l'attrazione che più ci impressiona, fatto sta che in breve tempo ci stufiamo e ci rimettiamo in auto. Come il giorno precedente, la luce del mattino illumina la strada che abbiamo percorso all'andata nella più totale oscurità: la striscia di ghiaia taglia in due un deserto piatto e arido.
Una volpe si ferma davanti al nostro cammino: rallentiamo, spegniamo il motore ed abbassiamo dolcemente il finestrino. Ci guarda per 30 interminabili secondi, senza paura, senza aggressività, quasi volesse darci il benvenuto nella sua terra, prima che il rombo di un'altra auto la faccia scappare via. Corriamo veloci verso San Pedro, il paesaggio intorno a noi è proprio quello delle foto che appaiono su Google Images quando si digita "Cile": vulcani innevati, lande desolate e animali selvatici. Un sogno.
La strada del ritorno è nettamente più complicata, sulle lunghe discese sterrate l'auto prende velocità, le gomme slittano sul suolo di ghiaia e sassi...
[Marco: Una curva più stretta del previsto mi coglie impreparato, sono troppo veloce per affrontarla ma non posso nemmeno inchiodare, l'auto scivolerebbe. Gioco con i pedali e col volante, il veicolo sbanda, prima a destra poi a sinistra, controsterzo, assecondo i movimenti dell'auto imbizzarrita, tirando le redini quel tanto che serve a rallentare senza capottarci. L'adrenalina sale, ma sono tranquillo, so quello che faccio, ho il controllo della situazione. Un urlo stridulo improvviso mi distrae, poi un altro ed un altro ancora. Perdo pazienza e lucidità, sembra di avere uno stormo di anatre starnazzanti alle spalle. L'auto ruota su se stessa, cambiando direzione di marcia e fermandosi dolcemente contro il bordo della strada, come un cavallo esausto arresosi al suo domatore. La scena dura qualche secondo al massimo, ma sembra un'eternità. Tutto ok, non è successo niente, né a noi né all'auto. Mi giro verso Claire, ci guardiamo e so che entrambi stiamo pensando la stessa cosa: "Che figata! Rifacciamolo!". Peccato solo che Dora, dietro, esaurito il fiato a forza di schiamazzare, si sia abbandonata ad un pianto mesto e silenzioso mentre Yan, abbracciandola, mi dice con calma: "You're lucky, man". Vorrei girarmi, mandare a quel paese lei perché urlare in queste circostanze non fa che peggiorare la situazione e spiegare a lui che non si tratta di fortuna, semmai prima di avventatezza e poi di bravura. Non faccio né l'una né l'altra, in fondo mi sento un po' in colpa, ho comunque commesso un errore. D'altro canto sono esaltatissimo, mi sento come Sebastian Loeb in una delle sue epiche gare di rally.]
Proviamo a sdrammatizzare con un "ragazzi, offriamo un tour ricco di adrenalina, non siete contenti?". Pare proprio di no, a guardarli in faccia. Noi ce la ridiamo in silenzio, i deboli di cuore ci fanno tenerezza. Il piccolo incidente segna un'innalzamento improvviso della tensione tra noi ed i nostri bagagli: Dora, finora tutto sommato amabile e cordiale, si inacidisce come un cibo avariato lasciato fuori dal frigo, mentre Yan... Yan era già scorbutico di suo. OK l'inconveniente, scusateci, ci dispiace, ma son due giorni che vi portiamo a spasso, spiegandovi dove siete, cosa state guardando e lasciandovi la sera al vostro alloggio per poi smazzarci benzina e parcheggio (un delirio a San Pedro), oltre ad esserci occupati di tutte le carte per il noleggio auto. Quindi potete anche farci il favore di stare zitti e non rompere le palle. Il resto della strada la percorriamo così a 35km/h fissi, tra un commento acido di Dora ed una nostra risposta caustica fino alla Valle de la Luna, dove ognuno va per la sua strada in esplorazione di questo luogo da Mille ed una Notte.
[Claire: Abbiamo appena varcato l'ingresso della Valle de la Luna quando, dalle nostre spalle, proviene un: "The speed limit is 20 km/h". L'anatra Dora non ne vuole sapere di chiudere il becco. Marco inchioda e, con calma apparente, afferma che, a questa velocità, i nostri "amici" perderanno l'autobus. Io me la rido sotto i baffi mentre all'interno dell'abitacolo scende un gelo sottile e tagliente, così in contrasto con i 35°C esterni. Avremmo solo voglia di lanciarli giù dal finestrino e lasciarli carbonizzare sotto il sole cocente del deserto, ma siamo persone educate e manteniamo il controllo. Dora, tuttavia, sembra voler rompere le scatole a tutti i costi, come se l'episodio dell'auto la autorizzasse ad essere scorbutica. Così, quando due autostoppisti rifiutano un nostro passaggio di qualche centinaio di metri, non ci pensa un attimo prima di sputarmi un "Tanto non saresti stata tu a doverti stringere", con una risatina finale, come a metterla sul ridere. Io non mi bevo la sua falsa gentilezza e, con lo stesso tono da stronza, le rispondo che "Avremmo potuto fare a cambio di posto, non mi interessa. Non richiede chissà quale sforzo fare un po' di spazio a due ragazzi in attesa di un passaggio".]
Rientriamo a San Pedro letteralmente cotti, dal sole e dalla lunga giornata. Yan e Dora provano a farsi lasciare al loro alloggio, ma stavolta non funziona: li teniamo in ostaggio, c'è la benzina da pagare e vogliamo che presenzino alla restituzione dell'auto, nel caso in cui succedesse qualcosa. Sbrigate le pratiche, ci salutiamo con sorrisi tesi ed un po' falsi, tutti e quattro, ne siamo certi, con la soddisfazione di essersi tolti un peso.
Il nostro tempo a San Pedro de Atacama si è esaurito, è stato breve ma molto intenso. L'esperienza è stata esattamente come la volevamo: nostra, emozionante, indimenticabile! Termina anche così, nel migliore dei modi, la nostra permanenza in Cile, una terra che ci ha un po' delusi dal punto di vista umano, che ci ha svuotato il portafogli considerevolmente, ma che ci ha ripagato con ricordi ed esperienze impagabili, soprattutto nelle ultime settimane.
Il nostro piatto di San Pedro de Atacama è: il merluzzo con humita piccante
La nostra canzone di San Pedro de Atacama è: Disturbed - The Sound Of Silence
0 notes
Text
25-28 feb. 2019
Valparaiso - Valle del Elqui [Cile]
"Valparaiso, che sciocchezza tu sei, come pazzo, porto pazzo, come una testa con colline, non finisci per pettinare i capelli arruffati, mai hai avuto tempo per vestirti, sempre ti ha sorpreso la vita [...] Valparaiso, così piccola, come una maglietta da bambina appesa alle tue cenciose finestre, cullata nel vento dell'oceano, impregnandosi di tutti i dolori della tua terra, ricevendo gli schizzi del mare, il bacio del grande oceano incollerito che colpendo la tua pietra con tutta la sua forza non poté abbatterti, perché sul tuo petto australe erano tatuate la lotta, la speranza, la solidarietà e l'allegria come áncore che si oppongono alle onde della terra".
Parla così Pablo Neruda di questa sua amata città, che a quanto pare è anche la preferita di tutti gli europei in viaggio in Cile: arrivano, vedono due murales e se ne innamorano. Noi abbiamo aspettative molto alte e, come spesso accade in queste occasioni, difficilmente soddisfacibili. Arriviamo per pranzo e ci lanciamo subito tra le viette, finendo in un ristorante con vista sul porto, dove mangiamo merluzzo e polpo. Come non approfittare per fare il pieno di pesce, dopo mesi di sola carne?
A pancia piena e soddisfatti, girovaghiamo tra le stradine di Valparaíso, come ci hanno consigliato tutti: nessuna meta, solo perdersi tra i numerosissimi graffiti, in un sali-scendi che spezza il fiato.
Ciò che però non riusciamo a fare a meno di notare, oltre alla street art, è quanto sia sporca questa città. L'odore di urina, in alcune zone lungo il mare, è penetrante e disgustoso, mentre molti appezzamenti di terra, lontani dalle zone più turistiche, sono pieni di spazzatura. La sera, i vicoli del quartiere del porto si riempiono di fantasmi che strisciano lungo i muri solo parzialmente illuminati dalla fioca luce gialla dei lampioni. Dai bar sotterranei proviene il suono di una musica lontana. Questo, e la brezza gelida che viene dall'oceano, mette i brividi. Difficile innamorarsi della città, una volta visto questo lato! Valparaíso sembra un pappagallo ormai anziano, i cui colori un tempo brillanti sono ora sbiaditi e sfocati. La sua voce è rauca, il volo incerto, la camminata zoppa come quella di un vecchio marinaio.
La parte migliore dell'essere ospitati sono i consigli che i locali riescono a dispensare. Così, quando le due ragazze di Santiago ci dicono che la Valle del Elqui è conosciuta per l'osservazione delle stelle, non possiamo ignorare il suggerimento. Facciamo base a Vicuña e ci affidiamo all'agenzia Pangue, che promette gruppi piccoli e riservati. Siamo in 10, circondati da francesi, quando la notte comincia a scendere. Questa zona del Cile è uno dei cinque migliori luoghi al mondo per ammirare le stelle, assieme a Namibia, Hawaii, Antartide e Australia.
Immaginate un cielo notturno talmente limpido da non risultare nero perché rischiarato dall'inquinamento luminoso delle galassie più lontane; immaginate la via lattea in tutto il suo candido splendore tagliare in due la volta celeste; immaginate di poter vedere ad occhio nudo due galassie distanti 150 e 200 mila anni luce dalla Terra come fossero due anonime nuvolette nel cielo: le nubi di Magellano. Immaginate una pioggia di stelle cadenti ed un viavai continuo di satelliti nel cielo; e poi stelle, miliardi e miliardi di stelle come punti luminosi dipinti su questa carta celeste naturale: Sirius, la più luminosa, alpha Centauri, la più vicina, Arcturus, la più veloce... Ammassi di stelle, nebulose, galassie, astri spenti... Immaginate di poter assistere ad un mondo che non esiste più, appartenente al passato, perché l'immagine che abbiamo delle stelle non è altro che la luce emessa dalle stesse tanto tempo fa, e che ha impiegato centinaia, migliaia, milioni di anni per giungere fino a noi: riusciamo a vedere fino a 13 miliardi di anni fa grazie alla luce delle prime galassie, le più lontane. Quella è l'età dell'universo!
Immaginate adesso di poter osservare tutto questo attraverso un telescopio professionale, in una tiepida notte d'estate nel mezzo del nulla della Valle del Elqui cilena, mentre la calda voce di un astronomo francese guida il vostro occhio attraverso le lenti della macchina. Sentite l'immensità, la grandiosità e la forza dell'Universo; sentite la piccolezza, l'insignificanza, la fragilità dell'uomo, ma anche il suo genio, il suo istinto guidato dalla curiosità. Sentite la Bellezza.
Il nostro piatto di Valparaiso e della Valle del Elqui è: il polpo piccante con patata dolce e pesto
La nostra canzone di Valparaiso è: Fabrizio de André - Il pescatore
La nostra canzone della Valle del Elqui è: Kronos Quartet - The Beatitudes
0 notes
Text
Il Backpacker
Dopo mesi trascorsi sulle strade del Sudamerica è venuto il momento di dedicare uno scritto ad uno degli animali più interessanti e curiosi incontrati lungo la via: il backpacker.
L'esemplare medio è un maschio bianco (ma le donne non si sentano escluse), di età compresa tra i 25 ed i 35 anni, i capelli ispidi e spettinati, la barba lunga e non curata, gli occhi vitrei ed i denti (quelli rimasti) di tonalità dall'ocra al marrone. Tatuaggi tribali, piercing, anelli, ciondoli e decine di braccialetti colorati a polsi e caviglie sono l'adorno ideale per corpi sgraziati e vagamente emaciati, induriti dalla fame e dalle intemperie. L'abbigliamento del backpacker (o turista da campeggio/ostello) è di facile riconoscimento: un tempo forse tecnico, è ormai usurato dal tempo. I vestiti sono rotti o, nel migliore dei casi, solamente macchiati. Quando raggiungono uno stato di totale inutilizzabilità, il backpacker, in preda alla foga da acquisti di souvenirs, decide di sostituirli con folkloristici indumenti locali, coloratissimi maglioni di alpaca, ponchi di lana lunghi fino ai piedi, magliette con loghi improbabili, carnevalesche bandane...il tutto in un mix scoordinato e sgraziato, spiacevole come un pugno in un occhio.
Poi c'è lo zaino, elemento imprescindibile per il turista da ostello: superiore in massa e volume al peso corporeo del suo possessore, è immancabilmente adornato con le bandierine dei paesi attraversati. Tenda, sacco a pelo e materassino, luridi, penzolano dallo zaino come cadaveri di poveri suicida, in balia di intemperie e sporcizia. A questo stravagante gusto si aggiunge la spiccata tendenza del backpacker al consumo di bevande alcoliche scadenti e droghe leggere (o pesanti, ma economiche), che lo rendono un animale da compagnia chiassoso e molesto, invadente e appiccicoso.
Si limitassero ad essere brutti e a stare fermi, questi esemplari sarebbero anche tollerabili, se non altro perchè osservarli nel loro habitat naturale è una discreta forma di intrattenimento. Tuttavia, la natura li ha dotati anche di una voce e di imprevedibili capacità motorie, di cui loro fanno uso e abuso senza il minimo raziocinio. Così, non è raro sentirli urlare nel mezzo della notte, mugugnare a voce alta alle 5 del mattino, fischiettare spensieratamente in tutte le aree comuni degli ostelli, russare indecentemente, scaracchiare per terra senza vergogna.
Il turista da campeggio è anche quello che applaude festoso al Perito Moreno, che ride sguaiatamente a bocca aperta mentre mangia, che urla "Banzaiii!" alla fine della salita per giungere al Fitz Roy, che ascolta musica alta sul bus e parla instancabilmente nei musei...
Indipendentemente dal paese di provenienza, il vocabolario del backpacker è infarcito di termini internazionali che lo fanno sentire cittadino del mondo, come "Wow, fucking amazing!", oppure "What the fuck!", o ancora "Incredible, craaaazy!", immancabilmente urlati ai quattro venti nelle situazioni meno opportune. Come inopportuno è il bisogno spasmodico di questi esemplari di raccontare a chiunque incontrino, anche senza esser stati interpellati, tutto il loro magnifico viaggio, senza omettere alcun tipo di dettaglio né gli aneddoti più insignificanti. A tutto questo si aggiungono le loro preistoriche abitudini comportamentali ed alimentari.
Forse per marcare il territorio, il backpacker tendenzialmente emana effluvi tossici, la sua presenza passa difficilmente inosservata. La doccia, quando capita, la fa rigorosamente senza ciabatte, a prescindere dal rischio di infezione batterica cui va incontro. Non tira mai l'acqua del water, forse per ragioni ecologiste, ed ama affrescare il wc con schizzi botticelliani di sterco ed urina, per mostrare al mondo il suo amore per l'arte rinascimentale.
Altrettanto pittoresca è la sua alimentazione, alla cui base ci sono tre ingredienti: cipolla, avocado e mayonese. Tutto il resto è contorno. Come alchimisti saggi e potenti, i backpackers invadono le cucine degli ostelli tagliando, sporcando, mescolando, friggendo, bruciando e affumicando, con un impegno commovente. Se si impegnassero a far silenzio tanto quanto si prodigano a produrre mostri culinari, il mondo sarebbe un posto migliore.
Maldestri e scomposti, si lanciano in preparazioni ardite ed audaci, usano spezie ed aromi esotici, decorano i loro piatti con würstel crudi e uova sode mentre addentano con soddisfazione cipolle intere crude... Pasta stracotta con aglio, carote grattugiate, pomodoro e cetrioli è probabilmente il piatto preferito di questo curioso animale sociale che in cucina, alla fine, produce sempre una merda. D'autore forse, ma pur sempre una merda. E, non contento, il backpacker lascia gli avanzi della sua opera d'arte buttati in giro, sul tavolo, nel lavello, alla mercè di insetti o, chissà, altri suoi simili affamati.
Non vi sembra un animale meraviglioso?
Il piatto preferito del backpacker è: pasta stracotta con carota grattuggiata, cipolla cruda, aglio e mayonese
La canzone preferita del backpacker è: un mix di rutti, fischettii, scoregge e "What the fuck?!"
0 notes
Text
20-24 feb. 2019
Santiago del Cile [Cile]
Arriviamo presto a Santiago, troppo presto. L'autobus notturno ci lascia in stazione prima ancora delle 6:00, in anticipo di un'ora rispetto all'orario previsto, proprio la volta in cui avremmo accettato volentieri di essere in ritardo. Sono le 9:00 di mattina quando ci facciamo coraggio a suonare il campanello, dopo aver tergiversato per tre ore in mezzo alla strada. Siamo sporchi, stanchi ed affamati, vogliamo un alloggio in cui sistemarci. Ci apre la porta Amancai, una delle due ragazze che si sono offerte di ospitarci tramite amici di amici. Non sorride, nemmeno per sbaglio. Ha gli occhi semichiusi, è ancora in pigiama e dietro di lei la casa è sottosopra. L'abbiamo svegliata, e lei non fa nulla per nascondere l'irritazione. Con pochissima convinzione ci invita ad accomodarci, ci mostra la stanza, ci presenta Bellota e Charlie (cane e gatto) e poi scompare nella sua stanza senza dire una parola. Ci guardiamo perplessi e un po' incazzati: sapeva del nostro arrivo, ci aveva garantito di poter arrivare a qualsiasi ora e soprattutto "chicazzotihaobbligatoadinvitarcisenoncivolevi??". Scopriremo solo più tardi che ci aspettava alle 21:00 di sera...
Risorge verso le 13:00 e, sempre con fare distante e scocciato, ci dice che rimarrà a casa tutto il giorno, quindi ne approfittiamo per andare a fare un giro nel centro della città. Prima tappa, come al solito, il mercado central, dove i poveri pesci prendono il caldo tutto il giorno. Ci facciamo coraggio e compriamo un polpo, da cucinare con le patate, in uno di quei piatti tipici italiani che ci fanno sentire meno la lontananza da casa. Eppure i nostri piani culinari dovranno attendere: quando torniamo a casa, il campanello suona a vuoto, e siamo quindi costretti ad aspettare un'ora nell'atrio, stanchi e affamati, con due birre gelate in mano destinate a scaldarsi. Solo l'ultimo giorno Amancai ci confiderà di essere andata a cercare la droga da un'amica... La serata passa in un clima di imbarazzo generale, fino al giorno seguente, quando incontriamo Romina, la ragazza di Amancai, grazie alla quale la tensione finalmente si scioglie.
Dal silenzio nervoso dei primi due giorni passiamo a lunghe e piacevoli chiacchierate intorno alla tavola, alternando un pasto all'italiana ad un once cileno, una sorta di tea time che sostituisce la cena qui in Cile, dove la gente è abituata a mangiare molto a pranzo per poi rimanere leggera la sera. Ingredienti fondamentali sono la marraqueta (pane simile alla nostra ciabatta), l'avocado, il loro formaggio insapore e biscotti di ogni genere, il tutto accompagnato da thè e caffè. Ci raccontiamo le rispettive storie e tradizioni, scherziamo sui luoghi comuni che ci rendono famosi.
La nostra esperienza a Santiago si rivela quindi un climax, non solo per quanto riguarda l'accoglienza delle ragazze, ma anche per l'impressione sulla città. Ad una prima osservazione, Santiago ci era parsa la tipica metropoli sudamericana, con i suoi evidenti contrasti e la sua disuguaglianza, i casermoni della periferia e le villette dei quartieri più ricchi, il mix caotico di bianchi, neri, mulatti, gialli... Avere pazienza, questa volta, si rivela la scelta migliore e ci conferma ancora una volta che vivere un luogo assieme alla gente del posto è sempre un'esperienza più intensa e veritiera.
Con Romina ed Amancai andiamo alla scoperta della Santiago meno turistica, tra il nuovo tempio Baha'ì (religione mai sentita nominare prima), il parco bicentenario con i suoi fenicotteri e l'elegante quartiere Costanera, dove vivono i "ricchi ma non ricchissimi" della capitale.
Ed è un vero bene, perché questo tour guidato ci consente di apprezzare molto di più questa povera metropoli che tutti definiscono orrenda e che invece a noi sembra, se non altro, avere un che. Forse i turisti hanno questa impressione negativa perchè si limitano a visitare i luoghi più famosi, come il quartiere hipster di Bellavista, sormontato dal Cerro Santa Lucia, il Cerro San Cristobàl, da cui è impossibile distinguere i confini della città, ed il Museo de la Memoria y los Derechos Humanos...
In questa città ricchissima di ristoranti continua il nostro tour gourmet. Scegliamo il Restaurante 99 che rivisita ad opera d'arte piatti di tradizione cilena. Ingredienti poveri come patate e mais vengono affiancati a cibi più nobili come la trota, le cozze, l'abalone o il cochayuyo (alga locale) in un'esplosione di sapori che ci intriga fin dal principio della cena. Menzione particolare va al polpo, cucinato in maniera talmente sapiente da sciogliersi in bocca (ovviamente abbiamo annotato la ricetta segreta!).
Sul finire di quest'ottima cena, ci viene servita una barbabietola di zucchero soffiato ripiena di spuma di yogurt e purea di barbabietola, adagiata su un crumble al cacao, in un divertente gioco di forme e consistenze. Da non dimenticare inoltre gli alfajores al pistacchio e fragola e quelli al cioccolato bianco e maracuja, di cui ci innamoriamo! Non esitiamo un attimo nel collocare il Restaurante 99 al primo posto dei ristoranti gourmet provati finora.
Solo al momento del conto il nostro entusiasmo si affievolisce, quando la cameriera cerca di addebitarci 15€ di mancia. Al nostro rifiuto, la ragazza perde improvvisamente il sorriso, commentando con un "Che tristezza" che ci innervosisce: pare che in Cile il 10% di propina sia quasi obbligatorio e che i camerieri vivano essenzialmente di questa mancia. A noi però, poveri squattrinati, 150€ di cena sembrano già sufficienti.
Tirando le somme, Santiago non ci è parsa una città orrenda e grigia, come ci hanno descritto tutti. Non spicca di certo tra le più belle del mondo, ma possiede anche lei scorci che meritano la pena di essere visitati. Questa settimana ci ha anche mostrato un lato nuovo del popolo cileno: gente all'apparenza un po' fredda e distante, che forse necessita solo di un po' di tempo e di fiducia per aprirsi e mostrare il grande cuore che ha. Quando lasciamo l'appartamento di Amancai e Romina la grigia scena di cinque giorni prima sembra solo un miraggio frutto della nostra fantasia. "Ci mancherete", ci scrivono su Facebook qualche ora dopo; noi sorridiamo, felici di esserci sbagliati a giudicare troppo in fretta.
Il nostro piatto piatto di Santiago è: il polpo del Restaurant 99
La canzone di Santiago è: The War on Drugs - "Red Eyes"
0 notes
Text
13-19 feb. 2019
Chiloé - Pucón [Cile]
Attraversare una frontiera è sempre un'emozione. È come entrare in un mondo nuovo, iniziare un altro viaggio. E questo fa battere il cuore, dopo mesi di viaggio fa ancora emozionare. La verità è che ogni nuova destinazione, ogni nuovo paese, ogni nuovo timbro sul passaporto rappresentano speranza, eccitazione, euforia e timore per ciò cui si va incontro, per il mistero della novità. Abbandoniamo l'Argentina, un paese semplice e per tanti versi simile all'Italia, che ci ha accolti con calore e allegria. Siamo pronti per conquistare una nuova terra! Ciò a cui non siamo preparati però sono la severità e la rigidità che vigono in Cile. L'Argentina è un paese alla mano, dove quasi tutto è concesso, le regole si raggirano facilmente e i visi sono sorridenti. Con i cileni, invece, non si scherza. Ti spingono e sballottolano senza chiedere scusa, rispondono in maniera secca alle domande e cavoli, se parlano strano! Biascicano le parole, le tagliano, se le mangiano, in una sorta di spagnolo che a noi risulta difficile da intendere. Continuiamo a chiedere alle persone di ripetere ciò che hanno detto, loro ci dimostrano disprezzo e ricominciano daccapo, utilizzando le stesse parole incomprensibili, come a sfidarci. La prima impressione sulla popolazione non è delle migliori.
L'isola di Chiloé si aggiudica il titolo di prima tappa cilena e, per certi versi, di prima delusione. Facciamo base a Castro per esplorarla, incappando fin da subito nella difficoltà di trovare alloggio. Gli ostelli sono tutti pieni ed esageratamente cari, il che ci obbliga a dormire in un hospedaje brutto e sudicio, abitato da personaggi ancora più loschi che ascoltano della pessima musica, ad alto volume, fino a notte inoltrata. Così, chiudiamo con un lucchetto la porta dello stanzino di quello che per ora vince il premio per il peggior alloggio del viaggio ed usciamo ad affogare l'amarezza in un paninazzo di fianco alla stazione. Scegli la grandezza del panino, la carne, 3 ingredienti, quindi una delle salse fatte in casa. Una sorta di fast food in versione un pelo più "sana". Il sandwich allevia in parte il dispiacere, però ci pone di fronte ad un'altra spiacevole novità cilena: il costo della vita. I 15€ per i due panini (buoni, per l'amor del cielo, ma mangiati in strada con vista traffico) ci fanno sentire più a Milano che in Sudamerica. È tardi, siamo stanchi e contrariati per la situazione. Ci guardiamo, sapendo che trarre conclusioni affrettate non è mai un bene, ma entrambi abbiamo l'impressione che la buena onda argentina si sia fermata alla frontiera, assieme alla frutta e alla verdura: che sia vietata in Cile? La notte passa (quasi) indenne tra il fracasso dei vicini e la tv della stanza affianco e ci ridà energia per affrontare il mondo con più positività.
Andiamo alla scoperta della principale ed unica attrazione di Castro, le casette colorate su palafitte, ormai tutte trasformate in lussuosi ostelli o ristorantini vista mare. La veduta sulla piccola baia in secca è piacevole e suggestiva, ma qualcosa di artefatto e fittizio traspare da questo luogo. Sembra poco autentico, della vera vita dei pescatori che abitavano questo paese non resta che la facciata da cartolina. Ancora una volta, cerchiamo consolazione nel cibo. Ci hanno tanto parlato del pesce cileno e noi, dopo mesi di carne, empanadas di carne, milanesi di carne, non vediamo l'ora di buttarci su qualche delizia di mare. Il caso tuttavia vuole che la specialità dell'isola sia il curanto: un mischione di molluschi, carne di pollo e maiale, pesce, salsiccia e patate al vapore che fa passare la fame solo a guardarlo, è un piatto miracoloso. L'eccitazione svanisce ancor più in fretta al mercato del pesce nel vedere come vengono "conservati" gli animali e come viene preparato il ceviche: in grandi bacinelle, le donne mischiano con le mani il pesce crudo tagliato a tocchetti, con pomodori, cipolla e coriandolo. A questo, aggiungono molluschi vari, bagnando con il limone. Il tutto però naviga in una sospetta acquetta bianca che disincentiverebbe anche gli stomaci più audaci. La gente del posto si ingozza alle bancarelle del pesce, noi scattiamo qualche foto, rifiutando garbatamente le offerte delle venditrici. Finiamo a mangiare in una delle cocinerias del porto, scegliendo quello che ci sembra essere il male minore: salmone alla plancha servito stracotto, accompagnato da patatine molli affogate nell'olio. Se non altro, siamo lieti che la cottura abbia sterilizzato ogni cosa.
La sera andiamo alla feria del paese dedicata al cibo locale, dedicando ore ad una delle nostre attività preferite: il foodwatching. Le bancarelle offrono di tutto: dolce, salato, fritto, al forno. Ci sono pesci, alghe e molluschi affumicati, conserve di frutta, miele e torte dall'aspetto scoraggiante. Magnifiche vecchine impastano, stendono, farciscono, chiudono, friggono. Le osserviamo incantati prima di scegliere empanadas fritte, milcao (una frittella di patate), chochoca (un impasto a base di patate e fecola cotto su un lungo palo che gira, in stile maialino arrosto, riempito di carne di maiale, quindi arrotolato e tagliato a fette) e la versione cilena mal riuscita delle nostre chiacchiere. Tutti cibi leggeri che si trovano solo nelle feste di paese.
Abbiamo sempre paura di giudicare troppo presto e scappare via prima di aver realmente approfittato dei luoghi, per cui cerchiamo di trovare perle nascoste. Forti di questa convinzione, ci lanciamo verso l'Isla Mechuque, sempre in modalità fai-da-te, perché i tour ci mettono i brividi. Si rivela essere una piccola impresa: volti scuri e risposte criptiche o monosillabiche ci attendono alla stazione dei bus, dove pare che nessuno abbia idea né dell'esistenza né di come si raggiunga questa benedetta isola. "Isla Mechuque? No tiengo idea" ci dicono, come se avessimo chiesto la strada per andare a Tokyo a piedi. Riusciamo finalmente a trovare un colectivo che ci lascia a Tenaún dove, in teoria, dovrebbe passare una lancha comunale. "Di solito arriva tra le 11 e le 14" ci dice l'autista, scaricandoci al porto deserto alle 9:30. "Oggi non passa di qua, fa un altro giro", ci dice un tizio. "Chiedete ai pescatori, magari qualcuno vi porta" ci dice un altro, mentre dentro di noi comincia a montare la collera, ci sembra di essere presi in giro. Le barche private ci offrono passaggi a caro prezzo, ma, non trovando alternative, ci vediamo costretti ad accettare.
L'Isla Mechuque risolleva solo in parte le nostre aspettative su Chiloé: sbarchiamo su questa isola fantasma quasi completamente deserta, dove si respira un'aria da fine del mondo tra palafitte fatiscenti ed un silenzio innaturale. Sembra davvero che qua il tempo si sia fermato, che la lancetta dell'orologio abbia smesso di contare i giorni. Il tempo sembra qui un dettaglio insignificante, la data solo un modo di dare un nome alle giornate. Torniamo da questo viaggio nel tempo un po' rinfrancati, ma senza desiderio di dedicare a Chiloé altre giornate: per noi, il tempo scorre rapido, sono ormai tre mesi che siamo in viaggio e ci sono ancora tante cose da vedere.
Pucón, con il senno di poi, non merita di far parte delle tappe di questo viaggio, ma solo ora lo sappiamo. Non tanto per la cittadina, in sé carina, con i suoi bar, ristoranti ed il vulcano Villarica a farle da cornice con il suo profilo conico e la sua vetta innevata; piuttosto, ancora una volta, per lo sfortunato periodo in cui vi arriviamo ed il costo elevatissimo di ogni struttura. Andare a scalare il vulcano è proibitivamente costoso, noleggiare delle bici anche, dormire ci costa già 2/3 del nostro budget giornaliero, per lavare i vestiti c'è una fila d'attesa di quattro giorni (almeno questa riusciamo a scavalcarla, impietosendo la signora della lavanderia)... Pucón non fa per noi, almeno non in questo periodo dell'anno. Sarà per un'altra volta, oppure no...
Scappiamo anche da questo posto con un po' di amaro in bocca perchè le regioni cilene di Los rios e dell'Araucania sono terre di vulcani e laghi cristallini. I primi, in particolare, mancano ancora all'appello del nostro viaggio e vederli lì, all'orizzonte, senza poter godere da vicino della loro bellezza, ci intristisce un po'.
Così, pur avendo già comprato i biglietti del bus per andare sparati a Santiago, ci decidiamo a fare una deviazione di un giorno e mezzo per andare a vedere il vulcano Llaima nel Parque Nacional Conguillio. Raggiungere il parco è un parto trigemellare: partiamo da Pucón al mattino per arrivare a Temuco ad ora di pranzo (106km in 3h e mezzo), per poi scoprire che l'unico bus per il parco parte al mattino presto. Prendiamo quindi un altro mezzo per un villaggio sperduto, Melipeuco, dove arriviamo nel tardo pomeriggio. Da lì, riusciamo ad ottenere un passaggio da due persone che lavorano in un hotel del parco. L'orario d'ingresso è passato da un bel pezzo ed entriamo senza pagare il biglietto. Ci lasciano ad un campeggio che offre la postazione per la tenda a 20€ (siamo matti?!) ma alla reception non c'è nessuno. Suoniamo più volte il campanello, senza risposta, quindi decidiamo di mischiarci con le altre tende e finiamo per non pagare. Sì, ancora.
Il parque è una distesa di dune nere e rocce vulcaniche, alberi ed arbusti verdi, una nebbia fina che scende dalle montagne. Contempliamo questo scenario da altro mondo nel silenzio più assoluto, che è forse la cosa più difficile da far capire a parole: in questi luoghi estremi, specialmente la sera, quando cala il sole, scende un silenzio irreale, magnifico, quasi assordante, cui noi non siamo affatto abituati. Ci si sente in pace, perfettamente connessi con il mondo della natura, viene voglia di spalancare le braccia, guardare dritto al cielo e fondersi con l'universo. Il giorno seguente piove, il vulcano è nascosto dalla nebbia e decidiamo di non metterci nemmeno in marcia.
Scappiamo dal campeggio ed andiamo a cercare riparo vicino alla splendida Laguna Verde, dove ci nascondiamo in un minuscolo bosco, fissando il telo esterno della tenda ai tronchi degli alberi e creando così un piccolo rifugio dall'acqua. Ce ne andiamo dal parco in autostop, contenti per questa deviazione che forse avrebbe meritato più tempo.
Il nostro piatto di Chiloé e Pucón è: la chochoca
La nostra canzone di Chiloé e Pucón è: Fabrizio de André - Il pescatore
0 notes
Text
30 gen. - 8 feb. 2019
Esquel - El Bolsòn [Argentina]
A leggere la Lonely, sembra che in qualsiasi benedetto paesino della patagonia argentina si possano fare le stesse emozionantissime cose: rafting, kayaking, horse riding, trekking, cycling... pare che annesso ad ogni villaggio ci sia sempre un lago, un fiume, un parco nazionale imperdibile... e francamente, ormai, di queste cose ne abbiamo fatte e viste in abbondanza. Per questo, scegliendo come prossima destinazione Esquel, pronunciato dai locali con un buffo "ECCHEL" che ci fa sorridere ogni volta che lo sentiamo, non ci aspettiamo niente di particolarmente eccitante. Anzi, alle volte ci chiediamo perché abbiamo deciso di fermarci. Il fatto è che il nostro animo oscilla tra la volontà di saltare a piè pari molti paesini ed andare dritti al sodo verso quei luoghi che sappiamo essere davvero imperdibili, ed il senso di colpa misto alla speranza che proprio quei paesini tanto anonimi possano riservare delle sorprese inaspettate. Finora, quest'ultimo sentimento ha guidato le nostre scelte. Nel caso di Esquel, le nostre iniziali aspettative vengono tristemente confermate: ci accoglie l'ennesimo anonimo paesino di montagna che andrà perso col tempo nella memoria. Già ora che scriviamo, a quasi un mese di distanza, fatichiamo a dare forma ai ricordi di questo villaggio.
Tornano sicuramente alla mente il caldo improvviso dopo oltre un mese di freddo e soprattutto la paura per il hantavirus. È da mesi che sentiamo parlare di questa malattia trasmessa dai ratti: c'è chi ci ha raccontato di come abbia ucciso un'intera famiglia durante un matrimonio, chi dice che esista da sempre ma non sia un pericolo, chi afferma che sia incurabile e letale. Non sappiamo a chi credere e, più ci avviciniamo alla zona a rischio, più abbiamo paura. Eppure, qui, nessuno sembra preoccuparsene più di tanto. Ne parliamo con chiunque ci capiti a tiro, e il quadro si fa via via più chiaro: il hantavirus è perennemente presente in queste zone e diventa un pericolo d'estate, quando le persone campeggiano nei parchi, rischiando di venire a contatto con feci o urina di roditori. Quest'anno ha fatto tanto scalpore perché, durante una festa di 15° compleanno (qui festeggiato in grande, peggio del nostro 18°), il virus si è propagato tra gli invitati, uccidendone una decina. I sintomi sono comuni (mal di testa, vomito, nausea) e, se non curati per tempo, rendono la malattia mortale. Siamo sollevati di aver finalmente fatto luce su questo mistero (e di sapere che è curabile), tuttavia restiamo cauti e un poco timorosi, mentre ci dirigiamo verso il Parque Nacional Los Alerces.
Dopo un paio di notti in un vero letto, è difficile essere entusiasti di dormire in tenda sullo scomodo materassino gonfiabile, mangiando cibo riscaldato. Un poco controvoglia e inspiegabilmente stanchi, ci trasciniamo per i sentieri di questo parco dai laghi verde acqua, consapevoli di avere una camminata di 8 km per raggiungere il campeggio gratuito.
L'autostop non va in porto e finiamo per mangiare polvere per 2 ore, prima di raggiungere la spiaggetta su cui piantare la tenda e sorseggiare birra calda, mentre osserviamo i coraggiosi argentini che si bagnano nell'acqua gelida del lago. Attorno a noi comincia a scendere il buio, mentre la gente fa scorta di legna per accendere il fuoco. La notte è inquieta e rumorosa a causa di un gruppo di campeggiatori che canta e suona la chitarra fino alle prime ore del mattino. Quando arriva il nuovo giorno, vogliamo solo tornarcene in paese.
A parte questo, Esquel segna la nostra definitiva conversione al cibo da ostello. Dopo oltre due mesi di vani tentativi in ristoranti discutibili, cibo pessimo e pesante, gettiamo la spugna e torniamo al buon vecchio e affidabile fai da te. Assaggiare il cibo locale rimane il nostro passatempo preferito, eppure abbiamo sempre l'impressione che, a parte un paio di piatti forti, non ci sia mai nulla di indimenticabile.
[Marco. A migliaia di km di distanza riecheggiano nell'aria le parole di papà: "Mangia a casa che è meglio", oppure "Bisogna stare a casa!". Sorrido, pensando a quanta saggezza ci fosse dietro a quegli imperativi categorici. Fatto sta che ora sono dall'altra parte del mondo e sono stufo di mangiare merda!]. Così ci organizziamo, andiamo a fare la spesa e ci mettiamo al lavoro, che alla fine è anche la cosa che più ci piace fare e che ci dona più soddisfazione. Ci costa un po' di fatica adattarci agli spazi comuni degli ostelli, agli utensili inadeguati, agli ingredienti diversi, ma tecnica e amore sopperiscono alla grande a queste mancanze. Il risultato è che con meno soldi mangiamo meglio e più sano. Che vuoi di più?
Qualcosa ci fa credere che riusciremo facilmente a trovare un passaggio da Esquel ad El Bolsón. Non ci sbagliamo, in un certo senso: stiamo facendo autostop da poco, quando una macchina ci carica su. Un attore barbuto, che a dicembre si trasforma in Babbo Natale, ci offre di portarci a qualche km da El Bolsón, che potremo poi raggiungere in colectivo. La verità è che ci lascia nel mezzo del nulla, sotto il sole cocente dell'ora di pranzo, a 25 km di distanza dal paese, in un punto in cui gli autobus passano solo verso sera e le auto sfrecciano veloci. Ci occorrono altri tre passaggi per raggiungere la nostra destinazione, bruciati dal sole e sfiniti.
El Bolsòn è un paesino tutto sommato piacevole, rilassato e colorato. Alla feria artesanal passeggiamo tra le bancarelle piene di ammenicoli e mate riccamente decorati. Tutto è rigorosamente fatto a mano dagli innumerevoli hippies che popolano il paese. Sono tanti, troppi. Bivaccano per strada o nei parchi come i cani randagi. Saranno anche folkloristici, ma non sono un piacere per la vista. Sembrano fatti con lo stampino: hanno i rasta o i capelli colorati, mezzo cranio rasato; piercing e tatuaggi ovunque; vestiti lerci e rotti; sono scalzi ed hanno i piedi neri; armeggiano con i birilli ai semafori oppure vendono braccialetti...
Cerchiamo pace e tranquillità lontano da tutta questa stravaganza facendoci il nostro solito weekeend fuori porta, piantando la tenda al lato di una magnifica baita in stile altoatesino, il Refugio Hielo Azul: una casetta interamente costruita in legno, con tanto di altalena, slackline e campo da calcio con vista ghiacciaio.
Trascorriamo la notte in questo piccolo paradiso di relax, svegliandoci per andare ad ammirare le stelle. La via lattea splende, il cielo è un tappeto nero costellato di luci brillanti, è stupendo. Il giorno seguente torniamo ad El Bolsòn, dopo una lunga camminata che passa per il rifugio Cajon e lo splendido Rio Azul, un fiume verdeacqua e sorprendentemente cristallino. Quando ricompariamo sulla soglia dell'ostello di El Bolsòn, non sappiamo se i proprietari siano contenti o meno di rivederci...
Ad El Bolsòn proseguiamo infatti nella direzione già presa ad Esquel, sperimentando piatti più arditi e mettendo alle corde la cucina dello sventurato ostello che ci ospita. Trascorriamo un giorno intero ai fornelli per praparare il cibo per il weekend al rifugio. Ci sembra di essere diventati come tutti quei backpackers che passano le giornate a cazzeggiare in ostello e a farsi da mangiare. A quanto pare, però, tra noi e gli altri c'è una certa differenza: "Più amore e più impegno", dicono i proprietari dell'ostello mentre ci guardano incuriositi ed un po' preoccupati per il flusso continuo di gas ed elettricità richiesto dalle nostre preparazioni. Noi ridiamo, chiedendoci se d'ora in poi troveremo le nostre foto segnaletiche nelle cucine degli ostelli con scritto "Noi non possiamo entrare".
Suscitiamo invidia, tutti intorno a noi guardano i nostri piatti ricchi e profumati mentre mangiano pasta con aglio, carote grattugiate, cetrioli e uova sode. Dal canto nostro, noi non siamo mai soddisfatti. Gli ingredienti disponibili in Argentina sono sempre gli stessi: formaggi insapori, salumi che somigliano a dei blocchi di plastica rosa, pasta gommosa e pesce inesistente (ovvero sempre e solo carne). Proprio per questo, ogni tentativo di farci da mangiare ci lascia con l'amaro in bocca, perché il risultato finale non ha mai il sapore di casa. Non ne possiamo più! Viene voglia di prendere un aereo per tornare alla madrepatria!
Il fatto è che essere italiani è una croce, ce ne convinciamo sempre di più viaggiando. In Italia abbiamo una varietà ed una qualità di materie prime inimitabili; abbiamo una cultura enogastronomica senza paragoni, frutto di una storia millenaria che si tramanda di generazione in generazione; abbiamo abitudine sane, coscienza e consapevolezza sempre maggiori dell'importanza di mangiare bene. Ed i pregi non si limitano alla tavola. Abbiamo un clima ottimo, montagne maestose e mari cristallini, vallate verdeggianti e laghi limpidi; abbiamo buon gusto nel mangiare, nel vestirci, nel comportarci; abbiamo standard di igiene personale molto alti (W il bidet!). Tutto ciò, ovviamente, risalta per contrasto quando si viaggia, da un lato rende durissima la vita del backpacker italiano, dall'altro lo rende orgoglioso delle sue radici.
Il nostro piatto di Esquel ed El Bolsòn è: la milanesa di coscia di pollo
Le nostre canzoni di Esquel ed El Bolsòn sono: Inmigrantes - Graffiti e Sud Sound System - Le Radici Ca Tieni
0 notes
Text
20-30 gen. 2019
El Calafate - El Chaltén [Argentina]
Fare l'autostop si è ormai consolidato tra le nostre abitudini, come mangiare, dormire, lavarsi, nei confini del possibile. Abbiamo addirittura smesso di informarci su orari, prezzi ed eventuale esistenza degli autobus. La verità è che, oltre alla possibilità di risparmiare sui carissimi trasporti, fare l'autostop si è rivelato finora tanto efficace quanto interessante. Abbiamo condiviso un pezzo di strada con brasiliani, argentini, cileni... ognuno ha una storia da raccontarci, consigli sul viaggio da dispensare, una visione del mondo tutta propria. Ed è bellissimo confrontarsi con queste realtà, raccogliere opinioni e condividere le storie. In più, alleniamo le lingue e stiamo diventando davvero dei discreti interlocutori. Il copione è quasi sempre lo stesso e si arricchisce con l'avanzare del viaggio, però si adatta alle persone che incontriamo: con alcuni parliamo di cibo per ore (è il tema di maggior successo), con altri di politica, sport, viaggi... abbiamo ormai argomenti ed autonomia per più di due ore di conversazione ed un campionario di domande per raddoppiare questo tempo. E, alle volte, si può finire per piacere alle persone che ci danno un passaggio. È ciò che ci è successo sulla strada per raggiungere El Calafate, con questa divertente e stravagante famiglia del nord della California, già incrociata sui trekking di Torres del Paine (sono padre-madre-figlia, ma sembrano nonno-figlia-nipote). Un incontro, questo, che segna l'inizio di una grande storia di gentilezza e bontà, ma lo capiremo solo tempo dopo. Ci riconoscono mentre siamo a bordo strada, sulla via che va da Puerto Natales ad El Calafate, ma proseguono dritto. Poi cambiano idea, fanno inversione ad U e tornano indietro a prenderci. Arrivati in città, ci salutiamo come per l'ultima volta, augurandoci buon viaggio. Da El Calafate andiamo ad ammirare il Perito Moreno, un maestoso ghiacciaio che attira ogni anno milioni di visitatori, non ha bisogno di presentazioni. La sua fama è dovuta non tanto alle dimensioni (in Argentina ci sono altri due ghiacciai molto più grandi) quanto alla sua continua mobilità: ogni giorno, i continui e leggeri spostamenti provocano crepe e rotture nella parte anteriore del ghiacchiaio, che periodicamente si sgretola producendo un suono inconfondibile. Piove, il giorno della nostra visita. I turisti sembrano un oceano, il flusso è incessante. Noi non abbiamo fretta, per cui decidiamo di aspettare un momento migliore, un raggio di sole, un fortunato deflusso di gente. Aumenta la suspence.
Quando il cielo si schiarisce, lo spettacolo che si apre davanti ai nostri occhi è maestoso. Il perito Moreno è un "Wow!" che scivola tra le labbra prima ancora che il cervello realizzi quanta bellezza stia ammirando. La gente è tanta e, a parte pochi mentecatti che non riescono a non esternare i pensieri della scimmia urlatrice che abita nella loro testa, la maggior parte, per fortuna, resta in silenzio. Che è l'unica cosa sensata da fare davanti a questo spettacolo. Tanto più perché qua, l'attore principale, come a teatro, produce suoni e movimenti che lasciano ammutoliti, è padrone mobile e attivo della scena. Esige il rispettoso silenzio degli spettatori paganti. Passiamo ore a fissare le pareti di ghiaccio, il freddo ed il vento ci mettono a dura prova, ma noi resistiamo, gli occhi incollati alle mille sfumature di blu e alle forme frastagliate e irregolari del ghiacciaio. I suoi rumori sono sordi e secchi. Ogni tanto qualche piccolo pezzo si stacca e si infrange in acqua come un tuffatore professionista. Quando ciò accade più frequentemente è il segnale che qualcosa sta per accadere. Il pubblico tace, trattiene il respiro, si tende in avanti, tutti si concentrano sulla scena...e poi crack! Un pezzo enorme si stacca dal ghiacciaio, scivolando lungo la parete per poi infrangersi in acqua. Come alla fine di un atto, il pubblico scoppia in un applauso di ringraziamento che noi troviamo di pessimo gusto, in questa circostanza. Preferiamo restare in silenzio, come in molte occasioni nelle nostre vite. Passiamo per apatici, noncuranti, o addirittura sprezzanti, quando semplicemente non ci piace coprire le nostre più intime emozioni con il continuo rumore delle parole.
Come da routine, ci svegliamo presto, camminiamo fino ai margini della città, quindi alziamo il dito e aspettiamo. Abbiamo sempre paura di incontrare altri autostoppisti e doverci mettere in fila, per cui la sveglia presto è, per noi, di vitale importanza. Eppure ciò che temevamo si avvera e, una volta in strada, distinguiamo in lontananza la figura di un autostoppista, ma non di uno qualunque, bensì del "molestatore". Lo abbiamo già incontrato diverse volte e la prima ci è bastata: si è messo davanti a noi (sebbene fosse arrivato dopo) ed ha cominciato ad importunare un'auto dopo l'altra, con fare insistente e molesto, da cui il soprannome. Rimaniamo calmi e ci posizioniamo dopo di lui: il vento, insopportabile, ci frusta con una forza impressionante, e noi cominciamo ad avere davvero freddo. Non passa molto tempo, prima di decidere di tornare sui nostri passi, in cerca di un luogo più riparato. Siamo ancora a bordo strada, quando fortuna vuole che la famiglia di americani, che ci ha dato un passaggio proprio fino a El Calafate, ci passi affianco. Si fermano, urlando "Hola amigos!", e noi siamo salvi. Altre tre ore insieme ci portano ad El Chaltén, nuove chiacchiere e nuove storie: ora si fidano davvero di noi, rompiamo quel muro di diffidenza che normalmente rimane verso gli sconosciuti. Altri saluti, addii e auguri di buona fortuna, ma ormai il filo sottile del destino ci ha legati...
Se ad El Calafate avevamo avuto prova di cosa significhi temporada alta in Argentina, ad El Chaltén viviamo un incubo vero e proprio. Questo paesino tra le montagne, in estate, viene preso d'assalto dai turisti a causa della sua nomea di "Capitale del trekking argentino". Tuttavia, le sue dimensioni ridotte, gli scarsi collegamenti con gli altri paesi e la generale "rilassatezza" del sistema argentino, fanno di questo posto un paradiso infernale da cui è impossibile andarsene. I turisti qui (gli stessi supertecnici di Puerto Natales) arrivano a vagonate ogni giorno, senza poi riuscire ad andarsene. È un paragone un po' macabro, ma ricorda Auschwitz, ancor più perché la maggior parte dei "visitatori" è israeliana. Così, ci vediamo costretti a girare tutto il paese per trovare un ostello che abbia posto, finendo per dormire in una topaia nel retro di un ristorante, gestita da uno dei cuochi in modo sudicio e disorganizzato, stipandoci assieme ad altri venti disgraziati (o trenta, chi lo sa?). Una notte un giapponese disperato irrompe in stanza all'una e piomba rumorosamente sulle doghe di un letto a castello rotto; un'altra notte dormiamo in due nello stesso letto, in cinque in una stanza di forse 8mq con il fumo della cucina a mischiarsi con lo spiacevole odore di umanità. Le altre due notti, ci chiudiamo ermeticamente nei nostri sacchi a pelo, cercando di ignorare ciò che accade intorno a noi. Così, non ci siamo fatti molti scrupoli ad andarcene avendo pagato solo due notti su quattro. Nel caso ve lo chiedeste, l'hotel a 5 stelle in questione si chiama Haonikenk. Andateci solo se non avete scampo dalla morte. Le restanti quattro notti (ebbene sì, abbiamo trascorso ben 8 notti bloccati ad El Chaltén) ci siamo trasferiti in un camping, dovendo evitare che il meticoloso cuoco si accorgesse della nostra malefatta. Qua, la signora scorbutica ed il prezzo alto (quasi 10€ a notte per dormire in tenda) rispetto all'indecenza dei servizi offerti, ci convincono a fottere anche lei. Paghiamo una sola notte, la prima. I giorni seguenti, di fronte alle sue domande sulla nostra permanenza, rispondiamo con fare sicuro di esserci già "registrati". Il giorno della partenza, ci volatilizziamo prima che la vecchia si renda conto che la registrazione non aveva incluso il pagamento. Ormai siamo noi a decidere se pagare o no, in funzione della qualità del servizio ricevuto. E di giorno?
Il primo lo trascorriamo sul sentiero per raggiungere il Fitz Roy ("montagna fumante") un insieme di picchi aguzzi, generalmente coperto dalle nuvole, come a prendersi beffa di tutti quei turisti venuti da lontano solo per vederlo. Ci impieghiamo due ore per percorrere i primi 9 km e, proprio quando pensavamo di essere ormai arrivati, il sentiero si fa ripido e cazzuto: percorriamo l'ultimo km in quasi un'ora, arrancando tra le pietre e imprecando al cielo. Se non altro, non siamo gli unici a soffrire: chiunque arrivi in cima esulta, batte il cinque agli amici, lancia urla moleste. La sera, in paese, incontriamo di nuovo la famiglia di americani. Un altro saluto e ognuno per la propria strada, o almeno, così noi avremmo fatto; loro hanno invece altri piani: il padre ci insegue correndo e insiste per offrirci una birra. Inutile opporci, sua moglie ha ormai deciso: "Lasciatela fare, così sarà contenta". Alla birra ne segue un'altra, poi delle patatine, quindi la cena; ogni tentativo di resistenza viene ignorato. Del resto ci sono debitori... "Facendo autostop da giovane ho incontrato tante persone meravigliose. Ora è il vostro momento di approfittarne, avrete tempo per ricambiare" afferma lui. Noi ringraziamo, con dei grandi sorrisi stampati in volto.
Il giorno successivo è la volta del Cerro Torre ed il suo ghiacciaio: nulla di indimenticabile, ma forse siamo solo saturi di panorami di montagna. Ormai ci sembrano tutti uguali: sassi, alberi e laghi.
Altri due giorni li trascorriamo invano sulla ruta, aspettando per ore al freddo e al vento un passaggio che mai arriverà. La sera del secondo, quando comincia a far buio, dei 14 autostoppisti con cui condividiamo l'attesa, c'è chi decide di costruirsi un riparo di fortuna chiudendo un tunnel con dei sassi o chi (più sano di mente) pone la tenda, tutti sperando in una sorte migliore per il giorno successivo. Noi invece torniamo in città e prenotiamo il primo autobus disponibile, che tuttavia parte solo quattro giorni dopo. Il dolore per il fallimento è cocente, ancor più perché è il primo dall'inizio del viaggio. A rallegrarci ci pensa il destino: mentre mangiamo hamburger, patatine e beviamo birra, ecco di nuovo gli americani che entrano nello stesso bar!
Ci stringiamo, facendo loro posto a tavola. Condividiamo racconti di vita e sventure di viaggio, poi all'improvviso scappano con saluti veloci. Rimaniamo increduli nello scoprire che hanno pagato la nostra cena. Rimaniamo lì in piedi, felicemente stupiti per questi regali del destino. Ci promettiamo solennemente che, quando verrà il nostro momento, ricambieremo tutto il bene ricevuto. Non serve poi così tanto, ma se tutte le persone facessero altrettanto, il mondo sarebbe un luogo di gran lunga migliore. Gli ultimi quattro giorni ci installiamo nel ristorante di un ostello aperto 24/24h usufruendo dei bagni, delle docce e del wifi, mimetizzandoci tra i tanti ospiti. Stiamo lì dalla mattina alla sera, come due soprammobili, mangiando, bevendo e scrivendo i nostri diari di viaggio.
Il nostro piatto di El Calafate e El Chaltén è: il crumble di mele e la torta di cioccolato e dulce de leche del ristorante Rancho Grande
La nostra canzone di El Calafate e El Chaltén è: Modena City Ramblers - Danza infernale - Terra e Libertà
0 notes
Text
9-19 gen. 2019
Puerto Natales - Torres del Paine [Cile]
Non è chiaro cosa sia cambiato in noi nelle ultime settimane. Forse gli ultimi incontri fortunati, forse la Grazia ricevuta, ci hanno dato coraggio e speranza rispetto alla possibilità di riuscita dei nostri autostop e delle nostre piccole imprese quotidiane. Così, ci sembra quasi scontato che ottenere un passaggio in direzione Nord dall'imbocco del sentiero per la Laguna Esmeralda avrà inevitabilmente successo. Siamo a 20 km da Ushuaia e a quasi 200 km dal prossimo paese, per non dire a 750 km dalla nostra meta. Siamo in mezzo al nulla e, tra noi e la nostra destinazione, c'è il nulla. Ma la onda, come la chiamano qua, è positiva e ci segue anche in questo luogo deserto. Ci corrono quindi in soccorso prima un giovane meccanico argentino sgrammaticato e in polemica con il governo, poi due camioneros. Loro non se la passano male, guadagnano bene, bevono mate e accettano di buon grado la breve compagnia dei tanti vagabondi che incontrano per strada. Movimenta la routine, dopotutto.
[Marco. Il primo dei due, vistomi interessato al suo mezzo e al suo funzionamento, improvvisamente accosta lungo la strada e, facendomi spazio al sedile del conducente, mi dice: "Maneja!". Così, mi ritrovo nella Terra del Fuoco argentina, con l'oceano alla mia destra e la steppa sconfinata a sinistra, conducendo un camion da 30.000 kg. È proprio questo il genere di cose che mi rende felice di viaggiare.]
Il secondo camionero ci lascia alla frontiera con il Cile, ha già fatto una deviazione per portarci fin qua e non può proseguire oltre. Puerto Natales è lontanissima, anche perché, sebbene i camionisti siano gentilissimi, non possono viaggiare oltre i 70 km/h, e qua le distanze sono enormi. Così, alle 19:00 ci troviamo alla dogana cilena, con un vento che spazza via anche le nostre speranze di successo. Come se non bastasse, c'è già un ragazzo tedesco, Lukas, che aspetta da due ore un passaggio. Serve davvero un miracolo. Piantare la tenda è una follia, il vento la distruggerebbe. Importuniamo tutte le auto e i camion che varcano il confine nella nostra direzione: le prime sono spesso al completo, gli altri non possono caricare gente. In più, Lukas non parla una parola di spagnolo e viene facilmente scaricato. Più passa il tempo, più sentiamo l'odore di sconfitta. Alle 20:00 arriva una coppia in auto. Li aggrediamo noi, non possiamo lasciarli a Lukas ed il suo tedesco. Viene fuori che lui è italiano, lei argentina. Non li entusiasma l'idea ma sono disposti a dare un passaggio a due connazionali in difficoltà. Chiediamo se hanno spazio anche per lo sventurato crucco, ma loro non ne vogliono proprio sapere, è già troppo così. "Il mondo va a simpatie, certe volte. Approfittatene!" ci dice l'italiano. Vacilliamo. La regola della strada (e del buonsenso) vuole che il primo arrivato prenda il primo passaggio. Comunichiamo a Lukas l'accaduto e lui ci invita ad andare, ma si vede che in fondo sa di avere più diritto di noi. La situazione è delicata, il disagio evidente. Chi resta è probabilmente fottuto, senza cibo e senza posto per dormire. Tentenniamo, la tentazione di fotterlo e voltarci è forte, però lui sembra un bravo ragazzo, noi siamo stati fortunati finora e non vorremmo che altri facessero lo stesso con noi. "Vai tu, Lukas. È giusto così" gli diciamo all'unisono, sperando che il karma ripaghi il nostro gesto. Sul suo viso si spalanca un sorriso, ci abbraccia, tira fuori la sua macchina fotografica e ci scatta una foto prima di correre verso l'auto. Ci scappa un sospiro. Siamo stati corretti, meglio così. Però ora siamo nella merda. L'auto ci sorpassa, la coppia ci saluta con la mano e le spalle alzate come a dire "Peccato per voi, avreste potuto approfittarne!", quando un gendarme cileno li ferma per un controllo. Ci guardiamo: un altro segno. Bisogna essere rapaci, spietati. Ci lanciamo verso l'auto e quasi entriamo senza permesso, promettendo di stringerci e tenere gli zaini in braccio. È fatta, siamo a bordo!
La coppia italo-argentina è stravagante. Hanno cinque giorni di vacanza e si sono decisi a partire da Ushuaia, dove vivono, solo nel pomeriggio per un viaggio di almeno 11 ore per una destinazione a caso tra Punta Arenas e Puerto Natales, il che comprende il passaggio di due frontiere ed uno stretto in barca. Ad ogni modo, sono gentili e siamo certi siano sollevati di aver preso su anche noi: il viaggio con solo Lukas a bordo sarebbe stato imbarazzante, visto che non parlano una parola di tedesco. La strada è sterrata, sembra interminabile. Sopra la piccola auto stracolma piomba la notte, ed un sonno profondo ed affamato ci coglie impreparati. Alle 3:30 del mattino arriviamo finalmente a Puerto Natales. "Non c'è un bar aperto dove bersi una birra insieme?" domanda l'italiano, mentre noi preghiamo in silenzio che sia tutto chiuso, così da andarcene finalmente a dormire. I nostri desideri vengono esauditi e finiamo nell'unico ostello aperto, caro per il nostro budget, ma non abbiamo scelta. Anche stavolta sorridiamo a questo coraggioso ed imprevedibile modo di viaggiare.
Puerto Natales è La Mecca del Goretex. È l'avamposto da cui partono i tour ed i bus per il leggendario Parque Nacional Torre del Paine. Per le strade, un andirivieni di turisti ultratecnici ci dà il prurito: sembra che per andare a fare la spesa servano le bacchette da nordic walking e per bere una birra sia necessaria la giacca superimpermeabile. Non sia mai che qualche goccia finisca per bagnarli irreparabilmente. La cosa peggiore di questi pionieri di montagna 2.0 è che la maggioranza di essi le montagne le vedrà dal finestrino del pulmino riscaldato del tour "tutto incluso". Noi, dal canto nostro, ci aggiriamo per la cittadina in costume, maglietta e giacca antivento. Senza mutande, né calze né felpa, sembriamo due che passeggiano a Miami Beach pronti per il surf. Peccato che ci siano 5° C, motivo per cui catturiamo l'attenzione degli esploratori, che si scambiano sguardi divertiti. Del resto, abbiamo lasciato in lavanderia quei "Quattro stracci" gucciniani che ci portiamo dietro ed il guardaroba non ci consente altri outfit.
Così, seminudi come siamo, ci lanciamo in quella grande sfida che è la prenotazione dei campeggi per fare il giro di Torres del Paine. Per farla breve, ci sono tre agenzie che vendono i posti, ciascuna solo di determinati campeggi. Il problema è che ogni agenzia, per venderti i suddetti, esige le prenotazioni delle altre agenzie, che comprovino la reale fattibilità del giro: un cane che si morde la coda. Come se non bastasse, in alta stagione come ora, le porte delle compagnie sono tappezzate di cartelli con scritto "Pieni fino a marzo". Noi però abbiamo imparato che con il giusto mix di sfacciataggine, insistenza, simpatia e flessibilità (oltre alla prontezza nello strisciare la carta di credito) si possono ottenere tante cose. In più, negli ultimi tempi il nostro spagnolo è decisamente migliorato e notiamo con soddisfazione come le persone siano più inclini ad aiutare noi piuttosto che i giapponesi armati di Google Translate. O forse facciamo davvero pena, in pantaloncini e senza calze? Fatto sta che il risultato è a nostro favore ed in poco più di sei ore abbiamo tutte le prenotazioni per i campeggi ed anche i vestiti puliti della lavanderia.
Ora è il momento dell'organizzazione. La sfida che ci aspetta si chiama Circuito O, ovvero un giro da circa 120 km di cammino in otto giorni con zaino in spalla. Siamo entrambi nuovi a questo genere di avventure, qualche sporadico giorno di campeggio e trekking fatto finora non sono di sicuro un allenamento sufficiente. Siamo eccitati, tesi, concentrati e spaventati. Convogliamo quindi le energie nell'organizzazione dei pasti per i prossimi 8 giorni, cercando il miglior rapporto peso-soddisfazione-riempimento: cereali e thé per colazione; 6/7 cracker con formaggio o tonno per pranzo; pasta con zuppetta liofilizzata o riso pronto per cena; barrette ai cereali, miele, noci e cioccolata come snack. Tutto contato. Avremo fame, ma non lo sappiamo ancora. Svuotiamo gli zaini di tutto ciò che non è davvero indispensabile e li carichiamo col cibo. Pesano come sassi, cazzo! Ma così è, c'è poco da stare a pensarci. Andiamo a letto presto la sera prima di partire, ognuno cerca di rilassarsi e concentrarsi ritirandosi in silenzio in se stesso, come prima di una grande impresa. Un saluto alla famiglia e agli amici più cari per avere la loro benedizione ed è tempo di andare.
Giorno 1 [Hotel Las Torres - Camping Seròn, 9 km]
Il primo giorno è relativamente facile, siamo freschi, carichi e concentrati e, nonostante lo zaino pesi molto, polverizziamo i 9 km. Camminiamo per 4h su un sentiero facile, ma che il vento, con la sua forza fino agli 80 km/h, rende più difficile.
Giorno 2 [Camping Seròn - Camping Dickson, 18.5 km]
Il secondo giorno è decisamente più impegnativo. La sveglia presto, intorno alle 5:30, e l'aria fredda del mattino ci schiaffeggiano; uscire dal sacco a pelo è la prima vittoria della giornata e parte di quella che diventerà un'abitudine: colazione, smonta la tenda e sistema gli zaini. Più veloce a dirsi che a farsi. Una routine che odieremo dal primo all'ultimo giorno. Ci incamminiamo muti ed infreddoliti nel tentativo di scaldarci. Siamo tra i primi ad essere partiti, del gruppo di circa quaranta persone con cui condivideremo la strada. La natura è silenziosa ed infonde una pace profonda. Solo il vento spezza la quiete, talvolta. Il sentiero è fottutamente lungo e a tratti anche molto ripido; le gambe vanno, la schiena duole sotto il peso dello zaino, la testa divaga, va con il pilota automatico.
A distanza di sei ore dalla partenza, arriviamo nel magnifico campeggio Dickson: lo vediamo dall'alto, come un miraggio. Davanti a noi si apre una splendida vallata popolata da cavalli ed incorniciata da un fiume azzurrissimo ed un ghiacciaio. Qua, facciamo amicizia con due americani di Seattle che, arrivati prima di noi, stanno sorseggiando Pisco Sour nel patio del campeggio. Partono presto la mattina per evitare le folle, bevono molto e parlano il giusto: ci piacciono subito!
Giorno 3 [Camping Dickson - Camping Los Perros, 9 km]
Il terzo giorno si confonde nella memoria con tutti gli altri. Iniziamo a salire. Il campeggio ed i suoi fastidiosi moscerini si nascondono dietro un ghiacciaio. Ora che scriviamo, quel ghiacciaio non ci sembra così impressionante, ma è stato il primo visto da così vicino, ed era stupendo. Il tempo inizia a dare cattivi segnali, andiamo a letto sotto una leggera pioggia fredda...
Giorno 4 [Camping Los Perros - Camping Paso - Camping Grey, 22 km]
È il grande giorno, il più difficile ed il più lungo. Secondo le carte, ci aspettano 22 km di cammino, un passo alpino e circa 11 ore di camminata. Ci svegliamo alle 4:00 sotto una pioggia battente. Al buio e al gelo smontiamo alla bell'e meglio la tenda, che è piena di fango. Ci sono tutti i presupposti per una giornata di merda. Ci facciamo coraggio e partiamo, sperando che le nostre giacche (ultratecniche?) da 10.000 mm di colonna d'acqua, ci mantengano all'asciutto... Dopo un'ora siamo fradici, le gambe e le mani congelano, mentre sotto la giacca il corpo ormai bollente suda e rabbrividisce allo stesso tempo a causa del vento gelido. Le prime tre ore sono tutte in salita, su un sentiero fangoso e sconnesso, su cui continuiamo a scivolare e affondare. In prossimità del passo inizia a scendere una neve mista a grandine ed il vento si fa ancora più intenso. Sembra di stare in alta montagna, anche se siamo a poco più di 1.000 metri. Arrivare in cima è una soddisfazione estrema, soprattutto per la vista sul ghiacciaio Grey: una distesa senza fine di ghiaccio azzurro frastagliato e appuntito, mai visto nulla di simile.
Inizia quindi la discesa, un inferno per certi aspetti peggiore della salita: il sentiero è di soli gradoni alti mezzo metro, spaccano schiena e ginocchia. Quando arriviamo al Camping Grey è solo ora di pranzo, ci abbiamo messo 7 ore e abbiamo tempo di riposare, asciugare i vestiti e fare una doccia "calda". A tavola, scambiamo qualche impressione con gli altri primi arrivati: nonostante i piedi fradici ed i vestiti zuppi, sembrano tutti divertitissimi dalla giornata. Noi, dal canto nostro, abbiamo i piedi asciutti ma l'umore nero, non tanto per la fatica, piuttosto per le condizioni: la pioggia incessante (Claire) e la tenda sporca, i vestiti sudati, il cibo scarso e cattivo, la stitichezza obbligata dalla condizioni dei bagni (Marco) non ci fanno sorridere alla giornata.
Giorno 5 [Camping Grey - Camping Paine Grande, 11 km]
La sveglia presto va a farsi benedire; abbiamo bisogno di un po' di riposo. Un sole splendido ci dà il buongiorno, quasi a beffarsi di noi per la giornata precedente. Una breve passeggiata lungo la spiaggia per vedere il ghiacciaio da un'altra angolazione ci porta in una sorta di baia dove i kayak scivolano leggeri tra gli iceberg. Questi sono di un'azzurro intenso, ipnotico, meraviglioso.
Riprendiamo la marcia solo nel pomeriggio, con calma, convinti che con il giorno precedente il peggio sia passato. Eppure la strada é ancora lunga, le gambe iniziano ad accusare lo sforzo continuo e lo zaino, anche se più leggero, non cammina da solo. Conquistiamo Paine Grande a fatica, si sentono i primi segni di cedimento. Ci rallegriamo, se non altro, nel vedere molta gente zoppa intorno a noi.
Giorno 6 [Camping Paine Grande - Camping Italiano + Valle Francés e Lookout Britannico, 18.5 km]
Siamo nel pieno del famoso circuito W, la versione breve di Torres Del Paine. Sarà la crescita esponenziale dei turisti, anche giornalieri, o la nostra insofferenza verso la combo tenda/cibo di merda/fatica/sudiciume, fatto sta che giungere al Camping Italiano prima e al Lookout Britannico poi sembra un'impresa eccezionale. Le gambe fanno male, la testa passa ore ed ore fantasticando sulle prelibatezze che il corpo desidera, e nemmeno presta più molta attenzione al paesaggio. Il sentiero è un continuo incrociare persone, sorpassare ed essere superati, "Hola", "Bon dia", "Buenas tardes", giapponesi imbranati con le racchette da sci in mano. Torna il prurito, dopo giorni di pace.
Giorno 7 [Camping Italiano - Camping Cèntral, 18 km]
La penultima fatica, secondo i piani. La strada è ancora tanta, malediciamo i continui saliscendi che costeggiano il lago Knordensjöld. Che una Jeep ci porti via! Abbiamo sentito che l'indomani sono previsti pioggia e vento forte e sappiamo che salire alle Torri del Paine con brutto tempo è inutile. Una piccola speranza si annida nei nostri cuori...
Giorno 8 [Camping Cèntral - Puerto Natales, 0 km]
Il progetto iniziale prevede di svegliarsi verso l'una di notte, per poter camminare quattro ore e ammirare le famose Torri all'alba, per poi tornare in campeggio, smontare tutto e abbandonare il Parco. La realtà vuole che ci svegliamo durante la notte, pieni di terra, fuori un vento tremendo e una leggera pioggia. Non se ne parla di andare da nessuna parte, se non tornarcene in città. Sull'autobus di ritorno a Puerto Natales incontriamo gli americani, Chelsea e Matt, di ritorno dalle Torri. Ci vergogniamo immensamente per la nostra pigrizia!
Cosa dire quindi di Torres Del Paine?
Sicuramente un'esperienza forte, difficile e ricompensante. I paesaggi e la natura sono stupefacenti, per varietà, immensità e bellezza. Abbiamo incontrato anche persone molto piacevoli, in mezzo alla calca di vomitevoli e irrispettosi mochileros, Oliver e Astrid, Matt e Chelsea, con i quali abbiamo festeggiato l'impresa a suon di birre e Pisco Sour. Forse non eravamo del tutto preparati per questi otto giorni; forse otto giorni sono troppi, soprattutto per mancanza di cibo decente, vestiti puliti e docce calde. Forse ci si potrebbe abituare. Sicuramente siamo felici di aver fatto questa esperienza, di averla portata a termine con impegno e sudore, di aver imparato un sacco di cose nuove sulla vita in campeggio ed anche sui nostri limiti.
La nostra canzone di Puerto Natales e Torres Del Paine è: Lord Huron - Meet Me In The Woods
Il nostro piatto di Puerto Natales e Torres Del Paine è: le zuppe liofilizzate della Knorr
0 notes
Text
31 dic. 2018 - 8 gen. 2019
Puerto Madryn e Ushuaia [Argentina]
Abbiamo sempre odiato l'aria che si respira sotto capodanno, quell'obbligo di fare festa ad ogni costo, come se ubriacarsi in questa notte potesse in qualche modo portare bene per l'anno che comincia. Cerchiamo quindi di evitare le grandi folle, gli schiamazzi e le urla, preferendo rimanere in ostello. Anche qua, è un fermento generale: c'è chi si dà da fare in cucina tra pomodori ripieni, pollo e patate al forno, altri grigliano, affumicando tutti gli abitanti di questa micro comunità. E poi ci siamo noi, entrambi cuochi, che prepariamo una modesta pasta al burro, aglio e peperoncino e la condividiamo con una ragazza tedesca che offre verdure al forno. Aspettiamo il nuovo anno tra un bicchiere di vino e un altro. A 00:05 siamo a letto, auguri a tutti, baci e abbracci.
Inauguriamo il 2019 con una visita alla Peninsula Valdés, una riserva naturale che ospita fenicotteri, pinguini, leoni ed elefanti marini, conigli, guanacos. A novembre, migliaia di balene vengono in questo luogo per le favorevoli condizioni climatiche e non è raro avvistare anche le orche, terribili predatrici di leoni ed elefanti marini. Noi siamo in ritardo per entrambe purtroppo.
A scorrazzarci in giro in auto sono due famiglie di brasiliani che la sera prima abbiamo "abbordato" in ostello. Presi in contropiede dalle nostre abilità di persuasione, o forse solo in preda ai fiumi dell'alcool, hanno accettato di accompagnarci, risparmiandoci la noia e la spesa dei tour privati.
Sono giovani, solari e simpatici; parlano un portoghese misto ad inglese e spagnolo, e si portano dietro quattro bambini piccoli. Forse per questo, hanno anche una buona propensione verso le bevande alcoliche. Stanno viaggiando per il Sudamerica in auto, macinano migliaia di km al giorno e, guarda caso, vanno proprio nella nostra stessa direzione, Ushuaia. Non diciamo nulla, ma in cuor nostro speriamo in un invito. Sfoderiamo le nostre migliori doti oratorie e l'atteggiamento più ruffiano possibile fino a quando Juliano, il capobanda, pronuncia la fatidica frase: "Se fate i bravi, domani vi portiamo con noi!". Rispondiamo con un composto "Grazie, non è necessario", così poco credibile che le parole faticano ad uscirci di bocca, mentre dentro di noi esplode un'esultanza silenziosa. Dopotutto, questi otto brazileiros iniziano davvero a piacerci. Così, il passaggio alla Peninsula Valdés diventa la prima tappa di un viaggio di quattro giorni insieme, che passa inizialmente per Punta Tombo, una colonia di ben 700 mila pinguini che scorrazzano liberi tra le persone. E se il primo incontro con questi buffi animali ci aveva divertito, il secondo ci ha fatto innamorare. Passiamo la giornata camminando tra i loro nidi, con il suggestivo e instancabile "piopiopio" dei piccoli, che interpretiamo come un grido di fame, insensibilmente ignorato dai pinguini-genitori.
Il viaggio prosegue quindi in direzione Ushuaia, la fine del mondo, passando per Commodoro Rivadavia e Rio Gallegos, due orrende città petrolifere, e la Patagonia argentina: migliaia di km di nulla in ogni direzione, una steppa arida, brulla e piatta, popolata da guanacos, volpi, struzzi e condor. Vento e strada, cielo e deserto. Le distanze sono siderali, l'immensità della natura esige silenzio. La strada, la ruta n°3 è perfetta e scorre veloce, un tappeto vellutato di asfalto che taglia in due la steppa. Un paradiso per autisti e motociclisti. È solo quando raggiungiamo la Tierra del Fuego che la vegetazione, così come il clima, inizia a cambiare. Ci accoglie una neve lieve e sottile, in piena estate, in questa terra dove tutto è estremo. Intorno a noi, riappaiono gli alberi e compaiono le montagne, ridicolmente basse (non superano i 1500m) eppure tutte innevate. Il vento ci taglia la faccia e l'odore di ghiaccio e freddo ci annuncia che siamo arrivati alla fine del mondo, alle porte di Ushuaia.
Un Viaggio non è altro che la somma di tanti viaggi minori. Alcuni durano ore, altri giorni. La sensazione, guardando allontanarsi le auto dei nostri nuovi amici brasiliani, è che un altro piccolo viaggio si sia concluso. Grazie e buona fortuna, brazileiros! Ci eravamo abituati alla loro presenza, ai loro figli e alle loro auto, e ci sentivamo ricambiati. Però, così è viaggiare: gli incontri sono tanti, così come gli addii. Ci si abitua, prima o poi. E se sei fortunato, come lo siamo stati noi, ad un addio segue subito un nuovo incontro, un altro viaggio. Ironia della sorte, ogni volta che i brasiliani ci hanno portato ad un campeggio (il servizio di drop-off e pick-up era incluso nel passaggio), quest'ultimo si è rivelato inesistente, ed Ushuaia non ha fatto eccezione. È così che conosciamo Claudia, suo marito ed i suoi amici missionari cileni. Anche ora che scriviamo, ci chiediamo quale sia l'impressione che suscitiamo nelle persone che incontriamo sul nostro cammino, perché sembra che si sentano sempre in dovere di aiutarci. Facciamo pena? Ispiriamo simpatia? O più semplicemente qua le persone sono più buone? Nel caso dei cileni la risposta è facile: come i Blues Brother, sono in missione per conto di Dio, vanno per il Sudamerica predicando la Parola e sono quindi in dovere di aiutare due pecorelle smarrite come noi. Ci offrono quindi alloggio nella loro roulotte per la notte, una doccia e un thé caldo. Quello che non sanno è che il viaggio ci ha resi intraprendenti e facciatosta. Così, il soggiorno di una notte finisce per trasformarsi in un' "occupazione abusiva" della loro casa rodante per ben cinque giorni! Del resto, gli alloggi ad Ushuaia sono carissimi, e noi vogliamo risparmiare per andare al ristorante!
Ushuaia è una cittadina portuale che vive di quel turismo un po' da ricchi che prevede negozi outdoor di marca, ristoranti cari, casinò e boutiques di souvenirs. Eppure la cornice di questa città dalle casette colorate ci incanta: da una parte lo stretto di Beagle, dall'altra le montagne spruzzate di neve ed il ghiacciaio Martial. Per raggiungere quest'ultimo affrontiamo una lunga salita sotto grandine e neve, con cracker e formaggio spalmabile per ricaricarci. Arriviamo sudati e congelati nel punto in cui dovrebbe scorgersi il ghiacciaio ma, ahinoi, si vede ben poco. Delusi, torniamo sui nostri passi con la prospettiva di farci altre tre ore di camminata, ma il freddo ci spinge a chiedere un passaggio per il ritorno. Per tirarci su di morale quale cosa migliore di una buona cena al ristorante? Armati di forbici e scetticismo, ordiniamo una centolla (Granchio Reale) che ci sorprende per il gusto squisito! Stessa cosa vale per la merluza negra: mai mangiato un merluzzo tanto buono! Andiamo a letto assolutamente contenti e soddisfatti.
Dedichiamo la giornata seguente al Parque Nacional Tierra del Fuego, dove ci confrontiamo per la prima volta con gli sconfinati parchi del Sudamerica. Non possiamo che sentirci piccoli di fronte a tanta maestosità, a laghi e montagne dipinti di colori tanto sgargianti. Rimaniamo in silenzio, ammirando, ancora una volta, ciò che la natura è riuscita a creare.
La nostra permanenza a Ushuaia sta per volgere al termine e, proprio quando pensavamo di essere scappati indenni a discorsi religiosi con i missionari, ecco che Claudia parte all'arrembaggio. Inizialmente ci parla di Gesù, come se stesse raccontando una favola a dei bambini, poi di come si sia convertita qualche anno fa, quindi pone la fatidica domanda: "Siete credenti?".
Claire. Da qui, per quanto mi riguarda, è un disagio crescente. Mi va bene parlare di Dio, ascoltare storie di come abbia guidato le persone verso la retta via, ma non mi piace che si cerchi di convertirmi. E Claudia ci prova, insistentemente, riservandomi uno sguardo di pena quando affermo, per l'ennesima volta, di non credere. Marco invece ripete un sermone in spagnolo e riceve la Grazia (oltre ad un caloroso abbraccio). Il mattino dopo mi guardano tutti con pietà, ripetendomi che Dio mi ama e che lo capirò, prima o poi...
Marco. Il discorso di Claudia degenera prevedibilmente in un tentativo di conversione per Claire, di risveglio spirituale per me. Lei è scettica, atea fino al midollo; io mi lascio ammaliare: credo nello spirito e ammiro la gioia e la serenità delle persone che hanno fede. Che lo si chiami Dio, Allah, Tutto o Felicità, mi piacerebbe sentire quel tocco di puro miracolo che provano coloro che credono. Quindi accetto il regalo, in fondo è gratis...
I nostri benefattori cileni lasciano la città per fare proselitismo altrove e noi, improvvisamente senza più un tetto, siamo costretti a fare lo stesso. Forti dell'aiuto di Dio (non per entrambi), ci mettiamo in strada per fare autostop, destinazione Punta Arenas o Puerto Natales. La strada però è già piena di gente col dito alzato ed il cartoncino in mano: siamo in ritardo. Decidiamo quindi di camminare, per allontanarci dalla folla. Nemmeno qualche minuto ed un furgone si ferma poco avanti a noi: è un allevatore di cani da slitta, si offre di accompagnarci ad un campeggio lungo la strada. Parlando, viene fuori che il suo allevamento è di fianco all'imbocco del sentiero per la Laguna Esmeralda, un luogo che proprio il giorno prima una ragazza di Ushuaia ci aveva descritto come imperdibile. Sembra un segno. Abbiamo giusto il cibo per la notte e qualche ora di cammino per raggiungere la Laguna. Prendere o lasciare. Il bello del viaggiare come stiamo facendo noi è proprio questo: poter prendere al volo le occasioni che arrivano. Ed arrivano, se sai guardare.
Scendiamo dal truck, ringraziamo e ci incamminiamo verso la Laguna. Incontriamo solo gente di ritorno e già pregustiamo l'idea di trovarci soli a dormire sulle sponde del lago. Il sentiero è bellissimo, si snoda prima in una foresta per poi aprirsi in una vallata ai piedi di un monte. Il freddo si intensifica ed il sole comincia a scendere quando finalmente giungiamo a questo meraviglioso lago smeraldo ai piedi di un ghiacciaio. Piantiamo la tenda e ci abbandoniamo ad un sogno gelido che sa di realtà, grati al Tutto (Marco) o al caso (Claire) per questo bellissimo regalo.
La nostra canzone di Puerto Madryn e Ushuaia è: Modena City Ramblers - Canzone dalla fine del mondo
Il nostro piatto di Puerto Madryn e Ushuaia è: la centolla e la merluza negra
0 notes
Text
27-30 dic. 2018
Buenos Aires [Argentina]
Buenos Aires è un arcobaleno, un trionfo di colori e musica. Ad un mese di distanza, mentre scriviamo cercando di raccogliere i ricordi di questa festosa metropoli, sono proprio i suoi colori ad essersi stampati nella nostra memoria.
Su tutti, il blu ed il giallo del quartiere de La Boca, dove troneggia lo stadio della squadra di calcio più titolata d'Argentina. Poi, i colori dei vivacissimi murales e delle casette di legno del vicino Caminito, dove nei bar i ballerini professionisti danzano il tango. O ancora, il bianco, l'azzurro ed il giallo della bandiera argentina, che sventola fiera e maestosa in Plaza de Mayo. Pare che il bianco e l'azzurro siano i colori della veste della Madonna, ma a noi sembrano rappresentazione perfetta del cielo e del sole che splendono in questi giorni sulla capitale.
Buenos Aires è anche il verde dei suoi immensi e stupendi giardini, tra i quali spicca quello giapponese, con il suo ordine e la sua compostezza pacifiche.
È il rosso ed il bianco della pizza di Güerrin, storico locale porteño, che si vanta di avere la migliore pizza del mondo.
È il bordeaux del sipario de El Ateneo, un ex-teatro trasformato in libreria, e l'oro degli spalti del teatro Colòn, gioiello incastonato all'ombra dell'obelisco di Plaza de la Republica.
È anche il grigio del suo ponte più famoso, il Puente de la Mujer, che di notte offre uno scorcio da cartolina con alle spalle le luci del quartiere di Puerto Madero.
Infine, Buenos Aires è il rosa di Palermo, il quartiere più giovane e vivace della città (per noi è il rosa della calcistica Palermo italiana). Qua, ogni via è un brulicare di gente a partire dall'ora dell'aperitivo fino a notte inoltrata. I bar, i ristoranti ed i locali offrono scelta per tutti i gusti e le tasche: un paradiso in cui perdersi, per noi. Teniamo fede alla promessa che ci siamo fatti a Cordoba (mangiare in ristoranti gourmet) e passiamo ore e ore cercando di scegliere tra le numerose (troppe!) opzioni: Buenos Aires sembra avere più ristoranti che abitanti e noi, perenni indecisi, brancoliamo nel buio. Essere sotto capodanno ci aiuta nella scelta, in quanto molti ristoranti non hanno più tavoli disponibili, e finiamo così per prenotare da Tegui, al 49esimo posto nel "The World's 50 Best Restaurant" nel 2017.
Tiriamo un sospiro di sollievo nel vedere che l'ambiente elegante esige luci soffuse e candele, così che non si notino troppo i pantaloni da trekking e le t-shirt stropicciate, ahinoi, la massima eleganza offerta dal nostro limitatissimo guardaroba. La cena da 11 portate a 85€, decisamente più cara rispetto ai 30€ di Cordoba, mette in allerta i nostri palati, pronti a materie prime migliori, accostamenti strabilianti, tecniche di cottura nuove; la cucina, a vista, promette bene. I giovani camerieri girano come trottole, in una danza che ci rende impossibile capire chi si stia occupando di noi: uno a uno, li vediamo affacciarsi al nostro tavolo, chi con dell'acqua, chi con una delle portate. Ognuno con un accento ed un modo di fare differente: siamo persi. Tra tutti i piatti a vincere sono: "Cholke - Pupusa - Quinoa", una chips croccante a base di non-sappiamo-cosa, e "Apricot - Chamomille", un dolce con sorprendenti sferette al gusto di camomilla, gelato all'albicocca e albicocche sciroppate. Complici le aspettative troppo grandi o il costo maggiore, non usciamo tanto soddisfatti quanto lo siamo stati a Cordoba, finita la cena da El Papagayo.
Ci sono sicuramente sfuggiti altri colori in questa nostra fugace visita, ed altre musiche ed altri sapori si nascondono tra i locali ed i ristoranti di questa sorprendente metropoli. Per questo motivo, mentre dal finestrino del bus guardiamo scorrere gli ultimi scorci della città, ci rendiamo conto che quello che diciamo a Buenos Aires è solo un "Arrivederci" e non un "Addio".
La nostra canzone di Buenos Aires è: Toquinho - Acquarello
Il nostro piatto di Buenos Aires è: la pizza di Güerrin
0 notes
Text
4 - 8 dic. 2018
Salta [Argentina]
Salta coloniale, Salta la linda. Ne parlano in tutto il nord dell'Argentina.
Arriviamo in questa città pieni di aspettative, quasi fosse la terra promessa. Forse siamo un poco stanchi per i continui spostamenti e Salta sembra essere il posto ideale per fermarsi qualche giorno, rimettersi bene in sesto, oziare un poco ed allenarsi in qualche trekking in vista della Patagonia. L'impatto con la città è ambiguo: ci accoglie l'ennesimo tappeto di case anonime, con le sue vie tutte uguali, tutte perpendicolari a delimitare le quadras, sulle quali spicca unicamente la celebre cattedrale.
Eppure, capiamo subito che Salta ha un qualcosa in più (o forse in meno?) rispetto alle altre città. Sarà forse la sua cornice di montagne verdissime, preludio alla vicina cordigliera andina; oppure il suo clima, decisamente più mite, che finalmente ci lascia respirare; o ancora, quell'atmosfera da città universitaria coloniale che si respira tra le vie del centro; fatto sta che Salta ci convince a restare.
La via pedonale ci accoglie completamente deserta, ma dopotutto sono le 15, orario di siesta: stolti noi a pensare di fare il giro del centro a quest'ora! Ci riproviamo la sera ed è tutta un'altra musica: un via vai di persone talmente impressionante da infastidire quasi; popcorn nei carretti, frutta secca caramellata sulle bancarelle, sandwich con milanesa su tavolini improvvisati...e allora capiamo: adoriamo quando in una città vi sono più ristoranti che abitanti e Salta ci ricorda, anche se molto lontanamente, questo aspetto.
Senza nemmeno dover troppo combattere, facciamo pace con il nostro portafogli e con la pretesa di essere backpackers fino all'osso e, dopo aver scartato con sdegno un onestissimo hotel 2 stelle (oro, in altre occasioni), piazziamo per tre giorni i nostri culi regi in un bell'hotel del centro con colazione e balcone sul passage de los poetas. Ormai calati perfettamente nei panni dei turisti della terza età, con i quali condividiamo l'albergo, ci lanciamo nell'azzardo di prenotare una visita guidata per la Quebrada de Humahuaca, nota per la sua Montagna dei sette colori.
Ci vengono a prendere in albergo e lì ci riportano la sera; ci parcheggiano nei luoghi di interesse e ci indicano da quale angolazione fare le foto; pranziamo con altre 200 persone in una mensa per turisti (ci propinano l'ennesima milanesa, di lama questa volta, ma abbiamo dei dubbi..); fingiamo interesse per una chiesetta piena di bambolotti sacri; assecondiamo con lo sguardo i volti estasiati dei nostri compagni di viaggio, che rendiamo oggetto per ore di commenti caustici, mentre una guida ci spiega in spagnolo cose incomprensibili. Scansiamo con nonchalance una "visita nella visita" a pagamento, finendo per aspettare il gruppo 1h sotto il sole e fingiamo di non capire la richiesta di mancia di un indio, salito sul pulmino per raccontarci una filastrocca in lingua quechua. 12h di visita che, fosse stato per noi, sarebbe potuta durare un terzo del tempo. Peccato solo perché lo scenario è davvero stupendo: una strada, la ruta 39, che corre tra montagne dalle mille sfumature (altro che sette!). È come se un pittore si fosse divertito a dipingere ciascuna di esse di un colore differente per dare allegria alla propria tela ed è incredibile pensare che sia invece frutto della natura e di uno strano caso che ha riunito in una sola zona elementi diversi in grado di colorare la terra.
La visita guidata ci ha dato conferma della nostra insofferenza verso il genere umano, nella presente rappresentato dall'animale sociale "turista", che, come spesso accade, riconosciamo solo negli altri, mai in noi stessi.
Tuttavia, dopo giorni un po' oziosi, una certa inquietudine fa capolino e, come sempre, prende la forma di una interrogativa: "che facciamo adesso?". La verità è che siamo partiti per il Sudamerica sperando di perderci nella natura, camminare in luoghi desolati e ammirare paesaggi mozzafiato. Salta sembrava promettere grandi cose in questo senso, eppure il trekking più impegnativo che abbiamo affrontato è stata la strada dal ristorante all'hotel. Le montagne si vedono,ma sembrano irraggiungibili. E questo ci sconforta, ci fa cambiare meta, sperando ogni volta in una nuova terra promessa.
Dove stiamo sbagliando?
La nostra canzone di Salta è Alexi Murdoch - Blue Mind
Il nostro piatto di Salta è la Milanesa (di pollo, vitello o lama)
0 notes
Text
16-19 nov. 2018
São Paulo [Brasile]
São Paulo ci è amica, come prima tappa.
Ci accoglie grigia in una sera calda, i suoi palazzi incutono timore e fanno ribrezzo allo stesso tempo, come la squallida povertà che striscia tra i vicoli. Ci rende guardinghi, quasi paranoici; troppa gente, troppe auto, troppo cemento. E noi lì, in quell'oceano di vie, con lo zaino in spalla, siamo così diversi, fuori luogo. Impossibile mimetizzarsi.
Riscopriamo increduli quelle paure ancestrali verso l'altro, il diverso e, peggio ancora, i luoghi comuni. Ci riscopriamo paurosi ed egoisti, guardiamo gli altri con diffidenza prima ancora che ci possano dare ragione di ciò. Mascheriamo semplicemente il nostro sentirci fragili ed indifesi.
Ma fortunatamente ogni tanto l'ospitalità raggiunge livelli inaspettati, e così ci ritroviamo alle 23 di sera a cenare con un panettone brasiliano in casa di Silvia&Humberto, senza nemmeno sapere chi siano realmente. Brasiliani di origine giapponese, sono solo amici di amici di un parente, ma ci accolgono come se fossero contentissimi di rivederci. Scopriamo che Silvia adora l'Amarone della Valpolicella, vino che, guarda caso, abbiamo portato loro in omaggio: coincidenza o strano scherzo del destino?
Quindi ridiamo, beviamo birra, parliamo di noi, beviamo caipirinha, ascoltiamo storie, mangiamo costolette ad un barbecue brasiliano, sorridiamo. E non possiamo che ringraziarli per averci dato modo di vivere la città attraverso gli occhi dei paulistanos, facendoci sentire un po' meno gringos.
E siccome il cibo è condivisione e convivialità, non ci lasciamo sfuggire l'occasione di fare uno spuntino in Avenida Paulista con del cibo afro-brasiliano (di cui non sapremo mai gli indredienti, tranne la sconosciuta okra) o di (quasi) sbronzarci a caipirinha, che abbiamo appena scoperto essere sorprendentemente buona. Ci facciamo conquistare dai fritti, perché si sa, "tutto fritto è buono": coxhinas (polpette di patate e pollo), bolinhos di baccalà, pastel (panzerotti ripieni di carne, formaggio o baccalà). Proviamo la famosa feijolada, il piatto degli schiavi, e gli spiedini di queijo com melaço, ma ci sentiamo un po' più a casa con il sandwich de mortadella.
La ciliegina sulla torta dell'ospitalità arriva appena prima di abbandonare San Paolo, quando Silvia ci invita a casa dei suoi genitori per una cena a base di yakiniku (barbecue giapponese). Tutti gli ingredienti si mescolano sulla griglia, così come le culture che siedono intorno al tavolo. Frasi brasiliane si uniscono a gesti, parole italiane, mugugni giapponesi, sorrisi.
E all'improvviso spunta fuori un talismano, regalo di buon auspicio, che custodiremo con cura lungo questo viaggio.
Viaggio cominciato a San Paolo, dove quasi tutti vivono in case-prigione, i cui cancelli interni si aprono con le impronte digitali, i corridoi sono videosorvegliati, il filo spinato cinge le mura degli edifici in un abbraccio che mette a disagio. Dicono che è più per precauzione che per reale pericolo. Ci sforziamo di credergli, storciamo il naso pensando a quanto debba essere noioso doversi chiudere in celle per sentirsi al sicuro.
Il pericolo, tuttavia, noi l'abbiamo solo respirato, ma mai vissuto: a partire dai nostri hosts, ogni brasiliano incontrato per strada ci ha regalato un sorriso e dimostrato grande generosità. E così ci siamo riscoperti allegri e sereni, grati a queste stupende persone, un po' colpevoli per essere stati troppo diffidenti e timorosi.
Quindi non importa se come sottofondo abbiamo avuto i grigi e sconnessi grattacieli di San Paolo, la disponibilità e la gentilezza sono state tali che la città ci è (quasi) piaciuta.
La nostra canzone di San Paolo è Aonde quer que eu vá - Paralamas do Sucesso
Il nostro piatto di San Paolo è il paninazzo con la mortadella
0 notes