#che naturalmente era inutile quanto un soprammobile
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metto su la “discover weekly” di Spotify perché ogni tanto c’è bisogno di cambiare sottofondo al cervello.
dopo mezz’ora di un mix di generi che ascolto a cazzo ultimamente, parte qualcosa che il mio cervello si attiva come se si fosse appena fatto una pista di coca e mi mette davanti allo schermo della memoria l’immagine di un cartone animato che avrò visto si e no tre volte da bambina, perché non andava d’accordo con l’idea materna di cartoni adatti a una bambina di 8 anno.
gli dico: “ma va, figurati se è quella. è spotify. sarà qualcosa che gli assomiglia”
ma il cervello insiste, gli assomiglia troppo.
indulgo: “ok dai, vado a vedere cos’è e ci faccio un post simpa dove grido al plagio”
oh,aveva ragione il mio cervello: ERA LA FOTTUTA SIGLA DI ROBIN HOOD. nella discover weekly di spotify. creata in teoria sulle mie preferenze.
non ho mai ascoltato una sigla su spotify.
questi stronzi hanno chiaramente fatto un algoritmo bastardo che devono aver chiamato “l’algoritmo che ti fa ricordare quanto sei vecchio/a”, giusto per vedere quanto riescono ad aumentare il livello di alcolismo in quelli della mia generazione.
mannaggia a loro.
e comunque non è che abbia lottato molto con Madre per vedere Robin Hood. avevo altre priorità.
#robin hood miseria ladra!#sul serio l'ho visto tipo meno di dieci volte#e l'unica cosa che mi ricorda è la sua irruzione in una chiesa per salvare lady marian#che naturalmente era inutile quanto un soprammobile#io preferivo lisa e seya#non giudicate#potevo vedere solo due cartoni al giorno
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Libro 6. John Williams, “Stoner” (Fazi Editore)
Ci sono delle volte – la maggior parte, io credo – che entrare in una libreria non è più quel sogno di bambina in cui si viene inebriati dal buon profumo delle copie appena rilegate, la lucentezza delle copertine. Un certo tipo di viscosità gommosa, fastidiosissima alle unghie, dei nuovi Adelphi. Il design di grafiche ricercate di Einaudi: monocromi spezzati. L’incomprensibilità delle copertine di Giunti editore. Ti aggiri tra le sezioni calpestabili scandite da aiuole di Best Seller. Passo lento, strascicato. E il disincanto ti prende tutta, quando sei là non per un titolo in particolare, ma per farti catturare da quel qualcosa. Solo che questo qualcosa, alla fine, nella maggior parte dei libri di recente pubblicazione, non lo trovi. Torni a casa, felice del tuo acquisto, ma è una felicità con riserva, perché in fondo lo sai che non sarà mai lo stesso che leggere Dumas, Wallace. Un pregiudizio prolungato: proprio io che penso di non avere mai pregiudizi, diventando così, con questa sola frase, la regina di tutti i pregiudizi. Ma perché non ho comprato un classico, mannaggia a me?
Con il premio “pregiudizio dell’anno 2017 d.C” entrai un giorno con mia zia alla Feltrinelli (Palermo). Il bello di mia zia, tra le tante cose belle, è che è sempre tutta di fretta, ma capita che a un certo punto non sia più di fretta ed è bella quando passeggia disincantata, cervello in funzione, occhi sui titoli dei libri, accarezza le cose, “Lella, sono alla sezione poesie, vieni!”. Quando andiamo in libreria Lella mi regala sempre un libro e, solitamente, ne compro uno da me (magari quel gran mattone di libro dal gran mattone di lista che porto da anni nel portafogli con titoli perlopiù di classici e autori di nicchia) e uno lo compra lei, che prima andava da Fabrizio di Modus Vivendi e Fabrizio le consigliava sempre il libro giusto per me. Ora prendo io le veci di Fabrizio. Lei mi aspetta, io giro, sfogliando i titoli, e dico “Va bene questo” e così sia, un amen da autoparlante. Quel giorno, il 10 Ottobre 2016 (grazie Instagram, per ricordarmi date assolutamente insignificanti), Lella mi regalò Stoner di John Williams (Fazi Editore). E in realtà, caro lettore (a cui ricordo che non sto qua mica a fare il critico – io – ma porto avanti l’esclusivo mio dovere personale di lettore – a mia volta -), caro lettore – dicevo – non avrò per te giri di parole, perchè Stoner è un capolavoro. Un capolavoro, e nulla più. Per rifarmi alle attentissime e condivisibilissime parole di Peter Cameron, che ne ha curato la postfazione all’edizione italiana: “La prima volta che ho letto Stoner sono rimasto sbalordito dalla qualità della scrittura, dalla sua pacatezza e sensibilità, dalla sua implacabile chiarezza abbinata a un tocco quanto mai delicato. […] la narrazione volteggia sopra la vita di Stoner e cattura ogni volta i momenti di una realtà complessa con limpida durezza […], e attraversa con leggera grazia il cuore del lettore, ma la traccia che lascia è indelebile e profonda”.
È vero, tutto vero, ed è un libro bellissimo e per molto tempo, quando lo finii, mi ricordò per certi aspetti Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: la storia di un uomo che per quanto possa essere chissà cosa, chissà chi, chissà perché, vive nella sua insignificanza colmo del significato della propria vita. Un viaggio, quello di Stoner, più lungo di quello del principe Fabrizio, in quanto Fabrizio lo troviamo già sposato con prole, mentre William Stoner è solo un ragazzino di campagna (e, vedendolo crescere, cresciamo con lui, ci confrontiamo con lui). Ad ogni modo credo, per quanto opinabile possa essere il mio giudizio di lettore, che la tensione e l’attenzione che il lettore ripone nelle parole di questi due libri sia la medesima. Stoner, come il Gattopardo, non è un libro dai colpi di scena, dalle grandi gesta eroiche, dalle istrioniche battute, dai capoversi da sottolineare per intero, ma è un libro semplice, delicatissimo, che come una goccia, a poco a poco, ti trapassa prima la carne, poi il muscolo, poi l’osso e diventa parte di te, la parte che vede le cose come sono per la prima volta senza affanno: la tragedia umana come tragedia umana, perché è solo una tragedia, perdio, e nulla più, nulla di angosciante, e infine morire, con la naturalezza degli occhi stanchi: alzatina di spalle. La normalità della vita: alzatina di spalle. Gli errori compiuti di continuo: una pazienza enorme verso noi stessi. Questa enorme capacità di John Williams, come a suo tempo Tomasi di Lampedusa, di creare una scrittura chiara senza necessitare di fraintendimenti, eppure così limpida da far confondere e smarrire, è una rarità nella scrittura contemporanea. Il postmoderno, ma forse da ancor prima, ha creato il mito del massimalismo concettuale anche in scrittura: la moda del dire, ad esempio, “il mio corpo è una macchina perfettamente funzionante e organizzata in modo tale che sappia naturalmente come espletare i bisogni corporali in una ripetitività continua giornaliera che aliena il quotidiano, creando un sistema circolare fondato sull’urina della mia vescica”, semplificabile con la più banale “ogni mattina alle 7 faccio la pipì”. Stoner rinuncia al mito della complessità e si dà al pubblico, al lettore, in tutta la sua bellezza, in tutta la sua banalità, in tutta la sua armonia perfetta del linguaggio comune, popolarissimo, esemplare nella sua grammatica, commovente nel suo pensiero universalmente comprensibile, universalmente condivisibile, universalmente vissuto.
Sono tanti i temi affrontati in questo libro, senza alcuna pretesa moralistica: le scelte universitarie e le conseguenze implicanti, la decisione del partecipare o no ad una guerra come assunzione o meno di una responsabilità collettiva, un matrimonio nato fallito e la capacità di abituarsi alla scomodità relazionale e al non demordere per una stupida promessa fatta che forse stupida mica lo è, l’abbandono della prima donna amata per rispetto alla classe a cui si appartiene e al ruolo che la convenzione sociale ritiene, la difficoltà d’approccio di un padre verso una figlia alcolizzata. Tutti temi, questi, riconducibili all’unico grande tema che è: la scelta. Stoner è una storia di scelte, di “non si può tornare indietro” e “nessuna seconda possibilità”. Stoner è la storia di tutti noi, è l’accettazione totale, seppur in una frustrazione certamente consapevole, di tutti quelli che sono gli errori e i rimpianti delle nostre vite. La vita di Stoner è la nostra vita, è la nostra storia e nessuno ne scampa e ne scappa. Non si può. Significherebbe fuggire da noi stessi, ma per quanto corriamo, lo sappiamo, è sempre da noi che bisogna tornare. E tornando, Stoner ci insegna che, in fondo, forse, non ci è andata tanto male; in fondo, forse, non ha neanche così tanta importanza, ormai. Forse, in ultimo, come cantano i Baustelle: “La vita è tragica. / La vita è stupida / però è bellissima essendo inutile. / Pensa al contrario e poi ti ammazzi subito. / Pensare che la vita è una sciocchezza aiuta a vivere. / Non avere mai paura / non stare male per qualcosa che non è / non tremare mai la sera / ricordati che stai giocando a un gioco senza vincitori. / Lo so, la vita è tragica / la vita è stupida però è bellissima essendo inutile. / È solo immagine / un soprammobile. / Pensare che la vita non è niente aiuta a vivere. / La vita è tragica però è fantastica essendo inutile. / È solo immagine/ è tutta estetica. / io penso che la vita non è niente e provo a vivere”.
M.
#1 : sentire
#2 : chi
#3 : la gentilezza
#4 : giustificarsi
#5 : tradimento
#6 : "non morire mai"
#7 : "non era che"
#8 : espletare
#9 : "non ha importanza"
#10 : qui ed ora
#11 : spietatamente
#12 : "primavera non bussa, lei entra sicura"
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