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Rubrica Controcampo: Migranti in Albania, agenti italiani alloggiati in resort di lusso
Un'analisi critica sui costi e le condizioni della missione italiana in Albania, tra stipendi elevati e soggiorni di lusso
Un’analisi critica sui costi e le condizioni della missione italiana in Albania, tra stipendi elevati e soggiorni di lusso. Nell’ambito della rubrica Controcampo, analizziamo oggi il tema della gestione della missione italiana in Albania, un’operazione che ha suscitato non poche polemiche, soprattutto per i costi associati all’alloggio degli agenti. L’articolo di Alessia Candito di Repubblica ci…
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Laura Boldrini
A quanto apprendiamo dalla stampa, in questo momento la nave Libra della Marina Militare è in acque internazionali, ma a poche miglia da Lampedusa, con otto migranti a bordo. Sarebbe in attesa di intercettare altre imbarcazioni per selezionare persone da portare in Albania.
Siamo al paradosso più assoluto: il governo spera che arrivino delle barche (le stesse che vorrebbe non fare partire dalle coste nordafricane) pur di fare i trasferimenti e dirigersi verso l'Albania solo per assecondare un'operazione di becera propaganda che nulla ha a che fare con la gestione dei flussi migratori.
Nel frattempo, da più di 15 giorni, gli ormai famigerati centri sono vuoti. In Albania ci sono solo gli agenti della polizia penitenziaria e della polizia di Stato: un altro spreco di risorse pubbliche.
Diritti violati, leggi scritte male e soldi, tanti soldi, buttati solo perché Meloni possa dire che lei aveva trovato la soluzione, che i migranti non sarebbero più arrivati in Italia, ma che i giudici cattivi le mettono i bastoni tra le ruote.
Una storiella a cui non crede più nessuno.
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Purtroppo la Signora Boldrini è fin troppo ottimista.
La storiella che i nazifascisti di governo ci difendono dalle invasioni dei ne*ri è vangelo nelle menti del 40% dei nazifascisti italiani che votano la matrigna bugiarda e fascista...
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I conti non tornano. (...) il numero degli extracomunitari ospiti all'interno delle strutture di accoglienza sparse sul territorio non soltanto non è aumentato ma è addirittura diminuito, quantunque di poco. (...) Ebbene, al 15 giugno, pur avendo incamerato 17.698 extracomunitari dal primo gennaio, abbiamo nei centri 76.744 ospiti, ovvero 3.173 in meno rispetto all'inizio dell'anno. Come si spiega questo fenomeno bizzarro? Semplice! I migranti vengono sbattuti sulla strada (...). E, leggendo questi dati, non possiamo che concludere che in questi mesi si sono riversati sul marciapiede (in) circa 14 mila. Del resto, espulsioni in massa non sono state registrate. Né si può presumere che 14 mila individui abbiano trovato lavoro e casa, per di più in una fase di stagnazione economica. (...) Se i quasi 20 mila neo-arrivati si fossero sommati agli 80 mila già in accoglienza a gennaio, avremmo avuto 100 mila persone ospiti sul suolo italiano (oltre agli "ospiti" già sdoganati: si valuta in quasi 700.000 il numero totale di CLANDESTINI, non di migranti, in Italia, ndr). È un sistema folle, disumano e ipocrita.
https://www.liberoquotidiano.it/news/terra-promessa/27728862/immigrazione-sbarchi-raffica-centri-vuoti-conti-non-tornano-terribile-sospetto-che-fine-fanno-migranti.html
Mah, forse sperano che lasciandoli liberi si spostino tutti verso Franza e Cermania. Pia speranza, in realtà si accumulano attorno alle stazioni dei treni. E i più “hot” dan fuori di testa. Più passa il tempo, più singoli che scoppiano c’è - cioè più migranti consapevoli di essere stati presi per i fondelli dai Buoni. Evidentemente è colpa dei Non Buoni: non li “integriamo”, non ci impegniamo abbastanza.
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Nella settimana di mobilitazioni contro il decreto Salvini, a Padova Adl Cobas, l’Associazione Open Your Borders, la Polisportiva SanPrecario, Sconfinamenti, Sportello Meticcio lanciano un appuntamento pubblico per mercoledì 6 febbraio alle 11 davanti all'Ufficio Anagrafe di Piazza dei Signori.
Accogliere, includere e sostenere le persone è un compito comune, i padovani lo sanno bene e la nostra città brilla per le azioni concrete di solidarietà e mutualismo messe in campo da centinaia di singoli ed associazioni. Lavoriamo quotidianamente per reggere a una situazione difficile, precipitata nell’autunno a causa della legge 132/08, ovvero il “decreto Sicurezza”. Questo provvedimento, che prende il nome dal ministro dell'interno, è un dispositivo che genera divisioni, architettato per frammentare ulteriormente quel tessuto sociale che le realtà di base di Padova in questi anni, con molta fatica, hanno saputo mantenere vivo. A Padova, come nel resto d'Italia, la “legge Salvini” punta a dividere la società in “cittadini” e “invisibili”, imponendo ai sindaci di privare di ogni diritto migliaia di persone e di allinearsi al suo ministero per combattere una guerra contro i poveri. Tra le misure contenute nella legge, il divieto di iscrizione anagrafica dei e delle richiedenti asilo punta a rendere ulteriormente precaria e invisibile la vita di migliaia di persone. Con l'abolizione del permesso di soggiorno umanitario, il governo, raggiunge invece uno scopo ben preciso: portare un numero sempre maggiore di migranti ad essere irregolari e vivere in strada, privandoli quindi di qualsiasi diritto per poi stigmatizzarli come “clandestini”. Rafforzare così l'idea di un nemico interno, costruire a tavolino un capro espiatorio contro cui scagliarsi, buono per tutte le campagne elettorali. Di fronte a un attacco di tale portata, sferrato attraverso una legge dello Stato che dall’alto precipita sui corpi e i desideri di chi sta in basso, si rafforza la nostra certezza di essere nel giusto e di fare la cosa giusta lottando fianco a fianco e sostenendo i migranti e tutti coloro che sono colpiti da queste misure. Per questo crediamo necessario che si debba compiere un salto di qualità per fronteggiare l'ingiustizia sociale. I Sindaci e le Amministrazioni Comunali possono e devono compiere atti importanti, scegliere da che parte stare, avendo un ruolo centrale nella gestione dell'anagrafe: devono trovare la forme ed i modi per iscrivere nel registro dei residenti tutte le persone che risiedono nel territorio comunale e ordinare all'ufficio anagrafe di farlo. Ieri a Palermo il sindaco Orlando ha disobbedito apertamente al comando anticostituzionale della Legge Salvini, iscrivendo al registro anagrafe quattro persone con permesso di soggiorno in corso per motivi umanitari e come richiedenti asilo, assumendosi la piena e unica responsabilità dell'atto, agendo direttamente come "ufficiale di governo e ufficiale d'anagrafe".La stessa cosa chiediamo di fare al sindaco della nostra città, Sergio Giordani. Nel contempo va verificato che non ci siano discriminazioni di nessun genere: non si deve negare il diritto a tutte le prestazioni erogate sul territorio comunale dalla pubblica amministrazione e anche dai servizi forniti da soggetti privati, quali le banche, le assicurazioni, le agenzie immobiliari. L'amministrazione deve verificare che sia garantito l'accesso all’istruzione (scuola, nidi d’infanzia) e alla formazione, anche professionale, ai tirocini formativi, alle misure di welfare locale (comunale e regionale), all’iscrizione ai Centri per l’impiego, all’apertura di conti correnti presso le banche o le Poste italiane. Questo inseme di diritti e tutele va garantito anche a chi, per necessità, si trova ad occupare, facendo rinascere quegli spazi vuoti e abbandonati delle nostre città. Contro l’articolo 5 della Legge Lupi del 2014 che ha tolto la possibilità di chiedere la residenza e l’allacciamento ai pubblici servizi, e contro la Legge Salvini che ha raddoppiato le pene per chi occupa e ha istituito una nuova figura criminalizzata: chi aiuta e offre solidarietà. Per questo, durante la settimana di mobilitazione #indivisibili che si concluderà con l'assemblea nazionale di Macerata, il 10 febbraio, scegliamo la sede dell'ufficio anagrafe, non solo per ribadire che il diritto alla residenza va immediatamente garantito ai richiedenti asilo e non solo, ed esteso a tutte quelle persone che dimorano abitualmente nel Comune di Padova, ma anche perché esso è il luogo dove il decreto Salvini esercita tutta la sua efficacia contro i migranti e richiedenti asilo, andando a minare le libertà e le tutele di tutte e tutti. Mobilitiamoci, quindi, contro politiche razziste ed escludenti, tutti insieme, mercoledì 6 febbraio, alle ore 11.00 davanti all'Ufficio Anagrafe di Piazza dei Signori, per garantire il diritto di tutt*, nessuno escluso, alla residenza e ai diritti ad essa collegati. E' una questione di giustizia sociale, è una battaglia di civiltà.
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Post 3 di 3 Continua da 2 di 3 Andrea ha detto: 3 maggio 2008 23.05 Mi viene in mente una battuta: “Cosa ne pensi dell’aumento del prezzo della benzina?Che mi frega! Io continuo a metterci sempre 20 euro…” Si dice sempre che l’Italia è lunga. Siamo diversi tutti. Nord e sud. Regione per regione, province, città, quartieri. Guelfi e ghibellini. Comunisti e fascisti. Laici e bigotti. Divisioni, sub divisioni, distinguo. Nessuna fratellanza, senso di unità o di appartenenza. Ognuno una bandiera, una divisa, un gagliardetto. Lo stemma del proprio municipio. Ci appuntiamo le stellette e tappiamo in nostri vuoti dell’anima. Insulti razziali, etnici, religiosi. Terrone è, ormai, quasi bonario ma 40 anni fa c’erano i cartelli “Non si affitta ai meridionali” non diversi da certi avvisi del Sudafrica con l’apartheid o della Germania nazista. Dobbiamo essere “migliori di”. Vogliamo qualcuno da disprezzare, per consolarci. La differenza non ci attrae ma ci spaventa. Oggi noi terroni (di prima, seconda o terza generazione) ci “salviamo” perché nella scala dell’odio sono entrati altri disperati. Immigrati, extracomunitari, vucumprà, clandestini, migranti. Li appelli come preferisci. Alla fine il discorso è sempre lo stesso: la paura del diverso. Il monstrum che bussa alla porta, le nostre certezze che traballano. Poi, la reazione. Disprezzo, insulti, discriminazione, pogrom, centri di raccolta… E allora? Allora basta con le cazzate de “italiani brava gente” e “popolo tollerante”, le “radici cristiane”. Senza la ricchezza del boom economico saremmo finiti come l’ex-Jugoslavia e la presenza (ed il successo) di attuali partiti politici xenofobi e razzisti ne è la riprova. Non sono orgoglioso di appartenere a nessuna parte d’Italia. Mi sento apolide, una straniero nella mia nazione. Non ho città, quartiere o squadra. Ma non mi sento innocente. Come sempre non mi sottraggo perché se hai un problema sei parte del problema. https://www.instagram.com/p/CE_VedmF1m0/?igshid=9dat6plffczq
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Chi non rientra nella visione “decorosa” della città, rom, migranti, poveri (multati se rovistano nei cassonetti), writers, movimenti di lotta per la casa e centri sociali, viene respinto o criminalizzato. Il Messagero e il Tempo, i principali quotidiani romani (la cui proprietà è storicamente in mano a costruttori: Caltagirone e Angelucci, che ha acquistato nel 2016 da Bonifaci, altro imprenditore nel settore dell’edilizia) parlano nei loro titoli di “racket della casa”, di richieste di pizzo, mettendo costantemente in relazione la criminalità che lucra sulle case (attraverso vere e proprie compravendite di alloggi popolari) con i movimenti di lotta che, ponendo questioni sociali e politiche, occupano collettivamente gli stabili lasciati vuoti da decenni: una relazione in realtà inesistente. Il blog romafaschifo.it, alfiere della campagna mediatica sul degrado, finito addirittura sulle pagine del New York Times, definisce i movimenti “nazisti”, “pro mafia-capitale”, “criminali”, “un danno per la città” e responsabili “del declino di Roma”. Ma sono stati i movimenti a costruire i quartieri in aperta campagna?
Il declino di Roma - il Tascabile
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Diciotti, cento migranti nei centri della Cei: “Data disponibilità al Viminale. Abbiamo case e istituti vuoti”
Diciotti, cento migranti nei centri della Cei: “Data disponibilità al Viminale. Abbiamo case e istituti vuoti”
“Non era più sostenibile la situazione e per questo la Chiesa italiana ha deciso di aprire le porte, nel rispetto dei principi espressi più volte dal Papa, costruire ponti e non muri”, spiega don Ivan Maffeis, sottosegretario della Conferenza episcopale italiana
“Non era più sostenibile la situazione e per questo la Chiesa italianaha deciso di aprire le porte, nel rispetto dei principi…
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Libia, a Tripoli nella prigione dei migranti indesiderati
Domenico Quirico, 12 agosto 2017
Tripoli - Che fine fanno quelli che rimandiamo indietro, il popolo dei barconi che le motovedette libiche «salvano» prima che entrino nel nostro mare: quelli per cui inizia il vero viaggio, che è al di fuori di se stessi? I migranti che evaporano nel nostro limbo di disattenzione, che non sono per noi più migranti, un figliol prodigo senza la casa in cui ritornare? A quale destino li consegniamo, noi che abbiamo cessato di dare?
Per questo sono venuto in Libia, a cercare una risposta. Il mestiere che faccio non è discutere se una politica è efficace o no, è semplicemente raccontare quali sono le conseguenze della politica sugli esseri umani. Alla fine di tutto, ogni volta, c’è sempre una scelta morale. Poi deciderete, ma dovete sapere qual è il prezzo che fate pagare. Non potrete dire: ignoravo tutto, credevo, mi avevano detto. Vi racconterò allora dove ho incontrato i migranti salvati. Se non mi credete, è facile verificare. I centri libici per i clandestini, dunque. È lì che ho sentito l’odore dei poveri.
Sapete: non mi ha più lasciato il puzzo della miseria, si è attaccato ai vestiti, alla pelle, mi ha inseguito dopo che ne sono uscito. Ho gettato via i vestiti che indossavo, ed è rimasto lì, mi è entrato dentro. Mi insegue e mi perseguita. Cosa è l’odore dei poveri? È un misto di sudore sudiciume immondizia urina secrezioni catarri cibi guasti o di poco pregio vestiti usati e riusati senza lavarli; è il trasudare della paura e di una dolente pazienza di vivere. Forse il problema è che coloro che decidono il destino dei migranti l’odore dei poveri non lo hanno mai sentito, vengono, parlano con i ministri in belle sale refrigerate. I centri per l’immigrazione clandestina (che ironia in un Paese, la Libia, che per quaranta anni ha fatto svolgere tutti i lavori duri a milioni di clandestini schiavi) sono sigle e numeri. Sigle e numeri. Questi uomini e donne e ragazzi sono detenuti, prigionieri. Non possono uscire, non possono comunicare con le famiglie. Mi hanno chiesto: «Che reato ho commesso? Ho lavorato qui per anni, ho pagato dei libici per traversare il mare». Non ho saputo rispondere.
Tripoli scorre veloce, le cuspidi dei minareti si alternano ai relitti in cemento armato, che innalzano al cielo niente più che grandi segni grigi. In fondo ai vicoli, prigioniere tra case slabbrate di otto piani, montagne di immondizia che nessuno raccoglie. L’odore della strada con il suo catrame ribollente. A tratti, isolato, sale dal mare il richiamo di una sirena, lontana, solitaria e come soffocata. File silenziose fino a notte attendono, inutilmente, di poter prelevare piccole somme ai distributori delle banche. Non c’è denaro, se non per alcuni. Una grande macchina ferma.
Il centro è in una strada che i libici chiamano «la ferrovia» perché qui al tempo degli italiani passava il treno, la villa-palazzo di Balbo è a un passo. L’ho scelto apposta: credo sia una sorta di vetrina, il ministero dell’Interno la usa per mostrare i risultati dell’efficace caccia ai migranti. Ci portano i giornalisti e i controllori puntigliosi delle organizzazioni umanitarie del Nord Europa, principali donatori. Organizzano anche partite di calcetto tra i detenuti: «Se viene subito si gioca Marocco contro Kenya». In realtà erano migranti della Costa d’Avorio, ma, si sa, son tutti «negri» al di sotto del Sahara.
Dentro sono in 1400 (lo spazio è per 400 persone), gli uomini da una parte le donne dall’altra, si parlano urlando attraverso le sbarre. In nove mesi 3149 rimpatriati a spese delle Nazioni Unite, 244 «a spese loro», 71 hanno ottenuto il diritto di asilo, 6715 sono stati distribuiti in altri centri.
«Abbiamo perso tutto»
La prima cosa che incontri è, gettato in un angolo, il mucchio degli stracci donati per rivestire i migranti. I guardiani frugano, mettono da parte le cose migliori, una camicia, giubbe militari. A fianco un vecchio camion frigorifero, sequestrato. Dentro hanno trovato dieci migranti morti durante la traversata del deserto, dal Sud. Poi c’è la gabbia, un cortile coperto da una tettoia metallica, a sinistra si aprono le porte di alcuni stanzoni, le celle. La prima impressione è quella di entrare in una serra umida e afosa, dal pavimento esala, insopportabile, un vapore caldo come il sudore dai pori di un animale. Non ci sono letti o brande, non ci sarebbe posto, solo stuoie sudice, lembi di plastica, pezzi di cartone. I corpi, la notte quando le porte di ferro sono chiuse da grossi lucchetti, si infilano l’uno accanto all’altro per poter restare sdraiati. Se cerchi di spostarti cammini su quella spazzatura umana. Centinaia di volti e di corpi seminudi per il calore si volgono verso di me, c’è come uno strano raccoglimento. Stivati l’uno accanto all’altro, stesi o seduti, i migranti: corrosi, stremati, spolpati, distorti, bolsi. Vedo braccia riverse, gambe abbandonate, non nel modo di chi riposa o dorme ma di chi stramazza a terra in seguito a una bastonatura, esanime. E visi, visi neri e chiari quasi tutti di giovani, su cui sono dipinte tutte le sfumature della estenuazione.
Non sono ancora entrato e già mi chiudono in mezzo, dolcemente, come una mano. Ascolto voci, stordito dal caldo e dall’odore che azzanna, non sono parole, discorsi singoli, è un mormorio che sale dalla terra. Non sono uomini a parlare, è la disperazione, l’assenza di speranza. «Ci hanno portato via tutto, i poliziotti libici. Denaro, telefonini, vestiti. Non possiamo dire alle nostre famiglie dove siamo, che siamo ancora vivi». I guardiani assicurano che tutto è custodito con cura e sarà restituito al momento dell’espulsione.
Il sogno dell’Europa
Qualcuno avanza, spinto dagli altri che fanno largo, a mostrare le piaghe: c’è un giovane che ha gambe e braccia come scorticate dalla carta vetro: la benzina, la benzina sulla nave. Un altro più maturo mostra la spalla: fuori posto, staccata dal corpo. A quelli rosi dalla febbre i compagni hanno lasciato gli spazi lungo i muri, perché possano appoggiare il busto alla parete. «Qui non ci bastonano più ma dove eravamo prima, nella prigione di Mitiga… Ah, lì come sapevano picchiare».
È il problema di sempre: raccontare. È possibile trasmettere la memoria strutturandola? Il tempo di luoghi come questo è comunicabile in un altro tempo, il nostro? Ci sono occasioni in cui le parole sembrano aver perso peso, sono sacchi vuoti. Rispetto dell’uomo, rispetto dell’uomo! Questa forse è l’unica pietra di paragone.
Un ragazzo marocchino è tra quelli che dovranno essere rimpatriati tra pochi giorni; sembra frantumi, le parole in sillabe con le mascelle. Mi spiega perché tutti ritorneranno in Libia a riprovare il viaggio, appena avranno raccolto di nuovo un po’ di denaro: «L’Europa dove vivi tu è la felicità, nei nostri Paesi viviamo per mangiare e non per avere un avvenire». Le nostre spiegazioni sulla migrazione: formule venute a finire qui come le vecchie auto arrugginite che solcano le strade di Tripoli. Soltanto un ragazzo della Guinea mi ha detto che non riproverà. È fradicio di stanchezza: «Basta, è inutile. Non ho famiglia, nessuno che mi attenda né in Guinea né in Europa. Raccontare perché rinuncio? Vengo da laggiù, sono qua, non ti basta?».
Quando esco dalla prigione ho le tasche piene di bigliettini, pezzi di cartone su cui hanno scritto numeri di telefono delle loro famiglie: «Chiama, chiama, ti prego. Tu che puoi, dì loro che sono qui, che vengano ad aiutarmi, a tirarmi fuori». Ho provato a comporre alcuni numeri: risposte in lingue che non conosco o silenzi che affondano nel sospetto o nella disperazione. Con qualche padre o fratello ho parlato: cerco di instaurare con loro uno scambio, un rapporto umano. Mi piacerebbe dire di non perder fiducia, che i figli e i fratelli stanno bene e, alla fine, ce la faranno. Ma le parole non hanno lo stesso senso per loro e per te, ti chiedi se hanno il minimo senso davanti a questa sofferenza immensa e anonima. Sei tu che perdi fiducia, sei tu che perdi coraggio.
La tragedia delle donne
Mi sposto nella zona riservata alle donne: la situazione sembra migliore ma l’aria è rovente, grava il fiato di un fortore acido. Anche qui non ci sono materassi, solo stracci e stuoie. Accanto scola in una palude l’acqua che esce dalle latrine. Sono giovani ma parlano della vita come vecchie. Ho capito perché quando i poliziotti hanno tirato fuori da una borsa alcuni oggetti sequestrati: amuleti, fogli di carta con maledizioni rituali, bottiglie di plastica che contengono sangue mestruale. La magia nera per legare le migranti prostitute. E un quaderno in cui sono segnate, meticolosamente, le prestazioni di lavoro: 15 marzo dieci clienti, 16 marzo diciannove. E i prezzi: cinquanta centesimi di dinaro. Un euro vale nove dinari.
Dalle finestre il sole disegna uno sbilenco rettangolo di luce sulla parete e illumina le scritte. I muri, i muri della sezione femminile parlano: minacce, invocazioni, amari pentimenti. La Nigeria è viva, vieni in Libia e vedrai, grande Paese grandi migranti. Sono quasi tutte nigeriane, molte incinte: due litigano per un pezzetto di legno che serve come spazzolino da denti, altre due si contendono una caramella.
Un neonato nudo giace abbandonato sul pavimento, le braccia allargate, dorme. Al centro della stanza una donna è seduta a terra, le gambe aperte come per puntellarsi, le passano accanto, la urtano, lei non si muove. Prega, sì prega: un canto monotono per ringraziare dio che non l’ha abbandonata. Il sudiciume del luogo non riesce a coprire il risplendente e duro metallo di quelle parole. Sì, la Parola è davvero senza fine.
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Viaggio nella città toscana dove la lista della tartaruga frecciata ha conquistato l'8 per cento, portando un suo rappresentante in consiglio comunale. Riempiendo i vuoti lasciati dai partiti tradizionali
«Certo che li ho votati! No, macché, non sono fascista, io, ci mancherebbe! Ma quei ragazzi sono stati gli unici a darsi da fare. Qui al Piaggione il sindaco Pd non l’abbiamo visto neanche una volta in tutto il suo mandato. Guardi quell’avvallamento, sta lì da tre anni, fa tremare le case ogni volta che passa un camion, un giorno o l’altro le farà crollare, ma decine di lettere del comitato paesano non hanno avuto risposta. CasaPound, invece...». Anni 56, operaio in cartiera, alle scorse politiche un voto di protesta ai Cinquestelle, Francesco Novelli te lo spiega in due parole come hanno fatto i “fascisti del terzo millennio”, col loro simbolo della tartaruga nera in campo rosso e una lista collegata, a prendere a Lucca quasi l’8 per cento alle comunali di giugno e a portare in Consiglio il loro leader Fabio Barsanti, terzo per voti dopo il sindaco e l’avversario di centrodestra e prima del sindacalista candidato dai Cinquestelle. Case history, Lucca, ma lo stesso schema ha funzionato l’altr’anno a Bolzano e in questa tornata di amministrative a Todi, all’Aquila e in altri centri minori, con e senza apparentamenti col centrodestra, percentuali fra il 2 e il 5. Come ha raccontato a caldo Marco Damilano sull’Espresso dei tre omini neri col fez in copertina, per ballerina che sia la legge elettorale quella al momento in vigore alla Camera contempla una soglia del 3 per cento: non facile da raggiungere ma neanche impossibile. È in atto a quanto pare un cambio di strategia di CasaPound in vista delle politiche: dall’entrismo nel centrodestra (anche Barsanti alle comunali 2012 si era presentato, senza successo, con il Pdl) a liste autonome. Sulla scia greca di Alba Dorata. Il Piaggione, dunque, è l’ultima frazione del Comune di Lucca verso la Garfagnana, sorta intorno a un cotonificio oggi chiuso, duecento abitanti, dodici chilometri dalle mura, due file di vecchie case e in mezzo uno stradone. «La vuole sapere l’ultima beffa?», attacca Novelli. Ti conduce al vialetto alberato che porta alla stazione, abbandonata, e alla passerella sul fiume Serchio, sbarrata da un muro di cemento perché nessuno l’ha più riparata, e lui, che alla cartiera ci arrivava a piedi in dieci minuti, adesso deve prendere l’auto e fare il giro da sotto: «Tempo fa, sette o otto ragazzi di CasaPound sono venuti qua rimboccandosi le maniche a ripulire il viale dove i bambini giocano e le anziane signore fanno salotto sulle panchine. Sotto elezioni mettono un cartello per dire che tornano il sabato, e che fa il sindaco? Manda gli operai comunali alle 6 di mattina per far prima di loro!». Sbottano Alma e Rita, due delle signore in panchina: «Cosa credono, quelli, di cambiare la storia perché levano quattro frasche?» Ma quando al Circolino è venuto a parlare Barsanti la sala era piena, con gli altri quasi vuota. E il candidato di qua di CasaPound ha preso da solo 90 e passa voti. Chi sono, innanzitutto, i militanti? Venti o trenta, anche ragazze. Composti, ben vestiti, niente ostentazione, zero rappresaglie quando un collettivo di sinistra gli rovesciò palate di letame davanti alla sede. Attentissimi a non tracimare nell’iconografia del fascista violento e sprezzante. Determinati ma rassicuranti, dev’essere l’ordine di scuderia. La sede l’hanno in centro in un’ex-gioielleria con porta protetta, via Michele Rosi a cento metri dalla Casa della Carità dove suor Rosa delle Scalabriniane distribuisce una quarantina di pasti a migranti e, la sera, anche a italiani, ormai un terzo dei senzapane. Dentro la sede, tricolore, tartaruga, articoli di giornale, niente ammennicoli mussoliniani in vista, una tenda a dividere la zona club e bancone bar, riservata. Abili anche nella comunicazione, ribaltano pro domo loro gli svarioni altrui: la notte della risicata vittoria, il Pd in piazza a cantare Bella ciao, al sindaco scappa detto che con lui ha vinto «la Lucca bella e buona», loro gli sparano contro l’hashtag #Luccacattiva, come dire il 78 per cento che non l’ha votato, a Tambellini tocca scusarsi. Il loro capo è Fabio Barsanti, 36 anni, laurea triennale in Scienze giuridiche, anni fa lavori occasionali come cameriere e falegname, rappresentante di fiori essiccati e addobbi per vetrine e cerimonie, coordinatore di CasaPound prima in Toscana e ora nel lucchese. Un fumetto sulla pagina facebook sotto lo slogan “Difendere Lucca” lo raffigura con scudo e corazza da guerriero, nella destra una grande matita o paletto appuntito, difficile dire, sorridente. «Sempre con il sorriso sulle labbra» è la chiusa di alcuni suoi post. Però è sotto processo a Lecce per rissa aggravata, scontri con antagonisti nel settembre 2015; a chi glielo ricordava ha risposto di ritenere «anormale un uomo che non ha fatto a cazzotti»; e il suo film preferito è “Fight club”, combattimenti clandestini, bombe, banche che saltano per aria, anche se a lui ciò che piace del film è «la sfida, la realtà, il tempo». Toni pacati sempre, nei confronti pubblici e nei comportamenti privati, non come il candidato CasaPound di Ostia che prometteva in Consiglio di «far volare sedie e rovesciare banchi». Gentile e corretto, il Barsanti, anche quando ti dà buca. Arrivano in due, lui e un altro militante, bella moto Bmw del 2001, maglietta polo d’ordinanza, barba ben curata. Due ore prima dell’incontro concordato, un pomeriggio in giro tra sede e quartieri dove hanno fatto man bassa di voti, è arrivato il diktat del vertice romano di CasaPound: cancellare, niente interviste con L’Espresso. Non sono piaciuti i pezzi su Carminati. Sì, lui, “er cecato”, il neofascista dei Nar e della banda della Magliana, lo scassinatore di caveau, in galera per Mafia Capitale. Abbastanza stupefacente, ma così è. D’altronde, un minimo di gerarchia... «Un massimo di gerarchia!». Giusto. “Del terzo millennio” ma pur sempre fascisti si dichiarano e sono. “Gerarchia” era la rivista ufficiale del regime, anche se i loro riferimenti sono il fascismo rivoluzionario delle origini e quello repubblicano di Salò. Gerarchia resta per loro un valore imprescindibile. E gerarchia è «responsabilità, doveri, disciplina» (Mussolini 1922), «rapporto di subordinazione e supremazia» (Treccani 1932): chi sta sopra comanda, chi sta sotto ubbidisce. Anche se è uno come Fabio Barsanti, nel 2008 a Roma tra i fondatori nazionali di CasaPound Italia, oggi l’artefice dell’encomiabile risultato di Lucca. Vari fattori hanno concorso al loro successo in questa città un tempo feudo democristiano nella Toscana rossa. L’incrocio con la tifoseria estrema della locale squadra di calcio, la Lucchese, come raccontiamo a pagina 34 . L’attivismo del Blocco studentesco, loro filiazione, negli istituti cittadini, tre rappresentanti all’agrario, al turistico, al tecnico-commerciale e uno nella Consulta provinciale. Poi, certo, i 273 migranti sistemati in una tendopoli alle Tagliate gestita dalla Croce Rossa, il vicino campo rom semi-istituzionalizzato, e tutto l’armamentario cui attingono loro e altri qua e altrove: i barconi, l’invasione, i furti, la sicurezza, lo spauracchio del gender. Eccoli infatti proclamare che loro azzererebbero i costi per l’accoglienza girando i 500 euro al mese a ogni nuovo nato lucchese, o appendere davanti a una scuola d’infanzia cartelli con maschio e femmina stilizzati e accanto la X rossa sopra due omini maschi. Ma l’elemento decisivo che ha portato voti e consensi, è stato il lavoro capillare sul territorio. Ciò che un tempo svolgevano da dio il Pci e la Dc. Da tre anni almeno, non solo sotto elezioni, Barsanti e i suoi camerati di CasaPound girano, ascoltano, danno voce alla protesta di ogni singolo attore, comitato, gruppo: dai residenti di Antraccoli che si oppongono alla costruzione di un nuovo centro polivalente fino ai volontari del canile comunale di Montetetto, assieme ai quali si mettono a fare la sgambatura, l’ora d’aria degli animali, resa difficile dai nuovi regolamenti e dalla carenza di stanziamenti. Un attivismo quotidiano. Supplenza alle carenze delle istituzioni: a Nave han messo in sicurezza coi mezzi che avevano una piscina chiusa dove i bambini vanno comunque a giocare. Assistenza legale gratuita: la campagna “Nemica banca” contro gli illeciti degli istituti di credito. Volontariato: c’è il terremoto ad Amatrice, loro raccolgono e mandano abiti, soldi, cibo. Microwelfare: come una San Vincenzo nera, fanno la spesa all’invalido, organizzano mensilmente una raccolta alimentare, ritiro anche a domicilio, distribuzione alle famiglie bisognose, rigorosamente italiane. Su chi fanno presa, come allargano l’area di consenso, come arruolano nuovi militanti? Detto altrimenti: come si diventa fascisti nel 2017? Te lo racconta un uomo di sinistra, Simone Cavazzoli, presidente della Cooperativa sociale NoEmarginazione, agricoltura biologica e lavoro a disabili: «In questa città i mestieri altolocati sono appannaggio degli stessi cognomi da seicento anni e, caso unico, sulla carta d’identità ti scrivono “Lucca centro”: fuori le mura sei già un foresto. Alle periferie, alla pensilina che manca o al fiume che puzza non ci pensa nessuno. Loro sì. Ed è così che crescono: il ventenne vuol vedere un buco la mattina e la sera un mattone che lo chiude, ha bisogno di riscontri immediati di ciò che fa e di esserne soddisfatto. Hanno intercettato un bisogno di inclusione e riconoscimento di sé. Ne conosco un paio, ragazzi a posto, e madri contente della “buona compagnia” dei figli». È quasi un refrain: «Hanno lavorato bene, ci sono, li vedi, gli altri no»: così da chi li ha votati e da chi mai nella vita. Al Montuolo, altro quartiere dove sono volati nelle urne, villette, giardini, tre blocchi di case popolari e l’antica torre campanaria, Luca operaio elettrico, che stava con Bertinotti e leggeva il manifesto, ora vota CasaPound «contro il sindaco e contro una sinistra diventata liberista e preoccupata solo di immigrati e matrimoni gay». Lasci i dimenticati fuori le mura per il centro storico pieno di turisti americani che sciamano tra le cento osterie dal Duomo alla Casa del Boia per vie che si chiamano del Bastardo, dei Bacchettoni o della Felicità: e scopri che anche qui CasaPound ha rastrellato 334 voti, pari all’11 per cento. Perché «la sinistra ha aperto sei micromarket e una grande bisteccheria Eataly disintegrando il piccolo commercio e tutti i lunedì pomeriggio la Caritas distribuisce i panni agli immigrati tra i turisti basiti dallo spettacolo», si sfoga Partemio Moroni il pasticcere, disilluso pure dal centrodestra. Perfino il sindaco Pd Alessandro Tambellini, rieletto per il rotto della cuffia al ballottaggio con 361 voti di scarto, che con loro s’è preso a pesci in faccia prima e dopo le elezioni, ti dice che «hanno sensori sui territori, svolgono servizi nelle zone di maggior disagio, han censito gli edifici abbandonati che sono o possono diventare luoghi di spaccio». Gli chiedi perché non provvede il Comune. «Era tutto da rifare, a cominciare dai trasporti. S’incassavano 13 milioni l’anno di oneri di urbanizzazione, ora siamo a 1,6. Non arriviamo a tutto». I giovani e i militanti del Pd, allora? Circolo centro storico in piazza San Francesco, compagni e compagne seduti fuori a cerchio come un tempo nell’aia delle cascine, Sonia Bernicchi è la presidente del Comitato San Francesco, qua ospitato: «Ma anche noi facciamo tanto! Paghiamo bollette alla povera gente, italiani, sì, feste per i bimbi, ogni martedì andiamo nelle frazioni a prendere gli anziani per farli giocare a tombola da noi, e la domenica mattina è un viavai di gente che viene a prendere un litro di latte o un pacco di pasta, quasi più italiani che migranti. Il fatto è che non pubblicizziamo abbastanza ciò che facciamo...» Ecco, ci mancava, difetto di comunicazione, figuriamoci. C’è davvero da stupirsi se per un ragazzo è come una boccata d’aria fresca aggiustare un muretto in gruppo, perché no di camerati, anziché infervorarsi su come arare il campo di Pisapia o su dove s’è spostata oggi la tenda di Prodi? http://espresso.repubblica.it/palazzo/2017/08/31/news/come-hanno-fatto-i-neofascisti-di-casapound-a-prendere-l-8-per-cento-a-lucca-1.307061 Lucca, tutti i collegamenti tra i fascisti e gli ultras Alcuni gruppi organizzati della squadra locale, la Lucchese, sono una diretta emanazione di CasaPound. E negli anni scorsi il leader di una di queste associazioni è andato a combattere per la secessione del Donbass Non che Lucca sia nuova a storie d’estrema destra. Negli anni Settanta Ordine Nuovo (era di qua Marco Affatigato, ora in galera per truffa e bancarotta) e il Fronte Nazionale Rivoluzionario (grazie a una rete di complici, vi rimase nascosto per mesi Mario Tuti, condannato per due omicidi e ricostituzione del partito fascista), più di recente Forza Nuova, per un breve periodo. Il quinquennio peggiore s’apre nel 2004, e ruota intorno alla tifoseria della squadra di calcio, la Lucchese. In quell’anno nascono i Bulldog, che dalla curva ovest dello stadio Porta Elisa cacciano a sprangate la tifoseria di sinistra dei Fedayn e dei Tori flesciati e imperversano per le strade della città con pestaggi, aggressioni, accoltellamenti, caccia al rosso, un ragazzo ci rimette anche un occhio. Finalmente l’Ucigos si muove: retata nel 2009, condanna di 14 di loro dai 2 ai 5 anni
e mezzo per associazione a delinquere e una sfilza d’altri reati, tutto prescritto
in Cassazione giusto il 18 luglio. Intanto il loro capo, Andrea Palmeri, detto
il Generalissimo, è fuggito in Donbass, dove combatte coi filorussi contro gli ucraini:
«Un vero fascista italiano si è unito alla nostra milizia», esulta Pavel Gubarev,
ex governatore dell’autoproclamata repubblica popolare del Donetsk. Tre o quattro candidati di CasaPound sono tifosi storici anche in epoca Bulldog, ma non risultano coinvolti negli scontri. La Lucchese fallisce due volte in 33 mesi, ricomincia dal Campionato d’eccellenza, sale in serie D. Anche la tifoseria nera si rinnova, e ora due gruppi dominano la curva ovest: la Banda Thevenot (la bomba a mano degli Arditi nella prima guerra mondiale), diretta espressione di CasaPound, e La meglio gioventù, comunque amici. E giocano un ruolo chiave nella campagna elettorale. In casa, Barsanti e i suoi non si perdono una partita, animano il tifo, fanno nuovi proseliti. In trasferta non ci vanno per protesta e rifiuto della “tessera del tifoso”. Neppure a giugno, quando la squadra gioca i playoff per tornare in C, ma perde la sfida decisiva contro il Parma. Lui, in compenso, segna in città un 8 per cento che vale assai più della serie C. http://m.espresso.repubblica.it/attualita/2017/08/31/news/lucca-tutti-i-collegamenti-tra-i-fascisti-e-gli-ultras-1.307066?ref=twhe&twitter_card=20170831092632 iniziative_fasciste
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Oltre il 77 percento dei circa 180 mila profughi entrati nel sistema di asilo italiano vive in un limbo, ammassato in mega strutture inadatte. Il Veneto della rivolta di Cona, governato dalla Lega Nord, è una delle regioni meno virtuose a livello di buone pratiche per l’accoglienza ai migranti e richiedenti asilo. Su un totale di 14.221 immigrati presenti sul suo territorio al 30 novembre scorso (dati del Viminale), appena 519 sono quelli che hanno trovato posto nel circuito Sprar, mentre quasi 11 mila (10.627) persone sono state ammassate nelle cosiddette «strutture temporanee» gestite dalle Prefetture con una modalità che non riesce ad uscire da logiche emergenziali e basate su mega strutture di contenimento. In tutta Italia la mancanza di collaborazione degli enti locali, su cui si basano i bandi dei progetti Sprar, che dovrebbero formare una rete capillarmente diffusa di accoglienza accurata e finalizzata a integrare economicamente e socialmente i migranti in piccoli nuclei, tende a rigenerare logiche securitarie di contenimento in mega strutture come ex caserme o alberghi vuoti. La Sicilia – come si vede dal grafico – è la regione più virtuosa in questo senso, dove i migranti ospitati negli Sprar sono 4.259, pari però a quelli ancora nel limbo dei Cas, centri di prima accoglienza. Al vecchio piano Sprar del 2015 hanno partecipato soltanto 339 comuni (su 7.983, dopo le ultime fusioni imposte per spending review), 29 province e 8 unioni comunali in 10 regioni. I progetti Sprar 2016 sono appena scaduti e dall’8 agosto scorso il Viminale ha riformato il sistema di accesso cercando di aumentarne la capienza con premi fiscali e agevolazioni agli enti locali che accettano di parteciparvi. Il ministero dell’Interno non ha mai sposato in modo sistematico l’accoglienza diffusa ma nell’ultimo anno, sulla scia della battaglia delle associazioni antirazziste e umanitarie oltre che a causa delle inchieste della magistratura e dei richiami delle commissioni per i diritti umani di Strasburgo, almeno la tipologia funzionale alla detenzione e ai respingimenti dei migranti economici dei Cie sembrava avviata a un lento dissolvimento. A rianimare invece l’idea di risolvere il problema dei profughi utilizzando mega strutture come ex caserme – sempre utilizzate dalle prefetture quando non sanno dove dare un tetto ai migranti in arrivo dagli Hotspot – è stata anche una delle ultime puntate di Report prima dell’addio di Milena Gabanelli alla Rai. Poi il nuovo governo Gentiloni ha spostato Angelino Alfano, che proprio fuggendo dalla gestione della politica sull’immigrazione, poco politicamente redditizio nel centrodestra, è approdato alla Farnesina, lasciando al Viminale Marco Minniti che ha inaugurato il suo dicastero promettendo un ritorno in pompa magna di Cie ed espulsioni, proprio come Matteo Salvini ha sempre sbraitato di volere. Rachele Gonnelli da il manifesto
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Era originario della Costa D'Avorio. E' morto di peritonite, da solo, di notte, nell'ospedale Loreto Mare. E' morto dopo essere stato lasciato solo, insieme a suo fratello e ai suoi amici. La descrizione di quanto accaduto è ben riportata dai compagni e dalle compagne di Ex Opg Occupato Je so pazzo, che conoscevano la vittima e sono intervenuti dopo aver ricevuto la telefonata dei suoi amici. Ibhraim è morto perché è stato lasciato solo. Solo perché a nessuno importava della vita di un ragazzo nero. Perché un ragazzo nero per terra rantolante è considerato pericoloso, visto che il farmacista che ha chiamato l'ambulanza rendendosi conto della situazione non ha nemmeno aperto la porta per visitarlo. Perché un ragazzo nero per terra circondato dai suoi amici disperati avrà sicuramente bevuto, o magari sarà stato protagonista di una rissa, visto che due pattuglie dei carabinieri passate li vicino non raccolgono la richiesta di soccorso ma anzi intimano ai giovani di allontanarsi. Perché un gruppo di neri non può avere soldi, visto che il tassista a cui gli amici si rivolgono per portare Ibhraim all'ospedale, di fronte alla tragedia che si sta compiendo incredibilmente specifica il prezzo della corsa, per poi dire che non ha l'autorizzazione della polizia per portarlo al Loreto Mare: perché se sei nero, la polizia deve per forza c'entrare con te e quello che ti succede. Se sei nero nemmeno devi sapere come sta tuo fratello, finalmente portato, dopo più di una giornata, in sala operatoria: troppo tardi però. Tuo fratello è morto: ma lui era nero, e anche tu, e allora puoi anche aspettare a sapere, a vedere il suo corpo. Devono intervenire dei compagni -bianchi – perché, dopo ore, i medici ti mostrino la salma di tuo fratello. Nessuno ti spiega nulla. E alla tua richiesta di spiegazioni, arriva la polizia, in assetto antisommossa: perché i soldi mancano per tutto, ma non per manganelli scudi e camionette. Le ambulanze non si possono muovere “per un ragazzo che vomita”, ma la polizia arriva subito quando l'ospedale la chiama perché un gruppo di neri chiede verità sulla morte dell'amico. E non c'è nulla di strano se a queste richieste seguono minacce e intimidazioni, come documentato dai compagni di Ex Opg. Del resto, è successa la stessa cosa a Roma, due mesi fa, quando all'uccisione di Niang Maguette non era seguita alcuna spiegazione: allora, con un tweet, la polizia esultava per la “buona riuscita dell'operazione contro la vendita di merce contraffatta”. Evidentemente, la morte di un uomo è considerata una conseguenza possibile. A amici e solidali che chiedevano spiegazioni, era stato risposto con le manganellate. E' tutto normale: sei nero. Perché al posto che tacere e abbassare la testa, la alzi e chiedi spiegazioni? Devi restare nei campi a raccogliere pomodori per due euro al giorno, a vivere nei capanni abbandonati. Devi restare nei centri di accoglienza, dove sei addirittura chiamato “ospite”, parcheggiato insieme ad altri per un tempo indefinito, in cui non puoi avanzare alcuna lamentela sennò viene sbattuto fuori. Devi pulire il culo ai nostri vecchi, senza un giorno libero, senza dormire per mesi, e ringrazia che hai il lavoro. Devi essere deportato nel tuo paese da cui hai scelto di andartene, preso ammanettato picchiato e messo su un aereo. Devi sentirti dare del tu come se fossi sempre un bambino. Devi sentire gli insulti delle persone e stare zitto, o prepararti a morire per strada mentre tutti i giornali fingono di non sapere che dietro al tuo omicidio non c'è tifo calcistico, ma razzismo e fascismo. Ma cosa ti aspetti? E' lo stato stesso a essere razzista! E' lo stato a legittimare discorsi razzisti, a non fare nulla contro attacchi fascisti, a coprire le violenze della polizia. E' lo stato a aprire altre Cie, a reprimere qualsiasi forma di dissenso. Uno stato in guerra contro chi non si allinea, uno stato che odia i migranti, i giovani, chi ha idee di socialità e condivisione. Uno stato che distrugge territori, ama palazzinari e speculatori. Che ha interi palazzi vuoti e decadenti, ma lascia le persone per strada e attacca chi quei palazzi li occupa, li sistema, ridando vita a loro e alle città. Uno stato che ha lasciato morire un nostro fratello da solo. In questa guerra, noi sappiamo da che parte stare. Con Ibrahim, con tutti i fratelli e le sorelle che lottano ogni giorno per un mondo diverso
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Le giornate di venerdì e sabato hanno registrato una grande mobilitazione nel quartiere di Tiburtino III, periferia nord-est di Roma. Abitanti, realtà sociali, sindacalismo di base, associazioni, collettivi e singoli hanno dato vita ad una due giorni che, per partecipazione e contenuti, assume la forma di una prima risposta non solo ai tentativi di infiltrazione dei fascisti sull'asse tiburtino, ma anche all'avanzata delle politiche e delle retoriche securitarie cittadine e nazionali. Il quadrante tiburtino, nel bene e nel male, è balzato più volte sulle cronache nazionali negli ultimi tempi. Migranti, attacco ai quartieri ed alle case popolari, chiusura degli spazi di socialità e cultura slegati dal consumo, decine di casinò e sale slot, magazzini della logistica, numerosi stabili industriali abbandonati costituiscono un' amalgama esplosiva che ha determinato il costante incremento di attenzioni da parte di tutte le forze politiche e delle istituzioni. Limitandosi alla questione migranti, solo per citare alcuni episodi degli ultimi mesi, i ripetuti sgomberi dello stabile dell'ex Penicillina; lo sgombero dell'edificio di via Vannina con centinaia di persone sbattute in strada senza alternative; gli ormai consueti sgomberi delle tendopoli nei pressi della Stazione Tiburtina. A partire dallo sgombero della baraccopoli di Ponte Mammolo nel Maggio 2015 si può notare una totale continuità di gestione nella questione migranti, da parte delle forze municipali, comunali e statali, esclusivamente come problema di ordine pubblico, finalizzato alla normalizzazione dell'emergenza creata ad hoc per fini politici ed economici. L'anno appena trascorso di amministrazione pentastellata, lungi dal rappresentare un punto di rottura con il passato, ha dimostrato una piena sintonia del Movimento grillino con la stretta securitaria del Pd nazionale targata Minniti. Le dichiarazioni della sindaca Raggi in merito, il crescente interesse dei 5 Stelle all'elettorato reazionario e conservatore, la connivenza più o meno mascherata con le organizzazioni di estrema destra, la dolosa mancanza di intervento politico nei confronti della plenipotenziaria questura romana hanno solo svelato formalmente meccanismi in atto ormai già da tempo. Un dato, fortunatamente, da registrare sono le numerose reazioni a questo stato di cose da parte degli abitanti della Tiburtina e delle numerose realtà sociali che attraversano i quartieri della consolare. Lotte contro gli sfratti, mobilitazioni antifasciste, attenzione alla tutela del territorio, monitoraggio costante dell'operato dell'amministrazione locale e cittadina sono il termometro di una temperatura conflittuale in lenta, contraddittoria, non lineare ma costante crescita. Sempre per citare gli ultimi tempi, la nascita di nuove occupazioni abitative e socio-culturali, la creazione di comitati di quartiere dal basso, la nuova connessione al presente di una memoria collettiva importante come quella di Fabrizio Ceruso, le mobilitazioni contro i neofascisti al Tiburtino III, il blocco della Tiburtina dopo uno sfratto a San Basilio in solidarietà con lo sgombero di un'altra occupazione, la cacciata del banchetto di Casapound dal mercato di San Basilio sono testimonianza, seppur ancora troppo ristretta, di un tessuto sociale che sta cercando nuovi stimoli di attivazione. In questo quadro si inserisce la mobilitazione a Tiburtino III degli ultimi due giorni. Nel quartiere sono presenti 3 centri d'accoglienza: un presidio umanitario della Croce Rossa Italiana, aperto a seguito dello sgombero di Ponte Mammolo, e due centri SPRAR, presenti già da qualche anno. Venerdì, in concomitanza con l'ennesimo, poco partecipato presidio di Casapound per tentare malamente di appropriarsi della vittoria politica rispetto alla scadenza di proroga del centro d'accoglienza di via del Frantoio, più di 500 persone sono scese in piazza ed hanno sfilato nelle vie del quartiere contro i veri responsabili dei veri problemi del quartiere. Disoccupazione, sfratti, mancata manutenzione delle case popolari, carenza di servizi e spazi di socialità sono i reali drammi quotidiani del Tiburtino come di tanti altri quartieri della capitale, da cui, con la solita retorica razzista e filo-padronale, le forze politiche di estrema destra tentano di deviare l'attenzione nei territori, strumentalizzando la giusta rabbia che attraversa questi contesti per legittimare la propria esistenza. Operazione avallata e persino sostenuta dall'amministrazione pentastellata che prima, a livello municipale, firma delibere di giunta piene delle menzogne fasciste sulle fantasiose problematiche create dai centri di accoglienza, e poi, a livello comunale, legittimando la presenza di Casapound ai tavoli di trattativa per decidere il futuro delle strutture di accoglienza nel quartiere(!). L'operazione della giunta Raggi per smarcarsi dalla situazione, ovvero la chiusura non del centro richiesto dai fascisti ma degli altri due SPRAR, rappresenta un escamotage dai contorni puramente elettorali che indirettamente legittima le richieste dei neofascisti, nulla cambia nelle problematiche del Tiburtino e negli strutturali problemi del business dell'accoglienza.La presenza massiccia alla mobilitazione antirazzista è un primo segnale di risposta all'angolo in cui si vorrebbero mettere le istanze degli abitanti, dei migranti e delle realtà sociali, soggetti che vivono realmente i quartieri popolari e conoscono bene gli obiettivi verso cui indirizzare la carica conflittuale derivante dal disagio quotidiano delle periferie. Una piazza numerosa, colorata e determinata nel fermare questo vortice di razzismo e menzogne ben lontano dalle esigenze del territorio. Una piazza che potrebbe essere il punto di partenza di un percorso, che parte dal quartiere per il quartiere, finalizzato ad affrontare in maniera seria le problematiche del Tiburtino e ricostruire un tessuto sociale unito e solidale. Per dare seguito alla mobilitazione, a meno di dodici ore di distanza, la mattina seguente con un blitz all’alba attivisti del sindacalismo di base, delle realtà sociali e famiglie senza casa hanno occupato i locali lasciati vuoti dal trasferimento dei rifugiati che erano in accoglienza ai centri SPRAR di via del Frantoio. Un' iniziativa di lotta che ha voluto subito restituire centralità e dignità ai problemi degli abitanti e dell'emergenza abitativa, rompendo con le strumentalizzazioni dei fascisti. L’occupazione ha posto subito il problema di fondo: usare i locali per rispondere, da un lato, all’emergenza abitativa, e dall’altra alle esigenze del quartiere. Nella trattativa con le amministrazioni comunali e municipali gli occupanti hanno ribadito le richieste: soluzioni ai problemi degli abitanti e del territorio, sbarrare la strada alla demagogia e alle strumentalizzazioni dei fascisti esattamente come il muro popolare del giorno prima che li ha messi alla porta dal quartiere. L'occupazione è successivamente terminata nel tardo pomeriggio, con la presa in carico da parte del Comune delle famiglie in emergenza abitativa e l'appuntamento per le prossime settimane per decidere il futuro del centro ed evitare speculazioni politiche ed economiche. La partita su Tiburtino III e sulla Tiburtina, ovviamente, non è chiusa nei confronti di nessuna delle controparti. Sarà solo la determinazione degli abitanti e delle realtà sociali del territorio ad imporre la linea di azione sul quartiere e sull'interno quadrante, attraverso la costruzione di un rapporto di forza che ha visto nella due giorni di mobilitazione solo un primo, piccolo passo. Agire sulle linee di conflitto dei quartieri popolari, marcare la presenza sul territorio, muoversi su più livelli di attivazione, saper dialogare con le componenti sociali di riferimento sono gli orizzonti da perseguire per cercare di interagire con la realtà che ci circonda, umilmente consapevoli di non avere la verità in tasca e dei limiti di una proposta politica ancora tutta da costruire.
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