#ce l'ho fatta a finirlo
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beforeislipaway · 3 years ago
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quello che ho scoperto sul contesto storico di Hybrid Child perché ho voglia di rantare: (A Hybrid Child’s historical setting theory. eventually a brief summary in perhaps bad english will follow. just for fun)
siccome hybrid child occupa un posto specialissimo nel mio cuore e non so neanche bene perché, ogni tanto mi diverto a fare qualche ricerca per capire se l’ambientazione è completamente frutto di fantasia o, visto che soprattutto la vicenda degli ultimi due capitoli (leggi: oav) si svolge in un periodo storico ben preciso, se invece presenta più elementi storicamente verosimili. io non ho alcuna preparazione in merito (sigh vorrei), semplicemente mi intriga mega quel periodo di sommosse casini riforme prima della restaurazione di meiji; quindi, fonti: wikipedia e qualche blog. ho letto anche i capitoli di due libri di storia giapponese sull’argomento ma sono stati completamente inutili lmao.
cos’ho scoperto quindi? partiamo con ordine. le cose che si sanno esplicitamente dalla storia: si sa che quando l’idillio spensierato dei tre dell’ave maria crasha è perché lo shōgun se ne è scappato via, quindi il loro feudo è bollato come fazione ribelle. sappiamo anche che l’imperatore, ormai tornato sul pezzo, si era impadronito del castello di Edo e ora stava andando a fare il culo al loro clan. allego prove:
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il giappone in quel periodo era una militocrazia, dove il potere esecutivo era completamente nelle mani dei generali, gli shōgun. appunto per questo motivo il governo viene chiamato shōgunato o, in giapponese, bakufu (governo delle tenda. non mi ricordo perché). fatto sta che l’imperatore nel corso dei decenni aveva perso sempre di più il proprio potere effettivo, rivestendo poco più che una carica formale, dato che il governo era tutto in mano all’esercito. al di sotto dello shōgun c’erano i vari daimyō, ovvero i signori feudali di ogni rispettivo clan (han) che ricevevano le terre dallo shōgun e a loro volta le distribuivano ai samurai loro sottoposti. tra di essi, alcuni venivano scelti come ministri/vassalli e i più importanti erano i karō, che rispondevano direttamente al signore feudale; generalmente c’era un karō che stava a Edo dove c’era lo shōgun e un altro che rimaneva a fare la guardia al castello del feudo. da HC sappiamo che non siamo a Edo, ergo Tsukishima doveva essere il ministro che restava a casa e infatti era nei dintorni del castello (quando non era a casa di Kuroda o in giro a mangiarsi dolcetti *cough*).
quando cade il regime feudale aka lo shōgunato? quando guarda caso lo shōgun allora in carica, tale Tokugawa Yoshinobu, abdica! perché convinto/costretto dall’imperatore che si è fatto come alleati due dei clan grossi sostenitori del bakufu che non sopportano più la mollezza delle riforme shogunali e vogliono un Giappone fedele all’imperatore e pronto a espellere gli i barbari occidentali che premono per farlo uscire dal sakoku (chiusura blindata del Paese) that means: nessuno entra, nessuno esce e nessuno può essere cristiano o imparare una lingua straniera, tie’. solo nel tardo periodo Tokugawa si era giunti al compromesso di accettare solo gli olandesi e di permettere a qualunque giapponese, non solo agli interpreti diplomatici, di imparare l’olandese. perché questa precisazione? perché, fun fact, i documenti che si vedono nell’anime quando Kuroda smanetta con gli hybrid child sono in olandese! lol (allego prova di quando mi sono messa a decifrarlo solo in base ale mie conoscenze del tedesco)
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comunque, lo shōgun prima di arrendersi del tutto prova a scappare a Kyōto perché è incoraggiato dal clan Aizu ma durante lo scontro armato contro le truppe imperiali si accorge di essere troppo debole, lascia capra e cavoli (dove i cavoli sono del suo esercito) e fugge a Edo. viene raggiunto dall’imperatore, si arrende, chiede di essere risparmiato e messo in prigione e praticamente concede all’imperatore di appropriarsi del castello di Edo. direi che fin qui tutto combacia: siamo nel 1868, gli imperiali sono a Edo e si stanno dirigendo a sottomettere anche gli ultimi clan che, ora che non c’è più uno shōgun, sono automaticamente considerati dei riottosi nemici pubblici. è l’inizio del bakumatsu (fine del bakufu) e della restaurazione imperiale che procederà fino alla salita al trono dell’imperatore Mutsuhito (futuro Meiji) inaugurando così una nuova e complicatissima epoca della storia nipponica.
ma torniamo ai gays. il momento della convocazione effettiva alle armi coincide con quello in cui viene spiegata la strategia di attacco del nemico:
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Kazusa, Utsunomiya e Dewa erano tre province storicamente esistite che coprivano alcuni territori a nord di Edo. E la traiettoria ipotizzata dell’invasione combacia ancora una volta con il percorso che viene mostrato nell’anime. Se ne deduce quindi che, siccome il clan dei nostri eroi si caga sotto per l’avanzata dei lealisti all’imperatore, la sede del feudo sia per forza di cose a nord di Edo e vicino ai territori menzionati. Skippo la parte successiva sulla strategia di Tsukishima che assegna i comandanti alle città/zone, perché stranamente non credo siano toponimi storicamente accurati, non ho trovato nessuna conferma al riguardo.
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avevamo detto che Yoshinobu aveva ripreso a lottare contro l’imperatore perché incoraggiato dal dominio Aizu. Ecco, la mia ipotesi è proprio che il clan di cui si parla in HC sia (fortemente ispirato a) Aizu. Perché? 
1. era conosciuto per la qualità e il valore dei suoi samurai (speaks for itself)
2. era stato uno dei maggiori alleati dello shōgun e, in seguito al tradimento dei clan Satsuma e Chōshū che erano passati dalla parte dell’imperatore costringendo lo shōgun a fare altrettanto, è stato considerato da annientare in quanto ribelle.
3. è passato alla storia per una battaglia molto feroce e sentita che aveva come obiettivo quella di costringere il feudo alla resa o scioglierlo, in cui sparavano non stop al castello. e che ovviamente è stata persa e come conseguenza ha portato alla resa di Aizu-han e alla deportazione dei suoi samurai superstiti.
4. la posizione combacia con la possibile ubicazione della città di HC, ovvero: l’odierna Fukushima, appena più a nord di Utsunomiya e perfettamente circondata dalle altre province verso cui gli imperiali erano diretti.
5. il castello di Aizuwakamatsu, noto come castello di Tsuruga, looks like this:
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    ^ aizuwakamatsu’s castle                        ^ hybrid child’s castle
be’ direi.. no doubts about it. questo castello è stato gravemente danneggiato durante la battaglia di Aizu dell’ottobre 1868, ed è stato ricostruito solo nel Novecento inoltrato. Nello specifico, le cronache dicono che era stato danneggiato senza sosta da palle di cannone che venivano agevolmente sparate da un’altura montagnosa che sorge proprio di fronte al castello. 
again:
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c’è una montagnetta della stessa altezza del castello raffigurata sulla cartina che combacia proprio con la prospettiva in primo piano dell’immagine da cui presumibilmente venivano le cannonate.
QUINDI RIASSUMENDO SÌ I KUROSHIMA SONO DI AIZU POSSO MORIRE FELICE ORA CHE L’HO SCOPERTO -
english summary: my task on HC’s historical setting is that Tsukishima’s clan is very likely to be Aizu domain. Because Aizu clan was one of the most loyal shogunate supporter, and after the shōgun surrendered himself to the new-restored emperor and handed him Edo castle, this feud found itself abandoned and marked as rebellious. Thus the imperials started a fight in Aizu (october 1868), which is a land renown for its famous castle, and after a hard battle the Aizu people lost, the clan was dissolved and the castle burnt down. The toponymies mentioned in the HC story match the actually existed ancient provinces in late Edo Japan, and the location of them too fits the position on the map that Tsukishima displays. Aizu itself used to be in the now-called Fukushima prefecture, north of Tōkyō. And pls look at the castle it is THAT castle. undoubtedly.
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susieporta · 3 years ago
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------- 548 giorni -------
Ciao sono io.
Ti ricordi quel giorno quando un dottore ha detto che non avrei mai più giocato a tennis?
Bene, volevo dirti che ho fatto una cosa.
E che questa cosa l'ho fatta per te.
Volevo dirti che dopo aver scaricato, alzato e rovesciato nella betoniera a mano 1.300 sacchi di cemento, 30.000 palate di sabbione, trasportato e messi uno sopra l'altro 1.800 blocchi di cemento per costruire un muro lungo 38 metri, piantato 190 tondini di ferro nel calcestruzzo, rastrellato 18 tonnellate di macerie, steso 78 fogli di rete, gettato 570 mq di massetto alto 20 cm, averlo lisciato e fatto i tagli per i giunti poi riempiti col silicone, inchiodato una ad una 2.870 canne di bambù, rivestito la scalinata con la palladiana incollando pezzo per pezzo ogni pietra riproducendo una pallina da tennis e due loghi di Batman (per te) montato le copertine, messo a dimora 120 piante di rosmarino, 60 di timo e 60 di elicriso, creato l'angolo relax, cucito i cuscini per l'angolo relax, fissato i gargoyle, predisposto l'illuminazione, montato la recinzione antivento e avendogli dovuto dare ben sette mani di vernice oggi -finalmente- ho finito di costruire il nostro campo da tennis.
Penso che sia venuto carino, penso che ti possa piacere.
Certo, probabilmente non giocheremo mai io e te contro la Sabalenka e la Sharapova però dai...ce ne faremo una ragione.
Un lavoro che un'impresa con sei muratori avrebbe finito in due settimane.
Ecco, invece io ci ho messo 548 giorni.
548 giorni di cui ne ricorderò cinque in particolare.
Il primo quando ero a letto, in catalessi, vuoto e svuotato ma stanco di moribondare e ho pensato timidamente di provare a tornare a fare quello che ho sempre fatto: cioè immaginare, studiare, disegnare e infine realizzare.
Perché il puntiglio muove grandi cose; spesso nel male, talvolta nel bene.
E allora contro il parere del cancro, dei medici, del buon senso, del mio fisico, delle ventiquattro metastasi, dei cinque interventi chirurgici, della chemioterapia, della radioterapia, della stomia, dei follow up, del terrore dei follow up, della Capecitabina, del dolore, della morte, della paura, della nausea, dello sconforto, del formicolio alle mani, del formicolio ai piedi, della debolezza, degli ospedali, del dottorino che mi aveva predetto l'impotenza, del dottorino che se l'è presa in saccoccia, dei cazzi, dei mazzi e delle persone che mi volevano bene ho pensato di costruirmelo da solo questo campo da tennis.
Ho cominciato che trascinarmi fino lì per dedicarci trenta minuti di lavoro era una fatica e ho finito che dopo dieci ore di passione smettevo a malincuore.
A volte alle due di mattina, illuminato da un faro.
Avere uno scopo, il viaggio non la meta, raggiungere il traguardo, un passo alla volta: insomma quella cosa lì.
Perché questa cosa di un passo alla volta funziona sai?
E pensare che io ho sempre provato avversione per le citazioni e le frasi fatte.
Anzi, ogni volta che me le sentivo dire mi son sempre divertito a smontarle, decontestualizzarle e ridicolizzarle.
Stupido me.
Invece un passo alla volta funziona, devi credermi.
Funziona per affrontare una malattia, per costruire un campo da tennis, per scrivere un libro, per perdere peso, per prendere peso, per inventarsi un lavoro, per avviare una relazione, per superare un lutto, per risolvere i problemi, per volersi bene.
E avrebbe funzionato anche se non fossi riuscito a finirlo. Perché certe condizioni ti insegnano a vivere la vita giorno per giorno. Se non ora per ora.
Magari anche con un po' d'ironia e senza solennità.
Il secondo quando una notte sentendo piovere molto forte mi sono chiesto se nei due mesi che avevo impiegato a costruire quel muro mi fosse venuto in mente di predisporre il drenaggio per evitare l'effetto diga oppure causa chemio ero così rincoglionito che no.
La seconda.
E infatti il mattino dopo davanti all'immagine del crollo ho pensato di smettere e tornarmene a letto sotto le coperte.
E così ho fatto per tre giorni.
Il quarto ho affittato una ruspa, ho ripulito tutto e ho iniziato a ricostruirlo. Meglio questa volta.
Ed è stato un po' come giocare una partita a tennis.
Partita di tennis che per questa volta -almeno- non c'è santo che tenga: Monica Rossi vs Cancro 6 0 - 6 0 - 6 0.
Il terzo quando il giorno dopo aver dato la terza e ultima mano di vernice sono andato tutto soddisfatto e compiaciuto a vederlo da vicino e mi è preso un colpo.
Perché tutto il campo era pieno di bolle.
Bolle, orride micro bolle piene d'aria su tutta la superficie.
Uno schifo, un colpo al cuore.
La seconda mano non si era asciugata bene e quindi a causa dell'umidità si era alzata sollevando il terzo strato.
Panico.
Panico per due motivi.
Il primo perché non c'è niente di peggio che finire un lavoro e doverlo rifare e secondo perché avevo la schiena a pezzi.
Perché verniciare un campo da tennis non è facile.
Prima devi pulirlo con l'idropulitrice. Poi devi mettere il nastro di carta sulle linee di gioco avendo cura che siano perfettamente dritte, parallele e perfette, poi devi preparare la vernice (il primer l'hai dato il giorno prima) e poi devi metterti lì con il rullo e passarlo su tutti i 570 mq.
E devi farlo bene, e non si devono vedere le rullate, e non devi andare oltre i confini, e non deve andarci neppure una goccia.
E devi farlo in un'unica mano.
E per ogni mano ci impieghi otto ore.
Otto ore in cui non ci deve essere sole battente, ovviamente non deve piovere e però non ci deve essere neanche vento perché altrimenti ogni folata potrebbe portare foglie, aghi di pino, insetti e tutto quello che andrebbe a incollarsi sulla vernice appiccicaticcia che hai appena dato.
Non è facile. Anzi, è proprio una rottura di coglioni epocale.
E quindi mi sono messo lì a schiacciare ogni bolla e scartavetrarla.
Ma che bello. Ora vedo un campo blu pieno zeppo di chiazze biancastre.
E allora con il pennellino, in ginocchio, avanti a ridare il primer bolla per bolla.
Pennellino. 570 mq. Puntiglio.
E il giorno dopo, claudicante, alle 5 di mattina, iniziare prima a passare il soffiatore per poi a dare la quarta mano.
E' venuto bene.
E' venuto bene si, ma questa vernice è una resina particolare che fa spessore quindi da vicino la differenza si vede.
E ma come sei pignolo, chi vuoi che se ne accorga?
Io. Me ne accorgo io. Anzi, non solo me ne accorgo, ma lo so proprio. E non mi sta bene.
E non mi sta bene perché il confine fra un lavoro soddisfacente e un lavoro ben fatto dipende solo da me, dal tempo da dedicarci e dalla voglia di farlo.
E io non voglio che sia né bello né soddisfacente, io voglio che sia perfetto.
Perché tutto, ma la mediocrità mai.
Si, bravo. E quindi? Cosa intendi fare?
Semplice: continuerò a verniciarlo finché non verrà come dico io.
E avanti con la quinta mano.
Bene. Sempre meglio.
Dai che con due mani ancora avrò finito.
O cavolo guarda, inizia a piovere.
Non è un problema, la vernice è asciutta.
Si la vernice è asciutta, ma io preferirei aspettare per dare le altre mani.
Sai, non vorrei che l'umidità facesse ancora brutti scherzi.
Ma il tempo è molto instabile. Sole, pioggia (ma perché poi è giallastra questa pioggia? Polline? Sabbia?) poi di nuovo sole, poi di nuovo pioggia.
E ogni giorno che aspettiamo è un problema perché se si deposita la polvere siamo fregati.
E infatti è uno schifo.
Detriti, insetti morti, foglie, cagate di uccelli. C'è di tutto.
Uso l'idropulitrice? Uso l'idropulitrice.
Si, abbastanza bene. Solo che lo sporco sembra solo essersi spostato.
Meglio di prima ma non ancora benissimo.
E poi ora è davvero bagnato fradicio. Altro che umidità.
Devi aspettare almeno un paio di giorni che si asciughi bene.
Ho capito ma fra due giorni sarà tutto asciutto, ok, ma di nuovo tutto sporco.
E' un incubo, non ne usciamo più.
Senti, vaffanculo, vai a comprare 570 mq di teli e lo copriamo tutto.
Si, bravo, così l'umidità ti batte le mani.
Dammi retta: va bene così. E' perfetto. Nessuno andrà mai a guardarlo con la lente d'ingrandimento.
Ancora? Quel nessuno sono io.
E io non mi accontento.
Può venire perfetto? E allora verrà perfetto.
Ed è così che ho passato due giorni a passare l'aspirapolvere su tutto il campo (in cemento, ruvido) avanti e indietro con dolce metà che mi guardava incazzata nera mentre le devastavo la sua amata Dyson.
Però sai, alla fine non c'è più un granellino di polvere.
E neanche l'ombra di una bolla.
E men che meno differenza di spessore.
E si, dopo sette mani questo campo da tennis non è né bello né brutto.
E' perfetto.
Il quarto momento che ricorderò è quando quasi ogni mattina vedevo mio papà oltrepassare il cancello e nonostante i suoi settant'anni e vestito da perfetto muratore chiedermi se volevo una mano sentendosi sempre rispondere che no, che non era il caso, che volevo fare da solo, che era una cosa solo mia.
E allora si sedeva sul muretto e nonostante la musica dei Misfits a tutto volume mi sorrideva, mi incitava, mi portava la colazione, mi mostrava il pollice alzato, mi faceva l'occhiolino.
E qualche volta mi guardava con gli occhi lucidi. Gli occhi di chi guarda un figlio che non sa fino a quando avrà ancora il piacere di vedere vivo.
Ma forse il giorno che ricorderò di più è quello in cui, un pomeriggio, sotto una leggera pioggerella, sono scivolato e sono caduto sul manico della carriola che si è infilato proprio fra la pancia e il sacchetto della stomia strappandolo di netto.
Ero a terra, solo, preoccupato di vedere cosa fosse successo a quel disgustoso pezzo d'intestino che mi usciva dalla pancia, circondato dalla merda che si era spantegata dappertutto quando a un certo punto mi sono voltato a guardare quel muro, ho alzato gli occhi al cielo, ho riso e mi sono domandato chi me l'avesse fatto fare di costruire un campo da tennis che io e te non useremo mai.
Ma poi, soprattutto, mi sono chiesto chi l'avrebbe mai detto che un giorno mi sarei ritrovato in quelle condizioni.
E allora ho sorriso e ho pensato che va bene così; che la vita è davvero meravigliosa.
Ed è meravigliosa sempre.
Tranne forse quel giorno di settembre quando alle otto di mattina, un mese dopo la diagnosi e prima d'iniziare ogni terapia, mi sono dovuto chiudere a chiave in uno squallido bagno al piano terra di un ospedale, dare un'occhiata a delle riviste appoggiate lì per l'occasione, stendere degli asciugamani per terra e con la schiena appoggiata al muro e i piedi puntati contro il water nonostante i continui "ha finito? ha finito?" iniziare a piangere e masturbarmi perché potessi metterti dentro un contenitore affinché ti congelassero.
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nottinsonni · 4 years ago
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ieri non ce l'ho fatta e ho comprato un libro. sono settimane che dico che quest'estate purtroppo non ho nemmeno il tempo di respirare. che non avrei potuto leggere. così ne ho comprato uno piccolo e mi sono ripromessa di finirlo in un paio di ore al massimo, di notte. ma dopo la prima pagina ero così innamorata che ho cambiato idea. ho deciso di volerlo leggere lentamente. di elaborare ogni capitolo anche se sono corti. non voglio divorarlo come sempre. così nelle pause studio (15 minuti dopo ogni ora) anziché guardare qualche video su youtube o parlare con qualcuno per smollare la tensione, mi butto su altre parole - quelle di questo libro. era da un po' che un libro non mi prendeva così tanto. era da un po' che lo volevo ma è anche da un po' che non compro libri, mi vengono regalati. e non mi piace chiedere determinati libri specifici alla gente. il libro è "il giovane holden."
ad ogni rigo penso, non ricordavo di aver scritto un libro e che diamine. e che diamine per davvero. holden è me. in ogni suo pensiero, in ogni parola che dice, sono io. ne sono estremamente innamorata che detto così potrebbe suonare egocentrico, è come dire che sono innamorata di me stessa. ma non è quel che intendo. perché sono tutti i suoi difetti in realtà che me lo fanno amare, quelli che uno dovrebbe cambiare. ma me lo fanno amare perché lo sento vicino a me, perché per la prima volta leggo di un personaggio descritto solo per i tratti marci del suo carattere, e mi aiuta a empatizzare ancora di più. lo sto leggendo lentamente come ho deciso, ma sono bastate 80 pagine per decidere che è uno dei miei libri preferiti di sempre.
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yamania-uttlc-kikiturkos · 4 years ago
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Instastory @canyaman 🇮🇹Era difficile il linguaggio, ma ce l'ho fatta a finirlo 🇪🇦El idioma fue difícil, pero logré terminarlo. ⚔️Team SandoCan⚔️ @canyaman @macellariroberto @franciomw @emilianonovelli @eastunt_team @ilkerbilgi @cuneytsayil @nicoufficiostampa ▪️𝓚𝓲𝓴𝓲𝓽𝓾𝓻𝓴𝓸𝓼 𝓒𝓪𝓷 𝓨𝓪𝓶𝓪𝓷▪️ Cassius & Can Yaman ⚔️ Sandokan ⚔️ @kfc_canyaman @kikiturkosfc @un_turco_tuvo_la_culpa #BayYanlış #kikiturkos_noe #unturcotuvolaculpa #nicoufficiostampa #sandokantheseries #LuxVide #SANDOKAN #SandoCan #CanYamanAlado #CanYamanDiosTurco #canyamansiemprecontigo #canyaman1989 #CanYaman #tudorsofficial #görünürol #KikiturkosCanYaman #CANYAMAN #CanYamanVenEspaña #CanYamanTheKing #dececcopasta #advertisingagency #fendreofficial #SandoCanTeam #CassiusCan #kikiturkosfc #dajesandocan #ferzanozpetek #luxvide https://www.instagram.com/p/COomwORDnsg/?igshid=iufk8njdn4p9
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federica-af-nutrition · 4 years ago
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Buongiorno! 🤗 In realtà il post di oggi sarebbe dovuto essere un altro. Avevo programmato l'uscita di un articolo. Ma in questi giorni con l'ingresso di nuovi prodotti e nuove aziende nello store ho avuto talmente tanto da fare che non ce l'ho fatta a finirlo. Ma la cosa che mi ha reso ancora più impegnata e mi rende più entusiasta siete 𝗩𝗢𝗜 che vi fidate di me e in questi ultimi giorni vi siete precipitati in tanti al negozio, mi avete letteralmente tempestata di messaggi che non ho avuto il tempo di finire gli articoli.... ❤ 𝙀 𝙄𝙊 𝘿𝙄 𝙌𝙐𝙀𝙎𝙏𝙊 𝙑𝙄 𝙍𝙄𝙉𝙂𝙍𝘼𝙕𝙄𝙊 ​​𝙄𝙉𝙁𝙄𝙉𝙄𝙏𝘼𝙈𝙀𝙉𝙏𝙀! ❤ #grazie #unringraziamentospeciale #entusiasta #stancamafelice #federicafavale #forzaefemminilità #afnutrition #fiducia #clientispeciali #store #ecommerce (presso AF Nutrition Integratori Torre del Greco) https://www.instagram.com/p/COACiLuh8mt/?igshid=1t8ogyaprtzo9
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giancarlonicoli · 4 years ago
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30 set 2020 20:05
TOP OF THE “POZ” – "IO COCAINOMANE? MI SONO GODUTO LA VITA MA NON MI SONO MAI DROGATO" – POZZECCO SI RACCONTA IN UN LIBRO – I FLIRT CON CACCIATORI E DE GRENET, LE SBRONZE OMERICHE (“MA SEI GIORNI SU SETTE ERO IN PALESTRA A FARMI IL CULO”), LE 22 VITTORIE CONSECUTIVE SULLA PANCHINA DI SASSARI (“HO AVUTO CULO”) E QUELLA VOLTA CHE CON LA CACCIATORI TIRARONO NOCCIOLINE AD ALBERTO SORDI – “SONO STATO UN CRETINO? IO SONO ANCHE IL CRETINO CHE ERO. NON E’ CHE SEI SEMPRE LO STESSO…” – VIDEO
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https://m.dagospia.com/amori-triangoli-e-follie-di-maurizia-cacciatori-io-e-pozzecco-tirammo-noccioline-a-alberto-sordi-185514
https://m.dagospia.com/pozzecco-ho-gufato-l-italbasket-agli-europei-del-99-ecco-il-motivo-de-rossi-ibra-e-il-mona-233620
MARCO IMARISIO per il Corriere della Sera
«Se giochi con i Lego a cinque anni, va bene. Se lo fai a cinquanta, hai qualche problema, oppure sei un pirla. Come dicono quelli che hanno studiato, tertium non datur ...».
Per il suo quarantottesimo compleanno, si è regalato due espulsioni in tre partite, l'ennesimo cazziatone da parte del presidente della squadra che allena, e «Clamoroso», una autobiografia così sincera nel mettersi in piazza con tanto di sbruffonerie e fragilità annesse che la sua fidanzata Tanya non gli ha parlato per giorni a causa del racconto, talvolta esplicito, delle passate avventure.
Gianmarco Pozzecco non sarà mai per tutti. Non ci sarà mai unanimità di giudizio sul suo conto. Sulla sua storia, persino sulle sue doti, a cominciare dall'equilibrio mentale. Con il giocatore che è stato il volto dell'ultima età dell'oro del nostro basket, l'unico a uscire dalla ristretta cerchia di noi malati dello sport più bello del mondo, diventando personaggio televisivo, volto noto, protagonista di vita mondana e di relazioni con fidanzate più o meno famose, ci saranno sempre due partiti.
Ancora oggi, quando il diretto interessato ha più volte dato segni intermittenti di maturità, permane la divisione tra chi continua a considerarlo un mezzo matto esaltato, sempre sul filo della crisi di nervi, una specie di Balotelli che ce l'ha fatta, e chi invece lo ritiene una persona di talento forse solo troppo sincera, al limite dell'autolesionismo.
«Ah, intervisti Pozzecco? È ancora così matto oppure è cambiato?»
Pozzecco, vuole rispondere lei?
«Ci provo. Tutte e due le cose. Ho fatto un sacco di cose stupide, spesso mi sono fatto male da solo. Un certo tipo di vita non mi appartiene più, ma è un passato che non rinnego.
Sono stato un cretino? Io sono anche quel cretino che ero. Non è che sei sempre lo stesso, ognuno di noi contiene cose belle e brutte, errori. E prima di giudicare, forse bisognerebbe sempre conoscere, e sforzarsi di capire gli altri, i loro sbagli, i loro eccessi, la vita che hanno avuto».
Da dove viene questa sua perpetua necessità di dimostrare qualcosa al mondo?
«Mi guardi. Lei è molto più alto di me. Arrivo appena a un metro e ottanta. Sono sempre stato il più piccolo delle scuole che frequentavo con scarso profitto, forse perché ero scemo. Ero un tappo che voleva solo giocare allo sport dei giganti, più scemo di così...».
Era solo una questione di altezza?
«Una sera di tanti anni fa. Casa mia a Trieste. Siamo seduti a tavola in terrazza, per pranzo. Ho 13 anni, e devo scegliere se giocare a pallacanestro in C1 nella squadra allenata dal mio papà, come mio fratello maggiore e più alto, oppure giocare a calcio in terza categoria con il Chiarbola. Io avevo già deciso. Basket, tutta la vita, anzi voglio che il basket diventi la mia vita. C'è solo da aspettare che papà torni a casa, e glielo dirò, facendolo felice. Almeno così immaginavo».
Non fu così che andò?
«Avevo le farfalle nello stomaco, non vedevo l'ora. Lui si sedette e non disse nulla. Io aspettavo il momento in cui mi avrebbe rivolto la parola, lo pregustavo, ma niente, non mi filava. Arrivati al caffè, quasi con nonchalance, si gira verso di me e mi dice: "Allora siamo d'accordo, vai a giocare a calcio, no?". Fu come ricevere un pugno da Mike Tyson. Ko tecnico».
Lei cosa rispose?
«Che obbedivo. Che avrei giocato a calcio. Poi mi alzai da tavola e tornai nella mia stanza, a piangere. E poi feci di testa mia, per la prima di una serie infinite di volte».
Non credo di poter sopravvivere a un'altra storia padre-figlio, c'è già stato Agassi con il suo «Open»...
«Per carità, quel libro non sono neppure riuscito a finirlo, l'ho mollato a pagina 200...».
E perché?
«Agassi ripete a ogni pagina quanto gli faccia schifo il tennis. Abbiamo capito, va bene, peccato per te. Io invece ho amato e amo il basket con ogni mia molecola. Mi ha insegnato a vivere. A gestire la pressione, a stare in gruppo, a tollerare l'errore del compagno. Il basket ha definito quello che sono».
Non le dà fastidio che qualcuno ancora la consideri un pirla?
«Cosa posso farci? Essere discriminato, in ogni senso, è stata la costante della mia vita. Lo so, c'è gente convinta che io sia stato semplicemente un donnaiolo discotecaro, arrivato a certi livelli solo grazie a un po' di talento e tanta fortuna».
Un farfallone, come disse Boscia Tanjevic quando la tagliò dalla Nazionale che nel 1999 poi vinse l'oro agli Europei?
«Ecco, grazie per averlo ricordato... D'accordo, ci sono state tante domeniche che ho fatto l'alba con un drink in mano. Ho preso sbronze omeriche e da ubriaco ero capace di fumare due pacchetti di Marlboro in poche ore. Ma gli altri giorni della settimana? Ero in palestra, a farmi il c... e non c'è nessuno che possa dire che non abbia sempre dato l'anima in campo».
Il giocatore e coach Pozzecco si sente vittima del personaggio che ha costruito?
«No, per nulla. Il basket mi ha concesso una vita incredibile, e me la sono goduta. Ne ho fatte di tutti i colori, in campo e fuori. E nel libro non ne nascondo mezza. Sa perché?»
Per far capire quanto era fuori di testa?
«Anche quello, ok. Ma ho scritto il libro anche per un'altra ragione più importante: vorrei far capire che il giudizio sulle persone non può mai essere definitivo. Che cambiamo tutti, ogni giorno. Non è sempre bianco o nero, non che sei cretino per sempre o cretino mai. Siamo tante cose tutte insieme, ognuno di noi».
La ferisce essere ricordato da qualcuno più per i flirt con Samantha De Grenet o Maurizia Cacciatori che per le vittorie?
«L'unica cosa che mi fa male è quando sento qualcuno dire che ero un cocainomane. Io non mi sono mai drogato nella mia vita. Mai. Ero pazzo? La gente veniva al palazzetto apposta per vedere me, sapeva che mi sarei inventato qualcosa».
Il rapporto difficile con gli allenatori nasce quel giorno a tavola con suo padre?
«No, per carità. Nella mia prima stagione in A2, l'allenatore di allora mi gridò davanti al resto della squadra: "Ma tuo padre, quella sera, invece di andare con tua madre, non poteva farsi una..."».
È ancora vivo?
«Credo di sì. Lo attaccai al muro, e imparò a rispettarmi. Ma il mondo dello sport è ancora pieno di gente così, che umilia l'adolescente sentendosi chissà chi, tirandogli i capelli, insultandolo, con la scusa che è per tirare fuori il meglio da lui. Non è così che si insegna a un giocatore. Non sei un buon coach, sei solo un uomo vile e frustrato».
Quale è stato il suo miglior allenatore?
«Charlie Recalcati, per distacco. Una persona eccezionale. Un uomo che cercava di capire chi aveva davanti, che non ti guardava mai dall'alto».
Non ha avuto problemi anche con lui?
«Qualcuno, superato. All'inizio pensavo addirittura che avesse vinto il suo primo scudetto, a Varese, solo per merito mio, di noi giocatori. Poi lui ne ha vinti a decine, e io sono rimasto a uno. Quindi mi sbagliavo, come sempre. Si impara».
Perché a un certo punto, sul finire dalla carriera da giocatore, lei rinuncia alla televisione, alle serate al Billionaire, alla mondanità?
«Ancora prima di incontrare Tanya, la donna che mi ha cambiato, ho realizzato che non ero felice per via della fama e della celebrità che mi dava il basket. Ero felice perche giocavo a basket. Quando si avvicina la linea d'ombra, il cambio di stagione, con la fine di quella vita, lo spogliatoio, l'adrenalina, il cameratismo, le lacrime di gioia o di rabbia, ecco, è allora che vedi chiaro e capisci quello che conta davvero».
Rimpianti?
«Un po'. Anzi, molto. Essere un personaggio non ha reso la mia vita speciale. Giocare a basket, inseguire la mia passione, è l'unica cosa che mi manca. È un vuoto che può essere colmato solo da un figlio. Lo vorrei tanto».
E se poi le dice che non gli piace il basket?
«Faccio come Erode. No, seriamente. L'unica cosa che ho imparato è che per vivere bene bisogna avere un desiderio, una passione forte. Non metterò un pallone a spicchi in mano a mio figlio, e non ho necessità che segua le mie orme. Mi dispiacerebbe solo vederlo senza un sogno da inseguire, senza qualcosa che lo illumini, che sia leggere o suonare una chitarra. O giocare a basket...».
Come ha fatto un «farfallone» casinista a sfiorare da coach uno scudetto a Sassari vincendo 22 gare consecutive, che credo sia un record?
«Ho avuto culo. Davvero. Una cosa che mi fa impazzire in Italia, è l'importanza che si dà all'allenatore, e non parlo solo di basket. Ce ne sono di due tipi: quelli che pensano di avere la ricetta per far vincere i giocatori, e quelli che invece pensano che siano sempre i giocatori a farti vincere. E se appartieni alla seconda categoria, ti prendi anche un po' meno sul serio, che non fa mai male».
Ma quindi Pozzecco è davvero diventato un vecchio saggio?
«Beh, sono stato Peter Pan per molto tempo, ma fortunatamente oggi non gioco più con il Lego. Anche se l'altra sera mentre guardavo la televisione sono finito su una specie di Masterchef del Lego». Ha cambiato canale? «Sono rimasto sveglio fino all'alba a guardarlo».
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americacube · 6 years ago
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#ovos #moles non ce l'ho fatta a #finirlo ci credete? #Rosso dell'#uovo #zuccherato e #cotto (at Casa dos Ovos Moles em Lisboa) https://www.instagram.com/p/BtGUjdqhhti/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=clom1h91ibg4
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mauriziolorenziscrittore · 7 years ago
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"Galeotto fu il libro", Ian Sansom, Tea. Alla fine ce l'ho fatta a finirlo, non tanto perché opera poco intrigante, ma perché non è il mio genere: romanzo di strada per ragazzi. Eppure qualcosa me lo ha insegnato: nella Bellezza dei libri e nella spontaneità dei ragazzi si nasconde molto del senso della vita. #malowriter #leggere #leggerepercapire #libridaleggere #bellezzenascoste (presso Bergamo, Italy)
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