#boris è vera cultura italiana
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sabinesybill · 1 year ago
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Very Italian Thread
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Avevo intenzione di postarlo prima o poi perché non puoi avere un Italian AU di HotD e non fare un crossover con Boris, quindi vi linko il mio VIT (very Italian thread) da twitter.
(il profilo è aperto quindi potete vederlo anyway!)
[sopra Aegon alla sua incoronazione a sinistra e a destra come si sentiva internamente]
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fondazioneterradotranto · 6 years ago
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Libri| I giorni ed i versi, di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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pangeanews · 5 years ago
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Il libro degli scrittori dimenticati, il canone degli emarginati, l’elenco dei grandi assenti. Intervista a Davide Morganti
È uscito un libro molto originale che s’intitola Il cadavere di Nino Sciarra non è ancora stato trovato (Wojtek Edizioni), scritto da Davide Morganti. Leggetelo! È un romanzo ma allo stesso tempo un pamphlet. La vicenda è un pretesto: i fratelli Sciarra, siciliani trapiantati a Napoli, sono morti. Un uomo ha il compito di entrare in casa e recuperare le salme. Uno solo dei fratelli viene trovato, l’altro no. Nella casa c’è qualunque cosa, un mare di roba accatastata, e soprattutto libri. Il protagonista vaga, si perde, tuttavia legge, incomincia a leggere di tutto, pare già conoscere quello che legge e lo apprezza. In realtà il romanzo di Morganti vuole dare voce agli scrittori di cui non si parla più, in un’Italia che ha perso il senso del giudizio e della letteratura. Durante la storia vengono elencati nomi su nomi, titoli su titoli, ne viene fuori un ritratto della letteratura italiana paradossale, in gran parte sconosciuto, sommerso. Per dirla con le parole della mistica e teologa Adrienne von Speyr, scritte per altro argomento, ma che ben si adattano al nostro libro (perdonate, cito a modo mio!): “C’è uno strato più profondo, in cui si viene trasferiti, si cade come in un’atmosfera più rarefatta, in una zona più scura, in cui si possono incontrare solo poche forme, ma più forti, più tenaci, immunizzate per vivere sotto una così grande pressione”.
E viene voglia di continuarlo quell’elenco magnifico di emarginati, di grandi assenti; così vengono in mente Giulio Del Tredici, Sergio Antonielli, Alessandro Spina, Mauro Curradi, Carlo Alianello, Andrea Giovene, Giuseppe Marotta, Giuseppe Curonici, Sebastiano Addamo, Enzo Striano, Bino Sanminiatelli, Antonio Pizzuto, Maurizio Salabelle… e via, andando avanti all’infinito, perché la letteratura è infinita!
Eppure Morganti non è un dimenticato, è attivo: scrive sul Mattino di Napoli, è insegnante di filosofia, scrittore, giornalista, sceneggiatore, drammaturgo; ha conosciuto il successo, ha vinto il premio letterario Neri Pozza, con cui ha pubblicato due anni fa La consonante K; dal suo libro Caina (Fandango, 2009), è stato tratto un film che ha vinto il Festival del cinema di Parigi, entrando anche nell’ultima selezione italiana per l’Oscar al miglior film straniero. Per non parlare degli altri suoi libri, di cui cito solo alcuni: Moremò (Avagliano, 2006), L’asciutto e la marea (Gremese, 2008), Tre volte 10 (Ad Est dell’Equatore, 2012). In quest’ultimo: Il cadavere di Nino Sciarra (che è ancora diverso dai precedenti sebbene mantenga uno stile espressionista, fra reale e assurdo), si percepisce uno slancio cristiano, nel gesto di carità che contiene, come a voler dare spazio a chi ha avuto meno fortuna, a chi non viene più ricordato, o solo marginalmente, ma che occorre continuare a leggere e ad approfondire. A questo proposito parlo all’autore.
Com’è nata l’idea del romanzo?
Insegno Lettere alle superiori da anni e nei manuali di rado trovo gli scrittori che mi interessano, ci sono sempre gli stessi e si ripetono compulsivamente come se ci fossero stati solo loro e nessun altro. Il mio amico Ciro Marino, editore di Wojtek, mi chiese un libro e io gli proposi uno sugli scrittori italiani dimenticati, lui accettò ma solo se avesse avuto una forma narrativa.
La vicenda dell’uomo che ha il compito di recuperare il cadavere di Nino Sciarra sembra quasi un pretesto per raccontare i troppi scrittori italiani dimenticati.
Sì, lo è, la letteratura italiana ha un numero elevatissimo di scrittori bravi se non addirittura grandi come Coccioli o Fiore e invece di lamentarmi ho pensato quasi di volerne fare un rendimento di grazie. Qualcosa, mi pare, per quanto minima, sta avvenendo tra i lettori.
Il protagonista, con lo scorrere delle pagine, appare sempre più oppresso e prigioniero in quella casa stregata che diventa un luogo claustrofobico, alla Buñuel. Da che cosa è angosciato? Qual è l’origine della sua inquietudine?
I libri portano inquietudine, sono inquietudine non solo immaginazione, il protagonista viene pian piano posseduto dai libri che, come fossero morti risorti, lo circondano, lo inseguono, lo implorano. L’uomo ha la necessità della narrazione, delle storie, delle parole e se lui se ne dimentica, la responsabilità passa al libro.
Nel dare voce agli scrittori dimenticati, viene fuori un quadro ricchissimo della nostra narrativa del Novecento, un ritratto inedito e controcorrente, in polemica anche con la critica ufficiale e le proposte editoriali di oggi.
La cultura ufficiale mi ha sempre interessato poco ma non per polemica, semplicemente sin da ragazzo, quando leggevo Boine, Slataper, Michelstaedter, mi volgevo a guardare quello che stava in penombra perché spesso sono più affascinanti le radici che le foglie. Se poi uno ama avere la luce, come diceva Duccio della serie televisiva “Boris”, smarmellata sulla faccia, dovrebbe sempre ricordare che a un certo punto le facce spesso si spengono prima delle luci.
Nonostante l’angoscia del protagonista, si ha la sensazione di leggere un libro felice, dalla prosa guizzante, in continua scoperta, mutevole, e in continua scoperta del piacere di conoscere.
Cercando il cadavere i libri diventano la vera ricerca e spero di aver usato una prosa ritmata e coinvolgente per non impantanare il lettore nello stesso fango mistico del protagonista.
C’è poi il tema della solitudine. Sembra che l’isolamento giovi agli scrittori esaminati. Nell’isolamento gli scrittori sono più veri, meno soggetti a condizionamenti inutili: quello di apparire, e la commercializzazione acritica delle opere pubblicate. La solitudine fa bene allo scrivere?
Non ne farei un dogma ma per me sì, per gli altri non so, la solitudine è un talento necessario alla scrittura.
I libri sono una cosa viva nel tuo romanzo, una cosa umana e misteriosa. Hanno una loro vita, come se l’anima dell’autore fosse ancora lì, presente dentro quelle pagine, impresse a fuoco da uno spirito che non vuole morire, bensì esistere come il fuoco palpitante.
Volevo che i libri avessero la Verità, quella con la maiuscola, quella che gli uomini ricercano da sempre nelle parole, insomma la Verità, che oggi fa inorridire perché viene confusa con il fanatismo e con il terrorismo e invece è solo una marcia di avvicinamento a sé e al vivere.
Molti degli scrittori che tu citi non sono nemmeno degli irregolari, allora perché nessuno se ne occupa più, nonostante l’indubbio valore?
Non lo so, forse perché erano brutti!
È un libro coraggioso il tuo, perché affronta gli effetti dell’egemonia culturale italiana, che tende a cancellare, a rimuovere. Spesso chi ha fede e lo dice, entra in una distinzione, in una categoria che non esiste, paga per la sua testimonianza, che dovrebbe essere preziosa, anche perché non vuole negare, non si contrappone ad alcuno; e invece viene messo da parte, diventa uno scrittore minore.
In realtà è più una fede che vorrei avere che una fede che ho, ma non importa; riguardo al libro: non è coraggioso ma solo sincero.
Caro Davide, a conclusione di questa intervista voglio dirti che viene voglia di appartenere davvero a quell’elenco grandissimo che hai compilato, infinito, multiforme, a quella ricchissima biblioteca di appassionati, tale è il valore di chi vi appartiene; e insisto: io, personalmente, vorrei essere dimenticato, rimanere nei miei libri come uno che ha sperato di morire nella verità, qualunque sia, e di essere lasciato nell’ombra!
Vincenzo Gambardella
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fondazioneterradotranto · 6 years ago
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Libri| I giorni ed i versi di Franco Melissano
di Paolo Vincenti
“I giorni ed i versi. Poesie” (2017), con il patrocinio della Società di Storia Patria per la Puglia, Sezione del Basso Salento, è la terza raccolta poetica di Franco Melissano. L’autore, apprezzato avvocato, vive ed opera a Corigliano d’Otranto ed è un appassionato cultore di memorie antiche. Dotato di una solida formazione umanistica, riesce a spaziare fra la storia e la letteratura, come dimostra la sua collaborazione con la rivista miscellanea “Note di storia e Cultura Salentina”.
La prima raccolta di poesie, “A ccore pertu (2012-2013). Poesie”, del 2013, costituisce l’esordio letterario di Melissano. Un esordio fortunato, dal momento che il libro si presenta, oltre che con una elegante copertina, opera di Gigi Specchia, anche impreziosito da una dotta Prefazione di Pino Mariano e da una prestigiosa Postfazione di Giuseppe Orlando D’Urso. Quest’opera è divisa in quattro sezioni, ciascuna recante un’epigrafe che apre i canti: la prima sezione, Corianu e llu Salentu, con un’epigrafe di Pino Mariano; la seconda, che dà il titolo al libro, con un’epigrafe di Giuseppe Ungaretti; la terza, intitolata Risu maru, come il famoso film di De Santis con Silvana Mangano, con un’epigrafe di Jean de Santeuil, ovvero Castigat ridendo mores; la quarta sezione, Finca ca libertà cerca lu core, con un’epigrafe di Pablo Neruda, tratta da “Confesso che ho vissuto”. Della silloge, forse per consonanza d’intenti, mi colpì molto la terza sezione, quella dedicata alla satira, nella quale Melissano traccia da par suo una galleria di tipi umani, prendendo spunto dall’ordinario vissuto della sua comunità di appartenenza. Ma i vari personaggi messi alla berlina, come Lu leccaculi, Lu tirchiu, Lu ciucciu sapiente, Lu cane de chiazza, in realtà rappresentano altrettante maschere della commedia umana, sono personaggi fortemente connotati, che diventano perciò stesso universali. Forse è per questo amore per la risata intelligente, ho pensato, che Franco Melissano apprezzò il mio libro “L’osceno del villaggio”, che pure aveva a tema la satira (“in un mondo in cui l’ironia non può più nulla”, citando lo sfortunato poeta Stefano Coppola), scrivendone una bella recensione, che è fra le più complete che io abbia ricevuto per quel libro. La lingua dialettale dunque è protagonista in questo libro in cui tratta vari argomenti, affronta, in versi, le più disparate tematiche, da quella sociale a quella amorosa, da quella famigliare a quella locale coriglianese, e lo fa con una duttilità ed una ricchezza di espressioni, tono e accenti, davvero sorprendenti.
La seconda raccolta di poesie è “Carasciule te stelle. Poesie in dialetto”, del 2014, ulteriore testimonianza della versatilità della musa di Melissano, che proprio con la lirica La Musa apre l’antologia. Nel libro, arricchito da una pregnante Prefazione di Lina Leone, prevale una sensazione di nostalgia per i tempi passati ed uno scoramento, una blanda mestizia per i tempi presenti; in generale, la consapevolezza del dolceamaro della vita mista con un sentimento di ineluttabilità del destino. L’autore sembra farsi laudator temporis acti quando contrappone alla felicità dei tempi passati, lo squallore del presente, il miserabile teatrino politico e il disagio che pervade la nostra società. Non da meno, compare nella poesia di Melissano un sentimento religioso, che è portante nella sua formazione. Anche questa raccolta è divisa in sezioni: Fiche e amedde, la prima, Stozzi te pane nvelenatu, la seconda, Sonu te campane, la terza. L’utilizzo del dialetto è sapiente, ma soprattutto naturale, da parte dell’autore, sgorga dall’intimo, è lingua dell’uso, per lui, non artificiosa operazione artistica se non, peggio, captatio benevolentiae del vasto pubblico.
E si giunge così a “I giorni ed i versi” che è in lingua italiana e conferma, se non la “plurivocità”, per dirla con Husserl, certamente la multiformità della sua produzione. L’opera mi ha colpito molto più delle precedenti. Con questa raccolta l’autore sembra esser giunto alla maturità artistica. Melissano utilizza una lingua ricca, varia, alta, ma la padronanza dei mezzi espressivi, quella che si chiama la perizia, fornisce solamente il basamento alla sua poesia, voglio dire, la tecnica puntella l’ispirazione melica, ne sorregge il ritmo, l’intonazione, ma la materia viva che compagina il libro è offerta dal suo sentimento, declinato nelle molteplici forme che assume l’amore, e da un’ispirazione che non conosce cedimenti dal primo all’ultimo verso di questo pregevole canzoniere. La silloge, con una ispirata Prefazione di Giuliana Coppola, è divisa in due sezioni. La prima è “Canto di sirena. Venti poesie d’amore”, la seconda, che dà il titolo al libro, è “I giorni ed i versi”.
Nella prima sezione, si avverte forte l’influenza di Pablo Neruda de “I 20 poemas de amor y una canciòn desesperada”, specie per la forte sensualità che pervade questi versi, ma soprattutto dei “Cien sonetos de amor”, sia pure senza quella struggente nostalgia, la latente amarezza dell’inappagato, che intride i versi del grande poeta cileno, anche quando il paesaggio nel quale è calato il suo amore sia radioso, pacificato, solare. Insistente è il ricorso alle similitudini, da parte di Melissano, con un vago richiamo al crepuscolare, luttuoso, alla Bodini o alla Gatto per intenderci, anche nelle poesie in cui maggiormente esulta l’eros, e questo è chiaramente un debito nei confronti dei classici, per quella concezione dell’ineluttabilità del tempo, del disfacimento di tutte le cose, che si ritrova nella lirica greca delle origini. Così l’incanto del sentimento, il fascino della donna amata, diventano rifugio dalla amara presa di coscienza della realtà, argine al senso della fine che insegue dappresso. La seconda sezione, che si apre con un’invocazione all’amata poesia, si può considerare un compendio di tutte le letture che hanno influenzato l’autore, a partire dai classici greci e latini, in primis Omero e Virgilio, – come non cogliere in alcune liriche l’influsso dell’elegia latina, di Catullo, di Properzio, di Ovidio -, passando per l’Ottocento, Foscolo su tutti, per arrivare ai poeti del Novecento, come Ungaretti, Montale, Rebora, Quasimodo; insomma, Melissano riversa in questa raccolta tutta la propria eredità letteraria e lo fa con estrema naturalezza, senza il menomo sospetto di erudizione o di pedanteria. Non v’è ombra di artificiosa costruzione o di ridondanza. Del resto, come scrive Evtusenko di Boris Pasternak, “la vera grandezza non sta nell’ereditare, quanto nel condividere con tutti. Altrimenti anche la persona di più vasta cultura si trasforma in un balzachiano Gobsek, nascondendo agli altri il tesoro del proprio sapere”.
Melissano è figlio della sua cultura occidentale, il suo percorso di studi, dal Liceo classico frequentato al glorioso Capece di Maglie fino a Giurisprudenza studiata a Roma, è lì a dimostrarcelo. Tuttavia ci sono due modi di amare la tradizione: uno è quello di rinnegarla, ribellandosene attraverso le più ardite sperimentazioni, l’altro è quello di conservarla, riproporla, attraverso un classicismo riecheggiato che ne fa omaggio. E se forse è più vero classicismo il primo, non è del tutto indegno il secondo. Anzi, queste poesie stimolano il lettore di medio alta cultura a cercare le innumeri tracce disseminate da Melissano, laddove, se non si trova di vero e proprio citazionismo, vi è tuttavia una ripresa dei grandi autori che fanno da riferimento. Una poesia allora come memoria, fatta di rimandi, di continui omaggi ai modelli che però vengono coinvolti nel suo canto monodico, compartecipano, come stella polare, ovvero misura di confronto costante, bussola di riferimento al suo navigare nel liquido lirico amniotico della poesia invocata evocata invocante evocante. La tendenza non è quella barocca, tortile, all’accumulo, ma quella moderna all’essenzialità; è apprezzabile l’asciuttezza, il lavoro di cesello fatto su questi versi nei quali il ritmo alimenta il canto e le immanenze iconiche, archetipiche, quelle che si potrebbero definire le risultanti della gestazione mitopoietica, sussumono un senso alto attribuito alla poesia dal suo autore, salvifico, quasi palingenetico. Il portato semiologico della silloge si compagina di immagini tonde, metafore, allitterazioni, assonanze e consonanze, che forniscono il contesto retorico figurale nel quale si muovono le sue creazioni fantastiche. E non solo la vita ed il sociale, la politica, le cronache di tutti i giorni, diventano materia di scrittura, ma pure la letteratura stessa, e insomma tutte le articolazioni di un mondo in cui fra autore e lettore si è creato un incolmabile divario, oggi come oggi. Rimane il gusto agrodolce di una raccolta che fa dell’eleganza, della misura e della compostezza i fiori maturi da porre sull’avello della poesia.
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