#batteria potente
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DOOGEE U10: Tablet Android 13 da 10.1 Pollici
DOOGEE U10: Tablet Android 13 da 10.1 PolliciIl tablet DOOGEE U10 rappresenta un’eccellente offerta nel mondo dei tablet Android 13, offrendo prestazioni di alta qualità e una gamma di funzionalità avanzate per soddisfare le esigenze degli utenti.Con 9GB di RAM (4GB + 5GB di memoria virtuale attivabile) e 128GB di ROM espandibile tramite scheda TF fino a 1TB, questo tablet offre la potenza…
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#128GB ROM#batteria potente#Bluetooth 5.0#Display HD+#DOOGEE U10#Fotocamera 8MP#Tablet Android 13#WiFi 6
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TECLAST 2024 T50: il tablet perfetto per te
Il TECLAST 2024 T50 è un tablet Android all’avanguardia. Offre potenza, stile e versatilità. Ha un display 2K da 11 pollici e un chip Unisoc T618 potente. Con 8GB di RAM e 256GB di archiviazione interna espandibili fino a 2TB, soddisfa le tue esigenze. La fotocamera posteriore da 13MP e quella frontale da 8MP catturano momenti indimenticabili. La batteria da 8000mAh assicura lunga durata. Il…
#Connettività rapida#Design elegante#Esperienza utente ottimale#Longevità della batteria#Miglior tablet 2024#Performance potente#Schermo ad alta risoluzione#Tablet TECLAST 2024 T50#Tecnologia avanzata
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Storia Di Musica #343 - Alice In Chains, Jar Of Flies, 1994
Le storie musicali ottobrine avranno come protagonista un formato musicale, perchè ho scelto 4 EP come protagonisti delle quattro domeniche di questo mese. Cos'è un EP? Un Extended Play è un supporto fonografico (in vinile, CD, musicassetta, download digitale o altro) che contiene più tracce rispetto ad un singolo, ma che, similmente al mini LP, non può essere classificato come album discografico. La definizione è alquanto vaga e non esiste un limite preciso che stabilisca quando un EP non è più tale e diviene un album vero e proprio: per convenzione, si concorda che un disco con pochi brani e una durata di 25-30 minuti sia un EP ma, per esempio, le regole della Recording Academy per i Grammy stabiliscono che ogni pubblicazione con cinque o più tracce sopra i 15 minuti di durata dev'essere considerata "album", senza menzionare gli EP. Tuttavia nelle classifiche ufficiali di vendita sono sempre segnalati quando vengono commercializzati come tali, e la storia della musica popolare occidentale ci fa scoprire che è una forma di registrazione niente affatto secondaria: nasce addirittura negli anni '20 del 1900 come supporto che conteneva non una solo brano per lato, ma due o due più tre sull'altro lato. Nelle prossime storie ne racconteremo un po' la storia, anche inteso come mezzo di espressione alternativo, soprattutto in certi momenti specifici della storia musicale.
Quello di oggi, per partire, è uno degli EP più famosi della storia. Fu il primo EP a svettare tra i dischi più venduti di Billboard. Questo EP si intitola Jar of Flies e fu pubblicato dagli Alice in Chains il 25 gennaio del 1994. Gruppo formidabile, dell’ala hard rock del grunge di Seattle (anche se tentarono sempre di non apparire grunge), gli Alice in Chains (un omaggio sadomaso ad Alice nel Paese delle Meraviglie) si fondano nel 1987 quando Layne Staley incontra Jerry Cantrell. Ispirandosi più verso l’heavy metal che la psichedelia acida dei coetanei gruppi grunge, nel 1990 pubblicano il primo disco, Facelift, che li proietta alla ribalta delle cronache musicali. Subito dopo, con Sap, il primo di una coppia meravigliosa di fortunati EP, iniziano a suonare sonorità acustiche, lontano dal suono potente, distorto ed elettrico dei dischi “interi”, come Dirt del 1992, che a metà tra speed metal e Black Sabbath li fa diventare superstar. Ma come sempre nelle migliori storie rock arrivano i guai. Staley inizia una dipendenza pesantissima da alcol ed eroina, e per oltre un anno la band non si esibisce. Appena però sta meglio, in una settimana nel 1994, la band, in tenuta acustica con Mike Inez al basso e Sean Kinney alla batteria, sfoggia in 7 giorni, a detta degli stessi pieni di fumo, depressione ed alcol, questo capolavoro. Il titolo, Jar of Flies, prende spunto da un esperimento che Cantrell fece al liceo: in due vasi venivano poste due comunità di mosche, uno con molto cibo, l’altro con meno. Quella con più cibo prosperava molto più forte di quella con meno cibo, ma alla fine il sovrappopolamento finì per esaurire presto le risorse e la comunità morì, mentre l’altra continuò a vivere. Rotten Apple è una struggente ballata fatta apposta per la voce straziante di Staley, e vola per oltre 6 minuti. Nutshell, con scie sonora da pelle d’oca, è tanto favolosa quanto tetra e devastante nel testo (inizia così: Inseguiamo promesse mal stampate, affrontiamo il sentiero del tempo). I Stay Away è una traccia acida e psichedelica e che forse faceva capire i progetti futuri della band. Cantrell scrive No Excuses, che diventerà uno dei loro brani icona e canta con Staley la bellissima Don’t Follow. Whale & Wasp è strumentale, Swing Of This è una melodia diversa, quasi staccata al resto dell’album, così compatto sia musicalmente che emozionalmente. Nel 1995 la band scrive ancora un capolavoro, Alice in Chains, conosciuto come Tripod per la foto del cane a tre zampe in copertina, ancora numero 1 in classifica. Ma il tour che segue sarà di sole 7 date, per le condizioni sempre più disastrose di Staley, che comparirà per un ultimo concerto, la registrazione di un toccante MTV Unplugged del 1996, uscito anche come disco, e con una Nutshell da brividi. Morirà, isolato, depresso e distrutto, il 5 aprile del 2002, precisamente 8 anni dopo Kurt Cobain. La band si è riunita sotto l’egida di Cantrell nel 2005 e nel 2009 ha pubblicato Black Gives Way To Blue con un nuovo cantante, William DuVall, dai suoni iper heavy come i bei tempi ed è ancora in attività (Rainier Fog ultimo disco del 2018 e è da tempo annunciato un settimo album). Ascoltatene la malinconica bellezza.
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La tua vita sul palco.
È inspiegabile. È un insieme di emozioni che arrivano e mi attraversano forte senza chiedere il permesso. Vivere la preparazione e lo spettacolo per osmosi dà una carica enorme se chi sale sul palco è la persona che ami.
Tu perfetto, dal dettaglio allo scenario più gigantesco. Nessuna distrazione, tutti i valori impostati sullo zero e la massima concentrazione per mantenerli ghiacciati li. Io con l'adrenalina, massima felicità e ammirazione infinita verso di te.
Sei inspiegabile. Ogni luce, ogni suono, ogni rullo sulla batteria porta con sé occhi, orecchie e cuore dove gli pare fino a tornare su di te raggiungendo quel poco che di fisico in me era rimasto nella realtà. Ogni muscolo sprigiona potenza e carica da rilasciare sulla chitarra e ai piedi del palco. Impossibile non sentirlo, quando mi sfiori con le dita è come una potente scossa che fa vibrare anche me. Ti cambia la luce negli occhi e diventa quella del chitarrista. Cambi postura per sostenere la tua chitarra sulle spalle. I timpani diventano antenne di ricezione a cui non scappa nemmeno la più piccola frequenza. Ti trasformi nel più bel chitarrista di sempre, il più figo.
Le prove hanno una carica molto simile a quella sul palco, ma si ricerca più il dettaglio e il tempo giusto. Con la chitarra in mano ti muovi come se foste un'unica cosa e sorridi diventi bellissimo e tutto si fonde insieme ai suoni, agli odori. Anche la tua pelle cambia sapore, diventa più forte, carico di energia.
Ed io non posso stare lontano da tutto questo. Lo vivo forte. Tu me lo fai vivere forte, con tutta la serietà mista a divertimento. Ci sarà chi non ci crede, chi si domanda se quella magia c'è davvero o se è solo un'illusione dello spettatore, chi la sente e se la vive fino in fondo. La magia c'è e sei tu. ❤��✨
#unparadisoblu-22#tumblr#me#myself#pensieri#tu#🎸#thoughs#musica#palco#chitarra#guitar#emozioni#magia#boyfriend#band#perfezione#suonare#play guitar#girlfriend#fidanzata#bf#gf#story#storia#vita#life#music#you#chitarrista
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Walk dei Pantera in una cover song. I Pantera rappresentano una band epica che si rivela la carta vincente dell’heavy metal. Difatti, tutto l’asset della band è riuscito a creare delle melodie eterne nella storia. Da Walk a Cowboys from Hell è un grande mix di riff di chitarre e virtuosismi vocali. Pertanto, avevo deciso di dedicare questa traccia ad una delle band che mi ha ispirato nella vita.
Dunque, ti consiglio di conoscere l'energia selvaggia e la potenza inarrestabile della musica metal con la panoramica sulla leggendaria band Pantera. Immergiti nel mondo sonoro feroce e nell'attitudine ribelle della Pantera, pioniera del genere heavy metal. Dal ruggito selvaggio delle chitarre al battito incessante della batteria, il nostro articolo svela il cuore pulsante di questo'iconico gruppo. Scopri la storia dietro i successi che hanno plasmato il panorama musicale metallico e approfondisci la potente eredità lasciata dalla Pantera. Entra nel regno del metal più pesante e vibrante, dove la Pantera continua a regnare sovrana.
Nel selvaggio regno del panorama musicale, la Pantera Heavy Metal emerge come una potente forza sonora che incanta gli ascoltatori con la sua ferocia musicale. Con radici profonde nel cuore del metal, la Pantera si distingue per la sua combinazione unica di riff incisivi, ritmi implacabili e un'inconfondibile intensità sonora.
Quindi, immersi in un universo di distorsioni controllate e testi carichi di impeto, gli appassionati di Pantera Heavy Metal sono trasportati in un viaggio epico attraverso l'oscurità e la potenza. La band, con la sua eredità indiscussa, continua a suscitare l'entusiasmo dei fan, trascinandoli in un vortice di emozioni sonore che definiscono il vero spirito del metal.
Inoltre, addentrati nel mondo incendiario della Pantera Heavy Metal, dove le note ribelli si fondono in un crescendo di adrenalina e il suono del metal diventa un'esperienza epica. Unisciti alla tribù dei veri amanti della musica pesante e abbraccia la potenza indomita della Pantera Heavy Metal. La tua ricerca musicale ha trovato la sua forza guida.
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JAMES BRANDON LEWIS: “FOR MAHALIA WITH LOVE”
Il titolo dell’ultimo straordinario lavoro di James Brandon Lewis e del suo “Quintet” lascia pochi dubbi e, se qualcuno ne avesse, potrà facilmente fugarli ascoltando questo disco. “For Mahalia with Love” è un magnifico omaggio di Brandon Lewis alla memoria della grandissima Mahalia Jackson, regina del Gospel, come fu soprannominata. Ma questo omaggio contiene in sè qualcosa di molto più intimo e profondo perché mediato dal ricordo che di Mahalia conservava la nonna di James Brandon Lewis e che è riportato nel retro della copertina, sotto forma di una struggente lettera del musicista a Mahalia. Scrive Brandon Lewis: “…Mahalia, mi sono innamorata di te dal giorno in cui mia nonna mi ha parlato di te, perché tutto ciò che la nonna menziona deve essere speciale. Le nonne occupano un posto speciale nel cuore e nella mente dei bambini. Ricordi tutto della nonna: cosa cucinava, cosa indossava, le sue parole di saggezza, l'odore della sua casa... “ Insomma un amore con salde radici e che viene da lontano. In questi casi, quando l’omaggio non è una occasione posticcia o una piccola convenienza, il risultato si sente subito nella musica ed é un meccanismo quasi automatico: così accade appena poggiato il dito sul tasto “play” e nelle cuffie si accendono le prime note di “Sparrow”, solenne introduzione e chiaro omaggio a “His Eyeis Is on the Sparrow”, composta da Charles H. Gabriel, e a “Even the Sparrow” dello stesso Brandon Lewis. La magia del sentire musicale di Mahalia Jackson sembra già manifestarsi forte e potente. “…Il suo occhio è sul piccolo passero…” diceva la canzone, riferito all’occhio di Gesù, e proseguiva “…Canto perché la mia anima è felice/Canto perché sono libera/Per il suo occhio sul piccolo vecchio passero/E so che sta vegliando su di me e su di te…” Come rendere al meglio la spiritualità e la profonda umanità di questi versi se non con l’amorevole sax di Brandon Lewis, accompagnato dalla cornetta di Kirk Knuffke e sostenuto dalla batteria di Chad Taylor? Anche in questa versione strumentale, con buona pace di De Gregori, gli uccellini non sono “soli nel sole”, ma sono protetti dal Signore e, senza un profondo senso religioso, se non si riesce a comprendere Mahalia Jackson, non si riesce nemmeno a comprendere la gioiosa religiosità nella musica di Brandon Lewis. Con “Swing low” potremmo percorrere un viale del Louis Armstrong Park di New Orleans dove si profila da lontano il “Mahalia Jackson Theater for the Performing Arts”; brano godibile e pieno zeppo di riferimenti allo swing e al vitalismo della black music. Cambiano i ritmi ma non cambiano le atmosfere sia con “Go Down Moses” fitto e dialogante, sia con “Wade in the Water”, con il suggestivo sottofondo delle percussioni di Taylor. “Calvary” è invece un dolente lamento religioso incentrato sulla sofferenza di Gesù che altro non è che la sofferenza del mondo. Chissà come sarebbe una Via Crucis con questo accompagnamento, dove il contorcimento degli animi e le inquietudini, come possono essere quelli dei sofferenti, prendono qui corpo nella musica. Orchestrazione completa e corposa dove trova spazio anche il violoncello di Chris Hoffman e il contrabbasso di William Parker. “Deep River” ci riporta a sonorità più intense e con tanto spazio per gli assoli, mentre la seguente “Eljia Rock” fa diretto riferimento al profeta Elia che, per la tradizione ebraica non morì, ma fu assunto in cielo con anima e corpo e quindi in diretto riferimento alla figura di Gesù tanto cara a Mahalia. L’immanenza del Signore (ma forse anche di Mahalia), è richiamata nel titolo di “Were You There”. Il lavoro si conclude con una magnifica versione rivisitata di “Precious Lord Take my Hand”, brano che la Jackson cantò all’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca. Un disco che omaggia giustamente la regina del gospel, ricorda l’amata nonna di Brandon ma che, naturalmente, splende di luce propria e che non si smetterebbe mai di ascoltare.
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Quando uscì Diabolis Interium non stavo più nella pelle. Avevo conosciuto i Dark Funeral solo parzialmente con l’EP Teach Children to Worship Satan e poi avevo finalmente trovato da Musica Musica il primo The Secrets of the Black Arts. I Dark Funeral incarnavano tutto il black metal che volevo ascoltare e in cui volevo immedesimarmi in quegli anni; ricordo che in primo liceo, pur non avendoli mai ascoltati mi ridisegnai il loro logo sulla cartella di educazione tecnica. Ancora oggi, Vobiscum Satanas è un disco che non capisco granché, che non è entrato in me, forse per l’eccessiva somiglianza fra un brano e l’altro. Invece Diabolis Interium inizia ad essere variegato; c’è un ottimo lavoro di songwriting sulle chitarre che non sono più dei semplici e velocissimi power-chords ma iniziano ad essere più “swedish”. I Dark Funeral iniziano davvero a suonare in questo disco; certo sono ancora velocissimi, addirittura più veloci dei Marduk; ma ora il patto col diavolo ha davvero generato i suoi maligni frutti. Intanto il batterista Matte Modin (ex Defleshed) riesce a dare ai brani una vitalità disarmante; la doppietta Ahriman-Dominion è forse la più vincente fino al recente Where Shadows forever Reign.
Al di là degli altisonanti titoli in latino, che all’epoca erano dei cliché, “An Arrival of Satan Empire” è una mazzata diretta e melodica (ricordo ancora il potente impatto quando li vidi nel 2002-2003 a Roma) mentre “An Apprentice of Satan” è stata ri-registrata in modo sbalorditivo rispetto al precedente EP. Prima era più classica, precisa, black metal old-school. Ora invece, intorno ai riff efficaci ma quasi banali, la batteria riesce a tirar fuori quanto ci sia di più maligno e possente. Le seconde voci aggiunte in produzione non fanno altro che aprire di più l’imbuto dell’Inferno verso Lucifero. Per non parlare dell’aura evocativa che emana il bridge del brano. “The Goddess of Sodomy” stranamente può risultare il brano più azzeccato dei Dark Funeral; stranamente perché il brano è una traccia in mid-tempo dove le chitarre tracciano dei riff alla Mayhem. “Thus I Have Spoken” è un brano che ricorda i Marduk di Opus Nocturne e, dopo un altro paio di doppiette sparate al fulmicotone, la conclusiva “Heart of Ice” è degna di interesse sempre per le sue partiture chitarristiche che salgono in un climax davvero niente male.
#Dark Funeral#Ahriman#Lord Ahriman#Emperor Magus Galigula#Magus#Emperor#Caligula#No Fashion Records#Swedish#black metal#2001
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Find X8 Pro si distingue per le sue fotocamere avanzate, realizzate in collaborazione con Hasselblad, un’autonomia eccezionale e l’introduzione del nuovo sistema operativo ColorOS 15, che integra funzionalità basate sull’intelligenza artificiale. Questo modello rappresenta un passo decisivo nell’evoluzione degli smartphone, rendendo ogni interazione più fluida e significativa. A sottolineare l'importanza di questa nuova serie, Isabella Lazzini, CMO di OPPO Italia, ha dichiarato: “La serie Find X8 incarna la visione di OPPO per il futuro della tecnologia mobile: uno smartphone che non si limita a offrire performance elevate, ma che trasforma ogni interazione in un’esperienza significativa, grazie all’intelligenza artificiale e alla fotocamera Hasselblad Master. Vogliamo portare nelle mani degli utenti un dispositivo che si distingua sia per le capacità tecniche che per la bellezza del design.” Prestazioni e design senza compromessi Find X8 Pro è progettato per soddisfare le esigenze degli utenti più esigenti. Dotato di un display Infinite View da 6,78 pollici con una luminosità di picco fino a 4.500 nit, il dispositivo offre una qualità visiva straordinaria anche in condizioni di luce intensa. Il design ultra-sottile e l'utilizzo di materiali premium, come il vetro e l’alluminio, conferiscono al device un’estetica sofisticata e una presa confortevole. Le colorazioni disponibili, Pearl White e Space Black, sottolineano l’eleganza del design, con la variante bianca caratterizzata da un pattern perlato esclusivo. La certificazione IP68/IP69 garantisce resistenza a polvere e acqua, rendendo lo smartphone ideale per ogni situazione. Innovazione fotografica con Hasselblad Il sistema di fotocamere è il cuore pulsante del Find X8 Pro. Grazie alla collaborazione con Hasselblad, il dispositivo è dotato di quattro fotocamere da 50 MP, tra cui una fotocamera periscopica con zoom ottico 6x. La tecnologia avanzata consente di catturare immagini dettagliate anche in condizioni di scarsa illuminazione. Una delle caratteristiche distintive è la modalità Ritratto Hasselblad, che permette di scattare ritratti ottici a 135 mm, offrendo una profondità e un dinamismo unici. Inoltre, l’AI Telescope Zoom garantisce uno zoom fluido fino a 120x, ideale per immortalare paesaggi mozzafiato o dettagli lontani con una qualità senza precedenti. Prestazioni straordinarie e autonomia incredibile Find X8 Pro è alimentato dal potente chipset MediaTek Dimensity 9400, costruito con un processo a 3 nm di seconda generazione. Questa tecnologia garantisce un aumento delle prestazioni della CPU del 35% e della GPU del 41%, insieme a un risparmio energetico significativo. La batteria silicon-carbon da 5.910 mAh offre un’autonomia eccezionale, supportata dalla ricarica rapida 80W SUPERVOOCTM e dalla ricarica wireless magnetica 50W AIRVOOCTM. Pochi minuti di ricarica assicurano ore di utilizzo, rendendo il dispositivo un compagno affidabile per l'intera giornata. Esperienza software evoluta Il debutto di ColorOS 15 su Find X8 Pro introduce un’interfaccia utente fluida e moderna, basata su Android 15. Con oltre 800 elementi riprogettati, il sistema operativo offre un’estetica minimalista e funzionalità avanzate. Strumenti come AI Eraser, Aumenta Nitidezza AI e Rimuovi Riflessi AI migliorano ulteriormente l’esperienza fotografica, mentre l’AI ToolBox semplifica le attività quotidiane. Grazie all’integrazione con Google, gli utenti possono sfruttare funzionalità innovative come “Tocca per Condividere” per il trasferimento rapido di file tra dispositivi. Inoltre, OPPO garantisce aggiornamenti di sicurezza per sei anni, assicurando protezione e affidabilità nel tempo. Read the full article
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Motosega a batteria STIGA CS 100e: la recensione
(Adnkronos) – Una soluzione leggera e potente, ideale per potature e tagli di precisione nel giardinaggio domestico Read More (Adnkronos) – Una soluzione leggera e potente, ideale per potature e tagli di precisione nel giardinaggio domestico Adnkronos – Tech&Games tecnologia
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UMIDIGI G5 Tab Kids: Recensione Tablet Android 13 per Bambini
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WorldPlan - Il nuovo singolo “Davide o Golia”
L’essere umano vuole fuggire dai problemi ma ne è parte stessa
La band WorldPlan pubblica il nuovo singolo “Davide o Golia”, disponibile dall’8 novembre 2024 sui principali stores digitali e nelle radio in promozione nazionale. La potenza del loro rock torna in questo nuovo brano, dedicato a coloro che non sono soddisfatti di ciò che li circonda: vorrebbero scappare, ma sono parte integrante del “problema”. Ritrovarsi faccia a faccia con la realtà e con le conseguenze delle proprie azioni non è mai facile: sarà il dolore a muovere l’essere umano, a spingerlo a cambiare le cose.
Ascolta il brano
Storia della band
Testi tormentati, rabbia ed energia: sono solo alcuni degli attributi che fanno da fondamenta per i WorldPlan. Il progetto nasce nel 2018, tra le nostalgiche colline toscane, grazie al feeling musicale ed emotivo degli attuali membri, che tutt'ora continua a persistere. Ciò ha portato al bisogno di scrivere ed incidere pezzi che rispecchiassero la natura della band. È così che, nel 2019, esce il primo lavoro firmato WorldPlan, "Easyli Rhetieving": un EP da sei tracce, veloce, potente e sporco, in cui ogni transiente è ben evidenziato e ogni parola è socialmente scorretta. Durante il distopico lockdown, la band rifiuta di fermarsi insieme al mondo, continuando a scrivere e a produrre, dando un nuovo significato al proprio nome, ormai più forte e identificativo di prima. Ciò ha portato alla creazione del loro primo album "Jukai", uscito a luglio nel 2022. Questo LP racchiude dodici tracce, in cui ci si ritrova in un viaggio mistico tra la vita e la morte, dove i problemi con la società moderna, istinti suicidi e speranza stanno alla base di questo concept. L'album porta i WorldPlan a condividere il palco con nomi storici ed influenti del panorama musicale, come Nanowar Of Steel, David Ellefson, Jeff Scott Soto, Chris Slade e altri. Non contenti, continuano a scrivere e a produrre materiale con l'intento di conquistare il mondo. Al momento, il progetto WorldPlan sta continuando sotto una nuova forma con la pubblicazione di nuovi singoli, questa volta in lingua italiana.
I WorldPlan:
Lorenzo Masi – Voce/Tastiere
Alessandro Iacobelli – Chitarra/Cori
Leonardo Dei – Chitarra
Gabrio Cintura – Basso
Francesco Bracci – Batteria
Instagram: https://www.instagram.com/worldplanofficial
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Youtube: https://m.youtube.com/c/worldplan
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Bandcamp: https://worldplan.bandcamp.com
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Storia Di Musica #321 - Okkervil River, The Stage Names, 2007
Fino a 15 giorni fa non conoscevo questo gruppo, e la sua storia variegata e spassosa. Non conoscevo ovviamente nemmeno il loro modo di fare musica, che mi ha colpito davvero tanto. Will Sheff, voce e chitarra, Zach Thomas al basso e al mandolino e Seth Warren alla batteria sono tre amici sin dal tempo del liceo, e vivono nel New Hampshire. Si trasferiscono dopo il college ad Austin, in Texas, e mettono su una band: prendono nome dal titolo di un racconto di Tat'jana Nikitična Tolstaja (che discende da un ramo minore dei Tolstoj), contenuto nella raccolta Sotto Il Portico Dorato, che si intitola Sul Fiume Okkervil, che è un breve fiume che passa per San Pietroburgo: Okkervil River. Siamo a fine anni '90 del '900 e i nostri registrarono un album autoprodotto composto da sette canzoni intitolato Stars Too Small To Use. Iniziano a fare concerti, la band si allarga (Jonathan Meiburg alla fisarmonica e poi all'organo). Nel 2002 la famosa etichetta indipendente Jagjaguwar li mette sotto contratto: Seth Warren abbandona per seguire la carriera accademica a Berkely e viene sostituito da Mark Pedini alla batteria. Nello stesso anno pubblicano il loro primo LP, Don't Fall In Love With Everyone You See. Un anno dopo si spostano a San Francisco, Warren ritorna in gruppo, e pubblicano Down The River Of Golden Dreams. La band ha continui cambi di formazione, ma raggiunge una certa forma quando Travis Nelsen sostituisce Pedini alla batteria e si aggiunge un altro chitarrista, Howard Draper. Con questa formazione, nel 2005, pubblicano il loro lavoro più riuscito, che li fa conoscere in maniera decisiva anche oltre la scena indipendente: Black Sheep Boy è osannato dalla critica e vende benissimo per un disco indipendente, tanto che la band lo pubblica nel 2006 anche in Europa e ne fa uscire un mini EP in accompagnato, Black Sheep Boy Appendix. Zach Thomas esce dal gruppo e viene sostituito da Pat Pestorius. Il suono è un folk rock ricco, delicato, gioioso ma sono le idee dei testi di Sheff che stupiscono, in una sorta di costruzione di musica cabaret dove il racconto, a volte stucchevole, di ciò che succede intorno a lui è il fulcro della musica degli Okkervil River. E prova maestra è il disco di oggi, uscito nell'Agosto del 2007 e quasi da subito un classico della musica indipendente.
The Stages Names è, come suggerisce il titolo, una riflessione ironica e senza peli sulla lingua sull'essere un'artista e sulle storie che l'esserlo nasconde. Our Life Is Not A Movie Or Maybe prende in giro il già allora evidente e potente ingigantimento di qualsiasi cosa succeda nella vita di chiunque, o per meglio dire, la voglia di rendere le cose della vita molto più drammatiche o epiche di quello che sono (It's just a life story, so there's no climax\No more new territory, so pull away the IMAX). Unless It's Kicks è una analisi sul rapporto artista fan, A Hand To Take Hold Of The Scene è la prima genialata, infatti è una canzone che racconta della trama di due programmi TV, Cold Case (famoso anche in italiana, sulla squadra dell'FBI chiamata a risolvere i casi irrisolti di anni precedenti) e Breaking Bonaduce (una sorta di documentario su Danny Bonaduce, famoso attore bambino degli anni'70, che raccontava dei suoi problemi familiari da adulto) in cui furono usate canzoni della band (in Cold Case Black Sheep Boy). Savannah Smiles è la storia di Shannon Wilsey, famosa pornostar americana, che prese il suo nome d'arte da un film, Savannah Smiles del 1982: la sua è una storia tragica, poichè dopo un incidente stradale dove rimase sfregiata, decise di suicidarsi per non essere vista "brutta". Plus Ones è un piccolo capolavoro: l'espressione indica nelle liste dei concerti le aggiunte che gli ospiti dei backstage hanno per le entrate, ed è un testo quasi non sense che aggiunge uno o più unità a famosi titoli di canzoni: ? and the Mysterian che scrissero 96 Tears diventano 97, le 50 Ways To Leave Your Lover di Paul Simon diventano 51 e così via, citando anche i The Byrds di Eight Miles High, i R.E.M. di 7 Chinese Bros., David Bowie in TVC15 ed altri. You Can't Hold The Hand Of A Rock And Roll Man cita nel titolo un testo di una canzone di Joni Mitchell, Blonde In The Bleachers, e cita nel testo un quadro di Marchel Duchamp, La Sposa Messa A Nudo Dai Suoi Scapoli, Anche. John Allyn Smith Sails è dedicata alla vita e al suicidio del poeta confessionale John Berryman (originariamente John Allyn Smith). La canzone si conclude rielaborando la tradizionale canzone popolare Sloop John B (resa famosa dai Beach Boys), paragonando la morte a un viaggio di ritorno a casa. Non posso non citare anche Title Track (che cita Hollywood Babylonia di Kenneth Anger) e la toccante A Girl In Port, canzoni misteriosa e dolente. Le canzoni hanno una gioiosa musicalità e il disco va persino in classifica su Billboard. Will Sheff si mostra un cantautore davvero poliedrico e la band gira a mille, usando spesso solo strumenti acustici (tranne in Title Track e poche altre occasioni). Un piccolo gioiello scoperto in questo mese di Aprile, che con la seconda copertina capite benissimo a cosa è dedicato (almeno spero....)
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Come il miglior dispositivo nel cosmo dei dispositivi di svapo disponibili oggi, il Vozol Star 12000 rappresenta lo stile creativo di un design marmorizzato con opzioni di prodotto. Chi cerca prestazioni, così come soddisfazione estetica, non avrà bisogno di cercare oltre poiché ha una tecnologia moderna abbinata a una batteria di lunga durata e un bell'aspetto. Se sei un principiante o un vaper esperto, non c'è dubbio che il Vozol Star 12000 ti presenterà una forma di svapo davvero unica. Ordina il tuo oggi finché le offerte durano!
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"The Cold Summer of the Dead" Junkfood
L’album The Cold Summer of the Dead dei Junkfood, uscito nel 2012, rappresenta uno degli esperimenti più originali della scena musicale strumentale italiana. Con un sound cupo e viscerale, questo lavoro si inserisce tra rock, jazz, e post-rock, mostrando l’attitudine di Junkfood per una musica che si muove tra atmosfere cinematografiche e toni da thriller psicologico. La sua ricchezza sonora crea scenari immaginifici e quasi palpabili, un’esperienza per chi ascolta che non lascia indifferenti. Di seguito, un approfondimento traccia per traccia.
Track by Track
The Cold Summer of the Dead L’album si apre con una traccia che definisce subito il tono del progetto: un’atmosfera glaciale e solenne, supportata da suoni oscuri che trasportano l’ascoltatore in un luogo desolato. Le linee di basso sono profonde e danno un senso di gravità, mentre la batteria e la chitarra si fondono in un crescendo che non esplode mai completamente, lasciando una tensione sospesa.
The Maze The Maze si muove su un ritmo ipnotico e circolare, portando chi ascolta in una spirale che ricorda un labirinto senza via d’uscita. Le percussioni sono ossessive, e gli strati di synth e chitarra creano un senso di disorientamento. È un pezzo potente che colpisce per la sua capacità di evocare immagini di inquietudine e mistero. Perfetto per chi cerca una colonna sonora che lo catturi e lo lasci con il fiato sospeso.
Only Shadows Move Questa traccia è il cuore malinconico dell’album, con un mood che si potrebbe quasi definire blues. Le chitarre lamentose e il ritmo rallentato creano un senso di perdita e desolazione. Only Shadows Move è uno di quei brani che trasmette un’immagine di silenzio post-apocalittico, come una città deserta dopo un temporale.
The Last Drop of Water Intenso e atmosferico, The Last Drop of Water porta una ventata di sperimentazione sonora. Con l’uso di riverberi profondi e suoni filtrati, i Junkfood riescono a costruire una dimensione sonora quasi acquatica, suggerendo una sete emotiva inappagata. La traccia ha una struttura libera, senza una direzione chiara, che rispecchia forse un messaggio di incertezza.
A Room with No Air Questa traccia è una lenta costruzione di ansia, dove il silenzio tra le note ha un peso fondamentale. Qui la band gioca con le pause e i vuoti, dando spazio ai suoni di chitarra e basso che si espandono come respiri trattenuti. È una delle tracce più minimaliste dell’album, ma è anche una delle più potenti, evocando la sensazione claustrofobica di essere intrappolati in una stanza senza aria.
Ashes La chiusura dell’album arriva con Ashes, una traccia che funziona quasi come un epilogo, con un sound etereo e riflessivo. Qui, i toni si fanno più lievi, come se i Junkfood stessero concedendo una tregua a chi ascolta. Questo brano chiude l’album come una liberazione, un’uscita da quel “labirinto” inquietante e profondo che l’intero lavoro ha rappresentato.
Conclusioni
The Cold Summer of the Dead è un’opera intensa che conferma la capacità dei Junkfood di esplorare territori musicali poco battuti. La loro capacità di evocare immagini forti e ricche di significato senza fare uso della parola è uno dei tratti più distintivi del loro stile. L’album, per quanto non di facile ascolto, è un viaggio sonoro che cattura e trattiene in una dimensione parallela. Un lavoro che non solo si ascolta, ma si vive.
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MARC RIBOT-THE JAZZ BINS
Ci sono delle leggende nel rock, nel blues e anche nel jazz che raccontano di concerti favolosi, storici o tutte e due le cose, dove per assistervi gli spettatori (il popolo del rock e anche quello del jazz) hanno dovuto sopportare improbe fatiche. A Woodstock si è dovuto soggiornare nel fango mangiando solo muesli, a Venezia per sentire i Pink Floyd ci si è dovuti arrostire sotto il sole e via di questo passo, come per la famosa edizione di Umbria Jazz che si è tenuta sotto una pioggia battente. Ognuno di noi si ricorda di un concerto in cui ha dovuto sopportare il caldo, la sete, la calca o la pioggia…Ecco, in scala ridotta, annovero tra questi anche il concerto di Marc Ribot E “The Jazz Bins” per Nj Weekender Spring Edition che si è tenuto sabato scorso presso Nòva a Novara. Ne è valsa la pena? Decisamente sì, naturalmente, anche se lo spazio Nòva forse non era il luogo più adatto per un pezzo da novanta come Ribot. Ma la “policy” degli organizzatori è questa e tanto vale dimenticarsi la schiena a pezzi e parlare di musica. Ma anche parlare della musica di Marc Ribot è una fatica improba, poiché le parole non riescono a supplire minimamente a ciò che le corde della sua chitarra trasmettono e si finirebbe per ricorre e fantasiose immagini mentali, a metafore, sineddoche, ellissi, insomma figure retoriche che poi lasciano sempre il lettore insoddisfatto. Ma certo non sarebbe sufficiente dire che il concerto-monster di questa edizione di Novara Jazz Weekender Spring Edition sia stato bellissimo senza aggiungere altro. E allora diciamo che Marc Ribot, assediato da centinaia di fans nella sala di Nòva e con lui Greg Lewis al sontuoso Hammond e Joe Dyson alla (esplosiva) batteria hanno incantato il pubblico. Proprio inutile cercare di definire il repertorio di Ribot che, ricordiamolo fece parte, negli anni Ottanta, dei “Lounge Lizards” di John Lurie che suonavano un jazz che sembrava punk o forse un punk che sembrava jazz. Ma Marc Ribot, oltre ad avere suonato, ha anche composto per artisti e chitarristi da storia della musica, come Wilson Pickett, David Sylvian, Tom Waits, Caetano Veloso, John Zorn, Elvis Costello, Robert Plant, Elton John, Diana Krall, Marianne Faithfull, tanto per buttare lì qualche nome, ed è proprio dovuta a questa diversità di approcci e di suggestioni musicali, la musica affascinante che Ribot propone. Sale sul piccolo palco di Nòva e, senza esitazione alcuna, attacca a suonare con piglio secco, deciso. Niente parole inutili, solo musica, di quella che è impossibile dimenticare. Cavalcate intense, variate all’infinito, “riff” possenti che inglobano tutto, free jazz, rock, groove, una potente e accurata centrifuga di generi che sembra produrne uno del tutto nuovo ed inimitabile che è poi la cifra stilistica propria di Marc Ribot. Che musica faceva Jimi Hendrix? Il rock? Il blues? È più facile rispondere che faceva la musica di Hendrix. Succede solo per i grandissimi che si chiamino Pink Floyd o che si chiami Bob Dylan. Lo stesso è per Marc Ribot che con quella chitarra in mano, che diventa una specie di bacchetta magica, è in grado di confonderci beneficamente le idee e il nostro razionale, ma spesso sterile, desiderio di catalogare tutto. Questo unico concerto italiano di Ribot è un altro gran colpo della premiata Ditta Novara Jazz che sembra ormai essere andata molto oltre, il pur prezioso festival di inizio estate, ed aver intrapreso una attività più complessa che copre tutto l’anno, con produzioni discografiche, iniziative ed eventi di più grande respiro. Però, la prossima volta, per raggiunti limiti di età, vorrei stare seduto in una confortevole poltrona o anche più semplicemente su una sedia…
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