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#batteria potente
newtechworld · 10 months
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DOOGEE U10: Tablet Android 13 da 10.1 Pollici
DOOGEE U10: Tablet Android 13 da 10.1 PolliciIl tablet DOOGEE U10 rappresenta un’eccellente offerta nel mondo dei tablet Android 13, offrendo prestazioni di alta qualità e una gamma di funzionalità avanzate per soddisfare le esigenze degli utenti.Con 9GB di RAM (4GB + 5GB di memoria virtuale attivabile) e 128GB di ROM espandibile tramite scheda TF fino a 1TB, questo tablet offre la potenza…
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campadailyblog · 2 months
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TECLAST 2024 T50: il tablet perfetto per te
Il TECLAST 2024 T50 è un tablet Android all’avanguardia. Offre potenza, stile e versatilità. Ha un display 2K da 11 pollici e un chip Unisoc T618 potente. Con 8GB di RAM e 256GB di archiviazione interna espandibili fino a 2TB, soddisfa le tue esigenze. La fotocamera posteriore da 13MP e quella frontale da 8MP catturano momenti indimenticabili. La batteria da 8000mAh assicura lunga durata. Il…
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diceriadelluntore · 5 months
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Storia Di Musica #321 - Okkervil River, The Stage Names, 2007
Fino a 15 giorni fa non conoscevo questo gruppo, e la sua storia variegata e spassosa. Non conoscevo ovviamente nemmeno il loro modo di fare musica, che mi ha colpito davvero tanto. Will Sheff, voce e chitarra, Zach Thomas al basso e al mandolino e Seth Warren alla batteria sono tre amici sin dal tempo del liceo, e vivono nel New Hampshire. Si trasferiscono dopo il college ad Austin, in Texas, e mettono su una band: prendono nome dal titolo di un racconto di Tat'jana Nikitična Tolstaja (che discende da un ramo minore dei Tolstoj), contenuto nella raccolta Sotto Il Portico Dorato, che si intitola Sul Fiume Okkervil, che è un breve fiume che passa per San Pietroburgo: Okkervil River. Siamo a fine anni '90 del '900 e i nostri registrarono un album autoprodotto composto da sette canzoni intitolato Stars Too Small To Use. Iniziano a fare concerti, la band si allarga (Jonathan Meiburg alla fisarmonica e poi all'organo). Nel 2002 la famosa etichetta indipendente Jagjaguwar li mette sotto contratto: Seth Warren abbandona per seguire la carriera accademica a Berkely e viene sostituito da Mark Pedini alla batteria. Nello stesso anno pubblicano il loro primo LP, Don't Fall In Love With Everyone You See. Un anno dopo si spostano a San Francisco, Warren ritorna in gruppo, e pubblicano Down The River Of Golden Dreams. La band ha continui cambi di formazione, ma raggiunge una certa forma quando Travis Nelsen sostituisce Pedini alla batteria e si aggiunge un altro chitarrista, Howard Draper. Con questa formazione, nel 2005, pubblicano il loro lavoro più riuscito, che li fa conoscere in maniera decisiva anche oltre la scena indipendente: Black Sheep Boy è osannato dalla critica e vende benissimo per un disco indipendente, tanto che la band lo pubblica nel 2006 anche in Europa e ne fa uscire un mini EP in accompagnato, Black Sheep Boy Appendix. Zach Thomas esce dal gruppo e viene sostituito da Pat Pestorius. Il suono è un folk rock ricco, delicato, gioioso ma sono le idee dei testi di Sheff che stupiscono, in una sorta di costruzione di musica cabaret dove il racconto, a volte stucchevole, di ciò che succede intorno a lui è il fulcro della musica degli Okkervil River. E prova maestra è il disco di oggi, uscito nell'Agosto del 2007 e quasi da subito un classico della musica indipendente.
The Stages Names è, come suggerisce il titolo, una riflessione ironica e senza peli sulla lingua sull'essere un'artista e sulle storie che l'esserlo nasconde. Our Life Is Not A Movie Or Maybe prende in giro il già allora evidente e potente ingigantimento di qualsiasi cosa succeda nella vita di chiunque, o per meglio dire, la voglia di rendere le cose della vita molto più drammatiche o epiche di quello che sono (It's just a life story, so there's no climax\No more new territory, so pull away the IMAX). Unless It's Kicks è una analisi sul rapporto artista fan, A Hand To Take Hold Of The Scene è la prima genialata, infatti è una canzone che racconta della trama di due programmi TV, Cold Case (famoso anche in italiana, sulla squadra dell'FBI chiamata a risolvere i casi irrisolti di anni precedenti) e Breaking Bonaduce (una sorta di documentario su Danny Bonaduce, famoso attore bambino degli anni'70, che raccontava dei suoi problemi familiari da adulto) in cui furono usate canzoni della band (in Cold Case Black Sheep Boy). Savannah Smiles è la storia di Shannon Wilsey, famosa pornostar americana, che prese il suo nome d'arte da un film, Savannah Smiles del 1982: la sua è una storia tragica, poichè dopo un incidente stradale dove rimase sfregiata, decise di suicidarsi per non essere vista "brutta". Plus Ones è un piccolo capolavoro: l'espressione indica nelle liste dei concerti le aggiunte che gli ospiti dei backstage hanno per le entrate, ed è un testo quasi non sense che aggiunge uno o più unità a famosi titoli di canzoni: ? and the Mysterian che scrissero 96 Tears diventano 97, le 50 Ways To Leave Your Lover di Paul Simon diventano 51 e così via, citando anche i The Byrds di Eight Miles High, i R.E.M. di 7 Chinese Bros., David Bowie in TVC15 ed altri. You Can't Hold The Hand Of A Rock And Roll Man cita nel titolo un testo di una canzone di Joni Mitchell, Blonde In The Bleachers, e cita nel testo un quadro di Marchel Duchamp, La Sposa Messa A Nudo Dai Suoi Scapoli, Anche. John Allyn Smith Sails è dedicata alla vita e al suicidio del poeta confessionale John Berryman (originariamente John Allyn Smith). La canzone si conclude rielaborando la tradizionale canzone popolare Sloop John B (resa famosa dai Beach Boys), paragonando la morte a un viaggio di ritorno a casa. Non posso non citare anche Title Track (che cita Hollywood Babylonia di Kenneth Anger) e la toccante A Girl In Port, canzoni misteriosa e dolente. Le canzoni hanno una gioiosa musicalità e il disco va persino in classifica su Billboard. Will Sheff si mostra un cantautore davvero poliedrico e la band gira a mille, usando spesso solo strumenti acustici (tranne in Title Track e poche altre occasioni). Un piccolo gioiello scoperto in questo mese di Aprile, che con la seconda copertina capite benissimo a cosa è dedicato (almeno spero....)
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unparadisoblu-22 · 1 year
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La tua vita sul palco.
È inspiegabile. È un insieme di emozioni che arrivano e mi attraversano forte senza chiedere il permesso. Vivere la preparazione e lo spettacolo per osmosi dà una carica enorme se chi sale sul palco è la persona che ami.
Tu perfetto, dal dettaglio allo scenario più gigantesco. Nessuna distrazione, tutti i valori impostati sullo zero e la massima concentrazione per mantenerli ghiacciati li. Io con l'adrenalina, massima felicità e ammirazione infinita verso di te.
Sei inspiegabile. Ogni luce, ogni suono, ogni rullo sulla batteria porta con sé occhi, orecchie e cuore dove gli pare fino a tornare su di te raggiungendo quel poco che di fisico in me era rimasto nella realtà. Ogni muscolo sprigiona potenza e carica da rilasciare sulla chitarra e ai piedi del palco. Impossibile non sentirlo, quando mi sfiori con le dita è come una potente scossa che fa vibrare anche me. Ti cambia la luce negli occhi e diventa quella del chitarrista. Cambi postura per sostenere la tua chitarra sulle spalle. I timpani diventano antenne di ricezione a cui non scappa nemmeno la più piccola frequenza. Ti trasformi nel più bel chitarrista di sempre, il più figo.
Le prove hanno una carica molto simile a quella sul palco, ma si ricerca più il dettaglio e il tempo giusto. Con la chitarra in mano ti muovi come se foste un'unica cosa e sorridi diventi bellissimo e tutto si fonde insieme ai suoni, agli odori. Anche la tua pelle cambia sapore, diventa più forte, carico di energia.
Ed io non posso stare lontano da tutto questo. Lo vivo forte. Tu me lo fai vivere forte, con tutta la serietà mista a divertimento. Ci sarà chi non ci crede, chi si domanda se quella magia c'è davvero o se è solo un'illusione dello spettatore, chi la sente e se la vive fino in fondo. La magia c'è e sei tu. ❤️✨
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jamessixx · 9 months
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Walk dei Pantera in una cover song. I Pantera rappresentano una band epica che si rivela la carta vincente dell’heavy metal. Difatti, tutto l’asset della band è riuscito a creare delle melodie eterne nella storia. Da Walk a Cowboys from Hell è un grande mix di riff di chitarre e virtuosismi vocali. Pertanto, avevo deciso di dedicare questa traccia ad una delle band che mi ha ispirato nella vita.
Dunque, ti consiglio di conoscere l'energia selvaggia e la potenza inarrestabile della musica metal con la panoramica sulla leggendaria band Pantera. Immergiti nel mondo sonoro feroce e nell'attitudine ribelle della Pantera, pioniera del genere heavy metal. Dal ruggito selvaggio delle chitarre al battito incessante della batteria, il nostro articolo svela il cuore pulsante di questo'iconico gruppo. Scopri la storia dietro i successi che hanno plasmato il panorama musicale metallico e approfondisci la potente eredità lasciata dalla Pantera. Entra nel regno del metal più pesante e vibrante, dove la Pantera continua a regnare sovrana.
Nel selvaggio regno del panorama musicale, la Pantera Heavy Metal emerge come una potente forza sonora che incanta gli ascoltatori con la sua ferocia musicale. Con radici profonde nel cuore del metal, la Pantera si distingue per la sua combinazione unica di riff incisivi, ritmi implacabili e un'inconfondibile intensità sonora.
Quindi, immersi in un universo di distorsioni controllate e testi carichi di impeto, gli appassionati di Pantera Heavy Metal sono trasportati in un viaggio epico attraverso l'oscurità e la potenza. La band, con la sua eredità indiscussa, continua a suscitare l'entusiasmo dei fan, trascinandoli in un vortice di emozioni sonore che definiscono il vero spirito del metal.
Inoltre, addentrati nel mondo incendiario della Pantera Heavy Metal, dove le note ribelli si fondono in un crescendo di adrenalina e il suono del metal diventa un'esperienza epica. Unisciti alla tribù dei veri amanti della musica pesante e abbraccia la potenza indomita della Pantera Heavy Metal. La tua ricerca musicale ha trovato la sua forza guida.
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chez-mimich · 1 year
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JAMES BRANDON LEWIS: “FOR MAHALIA WITH LOVE”
Il titolo dell’ultimo straordinario lavoro di James Brandon Lewis e del suo “Quintet” lascia pochi dubbi e, se qualcuno ne avesse, potrà facilmente fugarli ascoltando questo disco. “For Mahalia with Love” è un magnifico omaggio di Brandon Lewis alla memoria della grandissima Mahalia Jackson, regina del Gospel, come fu soprannominata. Ma questo omaggio contiene in sè qualcosa di molto più intimo e profondo perché mediato dal ricordo che di Mahalia conservava la nonna di James Brandon Lewis e che è riportato nel retro della copertina, sotto forma di una struggente lettera del musicista a Mahalia. Scrive Brandon Lewis: “…Mahalia, mi sono innamorata di te dal giorno in cui mia nonna mi ha parlato di te, perché tutto ciò che la nonna menziona deve essere speciale. Le nonne occupano un posto speciale nel cuore e nella mente dei bambini. Ricordi tutto della nonna: cosa cucinava, cosa indossava, le sue parole di saggezza, l'odore della sua casa... “ Insomma un amore con salde radici e che viene da lontano. In questi casi, quando l’omaggio non è una occasione posticcia o una piccola convenienza, il risultato si sente subito nella musica ed é un meccanismo quasi automatico: così accade appena poggiato il dito sul tasto “play” e nelle cuffie si accendono le prime note di “Sparrow”, solenne introduzione e chiaro omaggio a “His Eyeis Is on the Sparrow”, composta da Charles H. Gabriel, e a “Even the Sparrow” dello stesso Brandon Lewis. La magia del sentire musicale di Mahalia Jackson sembra già manifestarsi forte e potente. “…Il suo occhio è sul piccolo passero…” diceva la canzone, riferito all’occhio di Gesù, e proseguiva “…Canto perché la mia anima è felice/Canto perché sono libera/Per il suo occhio sul piccolo vecchio passero/E so che sta vegliando su di me e su di te…” Come rendere al meglio la spiritualità e la profonda umanità di questi versi se non con l’amorevole sax di Brandon Lewis, accompagnato dalla cornetta di Kirk Knuffke e sostenuto dalla batteria di Chad Taylor? Anche in questa versione strumentale, con buona pace di De Gregori, gli uccellini non sono “soli nel sole”, ma sono protetti dal Signore e, senza un profondo senso religioso, se non si riesce a comprendere Mahalia Jackson, non si riesce nemmeno a comprendere la gioiosa religiosità nella musica di Brandon Lewis. Con “Swing low” potremmo percorrere un viale del Louis Armstrong Park di New Orleans dove si profila da lontano il “Mahalia Jackson Theater for the Performing Arts”; brano godibile e pieno zeppo di riferimenti allo swing e al vitalismo della black music. Cambiano i ritmi ma non cambiano le atmosfere sia con “Go Down Moses” fitto e dialogante, sia con “Wade in the Water”, con il suggestivo sottofondo delle percussioni di Taylor. “Calvary” è invece un dolente lamento religioso incentrato sulla sofferenza di Gesù che altro non è che la sofferenza del mondo. Chissà come sarebbe una Via Crucis con questo accompagnamento, dove il contorcimento degli animi e le inquietudini, come possono essere quelli dei sofferenti, prendono qui corpo nella musica. Orchestrazione completa e corposa dove trova spazio anche il violoncello di Chris Hoffman e il contrabbasso di William Parker. “Deep River” ci riporta a sonorità più intense e con tanto spazio per gli assoli, mentre la seguente “Eljia Rock” fa diretto riferimento al profeta Elia che, per la tradizione ebraica non morì, ma fu assunto in cielo con anima e corpo e quindi in diretto riferimento alla figura di Gesù tanto cara a Mahalia. L’immanenza del Signore (ma forse anche di Mahalia), è richiamata nel titolo di “Were You There”. Il lavoro si conclude con una magnifica versione rivisitata di “Precious Lord Take my Hand”, brano che la Jackson cantò all’insediamento di Kennedy alla Casa Bianca. Un disco che omaggia giustamente la regina del gospel, ricorda l’amata nonna di Brandon ma che, naturalmente, splende di luce propria e che non si smetterebbe mai di ascoltare.
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danzameccanica · 3 years
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Quando uscì Diabolis Interium non stavo più nella pelle. Avevo conosciuto i Dark Funeral solo parzialmente con l’EP Teach Children to Worship Satan e poi avevo finalmente trovato da Musica Musica il primo The Secrets of the Black Arts. I Dark Funeral incarnavano tutto il black metal che volevo ascoltare e in cui volevo immedesimarmi in quegli anni; ricordo che in primo liceo, pur non avendoli mai ascoltati mi ridisegnai il loro logo sulla cartella di educazione tecnica. Ancora oggi, Vobiscum Satanas è un disco che non capisco granché, che non è entrato in me, forse per l’eccessiva somiglianza fra un brano e l’altro. Invece Diabolis Interium inizia ad essere variegato; c’è un ottimo lavoro di songwriting sulle chitarre che non sono più dei semplici e velocissimi power-chords ma iniziano ad essere più “swedish”. I Dark Funeral iniziano davvero a suonare in questo disco; certo sono ancora velocissimi, addirittura più veloci dei Marduk; ma ora il patto col diavolo ha davvero generato i suoi maligni frutti. Intanto il batterista Matte Modin (ex Defleshed) riesce a dare ai brani una vitalità disarmante; la doppietta Ahriman-Dominion è forse la più vincente fino al recente Where Shadows forever Reign.
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Al di là degli altisonanti titoli in latino, che all’epoca erano dei cliché, “An Arrival of Satan Empire” è una mazzata diretta e melodica (ricordo ancora il potente impatto quando li vidi nel 2002-2003 a Roma) mentre “An Apprentice of Satan” è stata ri-registrata in modo sbalorditivo rispetto al precedente EP. Prima era più classica, precisa, black metal old-school. Ora invece, intorno ai riff efficaci ma quasi banali, la batteria riesce a tirar fuori quanto ci sia di più maligno e possente. Le seconde voci aggiunte in produzione non fanno altro che aprire di più l’imbuto dell’Inferno verso Lucifero. Per non parlare dell’aura evocativa che emana il bridge del brano. “The Goddess of Sodomy” stranamente può risultare il brano più azzeccato dei Dark Funeral; stranamente perché il brano è una traccia in mid-tempo dove le chitarre tracciano dei riff alla Mayhem. “Thus I Have Spoken” è un brano che ricorda i Marduk di Opus Nocturne e, dopo un altro paio di doppiette sparate al fulmicotone, la conclusiva “Heart of Ice” è degna di interesse  sempre per le sue partiture chitarristiche che salgono in un climax davvero niente male.
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scontomio · 11 days
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rassegnanotizie · 30 days
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stranotizie · 30 days
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newtechworld · 10 months
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UMIDIGI G5 Tab Kids: Recensione Tablet Android 13 per Bambini
Scopri il Tablet UMIDIGI G5 Tab Kids: Android 13, Octa-Core, controllo parentale e design pensato per bambini. Recensione completa sulle funzionalità, la batteria potente e la connettività 4G-LTE.
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diceriadelluntore · 6 months
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Storia Di Musica #316 - The Black Crowes, The Southern Harmony And Musical Companion, 1992
La musica rock americana a fine anni ’80 è un calderone emozionante di vibrazioni che ribolle in continuazione. In quegli anni ci sarà una straordinaria concentrazione di visioni musicali, che a seconda della zona dell’immensa nazione prende dal passato per proiettarsi nel futuro. Se per esempio a Seattle la tradizione viene usata per fare a pezzi il vecchio e diventare occasione per buttare fuori tutta l’ansia del periodo, nel profondo Sud è il trampolino di lancio per catapultare nella contemporaneità il rock “classico”. La storia di oggi ci porta in Georgia, ad Atlanta, dove i fratelli Robinson crescono in una famiglia nella quale, nei decenni precedenti, la musica ha regalato qualche soddisfazione: infatti il padre, Dan, arrivò addirittura in classifica con un singolo, Boom-A-Dip-Dip, nel 1959. I fratelli Robinson, Chris alla voce e Rich alla chitarra, prima si avvicinano al punk, ma ben presto trovano molto più stimolante il rock anni ’60, sia quello tipico delle loro parti, il southern rock dal suono caldo e coinvolgente, sia il rock blues anni ’60 portato negli Stati Uniti dai gruppi inglesi. La prima formazione si chiama Mrs. Black Crowe’s Garden, ma nel 1988 cambiano nome in The Black Crowes: diventano localmente richiestissimi nei club di Atlanta e dintorni, dove li nota un emissario della A&M che fa registrare al gruppo dei demo. Non se ne fa nulla, ma una sera a sentirli suonati c’è George Drakoulias, famoso produttore e talent scout, che li segnala alla persona che in quel momento è il produttore più interessante del paese: Rick Rubin. Sebbene non suonino metal, la specialità della Def American di Rubin, i ragazzi suonano meravigliosamente nel loro mix di vecchio e nuovo, un rock solido e arricchito di soul, gospel e passione, e vengono messi sotto contratto. Tutta questa passione si percepisce già dalla copertina del loro primo disco, Shake Your Money Maker (1990): prodotto da George Drakoulias, si rifà nella grafica del titolo e nella foto a quelle mitiche dei gruppi british blues di 30 anni prima, fa pensare ai Faces e ai primi Rolling Stone, e il dubbio scompare sentendo con che voce si presenta Chris Robinson: un mix selvaggio di Rod Steward e di Mick Jagger, il suono potente e solido di brani come She Talks To Angels, Twice As Hard o la superlativa cover di Hard To Handle di Otis Redding. Il successo arriva quasi inaspettato: milioni di copie vendute e una fama crescente, frutto anche delle stupende esibizioni live, pirotecniche e imperdibili, che convincono pure gli spettatori delle band metal della Def American a cui sono chiamati ad aprire i concerti.
Nel 1992, in un paio di settimane, registrano il loro secondo album, chiamati all’arditissimo compito di replicare il successo del primo: ma sin dalle prime note, The Southern Harmony And Musical Companion, che prende il nome dal titolo di un inno di William Walker, un pastore battista dell’800, non delude le aspettative e sarà un disco epocale per bellezza e successo. È sempre la copertina che rivela la nuova strategia della band: i musicisti sono fotografati in bianco e nero facendo intuire che stavolta più che il rock blues inglese è la tradizione del southern rock alla Allman Brothers Band e Lynyrd Skynyrd ad essere di ispirazione. Con l’innesto di Marc Ford alla seconda chitarra (il resto vedeva Johnny Colt al basso, Steve Gorman alla batteria e Eddie Harsch alle tastiere), il suono diventa più pieno e pastoso, l’aggiunta di cori femminile rimanda alla grande tradizione Soul, l’affiatamento generale e le doti da cantante di Chris Robinson, davvero convincente, ne fanno un disco che schizza in vetta alle classifiche, con 4 singoli numero uno nella classifica di Billboard, record rimasto per anni imbattuto. La travolgente Sting Me apre il disco, seguita da Remedy dove si innalza il piano di Eddie Harsch a cadenzarne la ritmica . Thorn In My Pride, un super blues, come No Speak No Slave, ha echi zeppeliani (amore mai nascosto, dopo anni la band registrerà un live nientemeno che con Jimmy Page in persona). Bad Luck Blue Eyes, Goodbye è una ballatona ariosa e stupenda, come Sometimes Salvation, dove Robinson canta alla maniera straziante di Janis Joplin. Hotel Illness è il brano più immediato, come la bellissima My Morning Song. Chiude un omaggio a Bob Marley, Time Will Tell, che sigilla con una struggente natura gospel un disco che si ascolta tutto d’un fiato. Dopo l’ennesimo tour a mille e pieno di soddisfazioni, cambiano produttore e pubblicano nel 1994 Amorica: però più che per le canzoni è ricordato per con la famosa copertina, anche censurata, di un primo piano di un succinto slip a stelle a strisce che appena copre un pube di una donna nera. La band, dopo vari avvicendamenti (il più famoso fu l’allontanamento di Marc Ford come secondo chitarrista, per i gravi problemi di dipendenza da droghe di quest’ultimo) pubblicherà un altro grande disco, By Your Side del 1999, e continuerà una strepitosa carriera live nei più grandi festival e con collaborazioni prestigiose (oltre al già citato Page, anche i mitici Dead) ma i dissidi tra i fratelli, anche economici, porteranno ad una serie di liti e reunion, intramezzati anche da un ottimo disco, Warpaint del 2008, fino allo scioglimento del 2015.
Nel 2019 però l’inattesa svolta: prima l’annuncio di un tour celebrativo di Shake Your Money Maker, poi lo stop per la pandemia Covid-19, ma dal 2022 nuove date e addirittura un nuovo, inatteso disco, che uscirà la settimana prossima, il 15 Marzo 2024, dal titolo che è un programma: Happiness Bastards. Quando uscì, oltre 30 anni fa, Shake Your Money Maker (che è il titolo di un classico blues di Elmore James) la band era considerata la next big thing del rock a stelle e strisce, persino all’esordio musicale band dell’anno 1990 per la rivista Rolling Stone. A distanza di anni si può dire che in parte hanno disatteso quella speranza, ma hanno lasciato degli esempi di musica genuina e viscerale che sembra quasi stridere con tutto quello che in quegli anni diventerà preponderante.
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etgroupit · 2 months
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cellulari-spia · 2 months
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chez-mimich · 1 year
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MARC RIBOT-THE JAZZ BINS
Ci sono delle leggende nel rock, nel blues e anche nel jazz che raccontano di concerti favolosi, storici o tutte e due le cose, dove per assistervi gli spettatori (il popolo del rock e anche quello del jazz) hanno dovuto sopportare improbe fatiche. A Woodstock si è dovuto soggiornare nel fango mangiando solo muesli, a Venezia per sentire i Pink Floyd ci si è dovuti arrostire sotto il sole e via di questo passo, come per la famosa edizione di Umbria Jazz che si è tenuta sotto una pioggia battente. Ognuno di noi si ricorda di un concerto in cui ha dovuto sopportare il caldo, la sete, la calca o la pioggia…Ecco, in scala ridotta, annovero tra questi anche il concerto di Marc Ribot E “The Jazz Bins” per Nj Weekender Spring Edition che si è tenuto sabato scorso presso Nòva a Novara. Ne è valsa la pena? Decisamente sì, naturalmente, anche se lo spazio Nòva forse non era il luogo più adatto per un pezzo da novanta come Ribot. Ma la “policy” degli organizzatori è questa e tanto vale dimenticarsi la schiena a pezzi e parlare di musica. Ma anche parlare della musica di Marc Ribot è una fatica improba, poiché le parole non riescono a supplire minimamente a ciò che le corde della sua chitarra trasmettono e si finirebbe per ricorre e fantasiose immagini mentali, a metafore, sineddoche, ellissi, insomma figure retoriche che poi lasciano sempre il lettore insoddisfatto. Ma certo non sarebbe sufficiente dire che il concerto-monster di questa edizione di Novara Jazz Weekender Spring Edition sia stato bellissimo senza aggiungere altro. E allora diciamo che Marc Ribot, assediato da centinaia di fans nella sala di Nòva e con lui Greg Lewis al sontuoso Hammond e Joe Dyson alla (esplosiva) batteria hanno incantato il pubblico. Proprio inutile cercare di definire il repertorio di Ribot che, ricordiamolo fece parte, negli anni Ottanta, dei “Lounge Lizards” di John Lurie che suonavano un jazz che sembrava punk o forse un punk che sembrava jazz. Ma Marc Ribot, oltre ad avere suonato, ha anche composto per artisti e chitarristi da storia della musica, come Wilson Pickett, David Sylvian, Tom Waits, Caetano Veloso, John Zorn, Elvis Costello, Robert Plant, Elton John, Diana Krall, Marianne Faithfull, tanto per buttare lì qualche nome, ed è proprio dovuta a questa diversità di approcci e di suggestioni musicali, la musica affascinante che Ribot propone. Sale sul piccolo palco di Nòva e, senza esitazione alcuna, attacca a suonare con piglio secco, deciso. Niente parole inutili, solo musica, di quella che è impossibile dimenticare. Cavalcate intense, variate all’infinito, “riff” possenti che inglobano tutto, free jazz, rock, groove, una potente e accurata centrifuga di generi che sembra produrne uno del tutto nuovo ed inimitabile che è poi la cifra stilistica propria di Marc Ribot. Che musica faceva Jimi Hendrix? Il rock? Il blues? È più facile rispondere che faceva la musica di Hendrix. Succede solo per i grandissimi che si chiamino Pink Floyd o che si chiami Bob Dylan. Lo stesso è per Marc Ribot che con quella chitarra in mano, che diventa una specie di bacchetta magica, è in grado di confonderci beneficamente le idee e il nostro razionale, ma spesso sterile, desiderio di catalogare tutto. Questo unico concerto italiano di Ribot è un altro gran colpo della premiata Ditta Novara Jazz che sembra ormai essere andata molto oltre, il pur prezioso festival di inizio estate, ed aver intrapreso una attività più complessa che copre tutto l’anno, con produzioni discografiche, iniziative ed eventi di più grande respiro. Però, la prossima volta, per raggiunti limiti di età, vorrei stare seduto in una confortevole poltrona o anche più semplicemente su una sedia…
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danzameccanica · 5 years
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Chi ha seguito in tempo reale l’andamento della musica durante gli anni si ricorderà di un meraviglioso momento di post-punk revival nei primi dieci anni del Duemila che, grazie agli Interpol, diede vita a decine di band da far risanguinare il cuore a tutti i darkettoni dell’epoca che ancora non potevano godere delle varie renunion storiche che accaddero qualche anno dopo. Editors, the National, the Departure, Bloc Party, White Lies ecc.. Erano anni meravigliosi dove a volte pure gli Strokes o i Franz Ferdinand rientravano in queste categorie per uscirne subito. Quel revival post-punk ancora senza synth-pop, tutto fatto di chitarre frenetiche che attingevano non tanto all’origine del post-punk, quanto a quel momento di definizione di gothic-rock. I Blacklist vengono fuori da New York in un momento in cui sono stati davvero l’ultima ruota del carro in un meraviglioso periodo storico in cui l’indie-rock (con le virgolette eh) rempiva gli stadi. Hanno condiviso i palchi coi The Mary Onettes e i nascenti A Place to Bury Strangers.
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Midnight of the Century prende le nuove sonorità delle band appena citate ma tirando in ballo le chitarre dei primissimi U2 (Boy e War) e di Sisters of Mercy senza creare un’atmosfera troppo lugubre. Tutti i brani hanno un approccio rock tangibile, come i Cult di Love, con una batteria bella potente e piena. "Flight of the Demoiselles" dimostra una band strepitosa che invece di tenere il basso in primo piano sfoggia chitarre e batterie. Un post-punk più rock del solito. Molto più vicini a The Unforgettable Fire piuttosto che a Pornography. Meno frenetici dei Sisters ma più avvolgenti, con quello spirito americano. Ma si sente che la band viene dalla città più europea degli States perché manca qualsiasi accenno al folk-cantautoriale che sta nel DNA dei nordamericani. Ci sono gli Skeletal Family, i Red Lorry Yellow Lorry, i March Violets. Ci sono tutti loro se tutti loro avessero fatto un disco in questi anni. Ma soprattutto ai synth e alla produzione c’è Ed Buller, che ha messo le mani nella seconda parte degli Psychedelic Furs, dei Suede, dei Pulp ma – soprattutto di una band quasi gemella dei Blacklist negli anni ’90: i That Uncertain Feeling. "Language of the Living Dead" assomiglia ai Bloc Party mentre "Odessa" sembra omaggiare i The Church per poi crescere in questo singolo perfetto da cantare a squarciagola sotto la pioggia. I ricordi vanno subito alle corse in moto di The Lost Boys, a quei panorami vampireschi ma neo-gotici; pizzi, merletti e canotte da basket; motociclette e denti aguzzi. Sangue e whiskey. "Julie Speaks" cita ancora i fraseggi di The Edge (cavolo se non sembrano le sonorità di Under a Blood Red Sky !!!) e più si va avanti ad ascoltare l’album più si giunge a quella torbida oscurità fatta di fumo e lava dei The Mission di fine anni ’80. "Poison for Tomorrow" è uno degli ultimi brani davvero memorabili dell’album, (con qualche strattone alla giacca dei Suede) prima di chiudere il disco con brani decisamente più atmosferici, rilassati, un po’ a metà strada fra Echo & the Bunnymen e David Sylvian ("the Cunning of history"). "Worlds Collide" suona come una specie di b-side di "Odessa" creando forse le linee vocali più pop dell’album, senza rinunciare alle solite splendide chitarre. Midnight of the Century può arrivare a sfiorare l’alba con questo ultimo brano ma per il resto rimane un disco notturno, un album da sparare nella macchina in corsa, prima che tutto il revival Drive-80s-synthpop rubi la scena questo mondo.
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