#antropologia biologica
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Viaggio attraverso l'evoluzione umana, 170 antropologi a Torino
Sarà un viaggio attraverso l’evoluzione e la diversità umana quello del XXV congresso nazionale dell’Associazione Antropologica Italiana, “Essere/i umani”, organizzato dal 6 all’8 settembre dal Dipartimento di Scienze della Vita e Biologia dei Sistemi (Dbios) dell’Università di Torino, in via Accademia Albertina 13. I lavori, che vertono su tematiche di antropologia biologica, saranno aperti…
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Discriminar
No hay base antropológica alguna para seleccionar cualquiera de los llamados grupos raciales, o cualquier grupo étnico o nacional, o cualquier grupo lingüístico o religioso, para preferir la condenación.
Nuestro verdadero propósito debe ser segregar y eliminar a los incapaces, sin valor, degenerados". y antisocial de cada cepa racial y étnica de nuestra población, para que podamos utilizar los méritos sustanciales de la sólida mayoría y los dones especiales y diversificados de sus miembros superiores
Earnest Hooton
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La gente pensa che scrivere sia mettersi davanti al mare, a un lago, a un fiume, a un campo fiorito, e aspettare l’ispirazione. Davvero lo pensa, a me lo dice di continuo.
Se tu dici, disperata: non mi funziona internet e devo finire il mio libro, la gente pensa che non ti serva internet, meglio così, se no ti distrai (io mi distraggo? Io?), perché tutto ciò che ti serve è l’ispirazione. Non pensa che puoi guardare 7 video in cui delle galline mangiano per scrivere una sola pagina de Le assaggiatrici in cui Rosa dà loro da mangiare e fa una serie di riflessioni che esulano dalle galline e riguardano gli esseri umani, le relazioni tra esseri umani. Quella pagina non puoi deciderla prima, la decidi MENTRE stai scrivendo, perché è una associazione che si produce lì per lì, e allora tu ti alzi, prendi Clarice Lispector, quel racconto su una gallina letto 20 anni fa, lo rileggi, poi apri internet, cerchi le galline, le osservi a lungo, senti parlare degli allevatori, prendi appunti su un quaderno, scopri persino che possono mangiare le loro stesse uova deposte, e questa notizia ti accende un’idea narrativa di qualche riga. Qualche riga.
Se tu dici faccio la parrucchiera e non c’è acqua in negozio, la gente comprende subito che sarà difficile fare una piega, un taglio, un colore, una acconciatura, una piastra, una permanente. Perché per la gente la parrucchiera è un lavoro, la scrittura, in fondo, no. La gente non immagina nemmeno quanto studio ci sia dietro un romanzo. Quanti testi di storia, filosofia, psicologia, psicanalisi, antropologia, politica, quanti articoli di giornale, quanti romanzi, quante poesie si leggano, con quanta gente si parli, per scrivere un romanzo.
Ieri ho cominciato a lavorare alle 5.45 e ho smesso alle 21. Ovviamente in mezzo ho fatto anche altre cose, tipo rispondere 5 volte alla mia commercialista, e alcune pause necessarie alla sopravvivenza biologica. Ho mal di schiena.
Ciao
Rosella Postorino
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¿Qué es Antropología? Dialogos con la Historia
Artículo de Dialogos con la Historia en http://dialogosconlahistoria.com/que-es-antropologia/
¿Qué es Antropología?
VISITA DIALOGOS CON LA HISTORIA/
Como todos sabemos, la antropología es el estudio de… bueno, la antropología es ¿una ciencia?… la antropología es… la antropología… Acompaña al dr. VER VIDEO HISTORIA
#A...#antigua grecia#antiguo egipto#antropologia#Antropologia biologica#Antropologia cultural#Antropologia fisica#Antropologia social#arquelogia#arqueologia#arquitectura#aztecas#biblioteca#Cinemantropo#cosmos#es#hallazgos arqueologicos#historia argentina#historia de españa#historia de la música clásica#historia del fútbol#imperio romano#INCAS#independencia de estados unidos#independencia de mexico#Malinowski#mayas#Que#segunda guerra mundial#Trabajo de campo
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Nasrin Khandoker
https://www.unadonnalgiorno.it/nasrin-khandoker/
Anch’io ho paura per le donne afghane e i loro diritti. Questo tipo di cambi di regime è sempre sanguinoso e, considerando i precedenti, è impossibile credere che i Talebani risparmieranno la libertà o addirittura la vita delle donne. La mia paura per le donne afghane, tuttavia, non cancella i decenni di povertà e le migliaia di morti causati dalla guerra e dalla lunga vicenda coloniale. In particolare, non ci si può dimenticare della distruzione perpetrata in nome della Guerra al Terrore da parte statunitense. So benissimo che le donne musulmane in Afghanistan, in Arabia Saudita, in occidente, nei campi di internamento per Uiguri in Cina, le donne Rohingya, così come le donne non musulmane di colore e/o queer, hanno bisogno di solidarietà e sostegno nelle loro lotte. Non posso smettere di pensare alle donne Rohingya ripetutamente stuprate che vivono ai margini della società bengalese. Passo notti insonni come le passavo tempo fa dopo aver letto le esperienze di violenza delle donne rinchiuse nei campi per Uiguri, e non mi ricordo di molte donne bianche addolorate o preoccupate per la sorte di queste. Questa solidarietà selettiva ci dice qualcosa circa l’uso strumentale e la mercificazione dell’interesse per la violenza sulle donne.
Oggi tutti i media mainstream occidentali, raccontando della vittoria talebana, hanno deciso che le donne afghane hanno bisogno di essere salvate. Ma queste non hanno bisogno di protezione; hanno bisogno piuttosto di solidarietà. L’impulso di “salvare le donne musulmane” e compatirle è il frutto della conoscenza coloniale, che nasconde così le profonde diseguaglianze strutturali e di genere interne allo stesso mondo occidentale. Questa retorica salvifica è intimamente legata alla missione civilizzatrice dell’egemonia coloniale, che racconta della superiorità occidentale nel campo delle gerarchie di genere. Questa stabilisce che le società occidentali hanno sconfitto la subordinazione delle donne, che le donne del sud del mondo devono mettersi in pari, e che tale progresso può essere raggiunto solo seguendo il percorso intrapreso dalle donne bianche occidentali. Si ignora che il patriarcato produce disuguaglianze in modo diverso perché esso esiste in società differenti. È un guardare dall’alto in basso le donne musulmane, adottando un punto di vista razzista e suprematista bianco, che non riconosce i decenni di lavoro fatto dal femminismo post coloniale per rivelare i limiti del complesso salvifico del femminismo bianco.
Nasrin Khandoker è un’antropologa del Bangladesh, che lavora su tematiche che si occupano di genere, colonialismo e disuguaglianza.
Ha un Master presso il Dipartimento di Antropologia dell’Università di Jahangirnagar, Bangladesh, dove insegna da oltre dieci anni e uno in Studi di genere presso la Central European University, in Ungheria.
Scrive per la rivista bengalese Public Nribiggan (Antropologia pubblica) che ha contribuito a fondare.
Tutto il suo lavoro è legato al genere, alla sessualità e alla sovversione dell’identità, ha iniziato dall’analisi della codificazione del matrimonio nel contesto della trasformazione coloniale e la costruzione storica delle immagini ideali della donna musulmana bengalese.
Esamina la narrativa coloniale del progresso della donna attraverso l’emergere di idee moderne provando a decostruirne l’immagine di vittima, anche analizzando i testi di alcune canzoni popolari che sono state emarginate dall’istituzionalizzazione del matrimonio.
Nei suoi corsi universitari tocca una varietà di aree tematiche come l’antropologia biologica, linguistica, economica, educativa, urbana, filosofica e di genere.
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[...] I microbi che ci portiamo addosso sono coinvolti in molti dei processi fondamentali dell’Homo sapiens.
Tra le loro tante funzioni, questi organismi interagiscono con le cellule immunitarie che si trovano nella nostra pelle e gli insegnano a rispondere solo alle minacce più gravi. In generale, andare ad agire sui nostri microbi non è manifestamente né un bene né un male, ma non è neppure un’attività totalmente irrilevante.
Il nostro microbiota segue costantemente un flusso a bassa intensità, a seconda di quale sia il nostro ambiente: le persone che ci circondano, il cibo che mangiamo, i saponi che usiamo, e così via. Ma molti dei nostri ambienti e delle nostre routine quotidiane sono cambiati radicalmente nell’ultimo anno, a causa dell’estrema attenzione all’igiene e alla possibile esposizione a virus di ogni sorta.
Questo ha quasi sicuramente avuto degli effetti sostanziali sulla diversità del nostro microbiota, al livello individuale e collettivo [...] gli effetti collaterali di un’eccessiva igienizzazione o uso di antibiotici non siano positivi per quanto riguarda microbi con i quali ci siamo evoluti per millenni”. Finlay cita delle correlazioni tra abuso di antibiotici e aumento della diffusione di asma e obesità, oltre che l’esistenza di prove degli effetti benefici dei parti naturalirispetto a quelli cesarei. Esistono anche prove del fatto che possedere un microbiota diversificato sia un indicatore – anche se non necessariamente la causa – di un buono stato di salute.
La pandemia potrebbe aver accelerato questa perdita di diversità.
“L’epidemia di covid-19 ha generato un incredibile esperimento, che è ancora in corso”, dice Finlay. “Abbiamo cambiato totalmente il nostro comportamento, e quando questo accade, cambia anche la nostra esposizione ai microbi: non abbracciamo né baciamo più le persone, non andiamo più in metropolitana, e trascorriamo molto più tempo a casa a fare il pane”.
È presto per essere certi delle conseguenze e potrebbero volerci decenni per determinare le correlazioni, spiega Finley, che però è particolarmente preoccupato per le persone giovanissime e molto anziane, che hanno un microbiota più labile. E si dà il caso che queste siano anche le categorie la cui vita quotidiana è stata più colpita dalla pandemia. “I bambini non sono andati all’asilo nido o alla scuola materna”, mi dice. “E gli anziani sono rimasti isolati dai loro nipotini, che solitamente gli sbavano addosso”.
[...]
Una conseguenza è già stata osservata: abbiamo interrotto le catene di trasmissione di molti degli elementi patogeni che provocano malattie, compresi virus da raffreddore comune e l’influenza. I casi di questi malattie, lo scorso inverno, sono stati ai loro minimi storici. E ora che ci penso, è passato più di un anno dal mio ultimo raffreddore. Di solito me lo prendevo sempre, nonostante l’attenzione. Gli esperti di microbiota non stanno suggerendo che sia un bene prendersi un sacco di banali raffreddori. Dicono però che essere grati per il calo recente di queste infezioni è un po’ come esprimere gratitudine per non aver camminato di recente su un chiodo arrugginito. Il vecchio adagio “ciò che non ci uccide ci rende più forti” non vale per le infezioni respiratorie più di quanto valga per il tetano.
Una domanda più interessante è se, avendo rinunciato al contatto con gli altri, potrei essermi privato anche di utili microbi. Non ricordo l’ultima volta che ho stretto la mano a qualcuno. Ma potrebbe essere stata l’ultima della mia vita.
[...]
Alcuni effetti potrebbero essere positivi, secondo Martin Blaser, direttore del Centro di medicina e biotecnologia avanzata alla Rutgers university. Intanto perché le persone, non prendendosi il raffreddore, non assumono neanche gli antibiotici che gli verrebbero (impropriamente) prescritti. Molti antibiotici rappresentano terapie fondamentali, che talvolta salvano vite umane. Ma usati troppo spesso possono sconvolgere la diversità dei microbi nel nostro corpo. Se la pandemia contribuirà a mitigare il loro uso eccessivo o scorretto, si tratterà “indubbiamente di una cosa positiva” secondo Blaser.
[...] Trascorrete tempo all’aperto quando possibile e passate del tempo con gli animali. “I cani sono un ottimo modo di ottenere un’esposizione ai microbi”.
[...] In particolare, dice, l’allattamento al seno fin dalla nascitasembra svolgere un ruolo fondamentale nella creazione del microbiota di un bambino. Allattare è stato forse più facile durante la pandemia che in tempi normali, per le persone che lavoravano da casa. Per quanti hanno dovuto trovarsi un secondo lavoro, invece, è vero il contrario.
Un divario di microbiota è evidente anche in tempi senza pandemia. “In generale le comunità di status socioeconomico più basso tendono ad avere un microbiota meno diversificato”, spiga Katherine Amato, specialista di antropologia biologica alla Northwestern University. Nella sua forma più estrema, questa carenza è nota come disbiosi ed è fortemente legata a malattie del metabolismo e autoimmuni. Ma la ricerca sta appena cominciando a fare i primi passi avanti in materia di disparità microbiche, dice Amato. “Elementi quali stress, dieta, turni di lavoro e disturbi del ritmo circadiano possono avere effetti negativi sul microbiota”. Le disparità di base che influenzano il microbiota contribuiscono chiaramente alle discrepanze rilevate tra chi muore di covid-19. Resta da capire se il microbiota stesso sia un fattore determinante di queste dinamiche.
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“THE END”
E’ passato più di un mese dal rientro a Luang Prabang ma il riadattamento alle energie psichiche della città è durato poco. Non si può rimanere attaccati per sempre all'emozione estatica del rincontro con la Natura. Prima o poi l'aperto torna a farsi chiuso e bisogna fare i conti con la ripetizione. Ciò è vero soprattutto dopo la biciclettata più lunga della mia vita, anche e forse soprattutto perché è avvenuta dentro la sospensione epocale prodotta dalla pandemia. Il ritorno per questo è stato un riadattarsi a un ritmo ibrido di un presente che non sa di ripresa o di proiezione in avanti, ma di ripetizione orizzontale dello stesso, in un’attesa continua che l'Altro modifichi le regole del gioco. Ci troviamo un pò tutti a fare i conti con forme di spossessamento del sé e con un regime di impotenza imposto da una contingenza biologica. Ma ci sono fattori aggiuntivi perchè questo processo di assoggettazione avviene in forma consapevole, quasi accettata, in nome di un'emergenza che obbliga ad incorporare una rinnovata modalità esistenziale.
C’è però un aspetto di Luang Prabang che ha a che fare con la sua turisticizzazione\mercificazione e con la sua memoria contesa che si aggiunge alla sospensione pandemica e che rende peculiare la quotidiana esperienza del tempo, cioè di come passato e presente esistono nel presente. Ogni abitante di una città d'arte deve relazionarsi con l’apparente quanto necessaria immutabilità del suo patrimonio storico ed artistico. Da un punto di vista psichico, è come se ad un'impotenza di contesto determinata dall'epidemia se ne aggiunga una strutturale. Per certi versi un passato da conservare sostituisce o si aggiunge a tutta una serie di rituali formalizzati e, come quei rituali, partecipa di processi sociali che reificano gerarchie e ruoli. Conservare il patrimonio storico artistico di una città implica un insieme di dispositivi che aspirano a fissare, recintare, tutelare, impedire un uso piuttosto che un altro dello spazio. Ciò comporta un'esperienza storicizzante della quotidianità che produce soggettività radicalmente diverse da quelle di una città in cui è prassi comune distruggere il vecchio per ricostruire. Ma stabilisce anche un ordinamento giuridico-morale che ordina le modalità accettabili in cui il passato deve e può manifestarsi nel presente. Questo secondo aspetto è quello che più mi interessa ora perché ha a che fare con la "Legge" e con un ordine e fa del patrimonio storico artistico una modalità del godimento. Come tale, produce fantasie che si vincolano ai meccanismi di produzione del desiderio, o per dirla con Zizek, che "insegnano [al soggetto] a desiderare".
In altre parole questo significa che in una città come Luang Prabang esistono tutta una serie di processi con cui la fantasia si allaccia alla memoria storica dei luoghi, quindi ad una memoria collettivizzata dai dispositivi del potere, per poi vivere quasi di vita propria, facendo immergere le diverse soggettività che la abitano in vere e proprie fantasticherie sul suo passato a volte grandioso, a volte taciuto. “Timeless” è la parola chiave che sintetizza questa atmosfera magica. Racconta un presente senza tempo su cui sono stati prodotti video, immagini e campagne pubblicitarie per il turismo da ormai 20 anni. Hotel, bar e ristoranti ne hanno fatto un paradigma distintivo dell’esperienza turistica che offre la città. Vecchi edifici coloniali, stanze di re e regine o giardini di principi e principesse che affacciano su uno dei più suggestivi fiumi dell'Asia sono oggi disponibili ai curiosi e facoltosi turisti che desiderano immergersi per qualche giorno in una ricostruzione immaginaria della Colonia o dell’epoca monarchica. Il passato si fa così performance quotidiana in cui tre generazioni di laotiani di tutte le etnie hanno imparato ad indossare abiti d’epoca e a servire mantenendo il sorriso e la postura corretta mentre esaudiscono ogni desiderio del visitatore. Molti di questi giovani arrivano da villaggi vicini in cerca di un salario o di maggior fortuna in città. Tutti insieme partecipiamo di una vera e propria costruzione utopica di Luang Prabang in cui la Storia riemerge sia come rimemorazione vivente del passato, sia come grande rimosso, cioè come racconto incompleto che non svela mai pienamente il suo segreto scabroso: quello di essere una città dal passato monarchico che oggi gode della sua bellezza architettonica per essere stata "responsabile” e, per questo salva, dai bombardamenti che hanno riguardato invece il resto del Paese. L'oscenità nascosta della sua bellezza è il motore immobile della città ma cosa significa abitarla cercando di non rimuovere l'orrore primordiale che ha costituito il suo patrimonio storico ed artistico?
Le macchine desideranti
Foto: restaurazioni a Luang Prabang, serie “una mattina mi son svegliato”
La risposta a questa domanda riprende direttamente alcune questioni lasciate aperte nel post precedente a proposito di società democratiche oltre i loro ordinamenti istituzionali e giuridici formali. In un suo libro recente, Recalcati analizza l'essenza delle comunità democratiche come comunità di desiderio. Rivisita radicalmente, in chiave psicanalitica, i rapporti di forza dei legami sociali e delle relazioni tra soggettività, suggerendo di spingerli dentro un continuo tentativo di superamento delle relazioni di reciprocità e delle dinamiche di colpa-debito. Piuttosto che osservarle materialmente attraverso pratiche come il dono, Recalcati si muove nell’inconscio per trovare un modo di pensare e quindi di vivere l’aperto e stabilire le forme “dell’eguaglianza dei non eguali”. Ritrova quelle dinamiche per superarle nella vitalità del desiderio che non può chiudersi nel suo Oggetto e si fa invece condizione di ricerca creativa continua; una spinta vitale che supera ogni sua rappresentazione consumistica. Contro ogni settarismo, Recalcati sembra qui accogliere alcuni temi cari a Deleuze e Guattari nel loro lavoro su Capitalismo e Schizofrenia. Sottolinea cioè l'importanza di un desiderio che si faccia deviante, spingendo verso un divenire femminile da opporre al divenire panico del desiderio contemporaneo, in cui le capacità empatiche dell'umano sembrano accartocciarsi sul gruppo, dentro percorsi identitari che escludono il non facilmente comprensibile. Come già suggeriva Bifo qualche anno fa, in questo mondo accelerato e caotico, in cui i vecchi ordinamenti istituzionali sembrano incapaci di arginare le deterritorializzazioni imposte dai flussi economici, demografici ed ambientali, a mancare non è il Padre, cioè, la legge o l'ordine, ma la Madre, intesa come eccesso emotivo, sensibilità e percezione dell'altro.
Come trasportare però questa necessità di cambiamento trasformativo dalla psiche e dalla soggettività al sociale e alle formazioni storiche? In che modo interpretare la performance messa in scena dalla foto di sopra? L'aprirsi al divenire femminile riguarda una profonda riconsiderazione delle dimamiche di dominio e delle forme della sua incorporazione. Riguarda le modalità di accoglienza dell’altro e le modalità di superamento delle ferite dell’incontro. Signfica assumere la necessità di ripensare sistemi produttivi e riproduttivi basati sullo sfruttamento di alcuni per il bene degli altri. In questo senso quella Jeep non lascia scampo. La sua simbologia fallica, che alcuni associano facilmente a violenze indicibili, trova nel restauro dell’economia di mercato una nuova vita "vintage" ma ripropone anche il mondo visto in “blocchi” che ha segnato la seconda metà del novecento e la storia recente del Laos in particolare. Il suo percorrere le vie della quotidianità si perde così nel mare delle immagini social che raccontano una città dalla bellezza senza tempo e dal passato idilliaco. Ma afferma anche tra le righe, che tutto è permesso, grazie all’impunità di coloro che arrivarono ed andarono via in silenzio ed ora “ritornano” per vendere un prodotto ma forse anche per riprendersi qualcosa attraverso un ricordo potente. Ecco quindi dispiegarsi il paradosso della creatività del desiderio che sembra fare del capitalismo una forza deluzianamente rivoluzionaria, capace di frantumare ogni barriera e muro divisorio ed affermarsi come l’unico sistema economico disponibile per rendere attuali le comunità di desiderio. In questa apparente riproposizione del “non c’è alternativa”, può allora essere utile riaffermare la natura profondamente anticapitalista del pensiero femminista in cui dovrebbe iscriversi il divenire femminile.
Come dimostrato dalla Federici, tra le altre, le "rivoluzioni industriali" che hanno dato vita al sistema capitalistico sono inestricabilmente relazionate allo sfruttamento della donna in quanto "sorgente" della forza lavoro. Il suo confinamento negli spazi chiusi della riproduzione e la sua esclusione sistematica da qualsiasi lavoro salariato per lunghi periodi storici hanno costituito uno schiavismo di classe che insieme ai processi di privatizzazione delle proprietà, le cosiddette enclosure, e alla tratta di persone, ha formato un asse portante dello sviluppo industriale-capitalistico occidentale. Con gradazioni e modalità diverse, tutto ciò è anche osservabile nei modelli di crescita economica e di gestione delle risorse dei paesi che furono “il secondo mondo”. Alcuni testi di antropologia sociale raccontano la transizione da economie centralizzate e statalizzate ad economie non regolamentate e di mercato nella loro riscoperta di reti familistiche e di strutture di appoggio informali che hanno permesso agli attori economici di gestire il rischio e l’incertezza delle nuove condizioni produttive. In alcuni casi, come quello descritto dalla Humphrey in Siberia, il passaggio “dallo Stato al Mercato” è avvenuto attraverso un vero e proprio revival di “tradizioni”, famiglia e di altre relazioni personali, tanto da ricostituire forme di fiducia e di reciprocità su di uno sfondo propriamente culturale piuttosto che burocratico e istituzionale.
La culturalizzazione delle relazioni economiche come risposta alle dinamiche deterritorializzanti del Capitale è un fenomeno vasto ed ubiquo. Tuttavia la subalternità delle donne è stata così riproposta come chiave di sopravvivenza di produzione e riproduzione. “La Madre” è cioè entrata in un processo di marketizzazione per cui l’aperto che rappresenta è divenuto un’àncora di salvataggio contro le periodiche crisi del Capitale che ravvivano desideri panici e protezionistici. In questa prospettiva, quel ritorno invocato da Bifo a livello dell’inconscio del soggetto ha prodotto nei capitalismi del nuovo millennio un altro confinamento produttivo della donna. Ora oltre al ruolo di generatrice della forza lavoro associa anche quello di protettrice ultima della continuità del Capitale e si oppone direttamente alle cicliche cadute della produzione (qui una bella testimonianza di questo processo nell’Italia pandemica). La religione del Capitalismo intercambia alla bisogna “Padre” o “Madre” in base alle necessità produttive e del marketing politico di quell’aperto apparente che è la liberalizzazione dei mercati. Il divenire femminile deve invece riguardare altro e cioè la capacità di superamento delle ferite che l’aperto e l’accoglienza dell’ignoto genera. Riguarda il superamento delle binarietà e dei legami biologici dentro una transizione in cui il divenire sia agito quanto subito. E deve necessariamente riportare il piacere che manca, come afferma Godani, non dell’imperativo capitalista “Godi!”, ma del “godi” che fa dell’ozio un’azione sovversiva delle microforme di dominio del quotidiano (1 e 2). Ma come materializzare questa trasformazione?
Al riguardo, potrebbe essere interessante raccontare qualcosa sulle comunità di desiderio di Luang Prabang e su come la pandemia sembra ne stia mostrando un lato più oscuro a causa del panico economico che si è diffuso tra certi segmenti popolazionali, creando una corsa all’accaparramento invece che spinte collaborative. Per ragioni che spiegherò meglio, la città ha costruito un’immagine di sè come avanguardia dei modelli di sviluppo sostenibile del sudest asiatico. Vorrei mostrare però che questa costruzione immaginaria è un prodotto di precise scelte di marketing che aspirano a posizionarla come un “marchio” sul mercato regionale turistico. Appare inoltre il frutto di una rinnovata spinta elitaria della città in cui il divenire femminile nasconde proprio quelle dinamiche di protezione del Capitale che ho discusso in precedenza e dietro cui si cela l’immagine della Jeep. Nonostante ciò esistono degli elementi della transizione in atto che mostrano percorsi di ibridazzione liminali che meritano una descrizione più accurata.
La pedagogia di Holliwood
Prima di tutto elencherò alcuni elementi che costituiscono nell’immaginario locale la specialità di Luang Prabang. 1. Da ormai due decadi, è considerata un luogo LGBTQ+ friendly; 2. Le donne hanno un ruolo economico di primaria importanza nelle dinamiche produttive urbane. 3. Da qualche anno i maggiori hotel cittadini hanno inziato un processo di conversione economica per garantire sostenibilità ambientale: dall’approvigionamento a chilometro zero, a prodotti biologici, dalla riduzione del consumo di plastica, ai primi timidi tentativi di utilizzo di forme di trasporto elettrificato. 4. In quanto patrimonio mondiale dell'UNESCO, è una delle poche città dell'area che possiede un piano regolatore che ordina, seppur parzialmente, il consumo del territorio e le scelte architettoniche e dei materiali di costruzione. 5. La burocrazia municipale è formata dentro scuole militari, ma per vedere armi bisogna andare fino al poligono di tiro sportivo. 6. E' un centro buddista di discreta rilevanza regionale con alcuni tratti dottrinali unici non rintracciabili in altre aree del Buddismo Theravada. 7. A Luang Prabang e dintorni la World Bank non finanzia strade e dighe ma progetti di conservazione della biodiversità. 8. Facebook è considerato la porta per la libertà di espressione e uno strumento imprescindibile di organizzazione di gruppi ed azioni collettive. L’insieme di questi elementi segnalano una certa potenzialità liminale della città ma potrebbero anche celare l’ipocrisia tardo capitalista e quella sostituzione di “Padre” e “Madre” citata in precedenza.
Per fondare empiricamente l’osservazione di queste dinamiche ho fatto di necessità virtù e, viste le mie difficoltà con il laotiano, in questi mesi ed anni ho sfruttato la conoscenza di altre lingue per immergermi, come molti e con fortune alterne, nel mondo dei migranti che, in un modo o nell’altro, hanno un regolare permesso di soggiorno: "gli expat". Partirò quindi da questo campo di analisi per proporre alcune considerazioni sulle materializzazioni del divenire femminile a Luang Prabang.
Dividendo la società in due macrocategorie che sono quelle dei potenti e quella dei dominati, è probabile che la maggioranza degli expat (nonostante alcuni ricevano salari con molti zeri) rientrino nella seconda categoria. Sebbene vi siano indubbie differenze di classe tra gli "expat", i più "vecchi" sono riusciti ad arricchirsi e a vivere al di sopra delle loro aspettative finanziarie proprio grazie alla decisione di migrare in Laos al momento giusto. Tante storie locali di successo condividono una precisa finestra temporale, il primo decennio del 2000, e raccontono un mix di capacità personali, etica del lavoro, opportunismo e sensibilità rispetto alle dinamiche socio-culturali locali. Su queste biografie “dell’individuo” si allaccia poi la necessità di regolarizzare la posizione migratoria per i fini dell’accumulazione di Capitale.
La migrazione per ragioni economiche ha infatti prodotto un’infrastruttura giuridico-legale che sostiene la presenza degli expat e dei loro investimenti nell’impossibilità di un expat di diventare “proprietario” di edifici e di terreni. La tipologia di visto ottenuta racconta quindi un’altra storia. In molti casi accade che l’arrivo in città sia dovuto ad un’amicizia che diventa amore. In altri la relazione è invece prettamente commerciale. Seguendo queste due traiettorie è possibile allora descrivere l’incontro tra gli expat e gli abitanti di Luang Prabang attraverso due macro categorie: 1. quella di legami di parentela con famiglie più o meno importanti formalizzatisi con matrimoni per amore o di comodo; 2. e quella di legami commerciali con reti locali di potere formalizzatisi con la costituzione di società con prestanomi o con soci locali. Come sempre accade ci sono diverse gradazioni e incroci possibili tra i diversi estremi, ma la sostanza del discorso non cambia. Ogni expat può essere inquadrato dentro questo spettro giuridico-legale attraverso il quale una prima forma di diversità è stata via via assorbita e normalizzata nelle dinamiche economiche della città.
E’ poi possibile identificare i flussi migratori intorno all’asse linguistico più che strettamente geografico o culturale. Ci sono quindi: filippini, coreani, cinesi\mandarino, cinesi\cantonese, tailandesi, vietnamiti, inglesi (americani, australiani, inglesi), francesi, canadesi, italiani eccetera. Ma vi è anche una componente religiosa legata a gruppi e sette che fanno capo a diverse forme del cristianesimo evangelico, dell’ebraismo, dello shivaismo, dell’islam e di altre pratiche buddiste zen. Sovrapponendo le diverse categorizzazioni tra di loro è possibile ritrovare reti di appoggio e\o commericali in cui individui, famiglie e gruppi impresariali locali sono inseriti e in cui l’elemento più propriamente culturale si intreccia con quello economico.
In tempi recenti, con l’aumentare dei mega progetti sul territorio nazionale e con l'accresciuta importanza degli investimenti esteri diretti (soprattutto nell'edilizia e nelle catene hotelere, nelle infrastrutture e nel settore minerario), i flussi migratori hanno iniziato a complicarsi ulteriormente venendo a mancare le reti di appoggio linguistiche sostituite direttamente dalle Company che portano gli operai attraverso il sistema di visti previsti dalle licenze commerciali, nazionali o internazionali. Ad esempio, alcuni campi di lavoro per infrastrutture hanno creato dei veri e propri spillover popolazionali sulle città e i villaggi che sorgevano nelle prossimità delle opere in costruzione. Negli anni sono poi aumentati anche i lavoratori specializzati, oltre al personale esperto di vari organismi internazionali, i quali però se non sviluppano legami emozionali del tipo 1 rimangono solo per pochi anni. Dentro questo insieme di regole e definizioni generali si articolano relazioni ed incontri che rappresentano in maniera evidente un aspetto della transizione iniziata in Laos alla fine del 1900 (qui un altro aspetto della transizione).
L’incontro multiculturale e cosmopolita tra classi medie e medio-basse si è così inserito ed intrecciato alle pratiche e alle narrazioni della ricostruzione e della pacificazione del Paese dopo la guerra americana. Si tratta di un processo spesso silenzioso e molto simbolico di riconciliazione ma anche di rievocazione di antiche divisioni (come mostrato dalla foto della Jeep). Non tutti i nuovi arrivati sono però in grado di percepirlo ed interpretarlo a causa di una naturale ignoranza delle storie locali sul passato conteso. In questa cronica incoscienza si gioca un aspetto cruciale delle modalità in cui passato e presente vivono nel presente. In estrema sintesi, sempre più persone in città non trovano eccessivamente problematica la presenza della Jeep sulle strade.
Pur partendo da traiettorie distinte o da credi politici per certi versi non conciliabili, a Luang Prabang è possibile definire una convergenza ideale intorno a posizioni politiche se non proprio “anticomuniste” per lo meno avvezze all’idea che il comunismo sia uno degli esperimenti politici falliti della contemporaneità. La transizione economica in atto ne sarebbe la prova più evidente. In questo senso il dispiegamento delle forze del Mercato rappresenta la vera energia rivoluzionaria che ravviva la quotidianità, tra consumo simbolico e microvittorie commerciali ed estetiche sul “vicino di casa”. Ad aiutare questo sviluppo creativo autoctono è il fatto che la forma del capitalismo di Luang Prabang non ha le sembianze invasive di un’acciaieria o di una miniera d’oro, ma quella della conservazione del patrimonio per l’industria turistica e ben si presta a costruzioni ideologiche nazionaliste ed identitarie. Non importa quindi da dove arrivano i materiali di costruzione o i fondi necessari per restauri, abbellimenti, ricostruzioni e conservazioni. E non importa se molti dei guadagni prodotti dipendono da rendite da posizione dominante oppure dal bassissimo costo del lavoro. Per ragioni di marketing e di profitto, la città viene tutelata e protetta non solo da certe forme antiestetiche di speculazione edilizia, ma anche da pensieri negativi sulla sua posizione cosmologica nella regione.
In questa prospettiva, le comunità di desiderio di Luang Prabang potrebbero avvicinarsi ad un’interpretazione destrorsa di “Capitalismo e Schizofrenia”, per cui la rivoluzione sembra dispiegarsi pienamente attraverso le forze di un capitalismo buono e giusto, che recinta le isole produttive e dispone sistemi di sicurezza intorno ad esse. Questa vittoria dell’economia di mercato si manifesta attraverso comunità di desiderio che creano esperienze produttive quasi archetipe e modelli di best practice da imitare. In un ipotetico continuum che rappresenta il nuovo capitalismo laotiano, troveremmo allora da un lato un vero e proprio elitismo hipster, sussidiato e biologico, e dall’altro forme di restaurazione del gusto nobiliare ed aristocratico di vecchi gruppi collaborazionisti con nuove ambizioni di potere. In mezzo al cammino si posizionano invece gli osceni tentativi del “Governo” di accaparrare risorse deturpando l’ambiente e censurando la creatività del desiderio. In questo modo il vecchio è tutto condensato su di un “capo espiatorio” che rinforza le spinte rivoluzionarie del capitalismo buono (1 e 2).
I tempi della memoria
Già nel 2008 Marina Abramovich aveva proposto un’interpretazione delle difficoltose rielaborazioni dei processi storici e sociali che erano in atto a Luang Prabang. Nelle foto e nei testi prodotti dopo circa 4 anni di workshop e percorsi esperienziali sono raccolte diverse testimonianze di una certa rilevanza sull’incontro tra temporalità e memorie. Nel suo caso specifico, la Abramovich aveva mostrato con eccezionale forza simbolica come monaci buddisti ed esercito comunista cercassero spazi di coabitazione, sopportazione e comprensione reciproca. Vista la sua personale biografia, il suo partecipare all’incontro segnalava una via d’uscita estetica ai conflitti latenti della città dentro percorsi di pacificazione che parevano innovare visioni culturaliste più mainstream secondo le quali comunismo e spiritualità non potevano trovare spazi di convivenza.
Nei diversi testi però non si entra mai nel merito di alcune riscotruzioni storiche del periodo bellico laotiano in cui si mostra che il movimento anticoloniale contava nelle sue fila anche molti monaci buddisti che mantenevano posizioni politiche dal nazionalismo fino al marxismo. Molti guerriglieri Pathet Lao provenivano dai monasteri non per via di infiltrazioni comuniste ma per oggettivite condizioni di marginalità e perchè vi erano entrati per essere educati non potendo accedere alle più costose scuole dell’elite coloniale. Questo comunismo come movimento di liberazione anche spirituale è spesso dimenticato nelle rieleborazioni locali. Attualmente sono molti i buddisti praticanti a sgranare gli occhi pensando che dei guerriglieri provenissero dai monasteri. Se alcuni negano in toto che ciò sia veramente accaduto, altri ritengono quella scelta un errore, come se quei novizi non avessero compreso “la via” e si sottoposero a necessità contingenti che nulla hanno a che fare con il Buddismo. Tuttavia, vi sono prove sufficienti che dimostrano che in alcune zone del paese i monasteri divennero obiettivi militari delle forze collaborazioniste. Mentre in altre, come a Luang Prabang, furono storicamente uno strumento di rafforzamento del potere simbolico della monarchia.
Tra i lavori del progetto si possono leggere poi reinterpretazioni del passato coloniale francese che mostrano il lato accogliente della Colonia. Sottolineano le migliorie architettoniche apportate alla città e i diversi restauri proposti alla cittadinanza. Raccontano di quanto povero fosse il Laos e quanto costoso e non economico fosse il mantenimento dell’apparato amministrativo locale. Dirigono quindi l’attenzione verso una dominazione “illuminista” e non opprimente, selvaggia o razzista. Si omettono purtroppo molte altre storie come la prima guerra di Indocina e le tante testimonianze di diserzione che riguardarono i soldati della legione straniera. Cercano quindi di stabilire un ponte verso la trasformazione "positiva” di vecchie e nuove relazioni emozionali quanto commerciali, in funzione di un rinnovato incontro fra nazionalità e soprattutto fra le reti francesi e di rifugiati francofoni di ritorno in Laos e tutti gli altri. In questo lavoro di reinterpretazione della memoria, Luang Prabang emerge quindi nella sua potenzialità utopica di spazio di ricostruzione e convivenza della diversità. Tuttavia l’immagine prodotta sembra non riuscire pienamente a sostenere il peso del rimosso che contestualmente impone. Si apre necessariamente un “Fuori”, oltre le frontiere urbane, altrettanto vasto che partecipa dell’incoscienza della città. Qui sono confinati simbolicamente e silenziosamente i fantasmi del passato; quelli di una guerra civile protratta, troppo superficialmente analizzata dentro i parametri della guerra fredda, lungo le divisioni imposte dal comunismo e dall’anticomunismo.
Negli anni la costruzione del discorso sulla “fortuna e sulla bellezza di Luang Prabang” o sulla sua specialità nel panorama regionale si è inserita sul tagliio tra l’Isola UNESCO, dove risiede il patrimonio storico ed artistico da tutelare e rivalutare attraverso il turismo, ed il suo Fuori, fatto invece di povertà e di marginalità da assistere e prodotto delle inadepienze del “Capo Espiatorio”, il governo comunista. La jeep dei marine rimessa a nuovo aspira a posizionarsi quindi su di un rinnovato spazio di indefinizione tra questi poli. La sua presenza simbolica cerca nuovi significati attraverso i dispositivi dell’alterità messi a disposizione dal capitalismo globale. L’idea che la sostiene è sostanzialmente che anche il rimosso possa trovare una sua funzione commerciale ed essere trasformato da ricordo doloroso a materializzazione proficua e pacificante. Immagina quindi di poter liberare il soggetto dal trauma originario che è l’irragiungibilità dell’Oggetto ripulendo la Jeep del suo ricordo bellico attraverso una compensazione economica che ha le sembianze del mercato. Entrambe le operazioni che produce, quella psichica e quella materiale, avvengono attraverso una conversione monetaria che si interpone e media il passaggio da trauma rimosso a presa di coscienza addolcita (un pò come fanno le società petrolifere che compensano monetariamente per le devastazioni ambientali che producono alcune aree ma non altre). L’unico problema è che questa “liberazione di mercato” impone risorse finanziarie idonee. Chi non può accedere ai meccanismi della compensazione, deve allora trovare un lavoro salariato o capire come arricchirsi per non vivere più in un passato ormai ricordo sbiadito e troppo imperfetto, in cui la vittoria si è tramutata in sconfitta, e dove la città che perse ma si salvò, oggi è la vetrina della laotianità nel mondo.
I raid Pirata
C’è però un’altra via in cui l’incoscienza del passato trova uno sviluppo dentro un’esperienza materialmente innovativa del tempo e di un divenire femminile rivoluzionario che non riscopre la “Madre” per prendersi cura del Capitale durante le cicliche crisi economiche, ma sostiene relazioni produttive fondamentalmente egualitarie perchè così si sviluppano nella contingente comprensione e necessità dell’altro. Riguardano relazioni economiche che si fondano sulla condivisione di mansioni, rendite e spese in base alle disponibilità giornaliere, dentro luoghi e spazi disponibili per periodi di “prova” (se non propriamente occupati) che durano di solito un anno o poco più o poco meno. Non fanno ricorso o non hanno accesso ai sussidi della cooperazione allo svilluppo, di imprese metallargiche e di autotrasporti o minerarie e non contano sui salari delle catene di alberghi e ristoranti. Orbitano autonomamente intorno all’Isola UNESCO e solo marginalmente ne sfruttano le potenzialità economiche. Per questa ragione, durante l’attuale chiusura delle frontiere hanno continuato a produrre socialità e sostentamento per un numero probabilmemte maggioritario di persone rispetto a quelle sussidiate dai “programmi di aiuto” ufficiali. Durante la mia permanenza ho osservato molteplici realtà di questo tipo e frequentate diretttamente solo alcune. Riguardano una vasta gamma di attività economiche che aprono e chiudono in forma improvvisa per poi spostarsi e riaprire e richiudere ancora. Si tratta di attività economiche di vario tipo, da negozi per la vendita di frutte e verdure che provengono da mercati non regolamentati, a cucine economiche che aprono sfruttando reti di quartiere che evitano la loro proliferazione “di mercato” in modo da garantire sia prezzi bassi sia piccoli margini di guadagno. Mi riferisco anche ad alcuni negozi che prestano servizi come il tagliio di capelli o le manicure e ad alcuni centri per giocare a videogiochi online.
Un caso che ho seguito per circa 3 anni è quello di una famiglia di fruttivendoli ambulanti che dopo aver lavorato per lungo tempo in una zona della città a ridosso dell’Isola sono stati mandati via in seguito alle opere di riqualificazione dell’area. A trovare spazio nei nuovi negozi con affitti abbastanza costosi è stata invece una cooperativa di produzioni organiche di alcune realtà produttive locali sussidiate dalla cooperazione internazionale e un altro fruttivendolo che era già proprietario dello spazio. Nonostante moglie, marito, figli e famiglia allargata non avessero alcuna intenzione di andare via, sono stati costretti a lasciare la zona per alcuni mesi. La "Madre” tuttavia non ha abbandonato lo spazio ed ogni mattina ha iniziato a vendere non più frutta ma fiori decorativi per i monasteri. Dopo qualche tempo di continua presenza giornaliera in cui insieme a lei sulla strada si alternavano il marito, la cugina e la figlia maggiore, tutti insieme hanno poi rioccupato l’area adiacente che non era stata ammodernata e che rappresentava un fastidioso non-finito estetico nella bellezza della città. A distanza di un anno sono ancora fieramente lì a vendere frutta.
Potrei fare esempi analoghi, sia di occupazioni di terre per uso abitativo e commerciale sia di casi di sfratti forzati ma non necessariamente violenti spesso culminati con ricollocazioni accettabili per le parti in causa. Questa accettazione riguarda proprio un’attitudine a considerare l’occupazione temporanea in modo da sfruttare le potenzialità degli spazi finchè possibile. Se da un lato questo processo facilita la gentrificazione di alcune aree della città, dall’altra costituisce una specifica esperienza urbana che non può essere semplicemente intepretata dentro i parametri della sopravvivenza se non proprio dell’indigenza. Si tratta di vite urbane nomadiche che vivono l’aperto cogliendo opportunità e riducendo, grazie a dinamiche di solideriatà che si mettono in moto in forma quasi sponatena, le difficoltà delle ricollocazioni.
Certamente ci sono anche altre storie non di successo ma altrettanto degne e che riguardano, ad esempio, alcuni nuovi disoccuppati. Alcuni di loro hanno inziato a muovere i primi passi cucinando e preparando i pasti oppure tenendo i figli mentre la moglie lavora. C’è anche chi si dedica alle pulizie di casa. In un caso che conosco da vicino, quello di una sartoria, la nascita di un bambino ha impegnato solidalmente tutti gli impiegati a prendersene cura in modo da dare alla madre la possibilità di continuare a lavorare seppur a ritmi ridotti. Questo le ha permesso di ricevere lo stesso salario e di non avere preoccupazioni. Il posto di lavoro si è così trasformato in un piacevole spazio di convivenza e convivialità in cui il bambino ha imparato fin da subito a vivere tra la gente e ad ascoltare lingue diverse senza dover ricorrere ai costosi asili dell’elite cittadina e senza dover chiedere aiuto ai familiari che vivono in villaggi lontani. Questo tipo di pratiche sono decisamente più comuni e diffuse di quanto non si creda parlando della “povertà laotiana”. Soprattutto mi pare che costruiscano pratiche di socialismo reale in cui esigenze produttive e riproduttive si posizionano fuori dalle dinamiche di mercato dominanti e permettono di vivere oltre le differenze di genere, il piacere del “godi” che libera dalle dominazioni quotidiane. Sono pratiche femministe spontanee che non hanno il bisogno di un’agenzia per la cooperazione che educhi a relazioni paritarie in casa.
Tutte queste storie potrebbero essere inserite in un’appendice ideale di un libro recentemente pubblicato anche in italiano, L’Utopia Pirata di Libertalia. In questo testo, David Graeber desacrive come nel XVIII secolo, nel mezzo di traffici economici segnati dalla violenza e dal “colore dei soldi” siano sorte delle comunità spontaneamente egalitarie, durate forse poche generazioni, ma che misero insieme nuovi arrivati, come alcune navi pirata provenienti dai carabi in cerca di rifugio, e alcune popolazioni malagasce. Non vi sono archivi storici che ne confermino in maniera inconfutabile l’esistenza. Tuttavia l’elemento interessente riguarda il fatto che il racconto su di loro venne tramandato e raccolto dentro un genere letterario all’epoca molto in voga che trattava di pirati e pirateria non come predatori senza pietà ma come avventurieri capaci di vivere oltre i confini imposti dalle società retrograde da cui provenivano. In alcuni casi, dopo essere approdati ed essere stati accolti, pare addirittura che l’incontro con “gli indigeni e le indigene” abbia dato il via ad esperienze di democrazia diretta che non avevano precedenti sia nelle aree di arrivo, sia in quelle da cui erano partiti. L’esperienza di questi villaggi malagasci superò così i confini dell’isola fino a far ritenere che i salotti buoni della corte di Re Luigi XIV ne parlassero interessati. In qualche modo quindi parteciparono alla creazione dell’utopia socialista che avrebbe poi segnato il panorama culturale della rivoluzione francese prima e della comune di Parigi più tardi.
Nel caso di Luang Prabang però i racconti della resistenza non entrano nei report ufficiali di organizzazioni governative e non. Certamente non sono proposti come segno distitivo dell’esperienza di viaggio in città da parte delle agenzie turistiche. Al contrario sono spesso strumentalmente utilizzati per segnalare l’indecenza del “Capo Espiatorio”, il governo comunista, senza però cogliere che queste realtà sono tutte intorno alle isole produttive del nuovo capitalismo laotiano di cui fa parte chi critica il “Capo”. Mentre si guerreggia per il consumo più oculato o per il SUV più nuovo, ci si dimentica che tra quelle genti più d’una ha ben chiara la cruda ironia di quella jeep. Non credo però siano in molte quelle tra loro che invochino il ritorno del “buon colonialista”.
Concludendo Un Tour Du Laos
Foto: inniettandosi vaccini cinesi, serie “Prima gli Stranieri”
Sono così arrivato alla fine di questo viaggio di due mesi e mezzo circa a bordo di una bicicletta durante il quale mi sono sentito un eroe romantico che riscopriva il potere curativo della Natura e dei suoi spazi selvaggi. L'incontro con il suo corpo oscuro, maledetto, senza alcuna pietà e compassione è stato solo sporadico. In fin dei conti, ho navigato in un mondo di confine ma urbanizzato, aperto ma già recintato e reso accessibile. Ho così goduto appieno della ricerca del sublime perché ho viaggiato nell'ignoto "in sicurezza". Come scrive Bodei "quando scalo ripide e alte montagne, quando affronto la navigazione o i viaggi di scoperta in mari e territori sconosciuti [...] io misuro la mia capacità di resistere all'avvilimento e alle intimidazioni. Il sublime è quello sforzo titanico di rovesciare i rapporti di depressione [...]". In fin dei conti, il mio personale confronto con la Natura è terminato vittoriosamente. L’ho squarciata da nord a sud e poi circumnavigata attraverso i suoi passi più alti da est ad ovest a bordo di una bicicletta lungo un percorso di oltre 2500km. Recuperate le forze fisiche, i mini post su telegram, i video di Relive e tutto il resto mi sembrano ora tracce di una fuga che ha avuto successo ma che devo ancora imparare a riconoscere. Un lungo viaggio è per definizione una lenta presa di coscienza del proprio sé nel mondo. Che si tratti di una migrazione o di un’esplorazione, credo non faccia molta differenza dal punto di vista della coscienza. Tuttavia ora, nel ritorno alla scrivania, al tempo delle letture e del pensiero, delle pulizie di casa e del giardino e di tutto il resto che offre riparo dall'illimitato, quel sé mostra un altro aspetto, forse più malinconico ma non per questo da rifiutare. Fa tutto parte di quel “godi” di cui scrive Godani. Certo mi trovassi a condividere un magazzino con altre 30 persone che sono riuscite chissà come a passare la frontiera, la malinconia non avrebbe tempo di manifestarsi nella lentezza di queste giornate e probabilmente assumerebbe altre forme. Ma il mio viaggio è stato un ritorno che aspirava a una ripartenza, non era solo un andare. Attraverso il semplice movimento, la biciclettata aveva modellato la malinconia, una pedalata alla volta, dentro la ricerca quotidiana del sublime. Ora mi dedicherò ad altro per darle un’altra forma. Grazie per l’ascolto.
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Metodos, tecnicas y teorias en la antropología.
En este ensayo describo cuales son los metodos, tecnicas y teorias en la antropologia.
Para comenzar, una metodologia es un analisis teorico de metodos y principios aplicados a una diciplina, se diferencia de el metodo por el hecho de que no propone soluciones, sino que ofrece que metodos o practicas proveeran los mejores resultados.
Una gran diferencia entre la metodologia de las ciencias naturales y las ciencias sociales, es que en las naturales se comienza con la observacion del fenomeno, despues se plantean las hipotesis; en cambio en las ciencias sociales, las hipotesis son formuladas, y luego estas se someten a observacion.
Por lo tanto las complicaciones que surgen a la hora de comprobar teoria social, consisten en varios puntos: (a) problemas de objetividad, como generalizaciones solo acertadas en circunstancias particulares, dando pie a falacias epistemologicas; (b) problemas de vulnerabilidad, lo fragil que es nuestro objeto de estudio a sufrir modificaciones dada su naturaleza humana y (c) problemas de limitaciones para la experimentacion de nuestro objeto de estudio.
Por otra parte, el metodo es un procedimiento ordenado por el cual se llega al conocimiento. A su vez, todo metodo incluye tecnicas, estas son un conjunto de herramientas.
Los metodos son correlativos, casi todos tienen un correspondiente contrario, como es el ejemplo de la deduccion y la induccion: la deduccion significa obtener conclusiones de una premisa mediante inferencias logicas y la induccion equivale a extraer conclusiones a partir de premisas explicitas, se fundamenta en la experiencia.
Este ultimo metodo es muy eficaz para la investigacion de un grupo de objetos reducido, al poner al investigador en contacto directo con la realidad, pero si en cambio, el numero de objetos es amplio, la induccion no es efectiva ya que existe el peligro de hacer generalizaciones.
En la antropologia existen dos metodos, los de campo y los comparativos, es decir, la etnografia y la etnologia.
La etnografia es la parte descriptiva de una cultura, es la recopilacion de datos por medio del trabajo de campo haciendose valer de dos tipos de estrategias: (1) las entrevistas con informantes, estos son personas dispuestas prestar informacion, y (2) el segundo tipo de estrategia es la observacion participante que consiste en participar en las actividades observadas.
Algunos de los detalles importantes que tomar en consideracion al disponerse a realizar trabajo de campo, son: (1) que tan viable es nuestra investigacion, que inconvenientes y limitaciones existen, tanto linguisticas, logisticas, como financieras; (2) conocer las diferentes tecnicas de trabajo de campo y sus ventajas y desventajas. Como por ejemplo: (a) la fotografia; (b) construccion de mapas y censos, para la ubicacion de datos geograficos y de las unidades familiares; (c) historias de casos, son utilizados cuando existen casos relevantes para el investigador; (d) historias de vida, estos son datos biograficos de una persona de interes; (e) encuestas y cuestionarios, estas son tecnicas cuantitativas para conseguir datos especificos de una polacion muy amplia; (f) metodo genealogico, sirve para establecer parentesco en una poblacion, puede ser de gran ayuda ya que introduce al investigador con una gran cantidad de gente; (g) tecnicas proyectivas, estos son tests psicologicos, y (h) notas de campo, son usadas por el investigador para documentar sus observaciones, ideas, percepciones y primeras impresiones que aunque puedan parecer triviales, son a menudo muy significativas.
Cabe señalar, que segun expertos, el trabajo de campo debe durar por lo menos un ciclo anual, aunque debido a que es establecer una relacion de confianza entre nuestro objeto de estudio y nosotros es sine qua non, es recomendable seis meses de estadia previa, por lo que son 18 meses en total lo recomendable para realizar una buena etnografia.
En cuanto a la etnologia, esta es la parte explicativa, es la abstraccion de informacion etnografica para constrastar y comparar por medio del metodo comparativo.
Ahora, a continuacion iremos a dar un paseo por el camino de la memoria de la antropologia, y consultaremos las teorias que han ido emergiendo a lo largo de la historia, no las expondre todas ya que no me las se.
La primer teoria antropologica nace en el siglo XIX, es conocida como el evolucionismo unilineal, es una teoria inglesa influenciada por la teoria biologica de la evolucion. El evolucionismo establecia leyes generales y un sistema clasificatorio a la sociedad, basada en la documentacion historica y el metodo comparativo. Es considerada obsoleta por sus muchas limitaciones epistemologicas. Sus principales exponentes fueron Edward Tylor, Lewis Morgan & Hebert Spencer.
Despues surgio el difusionismo, con gran debilidad cientifica, ya que describe prestamos culturales pero no su proceso.
Para el siglo XX, surgen tres teorias que dan un shake-up a la antropologia y al concepto de cultura: (1) teoria del relativismo cultural propuesta por Franz Boas, esta aboga por no hacer clasificaciones a priori y en cambio realizar investigaciones intensivas de las culturas para poder formular comparaciones legitimas. Describe a la sociedad como representaciones colectivas de su pasado historico. Boas redefinio la antropologia (fue bien chingon!) (2) teoria del funcionalismo, esta teoria principalmente influenciada por el sociologo Emile Durkheim, señala que las instituciones sociales existen para satisfacer las necesidades basicas del ser humano. En la antropologia su principal exponente fue Bronislaw Malinowski, este consagro como fundamental el trabajo de campo en el quehacer antropologico. (3) El estructuralismo, teoria influenciada por la linguistica, esta teoria establece que hay estructuras subyacentes que crean los fenomenos culturales que existen en todas las culturas, estas estructuras son conocidas como universales de la cultura, por ejemplo: el lenguaje, los sistemas de parentesco, la religion, etc. El exponente mas prominente de esta teoria fue Claude Levi-Strauss.
Para resumir, cito al antropologo Alfred Reginald Radcliffe-Brown, por tres razones: porque de tanto leer mi lucidez metal ha disminuido, porque tiene un nombre fenomenal que es muy satisfactorio escribir, pero sobre todo porque me hace ver muy intelectual: “El metodo adoptado aqui (antropologia) no es ni el de la historia ni el de la pseudo historia, sino una combinacion de la comparacion y el analisis. Comparamos los sistemas sociales para poder definir diferencias y descubrir semejanzas mas esenciales y generales.” (Radcliffe-Brown, 1982).
Bibliografía
Primer ensayo;
1.- Sylvian, Giroux y Ginnette Tremblay, “De la teoría a la práctica ¡Qué es la ciencia?, en Metodología de las ciencias humanas, edit. FCE, México 2004. pp. 17- 44.
3.- Rojas Soriano, Raúl, “Alcances y limitaciones de la investigación social” en Investigaciones sociales, edit. Plaza y Valdés, México 1989. pp. 18-26
4.- Calvo Buezas, Tomás y Domingo Barbolla Camarero, “Filosofía de la ciencia y epistemología: la antropología como proyecto científico” en Antropología. Teorías de la cultura, métodos y técnicas, edit. Abecedario, España, 2006. pp. 387-406.
7.- Rossi, Ino y Edgard O´Higgins, “Métodos antropológicos” en Teorías de la cultura y métodos antropológicos, edit. ANAGRAMA, España, 1981. pp. 157-202.
Segundo ensayo;
5.- Zorrilla Arena, Santiago, “El método en la investigación” en Introducción a la metodología de la investigación, edit. Aguilar León, México, 2002.53-76.
7.- Rossi Ino y Edgard O´Higgins, Métodos antropológicos” en Teorías de la cultura y métodos antropológicos, edit. ANAGRAMA, España, 1981. pp. 157-202.
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Desculpem-me por ainda não organizar este racicicionio....
Organização Mundial da Saúde: saúde é um estado de completo bem-estar físico, mental e social, e não apenas a ausência de doenças. lembro-me estudar em saude que o saude passsa pelo o bem estar do individuo (saude psica, saude biologica e anatomica) e alem do individuo hoje há uma dinamica onde com a sua antropologia ambiental ou seja com os meios que nos rodeia (ambiental, economicos e sociais) ou seja alem da sua saude individual na sua singularidade dentro dessa esfera supra mecionada e obviamente na constituição da OMS é e está correcto aos dominios de quem entende na sua extensao ou no processo de extra-polação deste seu conceito desse desejo tão humano e profundo e tão proprio e ate de forma institiva dessa singularidade humana ate em forma de subconsciente de tal alcance. O problema grave aqui neste conceito lidamos com politizações de massas onde os interesses economicos são deveras comprometedoras desta grandeza de alcance que sabemos que a economia em desfalque com tal grandeza supra exposta tem tal antropologia entre o individuo na sua singularidade com o resto da sociedade (ou seja a sua dinamica singular na colectivdade de uma sociedade de um todo) compromete tudo o resto como ate sabemos sobejamente quantos de muitos na miseria e na rua sem meios economicos não conseguem ter tal amplitude deste conceito de saude como esta estipulado na Organizaçao mundial de Saude e etc... quantos são abandonados por não terem meios economicos de sobriviverem e obvaimente sem saude como os sem abrigos que vemos nas ruas neste seculo XXI ... ou seja para mim há duas esferas de conceito de saude obviamente a sua singularidade e este individuo na sua colectividade ou em sociedade e etc... alem de considerarem a saúde que é um estado de completo bem-estar físico, mental e social, e não apenas a ausência de doenças. temos que ter em conta o conceito de saude numa dinamica colectiva onde tal esfera economico-social e ambiental... pois sabemos que um dos elementos em falta compromete o seu todo causando em muitos dos seus elementos constituintes desta sociedade onde tal humanidade desses elementos na sua singulardade é comprometida o alcance desejado pela constituição da OMS na humanidade e na sua individualidade ou seja a singela e simples singularidade humana e no respeito da sua essencia .... tambem há a dinamica de entre o ser humano na sua singularidade e o resto do mundo com os meios disponiveis (mesmo providos em geografias politicas) os tenha de forma a não comprometer a sua propria saude....
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Opinione: Questo è il mio sangue, di Elise Thiébaut
Un saggio brillante, ironico, provocatorio che affronta un tabú millenario. Perché è giunto il momento della rivoluzione mestruale. Perché ancora oggi le mestruazioni sono un argomento di cui ci si vergogna, che discrimina le donne? Perché per definirle usiamo perifrasi come «Ho le mie cose», «Sono indisposta», «Ho il ciclo»? Perché ci imbarazza cosí tanto il modo in cui funzionano i nostri corpi? E se fossero gli uomini ad averle? Un saggio brillante, ironico, provocatorio che affronta un tabú millenario. Perché è giunto il momento della rivoluzione mestruale. Per quasi quarant'anni, ossia per circa 2400 giorni, le mestruazioni accompagnano la vita di ogni donna. Eppure rimangono un argomento circondato da silenzio e vergogna. Perché abbiamo tanta paura di un processo naturale che ci permette di dare la vita? Come mai ci affrettiamo a nascondere nella borsa gli assorbenti quando capita di tirarli fuori per sbaglio? Perché bisbigliamo «mestruazioni» mentre siamo pronti a gridare insulti di ogni tipo? Mescolando antropologia, storia, ecologia, medicina ed esperienza personale, Élise Thiébaut affronta un argomento delicato e insospettabilmente accattivante, riuscendo con la sua prosa vivace a dimostrare quanto sia complesso il principale protagonista della vita femminile. E quanto le superstizioni, le leggende, i non detti, abbiano influito per secoli sulla discriminazione delle donne. Sorprendente, chiaro, scientificamente accurato, Questo è il mio sangue , oltre a essere un appassionante viaggio alla scoperta di un fenomeno naturale come mangiare, bere, dormire, fare l'amore, è anche un manifesto della rivoluzione mestruale in atto. Perché parlare apertamente di mestruazioni significa, per ogni donna, accedere a una nuova consapevolezza di sé, del proprio corpo e della propria identità.
° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° ° °
Semplicemente bellissimo. Lo avevo visto di sfuggita nelle storie di @lhascrittounafemmina e mi è rimasto impresso nella mente. Se avete prestato un po' attenzione alla cronaca, degli ultimi mesi soprattutto, è tornata a gran voce la richiesta di abbassare tassa sugli assorbenti per renderla uguale a quella dei beni di prima necessità ovvero il 4% (se non toglierla del tutto). Tutto questo "putiferio" è ritornato alla ribalta dopo la decisione del governo di abbassare la tassa sui tartufi e quindi potete immaginare la reazione nel leggere una cosa del genere, che appare come una presa in giro quando si chiedono cambiamenti su questioni molto più serie e vengono ignorate. La cosa che mi ha stupito (e fatto incazzare) di più è che tantissime persone tra cui molte donne si sono schierate contro questa lotta. Probabilmente sono persone benestanti che hanno un ciclo regolare breve e che non gli comporta disguidi, a cui non frega niente di qualunque altra donna e se possa o meno avere problemi in tal senso. Maschilisti che urlano a gran voce che questa è l'ennesima "battaglia femminista" che mette la donna sopra l'uomo. Chiariamo una cosa (per la milionesima volta): Femminismo è maschio = femmina Se qualcuno dice il contrario non ha idea di cosa sia il femminismo. Se una donna si proclama femminista ma è sessista, non è femminista. L'autrice ne parla di questa enorme battaglia globale, citando il testo (non parola per parola): Nel 2000 la Gran Bretagna è passata dal 17,7% al 5% e hanno continuato la questa battaglia finché non è non è stata ridotta a zero. In Germania la tassa e 17%, in Belgio il 21%, in Spagna il 10%, Svezia e Norvegia il 25%, mentre l'Ungheria è al 27%. Negli Stati Uniti 5 Stati hanno soppresso la tassa e nel 2016 New York ha deciso di rendere disponibili gratis queste protezioni nei college e nelle università pubbliche come rifugi per senzatetto e nelle carceri. In Francia è stato ridotto al 5,5%, vittoria parziale perché si puntava un 2,1% (lo stesso valore applicato ai farmaci con ricetta) oppure azzerarla. Oltre a questo si puntava anche a fornire di distributori automatici di assorbenti in luoghi pubblici, perché come si distribuiscono preservativi dovrebbero esistere anche di altro più irreperibile se capita urgenza. Ma come ci farà notare spesso: è solamente un bisogno biologico incontrollabile che colpisce le donne dai circa 10 anni fino ai 55/60 (mediamente), per 7 giorni al mese, fin dall'inizio dei tempi. Pretendiamo troppo ad essere considerate e, addirittura, ad urlare a gran voce di avere diritti in tal verso. Figuriamoci far accettare che possa comportare dolore e malattie piuttosto gravi, cosa che solo oggi (e comunque con scetticismo anche dal campo medico) viene presa in considerazione. La donna deve soffrire, perché si lamenta? Lo sappiamo già che "ha le sue cose" ed è intrattabile. (Eh già, i luoghi comuni sono davvero duri a morire). L'autrice è francese e quindi la sua esperienza personale si baserà principalmente sulla Francia, ma non si è rinchiusa in quel mondo, ma ha allargato davvero molto gli argomenti che ha deciso di trattare, che sono vasti. Per esempio ci parlerà della sua vita, di come ha vissuto le mestruazioni fino ad arrivare alla menopausa. Infatti lei ha fatto tutto questo ragionamento quando ormai il suo periodo fertile era finito, però si è ritrovata a riflettere pensando quanto sia "stupido" avere ancora questo taboo addosso e sperando di riuscire a far comprendere più cose, unendosi alla "battaglia" per sdoganare tutto questo e (magari) arrivare al giorno in cui sarà normalissimo e le donne potranno vivere in pace col proprio corpo. Perché si, le mestruazioni possono essere una grande fonte di problemi (semplicemente per chi ha un ciclo abbondante), ma rivelarsi quasi letali per chi ha malattie legate ad esso; ancora oggi difficilmente diagnosticabili e a volte minimizzate per i sintomi che presentano (il dolore, come dicevo sopra). Lei lo ha vissuto sulla sua pelle, rischiando davvero molto e passando tantissimi anni a cercare risposte ed ottenendole solo quando poteva essere tardi. Ci parlerà anche in maniera più fredda e biologica del corpo femminile, spiegando bene in cosa consiste il nostro apparato riproduttore, tutti i dettagli che lo riguardano, dalle mestruazioni fino ad arrivare a parlare delle cellule e degli ormoni che regolano il tutto. Insomma tantissime cose che lei cercherà di spiegarci, dando però l'idea di quanto può essere complicato e ampio tutto ciò che ci succede, a cui ci accorgiamo solo quando sanguiniamo. Questa enorme parentesi la troviamo qua e là nel libro contiene molti riferimenti (o forse dovrei dire speranze) al futuro alla ricerca, perché ci rende partecipi del fatto che non esista quasi una ricerca che miri a comprendere il ciclo mestruale e le malattie legate ad esso. Insomma, siamo circa metà della popolazione mondiale, ma a quanto pare non meritiamo studi approfonditi su cosa succede nel nostro corpo, perché (in effetti) hanno fatto delle scoperte solo di recente che sono incredibili, e vien da chiedersi perché non prima e/o perché siano così poche. Ne parla anche attraverso c'è una prospettiva storica, mettendo in campo sia le superstizioni, che sentiamo anche adesso continuare a girare e che fanno sorridere ma che rappresentano problemi molto seri in alcune zone del mondo, sia partendo dal passato (per esempio cita Artemide) e come moltissime cose abbiano un riferimento o siano una metafora del ciclo mestruale o delle stesse mestruazioni. Sono nominate delle donne che hanno fatto scalpore negli ultimi anni perché hanno (banalmente!) mostrato le proprie mestruazioni in pubblico. C'è una giovane donna che ha corso una maratona senza indossare niente, per dimostrare che non c'è niente di male, per dimostrare a se stessa e agli altri che poteva farcela nonostante avesse il ciclo, e soprattutto cogliendo l'occasione per far parlare di mestruazioni, del problema che non tutte possono permettersi degli assorbenti. Ovviamente grida e sdegno pubblico, non sia mai che ci si possa macchiare in pubblico e non vergognarsi! Simile a lei anche un'altra ragazza (che è diventata poi famosa per il libro di poesie Milk and honey ) ha fatto scandalo pubblicando una foto su Instagram di lei nel letto, di spalle, mentre aveva sporcato di sangue i suoi pantaloni e il copriletto. La foto è stata subito censurata dai social, ma lei l'ha rimessa più e più volte, perché non c'è niente di scandaloso in questa foto (dovendo anche specificare che si trattava di sangue finto), portando di nuovo a discutere su questa tematica. Durante la storia parla anche di cosa veniva usato per coprirsi durante il flusso, fino ad arrivare alla assorbente ed il tampone, quest'ultimo esisteva già molto tempo prima di essere brevettato è venduto in giro per il mondo. Inventato nel 1937 ha dovuto aspettare il 1950 per essere utilizzato e solo nel 1972 viene dato il "permesso" anche alla ragazzine, creando una versione mini che non lacerasse il loro imene. La premura per la verginità sempre al primo posto. E visto che parliamo di assorbenti, un fatto davvero inquietante a cui non avevo mai pensato prima si è fatto strada nella mia mente grazie a questa lettura che lo evidenzia, ovvero: non ho mai pensato agli ingredienti che venivano messi al loro interno.
Voi ci avete mai fatto caso?
È una cosa assurda, però (davvero!) non c'è alcuna legge che obblighi i distributori a mettere ogni elemento contenuto sulla confezione. Non c'è scritto niente di niente sugli ingredienti in nessuna confezione. Assurdo, no? E' stata una ragazza a muoversi in questo senso pubblicando una petizione online (solo qualche anno fa, in Francia) chiedendo che venisse obbligata ogni casa produttrice a stampare sulle etichette tutto ciò che veniva contenuto in questi prodotti. Nonostante lo scalpore, nessuno l'ha considerata e nessun ente governativo si è mosso per portare avanti la causa; solo un'azienda per i consumatori ha iniziato a fare dei test su questi prodotti e i risultati sono agghiaccianti. Gli assorbenti non devono neanche passare sotto i controlli a cui sono costretti i prodotti della cosmetica. Nessuno li verifica. Nessuno controlla questi prodotti che noi ci mettiamo nelle mutande o dentro la vagina, alcuni risultati potenzialmente cancerogeni. Questo rende perfettamente l'idea della considerazione generale della donna. Ho scoperto che esiste la Giornata Internazionale dell'Igiene Mestruale, il 28 maggio, allo scopo di eliminare il tabù e offrire alle ONG che lavorano sotto questo tema una finestra di 24 ore per sensibilizzare il grande pubblico sulla questione. Un giorno?! Ci rendiamo conto che è niente? (Visto che temo sia quasi sconosciuto e chi ne parla sarà sicuramente vittima di minimizzazione se non intulti) Insomma ho cercato di dare una panoramica in più vasta possibile senza entrare effettivamente nella nello specifico di questo bel libro e mi rendo conto che ho detto tantissimo senza dire niente. È un argomento così importante, ricco, ancora troppo taciuto che si potrebbe parlarne per ore ore ore e continuare, perché c'è davvero troppo dietro tutto ciò. E nonostante siamo "fortunate" a vivere in paesi che consideriamo sviluppati abbiamo davvero ancora tanta strada da fare, come se valessimo meno e non meritassimo tempo da spendere. Senza contare le donne che vivono in povertà, in condizioni igieniche disastrose, che vivono in luoghi dove diventano impure quando hanno le mestruazioni e vengono emarginate in quel periodo. Un libro che stra-consiglio perché, sia che siate donne sia che siate uomini sia che siate giovani vecchi non importa, questo libro merita di essere letto, sperando di aprire qualche mente o semplicemente di dare informazioni importanti che non si conoscevano precedentemente; sperando di creare discussioni e portare alla luce tante storie diverse (poiché nessuna vive il ciclo allo stesso modo); sperando che un giorno tutto questo sia sorpassato e il ciclo mestruale sia qualcosa di sdoganato, di cui parlare alla luce del sole e che nessuna debba soffrire solo perché così è sempre stato. from Blogger http://bit.ly/2HCiG84 via IFTTT
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Maurizio Montalti lecture
Maurizio Montalti (Officine Corpuscoli) lecture - February 10th, 2017
ENG
Designer, researcher and creative explorer Maurizio Montalti will join digifabTURINg for the physical development of Bio Ex-Machina, a collaborative research project exploring possibilities for interweaving digital and biological computation through the use of robotics and 3D printing technologies. As part of his residency, Maurizio Montalti will present his work and research outcomes in a public lecture on February 10th, 18.30 pm at Toolbox Coworking.
The event is framed inside Project AARM, winner of the Bando Ora!, funded by Compagnia di San Paolo.
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Maurizio Montalti is a designer concerned with a thorough, trans-disciplinary, research-based practice, whose work addresses social and environmental challenges. Using design and art as tools to investigate and reflect upon contemporary culture, he seeks to create novel opportunities for the creative industry by engaging design in a multidisciplinary creative process. He often actively collaborates with professionals from other disciplines in a co-creative process, to arrive at thought-provoking solutions and design outcomes. His work spans across various mediums, previously exploring themes in relation to biotechnology, anthropology, bio-diversity and the impact of novel technologies.
Bio Ex-Machina - Biological meets Digital Computing & Robotics - is a collaborative research project exploring possibilities for interweaving digital and biological computation through the use of technological means and allowing to identify new tools and strategies, releasing more freedom in the definition of complex structures, as part of the design process. The project is rooted in a trans-disciplinary, research-based collaboration, and it relies on the expertise of a wide array of professional belonging to different fields of action (e.g. biology, computational design, robotics, etc.)
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ITA
Maurizio Montalti, designer, ricercatore ed esploratore creativo, sarà ospite di digifabTURINg per lo sviluppo di Bio Ex-Machina, progetto di ricerca collaborativo orientato all’esplorazione delle intersezioni tra computazione digitale e biologica attraverso strumenti che accostano la robotica alla stampa 3D. Durante la sua permanenza, Maurizio Montalti presenterà i suoi lavori e i risultati della sua ricerca in una lecture aperta al pubblico, mercoledì 10 febbraio alle ore 18:30 presso Toolbox Coworking.
Questo evento è parte del Progetto AARM, vincitore del Bando Ora!, promosso dalla Compagnia di San Paolo.
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Maurizio Montalti è un designer impegnato in una pratica professionale rigorosa, transdisciplinare e fondata su metodi di ricerca, orientata a raccogliere sfide di natura sociale e ambientale. Utilizzando arte e design come strumenti di indagine e riflessione sulla cultura contemporanea, Maurizio Montalti promuove lo sviluppo di nuove opportunità all’interno dell’industria creativa attraverso un approccio al design creativo e multidisciplinare. Collabora con professionisti di altre discipline per innescare lo sviluppo di soluzioni laterali e inaspettate, stimolando un approccio co-creativo al progetto. Il suo lavoro abbraccia diversi ambiti, investigando temi legati a biotecnologia, antropologia, biodiversità e tecnologie innovative.
Bio Ex-Machina - Biological meets Digital Computing & Robotics - è un progetto di ricerca collaborativo orientato all’esplorazione delle intersezioni tra computazione digitale e biologica attraverso la tecnologia, e all’identificazione di nuovi strumenti e strategie che, in quanto parte del processo progettuale, aumentano la libertà nella definizione di strutture complesse.
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Collaudi
“Si scrive la storia, ma la si è sempre scritta dal punto di vista dei sedentari, e in nome di un apparato unitario di Stato, almeno possibile anche quando si parlava di nomadi. Ciò che manca è una nomadologia, il contrario di una storia.”
G.Delueze e F. Guattari, 1980, Mille Piani, p.59
Domenica scorsa ho effettuato gli ultimi collaudi. Intorno alle 3 del pomeriggio la luce era perfetta. Le traiettorie lontane del sole creavano quei tipici giochi di ombre che si possono catturare solo in questo periodo dell’anno. Forse il Nokia 800 tough non è lo strumento ideale per un loro studio accurato. Il monitor è poco luminoso e, in certe condizioni di luce, la composizione può solo essere immaginata. Nonostante ciò, le linee sbagliate della foto qui sopra mi hanno offerto degli spunti interessanti per la riflessione. Lo scatto infatti ha seguito un solo taglio, dimenticandosi di tutto il resto. C’è un’impercettibile diagonale che dà stabilità a un chiaroscuro su cui sembra proiettarsi la bicicletta, come risvegliandola e rendendola pronta per il prossimo sforzo. Questa linea che fa emergere Angela, simultaneamente, annulla le potenzialità paesaggistiche, le distorce ed appiattisce fino a renderle impotenti o sconclusionate. Vorrei allora partire dall’errore che sostiene questo scatto per sviluppare un’idea di anti-estetica su cui fondare il viaggio ormai prossimo.
Trascorrere molte ore in sella ad una bicicletta rappresenta la possibilità culmine di un sapere non misurabile centrato sul muoversi. Come scrive Ingold: “Colui che cammina acquisisce la conoscenza nell’avanzare. Mentre procede per la propria strada, la sua vita scorre: invecchia e diventa più saggio.” Dedicarsi solo al cammino per lunghe ore della giornata dà quindi la possibiiltà di entrare nella coscienza di questo movimento incessante. Ma il percorso è scandito anche da solidificazioni e da identità in cui si rischia di appiattire la coscienza sul suolo calpestato perdendo la profondità di campo esattamente come descritto nella foto di sopra. La base dello sforzo conoscitivo del camminare riguarda invece il riconoscere, passo dopo passo, come gli errori si agrappano alle linee tracciate e scovare di lì quelle linee prospetticamente sbagliate insieme a quelle che producono una coerenza solo relativa. Nella mia parziale esperienza ho trovato due regole per riuscire a farlo. La prima è che nello scorrere, non deve esserci ambizione ma semplice svolgersi. La seconda è che non c’è crescita, per esempio spirituale, ma solo coscienza del movimento. In questo senso il viaggio in bicicletta sarà una nomadologia e non una storia. Tenendo ferme queste considerazioni vorrei allora proporre alcuni pensieri aggiuntivi sulla nozione di invecchiamento o di conoscenza che si accumula avanzando.
Sviluppare qualche idea su questo tema mi sembra quasi necessario visto che nei mondi prodotti dalla pandemia si stanno palesando divergenze generazionali che frammentano il corpo sociale dentro percorsi di isolamento segmentari che, fino a poco tempo fa, erano soprattutto taciuti o non così evidenti. Cosa voglia dire prendere le distanze dai “vecchi” mi pare invece un tema perfetto per una nomadologia che si nutre della produzione del desiderio. Nel corso degli anni ho osservato l’invecchiamento come un fenomeno tanto biologico quanto sociologico ed ho poi reso “l’anziano” la base metodologica dei miei tentativi etnografici di diverse parti del mondo. Da ventenne ero solito interrogare gli anziani sulle origini e sul cambiamento. Chiedevo loro di raccontarmi storie fondative dei luoghi in cui mi trovavo e attraverso le loro parole raccoglievo le memorie di epoche passate per costruire griglie interpretative del presente. Mettevo assieme racconti orali che mischiavano miti e nostalgia, eventi storicizzabili e testimonianze e li usavo per descrivere e spiegare certe concezioni sull’attulità socio-politica, tanto “della nazione” quanto “del quartiere o della città”. I miei personali percorsi di comprensione di luoghi cosiddetti “senza storia” o raccontati solo oralmente come alcuni villaggi chiapanechi o una cittadina nepalese o una favela colombiana si fondavano soprattutto sul “racconto degli ancestri” e sul loro accompagnamento quotidiano.
Successivamente, questo sforzo è mutato. Durante una fase più breve ma ugualmente importante, mi sono concentrato sulla raccolta delle storie dell’attualità, studiando “l’infosfera” che prendeva forma con il progressivo affermarsi delle reti sociali e della loro influenza sulle soggettività, in luoghi costruiti sui bordi dei grandi processi della storia e delle macro-narrazioni sul mondo. In Colombia, ho per esempio seguito la nascita di alcuni movimenti di opinione contro la corruzione e per la pace su twitter e facebook partecipando poi agli eventi sulle strade che venivano organizzati. In questi casi fu facile osservare la divergenza generazionale e di classe sia delle forme di partecipazione sia di quelle di lotta. La digitilizzazione delle proteste aveva però anche reso lontane le voci ancestrali. Il loro racconto era improvvisamente invecchiato, ottimo per venire raccolto dentro un libro di antropologia culturale, letto forse da una nicchia ristretta di intellettuali, ma pur sempre archivio di un mondo ormai troppo marginale, destinato a mutarsi radicalmente nello scorrere dei tempi. Rispetto al primo momento di analisi si palesò quindi un contrasto marcato tra la modernità digitale e il romanticismo nostalgico dei piedi e della parola a voce (per citare indirettamente Lowy di “Rivolta e Malinconia”). L’inattualità del “racconto degli ancestri” trovava uno svolgersi solo dentro la più generale richiesta di riconoscimento etnico. Qui quel racconto veniva culturalizzato e reso quasi folclorico così da farne fonte utile del diritto etnico che istituzionalizzava le lotte per le terre o per la casa. Il cimarronaje, il movimento delle autonomie africane, diventava quindi un ricordo del passato. Il sogno di una rottura radicale con il colonialismo e con lo schiavismo veniva ricomposto. Le sue forme di lotta, le cosidette “vie di fatto” come l’occupazione di terre o i blocchi stradali, erano ormai chiamate “vecchia scuola”, storia passata che doveva fare spazio alle nuove lotte digitalizzabili da dirigere ad un pubblico più ampio e soprattutto più giovane.
Prendendo spunto da questa anzianità delle forme di lotta, in ultimo ho osservato proprio l'invecchiamento delle idee, come se posizioni politiche e forme di militanza possedessero un loro svolgersi biologico che va via via modificandosi non tanto per la mutazione dei contesti o delle ragioni delle lotte, ma perchè a cambiare sono le persone stesse che “invecchiando” ripensano e reinterpetano contesti e ragioni, producendo cammini meno includenti: di imborghesimento per alcuni o di ricerca di stabilità e di coerenza per altri. Per qualche tempo, sempre in Colombia, seguii le gesta di un leader popolare del movimento afro, da giovane vicino ai cosidetti raizales, tra i più radicali e per certi versi anarchici tra gli attivisti afro-colombiani. La sua personale storia politica era articolata intorno a relazioni di amore ed odio con la guerriglia che più aveva inteso la questione etnica nel pacifico colombiano, l’ELN. Le sue lotte giovanili e le sue occupazioni di terre contro i padroni bianchi lo avevano reso comunque molto popolare tanto da permettergli poi, in età adulta, di diventare un personaggio richiesto anche dalle ammnistrazioni pubbliche nazionali per veicolare progetti di pace dove un tempo conquistava terre ottenendone diritti di proprietà comunitari. La sua burocratizzazione gli aveva però fatto perdere seguito in un percorso condiviso con molti altri leader che una volta al potere assumevano una prospettiva governativa diventando “riformisti” ma rendendo le loro parole improvvisamente vuote, per dirla con Lacan, alle orecchie dei più giovani o della base. C’era quindi un nuovo piano conflittuale che interesecava le generazioni e che non riguardava più le forme delle lotte ma le modalità della rappresentanza. Ciò riguardava soprattutto la solidificazione di percorsi identitari che risultarono utili a monetizzare e a sostenersi economicamente ma che alla lunga produssero fenomeni di appiattimento su linee prospettiche troppo relative, proprio come quella della foto, producendo impotenza invece che un migliore dispiegamento delle forze in campo.
Da quando vivo in Laos, dove per le strade e tra le case sventolano con grande dignità le bandiere comuniste, ho aggiunto un altro piccolo tassello alla comprensione della vita biologica delle idee. Cosa significano infatti la falce e il martello oggi? Il comunismo laotiano è un capitalismo di Stato misto alle spinte locali a trazione familistica. Non sembra produrre alcuna visione alternativa del mondo, ma articola un’organizzazione delle forze e delle risorse che aspira, secondo i suoi detrattori, a predare le ricchezze del paese mentre, per i suoi sostenitori, a creare crescita economica. Da un punto di vista più prettamente antropologico però, le generazioni nate in epoca di pace vivono dentro un generale oblio del passato rivoluzionario del loro paese. Una delle ragioni è che questo passato non fu di festa e liberazione, ma riguarda anni di traumi prolungati spesso vissuti dentro caverne usate per proteggersi dai bombardamenti. Oggi capita che molti vocaboli associabili al periodo guerrigliero siano entrati dentro un gergo militare che ai più giovani ricorda rapporti di potere invece che la liberazione coloniale. In parte ciò è dovuto proprio alla mancanza del “racconto degli ancestri” molti dei quali sono deceduti durante la guerra o pochi anni dopo, durante la carestia che ne seguì. Oggi a sostituirlo, ci pensano gli apparati connettivi digitali. Esiste cioè una vuoto pedagogico nel quotidiano solo parzialmente e, a volte goffamente, riempito dalla propaganda del Partito. In estrema sintesi, le nuove generazioni sono affidate ad istituti educativi, agli smartphone e sempre meno ai loro nonni. Tutto ciò si è innestato sui processi di modernizzazione che come in altri luoghi del mondo hanno prodotto un senso di rapido cambiamento sostenuto non tanto da un generale accrescimento del benessere ma dall’esperienza di paesaggi che mutano nel corso di pochi anni. Ecco mi piacerebbe raccontare questa velocità dei paesaggi nel viaggio che inizierà presto.
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