#amo il pane forse più della pizza
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capitemi se quando devo comprare il pane bolognese mi viene un colpo al cuore
ho una foto di me da bimba che addento una pagnotta di pane pugliese più grande di me
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“Dovresti scrivere, a letto, sfruttando la tua infelicità”: le lettere d’amore tra Saul Bellow e la fantomatica Bette Howland, il genio dimenticato
In alcune fotografie è decisamente interessante. Si erano conosciuti nel 1961, entrambi di Chicago. Lei aveva 24 anni, si era sposata troppo presto, con un biologo, aveva due figli, si era già separata, un talento le dava tormento. Il marpione di genio era più grande di 22 anni, aveva già pubblicato un libro di culto – Le avventure di Augie March –, un libro meraviglioso – Henderson the Rain King. Stava scrivendo il più celebre, Herzog. Quindici anni dopo, avrebbe accolto con il consueto sorriso sornione il Nobel per la letteratura. All’epoca aveva divorziato dalla seconda moglie, stava sposando la terza – ne avrebbe collezionate cinque. Incalcolabili le amanti.
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Bette Howland all’epoca del suo incontro con Saul Bellow. Si frequentano come amanti dal 1961 al 1968, per il resto della vita come amici
Il 17 dicembre del 2017 Neil Genzlinger firma sul “New York Times” il ‘coccodrillo’ della donna che negli anni Sessanta era decisamente interessante – perfino bella, di quel fascino oscuro che è il marchio di una intelligenza anomala. L’incipit è da scuola di giornalismo. “Scrisse tre libri, piuttosto apprezzati negli anni Settanta e nei primi Ottanta, salvo svanire dalla scena letteraria ed essere riscoperta di recente – è morta a Tulsa, Okla. Aveva 80 anni. Il figlio Jacob, che ne ha confermato il decesso, ha raccontato della sua sclerosi multipla e della demenza senile. Nel 2014 aveva avuto un grave incidente: un camion l’aveva investita mentre tornava a casa, dopo aver fatto la spesa”. Piuttosto, è il titolo a essere malizia e ghigliottina. “Bette Howland, scrittrice e ‘protetta’ di Saul Bellow, è morta a 80 anni”. Il fatto di essere una ‘protetta’, in qualche modo, ne squalifica il talento, lo pone sotto i tacchi del mentore. Ma non è così.
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In effetti: tra il 1967 e il 1983 Bette Howland, carattere estremo, intricato nel pudore, pubblica quattro libri. L’ultimo, Things to Come and Go, edito da Knopf. Poi scompare. Volutamente. Nel 1978 ottiene un Guggenheim Fellow, nel 1984 un McArthur Fellows. Si dice, per intercessione di Bellow. Come scrive Rachel Shteir su “Tablet”, la Howland voleva “uscire dall’ombra di Saul Bellow”. Ora è in atto un recupero della sua opera, celata troppo a lungo: A Public Space pubblica, postumo, Calm Sea and Prosperous Voyage, “torna nel canone una scrittrice straordinaria, che fu riconosciuta come uno dei grandi talenti degli anni Ottanta, prima di sparire dalla scena letteraria per decenni”. La storia della Howland è diventata un ‘caso’, di cui oltreoceano stanno scrivendo tutti.
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Il 30 marzo 1990 Saul Bellow invia una cartolina a Bette. “Sappiamo seguirci, l’un l’altro, perfettamente, con le parole. Penso che sia questo l’amore tra gli scrittori. Piuttosto, è l’amore – punto”. La ‘storia’ non tanto letteraria ma letterale tra i due si consuma in un grumo d’anni: nel 1968 il Grande Scrittore molla la Protetta. E lei va fuori di testa, tentando il suicidio. Con ironia cabbalistica, nel luglio di quel ’68, Bellow le scrive: “Riguardo alla scrittura (la tua scrittura!) penso che dovresti scrivere, a letto, sfruttando la tua infelicità. Lo faccio anche io. Lo fanno in molti. Uno dovrebbe cucinare e divorare la propria miseria. Incatenarla come fosse un cane. Sfruttarla come le cascate del Niagara per generare luce e dare tensione alle sedie elettriche”.
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Finita la storia, lei pretese l’amicizia: “Non sai chi sono se pensi che mi attenda da te il ‘ti amo’… Non sono solo ferita come donna, ma come collega, come alleata. Questa è la particolare qualità dello smarrimento e dell’indignazione in cui ti chiedo di relegarmi mentre mi archivi. Avevo sperato in una reale amicizia, un’amicizia per tutta la vita”. Se la concessero, l’amicizia. L’11 settembre del 1978 lei gli confessa la propria estraneità al tempo, al mondo: “Come diceva mia nonna – usando un’espressione yiddish – non so dove mettermi. Penso sia una vecchia storia: uno scrittore non ha mai un posto dove stare, dove mettersi”. L’11 luglio del 1984, mentre il matrimonio con la quarta moglie, la matematica rumena Alexandra Ionescu Tulcea, sta andando al macero – la tipa, per altro, vent’anni più giovane di Saul, patriarca del romanzo americano, aveva un divorzio alle spalle e dopo Bellow impalmò un collega argentino di chiara fama, Alberto Calderón – Bellow frigna scrivendo all’amica. “Vorrei sentirti. Sono giorni difficili e intricati. Mi sento come un telescopio situato al circolo polare artico. Posso vedere i fuochi celesti, ma non c’è alcun conforto, almeno immediato. Perché non mi scrivi una lettera, qualcosa di umano?”.
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La storia nella storia è quella di Jacob Howland, professore di filosofia alla University of Tulsa, autore, per la Cambridge University Press, di libri di peso (Plato and the Talmud e Kierkegaard and Socrates: A Study in Philosophy and Faith), che scava nella storia della madre, Bette. “Mia madre aveva le ali – ma non era leggera. Ha creato nidi accoglienti in luoghi isolati. Ha riempito le nostre case di pane fatto in casa, yogurt, zuppa di barbabietole e quaderni, innumerevoli quaderni… ardore e vocazione erano le parole predilette da mia madre”. Nell’articolo pubblicato sulla “Jewish Review of Books”, Love Between Writers: Saul Bellow and Bette Howland, torna al legame – evidentemente ineludibile – tra la Howland e Bellow, rivelando altri fogli rispetto a quelli denunciati cinque anni fa, su “Commentary” (Chicago Love Letters: Bellow and Bette). Da un lato, il desiderio di scindere la madre da un maestro così ingombrante; dall’altro, la necessità di ancorare l’opera di lei a una ‘tradizione’.
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Saul Bellow divorava la vita – scopandola, eventualmente. La Howland preferiva ritrarsi. Attorno a questi due atteggiamenti – mordere o tagliarsi la lingua – oscilla il genio della letteratura americana, tra la totale esposizione e l’assoluta, assurda sparizione. Già il 4 dicembre 2015, A.N. Devers, su “Literary Hub”, firmava un articolo a suon di pugni, Bette Howland: The Tale of a Forgotten Genius. Lei lo soffriva, è ovvio. Il 17 aprile 1978 lui le scrive: “il tuo sarà un successo a crescita lenta, come il mio. Per 15 anni nessuno mi ha dato attenzione… Per un po’ sarai sul lato polveroso della strada”. Il 26 giugno lei gli risponde. “Molti muoiono nel lato polveroso della strada. Io ho avuto la tua amicizia costante, ho il tuo incoraggiamento e il tuo esempio. Credimi, non ho paura di niente. Non mi perderò. Non hai scommesso su un cavallo perdente”. L’anno dopo, 2 agosto 1979, “Se non ce la fai come scrittore sei niente. Niente vita. Neanche una personalità”. L’amico amato, amante, aveva conquistato il Nobel nel 1976, sta lavorando a The Dean’s December.
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A volta l’ombra non è un giogo ma un riparo, ed è un privilegio spezzare l’amore con un genio. Gli scrittori non sono fedeli soltanto alla propria voce – falda che si dissecca dopo il primo libro, quello che raccoglie ‘ciò che avevo da dire’. Soprattutto, sono fedeli alla voce dei maestri, al loro incubo. Per quanto la parola ‘protetto’ ci schifi, cerchiamo la protezione: una protezione che addestri all’incanto, allo scatenato. Il ‘protetto’ è il prescelto, l’addestramento non è insopportabile, la libertà si misura in aquile. (d.b.)
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28 ottobre 1982
Cara Bette,
non voglio dirti di no. D’altronde sei uno di miei protégés, il più strano, a conti fatti, e l’ufficio del protettore, non puoi negarlo, lo ho sempre assolto piuttosto bene. Ai miei tempi, ero un protégé anche io, so quanto sia amaro il ruolo. Ma abbandoniamo le parole astratte e veniamo ai fatti. Ci sono protégés e protégés. Faccio un esempio recente: farti entrare al Ragdale Residence (o come si chiama) mi ha arrecato dei problemi. Sei stata in periferia per diversi mesi, mentre io ero in città. Mi hai telefonato una volta per dirmi che eri nei dintorni e che mi avresti dato notizie. Che tu fossi in giro è certo, perché ho incontrato la tizia della Fondazione (come si chiama?) e mi ha detto che stavi lavorando. Perché non mi hai permesso di offrirti un hamburger o una pizza al ‘Medici’? E perché mi invii il commento di Frank su Il dicembre del professor Corde ma ti astieni dal dirmi qualcosa intorno a quel libro? Mi sembra che tu stia giocando con la corda che tiene la lama della ghigliottina. Non sono preoccupato per il mio collo, ovvio, è pesantemente corazzato, ma penso che se tu riesci a muoverti in modo così disinteressato, puoi capire il modo in cui giudico il tuo comportamento. Ho letto il tuo pezzo su Commentary, ovviamente mi è piaciuto, ma non trovo il motivo per cui dovrei dirtelo. Sapevi bene che mi sarebbe piaciuto, mi hai chiesto un commento per avere la tua bella ciliegia nel maraschino.
Ma forse è solo il tuo particolare senso del tempo. Ogni tanto, fai apparire Proust come un bastone nella melma. Dimori in una specie di sfera immaginaria, dove io e te non subiamo cambiamenti, e hai la perfetta sicurezza che quando ci incontreremo (tra dieci anni, magari) saremo esattamente come l’ultima volta. Non accadrà, te lo assicuro.
Bene, all’inferno le tue irritanti idiosincrasie. Se mi invii il tuo manoscritto, lo leggerò. Non titolarlo The Life You Gave Me né Things to Come and Go. Sono titoli schifosi entrambi.
Distintamente,
Saul
*Nota: per dire dell’adorabile, inafferrabile Bette Howland. Nel 1983 Knopf pubblica il suo libro. titolo: “Things to Come and Go”. Nonostante il distinto, ‘annobeliato’ Saul.
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Devi sapere, cara Martha, che Josh era tanto bello quanto distruttivo, quasi letale, oserei dire. Sapevo da tempo che tra lui e Drew non scoresse buon sangue ma lo realizzai a pieno in un freddo pomeriggio di gennaio, a mie spese naturalmente.
Io e Drew eravamo sul tetto del Palma, come capitava puntualmente, tutti i pomeriggi, da almeno un paio di settimane. Eravamo entrambi appoggiati alla balaustra del vecchio locale abbandonato, parlavamo del più e del meno accompagnati da una bottiglia di un pessimo vino australiano e dal fumo di qualche canna che si mimetizzava con il vapore che usciva dalle nostre bocche, merito delle gelide temperature esterne.
Soli, avvolti nei nostri giubbotti troppo leggeri e un po' troppo allegri finimmo presto per imbatterci in uno dei nostri discorsi filosofici che sfociò in una domanda più che normale, considerando il nostro stato psicofisico: " Prima di rientrare in manicomio ci fermiamo a prendere una pizza? Poi, dopo cena, quando la Smith se ne va, la scaldiamo in camera mia, un film e un altro paio di queste" propose Andrew sventolando quel che rimaneva della nostra ultima canna.
"Per il film e l'erba ci sto ma per la pizza no, se no divento una polpetta umana" gli risposi tranquillamente aprendo le braccia, come a voler dimostrare che l'enorme giacca che indossavo non mi stava più così grande.
"Ma se sei uno scricciolo, ho visto pezzi di pane più pesanti di te"
"Ma se sono obesa" ribattei io troppo impegnata a fissare il mio giaccone, tutta presa nelle mie riflessioni, per accorgermi di un Drew parecchio arrabbiato che mi fissava.
"Piantala con ste stronzate Megan. Ma se sei talmente piccola che certe volte ho paura di romperti con una pacca sulla spalla"
"Invece è per questo che Josh non vuole che si sappia niente di noi due. Si vergogna di me, perché sono grassa, bassa, brutta e stupida." piagnucolai io, rendendo sempre più nervoso Drew che nel frattempo aveva iniziato a prendere a calci una vecchia bottiglia vuota.
Non ero nel pieno delle mie facoltà mentali quando Drew mi prese per le spalle e iniziò a scuotermi, urlando furioso tutto quello che fino ad allora mi aveva solo rifilato sotto forma di frecciatine.
"Megan, cazzo, svegliati. Gli occhi ce li hai solo perché sono di un colore carino o li usi anche? Non vedi che ti sta pigliando per il culo? Non gliene può fregar de meno di te. Ti usa allo stesso modo in cui potrebbe usare un buco nel materasso. L'unica differenza è che ogni tanto tu fai qualche versetto. Cristo, Meg, sei una fottuta truffatrice! Dovresti sapere come abbindolare la gente e invece ti fai infinocchiare da uno così." I suoi occhi fissi nei miei mi procuravano più dolore di quanto non avessero fatto le parole che erano appena uscite dalla sua bocca per posarsi su di me come violenti schiaffi.
"Ma lui..." balbettai io, cercando di giustificarlo, di non accettare quelle parole che in cuor mio sapevo vere.
"Ma lui cosa? Lui ti ama? Ma per piacere. Ama quello che hai tra le gambe, nient'altro."
Si girò di scatto e iniziò a incamminarsi verso l'entrata del locale.
Senza nemmeno lasciarmi il tempo di assimilare le parole che aveva appena pronunciato con talmente tanta rabbia e asprezza da farmi quasi paura, riprese a parlare, sta volta con tono più pacato, quasi dispiaciuto.
"Ah, Megan, Brooks non dice niente di voi perché se no nessuna andrebbe più a letto con lui. Sa che ti rispettano tutti troppo per farti una cosa del genere. La gente ti vuole bene, anche se tu ti accorgi solo di quel idiota capellone."
La sua mano si poggió sulla mia spalla, in un altro di quei gesti fraterni che avevo imparato ad apprezzare negli anni.
Dopo la litigata con Drew avevo bisogno di convincermi che Josh provasse anche un terzo di quello che io provavo per lui.
Quella sera ci trovammo, come molte altre sere prima di quella, nel corridoio sotterraneo dell'istituto, nascosti dietro alla colonna del montavivande.
Josh era palesemente ubriaco e io non ero molto più lucida di lui.
Un bacio leggero, sulle labbra, mi fece sospirare, uno umido sul collo mi mandó in black out il cervello e un' altro sulle labbra, meno casto e puro, fece tutto il resto.
****
Le sue mani si muovevano veloci lungo la mia schiena, per poi passare ai fianchi, al seno, alle natiche e finalmente a quel punto in mezzo alle gambe che non aspettava altro che lui. Presto le dita, umide del mio piacere, finirono per sfiorare la mia bocca che le accolse con piacere mentre la sua, di bocca, me ne procurava di altro.
Le mie mani vagavano dai suoi capelli a quel sedere tonico che si ritrovava, tutto per accorciare la distanza tra i nostri corpi.
Con un agile mossa che non ci credevo in grado di fare mi ritrovai in piedi, appoggiata alla colonna, mentre lui, con un gesto esperto, mi scioglieva i lunghi capelli che fino a poco prima erano imprigionati in una crocchia disordinata.
Una sua mano era ben fissa sulle mie natiche quando iniziò a pompare con tutta la forza che aveva in corpo, mentre con l'altra mi accarezzava per procurarmi ancora più piacere di quello che stavo provando in quel momento.
Proprio quando ero sul punto di esplodere lo sentii allontanarsi da me, solo per farmi sdraiare a terra e ricominciare quella piacevole tortura fatta di mani e di bocche.
***
Ci eravamo entrati sotto pelle l'un l'altro quando, stremati, ci ritrovammo seduti per terra, rivestiti e soddisfatti.
Nonostante lui fosse dietro di me, con le lunghe gambe avvolte intorno alle mie, riuscivo chiaramente a guardarlo in volto mentre fumava soddisfatto l'ultima sigaretta della giornata.
"Josh"
"Meg"
"Ti voglio bene"
"Anche io"
"Forse un po' ti amo"
"Forse anche io"
"Dillo bene, ti prego. Tanto domani mattina nessuno dei due si ricorderà nulla."
"Ti amo"
"Ancora"
"Eh?"
"Ripetilo"
"Ti amo"
"Ancora"
"Ti amo"
"Ancora"
"Ti amo"
"Dillo fino a quando non finisco la sigaretta"
Iniziò a tempestarmi di baci il collo, a ogni bacio corrispondeva un "ti amo" e un mio corrispondente colpo al cuore.
Sapevo che era una bugia, volevo solo sentire come suonasse detta dalle sue labbra.
Quella sera mi accompagnó in camera, approfittando dell'assenza di Kate per darmi un altro bacio a fior di labbra, con annesso un " ti amo" che non gli avevo chiesto.
Prima di chiudere la porta sussurró un leggero: "Tanto domani non se lo ricorderà nessuno dei due" per poi sparire, lasciandomi sola con la convinzione che il giorno dopo me lo sarei ricordata eccome.
E così fu.
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