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Non so perdonare. Né dimenticare.
Lettera scritta in risposta ad Alberto Jacoviello, inviato di «la Repubblica» e «L'Unità», che si scusava per averla offesa in passato.
Caro Jacoviello,
....chiedere scusa, come tu hai fatto, quando si ha torto, è sempre nobile. E non molti ne sono capaci, non molti ne hanno il coraggio. Però devo dirti ciò che dirò e, se non lo facessi, mentirei non solo a te ma a me stessa.
....Io non so perdonare. Né perdonare né dimenticare. È uno dei miei più grandi limiti forse, e il più lugubre. E meno che mai so perdonare quando una ferita mi è stata inferta da persone dalle quali mi aspettavo affetto, tenerezza, o sulle quali mi facevo illusioni positive. Ciò non significa, naturalmente, ch'io dichiari guerra o resti in guerra con coloro che mi hanno ferito, offeso. Significa che quelle persone le liquido. Le cancello dai miei pensieri, dalla mia vita. Se le incontro per strada le saluto, in alcuni casi ci scambio una parola, ma dentro di me è come se mi rivolgessi a un'ombra. Esse non esistono più.
.....In questi ultimi due anni, cioè da quando la morte e il dolore si sono abbattuti su di me indurendomi, ho liquidato più persone che in tutta la mia vita. Non v'è uomo o donna colpevole verso di me che non sia finito nella Siberia dei miei sentimenti.
Hai perfettamente ragione a chiudere la tua lettera dicendo che chi non sa perdonare condanna sé stesso alla solitudine. Però hai torto a ritenere che tale «condanna» sia per tutti insopportabile. E dimentichi il proverbio che dice: «Meglio soli che male accompagnati». Non sempre la solitudine è una prigione. A volte, per alcuni, è una conquista che difende da ulteriori ferite ed offese. Solo i deboli e i poveri di spirito hanno paura della solitudine e si annoiano a stare soli. Io non sono debole. Sono molto forte, e durissima ormai. Non sono neanche povera di spirito. Quindi non ho paura della solitudine.
Tutte le volte che ti ho visto mi hai raccontato antichi insulti scritti i pensati. E tutte le volte che ti ho visto è stato come ricevere una coltellata nel cuore. Mi ha colto una nausea che solo la mia capacità di controllo è riuscita a nascondere o a vestire con gli abiti dell'indignazione. È probabile che la tua coscienza si senta lavata dal fatto di avermi confessato quegli antichi insulti scritti o pensati. Ma io non credo che confessare un peccato equivalga a cancellare il peccato. Quel concetto cattolico, anzi cristiano, mi ha sempre inorridito. I peccati commessi restano peccati commessi e niente può cancellarli: né Dio, né il diavolo, né gli uomini, né una sfilata di pater e di ave-maria detti per penitenza. Ciò vale per me, per te, per l'umanità intera presente e passata. Ecco perché non riesco a perdonare. Non voglio.
Ciò è spietato? Sono tanto spietata con me stessa che non vedo perché dovrei essere dolce con gli altri. Il massimo ch'io possa consentirmi è rispondere in modo esteso a chi mi ha scritto in modo esteso. Spiegarmi a chi mi ha spiegato. Ed è molto. Tu sei l'unica persona fra le decine che ho liquidato, esiliato nella Siberia dei sentimenti, cui abbia detto no con una lettera e non col silenzio. Di solito oppongo un silenzio di pietra. Quello che seguirà a questa lettera.
E così farò, sempre, in tutte le circostanze della vita, con tutti coloro che tentano di impormi una prepotenza. E non cederò, mai. Mai. E guai a chi si permette o si è permesso o si permetterà di mettere in dubbio la mia onestà professionale e personale: che poi sono, ovvio, la medesima cosa.
Ora mi è più facile dirti addio.
Peccato. Ma addio.
Oriana Fallaci
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Foiba di Basovizza e Monrupino (Trieste) – Oggi monumenti nazionali. Diverse centinaia sono gli infoibati in esse precipitati.
Foiba di Scadaicina sulla strada di Fiume.
Foiba di Podubbo – Non è stato possibile, per difficoltà, il recupero. Il Piccolo del 5.12.1945 riferisce che coloro che si sono calati nella profondità di 190 metri, hanno individuato cinque corpi – tra cui quello di una donna completamente nuda – non identificabili a causa della decomposizione.
Foiba di Drenchia – Secondo Diego De Castro vi sarebbero cadaveri di donne, ragazze e partigiani dell’Osoppo.
Abisso di Semich – “…Un’ispezione del 1944 accertò che i partigiani di Tito, nel settembre precedente, avevano precipitato nell’abisso di Semich (presso Lanischie), profondo 190 metri, un centinaio di sventurati: soldati italiani e civili, uomini e donne, quasi tutti prima seviziati e ancor vivi. Impossibile sapere il numero di quelli che furono gettati a guerra finita, durante l’orrendo 1945 e dopo. Questa è stata fina delle tante Foibe carsiche trovate adatte, con approvazione dei superiori, dai cosiddetti tribunali popolari, per consumare varie nefandezze. La Foiba ingoiò indistintamente chiunque avesse sentimenti italiani, avesse sostenuto cariche o fosse semplicemente oggetto di sospetti e di rancori. Per giorni e giorni la gente aveva sentito urla strazianti provenire dall’abisso, le grida dei rimasti in vita, sia perché trattenuti dagli spuntoni di roccia, sia perché resi folli dalla disperazione. Prolungavano l’atroce agonia con sollievo dell’acqua stillante. Il prato conservò per mesi le impronte degli autocarri arrivati qua, grevi del loro carico umano, imbarcato senza ritorno…” (Testimonianza di Mons. Parentin – da La Voce Giuliana del 16.12.1980).
Foibe di Opicina, di Campagna e di Corgnale – “Vennero infoibate circa duecento persone e tra queste figurano una donna ed un bambino, rei di essere moglie e figlio di un carabiniere …” (G. Holzer 1946).
Foibe di Sesana e Orle – Nel 1946 sono stati recuperati corpi infoibati.
Foiba di Casserova sulla strada di Fiume, tra Obrovo e Golazzo. Ci sono stati precipitati tedeschi, uomini e donne italiani, sloveni, molti ancora vivi, poi, dopo aver gettato benzina e bombe a mano, l’imboccatura veniva fatta saltare. Difficilissimi i recuperi.
Abisso di Semez – Il 7 maggio 1944 vengono individuati resti umani corrispondenti a ottanta – cento persone. Nel 1945 fu ancora “usato”.
Foiba di Gropada – Sono recuperate cinque salme. “Il 12 maggio 1945 furono fatte precipitare nel bosco di Gropada trentaquattro persone, previa svestizione e colpo di rivoltella “alla nuca”. Tra le ultime: Dora Ciok, Rodolfo Zuliani, Alberto Marega, Angelo Bisazzi, Luigi Zerial e Domenico Mari”.
Foiba di Vifia Orizi – Nel mese di maggio del 1945, gli abitanti del circondario videro lunghe file di prigionieri, alcuni dei quali recitavano il Padre Nostro, scortati da partigiani armati di mitra, essere condotte verso la voragine. Le testimonianze sono concordi nell’indicare in circa duecento i prigionieri eliminati.
Foiba di Cernovizza (Pisino) – Secondo voci degli abitanti del circondario le vittime sarebbero un centinaio. L’imboccatura della Foiba, nell’autunno del 1945, è stata fatta franare.
Foiba di Obrovo (Fiume) – È luogo di sepoltura di tanti fiumani, deportati senza ritorno.
Foiba di Raspo – Usata come luogo di genocidio di italiani sia nel 1943 che nel 1945. Imprecisato il numero delle vittime.
Foiba di Brestovizza – Così narra la vicenda di una infoibata il “Giornale di Trieste” in data 14.08.1947. “Gli assassini l’avevano brutalmente malmenata, spezzandole le braccia prima di scaraventarla viva nella Foiba. Per tre giorni, dicono i contadini, si sono sentite le urla della misera che giaceva ferita, in preda al terrore, sul fondo della grotta.”
Foiba di Zavni (Foresta di Tarnova) – Luogo di martirio dei carabinieri di Gorizia e di altre centinaia di sloveni oppositori del regime di Tito.
Foiba di Gargaro o Podgomila (Gorizia) – Vi furono gettate circa ottanta persone.
Capodistria – Le Foibe – Dichiarazioni rese da Leander Cunja, responsabile della Commissione di indagine sulle Foibe del capodistriano, nominata dal Consiglio esecutivo dell’Assemblea comunale di Capodistria: “Nel capodistriano vi sono centosedici cavità, delle ottantuno cavità con entrata verticale abbiamo verificato che diciannove contenevano resti umani. Da dieci cavità sono stati tratti cinquantacinque corpi umani che sono stati inviati all’Istituto di medicina legale di Lubiana. Nella zona si dice che sono finiti in Foiba, provenienti dalla zona di S. Servolo, circa centoventi persone di etnia italiana e slovena, tra cui il parroco di S. Servolo, Placido Sansi. I civili infoibati provenivano dalla terra di S. Dorligo della Valle. I capodistriani, infatti, venivano condotti, per essere deportati ed uccisi, nell’interno, verso Pinguente. Le Foibe del capodistriano sono state usate nel dopoguerra come discariche di varie industrie, tra le quali un salumificio della zona”.
Foiba di Vines – Recuperate dal Maresciallo Harzarich dal 16.10.1943 al 25.10.1943 cinquantuno salme riconosciute. In questa Foiba, sul cui fondo scorre dell’acqua, gli assassinati dopo essere stati torturati, finirono precipitati con una pietra legata con un filo di ferro alle mani. Furono poi lanciate delle bombe a mano nell’interno. Unico superstite, Giovanni Radeticchio, ha raccontato il fatto.
Cava di Bauxite di Gallignana – Recuperate dal 31 novembre 1943 all’8 dicembre 1943 ventitré salme di cui sei riconosciute. Don Angelo Tarticchio nato nel 1907 a Gallesano d’Istria, parroco di Villa di Rovigno. Il 16 settembre 1943 – aveva trentasei anni – fu arrestato dai partigiani comunisti, malmenato ed ingiuriato insieme ad altri trenta dei suoi parrocchiani, e, dopo orribili sevizie, fu buttato nella foiba di Gallignana. Quando fu riesumato lo trovarono completamente nudo, con una corona di spine conficcata sulla testa, i genitali tagliati e messi in bocca.
Foiba di Terli – Recuperate nel novembre del 1943 ventiquattro salme, riconosciute.
Foiba di Treghelizza – Recuperate nel novembre del 1943 due salme, riconosciute.
Foiba di Pucicchi – Recuperate nel novembre del 1943 undici salme di cui quattro riconosciute.
Foiba di Surani – Recuperate nel novembre del 1943 ventisei salme di cui ventuno riconosciute.
Foiba di Cregli – Recuperate nel dicembre del 1943 otto salme, riconosciute.
Foiba di Cernizza – Recuperate nel dicembre del 1943 due salme, riconosciute.
Foiba di Vescovado – Scoperte sei salme di cui una identificata.
Altre foibe da cui non fu possibile eseguire recupero nel periodo 1943 – 1945: Semi – Jurani – Gimino – Barbana – Abisso Bertarelli – Rozzo – Iadruichi.
Foiba di Cocevie a 70 chilometri a sud-ovest da Lubiana
Foiba di San Salvaro
Foiba Bertarelli (Pinguente) – Qui gli abitanti vedevano ogni sera passare colonne di prigionieri ma non ne vedevano mai il ritorno.
Foiba di Gropada
Foiba di San Lorenzo di Basovizza
Foiba di Odolina – Vicino Bacia, sulla strada per Matteria, nel fondo dei Marenzi.
Foiba di Beca – Nei pressi di Cosina.
Foibe di Castelnuovo d’Istria – “Sono state poi riadoperate – continua il rapporto del CLN – le foibe istriane, già usate nell’ottobre del 1943”.
Cava di bauxite di Lindaro
Foiba di Sepec (Rozzo)
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Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all'angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il 15 sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
del letto,
delle auto bianche,
della guancia,
del petto.
Beatrice Zerbini
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Conoscere l'amore
“Che cos'è l'amor
Chiedilo al vento
Che sferza il suo lamento sulla ghiaia
Del viale del tramonto […]”
Mi sono domandato spesso cos’è l’amore, in realtà me lo sto chiedendo ancora e credo che me lo domanderò finché vivrò. Ho avuto molte risposte dalla vita fino a oggi. Alcune evasive, altre discutibili, però molte sono state chiare e ben definite. Ora. Escludendo l’amore nelle sue molteplici forme che variano da quelle per dei figli, a quello per i genitori, alla passione, alla idolatria o alla devozione mi sono sempre chiesto cos’è l’amore tra persone che si seducono. Quello che attrae due persone donandosi reciproca felicità mentale, fisica e appagamento sessuale.
Credo che non ci sia una definizione indiscutibile per definire l’amore, a meno che non ci addentriamo nell’aspetto scientifico.
<In questo caso il nostro cervello produce chimicamente dopamina e noradrenalina. Il cuore batte più forte, il benessere interiore aumenta e la felicità anche>. Se avete letto questa definizione con la voce di Alberto Angela o Barbara Gallavotti, a seconda di chi vi garba, sappiate che siete delle belle persone.
Ma se dovessimo dare una spiegazione non razionale, beh, qui si potrebbe scrivere tantissimo.
E allora proviamo a immaginare dove si trova e com’è fatto l’amore che fa palpitare il cuore, in cosa si cela il sentimento che fa vibrare le anime.
L’amore può ambientarsi in una stazione dei treni, in un incontro rubato ai mille impegni della quotidianità, un incontro veloce dove il tempo è tiranno. Lo vedi negli occhi che si cercano tra la folla, le dita delle mani che finalmente si intrecciano per la prima volta e quell’ansito affannato di chi sospira profondamente per l’emozione.
L’amore può avere i tratti somatici di un viso, ovvio direte, ma potrebbe essere quello di una persona incrociata tanto tempo fa per le strade del proprio quartiere più e più volte. Fino ad ammirare quella persona e immaginare di poterle parlare, sorriderle e finanche baciarla. Pensare di poter far parte della sua vita. Senza averne mai avuto il coraggio. Ancora oggi il ricordo rimane. Perché se l’amore ha un volto, si tratta proprio di quel viso tanto sospirato.
L’amore può trovarsi in viaggio su una strada. Fatta di chilometri, non importa quanti, percorsi per arrivare da quella persona. Poco interessa se non tutte le strade sono percorribili a velocità sostenuta, se siano sconnesse o interrotte. Non si guardano i chilometri percorsi sul contachilometri ma l’orologio, quello sì, per calcolare quanto tempo si stia perdendo. Invece di trascorrerlo tra le braccia desiderate.
L’amore può essere pungente come il freddo di una mattina di gennaio, una di quelle con la brina sui prati. Mentre il vapore che esce dalle bocche sembra prendere forme romantiche, dando vita a fisionomie dolci che accarezzano le anime di chi si sta incontrando. Tutto questo dopo aver preso il coraggio di incontrarsi.
L’amore può avere una voce melodiosa. Quella di un soprano per esempio. Una voce di un’estensione magnifica che viene accompagnata da due occhi profondi, un sorriso da incorniciare, un cuore generoso. Un’anima eccelsa. Tutte coreografie degne della meravigliosa opera, creata da Madre natura, che si para dinnanzi ai nostri occhi. Estasi ed emozioni profonde.
L’amore può risiedere in una mente. Nelle confidenze, nelle parole e nei concetti creati dalla materia cerebrale di una persona. Un labirinto, come i vicoli di un centro storico, dov’è facile perdersi e dove non si proverà mai a cercare una via d’uscita. Perché ci si sta bene tra quei pensieri, dove in quelle riflessioni e nell’immaginazione si trova riparo. Un intelletto nei confronti del quale non si percepisce il tempo, perché esso rimane sospeso.
L’amore può trovarsi in svariati posti diversi tra loro. Luoghi che possono spaziare dalle biblioteche a delle colline, da una spiaggia marina a un museo, da un caffè del centro cittadino a uno sperduto castello medievale. Perché in quei luoghi ci arriva grazie a dei cuori generosi e pulsanti che lo ospitano trasportandolo.
Per ultimo, ma non meno importante, per me l’amore più potente risiede negli occhi di chi ha sofferto per amore e ti chiedono di non infierire, li noti nella moltitudine tra tanti occhi. Sono occhi che “gridano” nonostante il silenzio della luce spenta in essi. E se si riuscisse a riaccendere quella luce, chiunque resterebbe abbagliato. Ma l’amore sta anche in quel sorriso appena accennato, perché teme di illudersi di nuovo e che in pochi sanno percepire. Oppure nella voce di chi ti fa capire che vorrebbe volare in alto per non stare più sul fondo, ma con quella tremenda paura di cadere di nuovo.
“Ahi, permette signorina
Sono il re della cantina
Vampiro nella vigna
Sottrattor nella cucina […]”
Immagine: Diana spezza l’arco di Cupido (perché a un certo punto anche basta, con quella mira quel nanerottolo ha rotto gli zebedei) - dipinto di Pompeo Girolamo Batoni (1761)
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Ogni volta che suonano alla porta, sei tu che non suoni; le lettere: tu che non le hai scritte e datate, sei tu la firma, la forma di un altro nome; sei tu che non aspetti al palo, non qui sotto, non alla fine della strada, non all'angolo, non dietro di me, non al bar: sei lo sguardo, la ricerca, il vuoto; sei tu tutti i fattorini, sei il mazzo di rose non mio; sei tu che non regali fiori; è tuo: il nero dei maglioni; tuoi: il ristorante dietro la stazione, la stazione, i treni, quelli che arrivano, ma anche (e soprattutto) quelli che se ne vanno, quelli che non tornano, quelli che non mi dici; il dodici sul calendario, le piante, il mio pianto. Sono tuoi: Piero della Francesca, Alberto Burri, i carciofini e il vino e molto altro fra le labbra; questa poesia, i secchi bianchi con i bordi blu; la ruggine è tua. camminare per strada in centro è tuo, che sia felice io è tuo; la mia infelicità non è tua, è tuo: il lato sinistro del letto, delle auto bianche, della guancia, del petto.
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L’anno 2005 è stato uno dei più intensi emotivamente della mia vita. Facevo il primo anno di università a Bologna ma per un serie di cose (fra le quali la fidanzata dell’epoca, il gruppi di amici a Marsciano, la band…) tornavo giù a casa dai miei spesso. Ero in una fase a metà della mia vita nella quale studiavo, lavoravo ma allo stesso tempo avevo tante cose del cuore legate alla mia cittadina fra cui la nostra band con Lorenzo e Giuseppe, gli Autumn Leaf. Ricordo tantissimo di quel periodo di vita anche perché tendenzialmente vivevo fino al giovedì mattina a Bologna e poi prendevo il treno per scendere giù. A volte scendevo mercoledì sera inventando la mancanza di lezioni, altre volte risalivo il lunedì sera mancandone altre. Insomma era una sorta di settimana cortissima che mi ha fatto mantenere un piede in due scarpe, o meglio, portare avanti due sentieri assieme: quello universitario (che tardava a decollare) e quello tardo adolescenziale (che invece era rimasto piacevolmente legato giù. Anche perché gli altri membri della band, nonché i miei nuovi amici del cuore, erano tutti più giovani di me almeno di uno-due anni; avevamo alcuni ascolti in comune e questa piccola ma sostanziale differenza di età ha fatto sì che io diventassi il loro mentore, la loro persona di fiducia. Ma la cosa era reciproca visto che ancora oggi ricordo i pomeriggi a casa di Lorenzo a guardare film e film, lui che per me era la mia fonte cinematografica. Ed è grazie a loro che scoprii i Porcupine Tree. Lorenzo, Giuseppe (ma anche Caroli e Alberto) erano più legati ad un progressive metal che era emerso da ascolti giovanili di nu-metal e qualcosa di thrash. Deadwing (ma anche In Absentia) è strettamente legato a quei giorni, alle nostre prove, al tentare di creare in sala prove qualcosa a metà strada fra gli Opeth, gli Ulver, gli Anathema e, appunto, i Porcupine Tree.
Ancora oggi quando parte l’omonima traccia del disco i miei pensieri vanno giù a quei bellissimi anni; queste chitarre liquide, aperte, ariose, meravigliose sembravano appunto uscire dagli Opeth più melodici; la voce di Steven Wilson era qualcosa di magico, orecchiabile, che sapeva trasportarti altrove. Deadwing è un album progressive che – per fortuna – spinge poco il piede sul metal (una cosa che ancora non sopporto è la produzione soprattutto della batteria in In Absentia) e che lascia emergere tutte le componenti calorose degli strumenti, del pianoforte, del legno. Il ritornello di "Shallow", anche se mena forte è mitigato dalla voce effettata di Steven. "Lazarus" sembra quasi un singolo dei Coldplay ma in senso buono, perfettamente inserito all’interno dello storytelling dell’album (e Steven ha sempre ammirato Chris Martin e soci anche se è famosa quella foto dove tiene un cartello in mano con scritto “i Coldplay sono dei segaioli”); consideriamo sempre che al pianoforte, al mellotron, ai synth c’è Richard Barbieri, un ex-Japan.
Anche "Mellotron Scratch" tira fuori i Porcupine Tree più dolci, che giocano con le sovrapposizioni vocali e riescono a creare dei bellissimi collage con foto ritagliate dai ricordi delle estati che furono. Una delicatissima malinconia che è intrecciata con le chitarre dei Pink Floyd, con tutta la tradizione di tastiere della scuola di Canterbury senza però abbandonarsi in lunghe perifrasi tecniche tanto care al prog duro e puro. I più maniaci dei tempi dispari e delle pippe tecniche devono spostarsi a fine album ad ascoltare "The Start of Something Beautiful" dove Gavin Harrison e Colin Hedwin si divertono a picchettare il brano e l’ascoltatore… se non siete dei mega-fan del tempo disparo resistete fino alla seconda metà del brano dove si assiste ad una bellissima trasformazione verso il sentimentale con i classici echi di David Gilmour. A volte, in questo Deadwing, Steven assume un timbro vocale forse troppo debitore a Maynard Keene, ma d’altronde i Tool sono stati una delle pietre angolari di tanta musica sperimentale ("Shallow", "Open Car"). C’è da dire che il picco più alto dell’album nonché uno dei picchi massimi dell’intera discografia dei Porcupine Tree coincide con "Arriving Somewhere but not here". Una bellissima suite di 12 minuti con suoni in backwards, sonorità nostalgiche e dolci che impennano verso il cielo col primo assolo: pazzesco, bellissimo, come se uscisse da "Comfortably Numb". Questo brano con l’opener Deadwing e la conclusiva "Glass Arm Shattering" (e la bellissima coda di "The Start of Something Beautiful") descrivono i Porcupine Tree più spensierati, che suonano di getto, che aprono il cuore e riescono a selezionare i nostri migliori ricordi. Anzi, le dita di Wilson riscrivono su carta i ricordi di ognuno di noi.
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Bentornati a casa!!! Father & Son per La Freccia Rossa della Bontà e della Solidarietà 2024: Alberto Albertini e Marco Albertini
Grazie! e sempre Buona Strada ⚜️☘️ https://lafrecciarossa.net/
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“Che c'è, Pietro, non sai cosa dire?”
“No.” Risposi con una vocetta appena udibile. Davvero non sapevo cosa cazzo dire. Guardai anche mia sorella, in cerca di una qualche illuminazione, di un appiglio qualsiasi, mi sarei aggrappato a tutto, pur di uscire indenne da quella pericolosa e niente affatto chiara situazione, ma lei rispose picche. Si voltò verso il televisore e mi lasciò solo contro tutti. Non voleva immischiarsi e non si sarebbe immischiata. Se se la prendevano con me, avrebbero lasciato in pace lei; la legge della giungla. Schifosa di un'egoista! Ma, alla prima occasione, me l'avrebbe pagata. Come si suona si balla.
“Allora, visto che non sai cosa dire,” Iniziò mio padre, “Lo faccio io per te. Ti racconto la mia parte di storia, quella che ho dovuto ascoltare stasera, prima di cena. Dopodiché sarai tu a raccontare la tua e bada bene di raccontarla tutta. E soprattutto precisa. Se mi accorgo che mi stai fregando, o soltanto me lo fai pensare, ti darò una di quelle strigliate che te la ricorderai finché campi. E potrai anche dire addio ai tuoi amici per tutta l'estate, visto che non ti farò più uscire di casa. Ci siamo intesi?” Dovetti acconsentire. Non è che fossi poi tanto d'accordo, ma cosa potevo farci? Avevo solo tredici anni. Comandava lui! Lui prendeva le decisioni e io le subivo. Non avevo alternativa. Per quanto riguarda il dove volesse andare a parare era ancora buio totale. Dovevo pazientare.
“Stasera, prima di venire a cena,” Iniziò, “mi sono incontrato al bar con Mario, il papà del tuo amico Sergio, abbiamo deciso di giocarci l'aperitivo a scopa. Una partita secca, chi perde paga, naturalmente. Consuetudine, lo facciano sempre. Ad un certo punto entra nel bar quella gran testa di cazzo dell'avvocato Terenzi…”
Quel cognome mi scoppiò in testa come una bomba a mano. Ora si che era tutto chiaro. Riuscivo a vedere solo disgrazie. Pensai al sangue che zampillava dal naso di Alberto Maria, il figlio dell'avvocato, pensai… Oh no! Peloroscio! Sembrava che si fosse ripreso, che stesse meglio quando lo avevamo lasciato al campo. Invece… Invece doveva essere morto, porco cane! Ecco perché mio padre era incazzato nero! Era finita! Sarei stato sbattuto in prigione per tutta la mia miserabile vita. Probabilmente anche i carabinieri sapevano già tutto e stavano venendo a prendermi. Forse i miei amici li avevano già rinchiusi. Ero disperato, avevo voglia di piangere. Gli occhi mi si arrossarono e iniziò a tremarmi il labbro inferiore. Era finita! Il vecchio se ne accorse, fece un mezzo sorriso di vittoria e proseguì: “Vedo che non sei del tutto stupido, che stai iniziando a riflettere. Ma non è ancora il tuo turno di parlare, prima devo finire io. Dicevo: entra nel bar l'avvocato Terenzi. Un fatto strano, perché quel figlio di una puzzola è tirchio come un genovese di origini ebraiche e, là dentro, non ci mette mai piede, neanche per un caffè. La cosa ancor più strana, però, è stata che, appena entrato, si è diretto deciso verso il nostro tavolo. Sputava fiamme come un drago. Prima ci ha vomitato addosso una catasta di insulti, almeno dal tono sembravano insulti, le parole non si capivano bene, quel borioso idiota parla una lingua che solo lui capisce. Ed è stata la sua fortuna, altrimenti sarei tornato a casa con una collana fatta con i suoi denti. Ma quando ha deciso di farsi capire, si è fatto capire bene e ci ha raccontato una storia. Una storia che tu dovresti conoscere bene e che, tra poco, sarai costretto anche tu a raccontare. L'avvocato ha detto che, gi�� al campo sportivo, tu e i tuoi amici siete saltati addosso a quel bastardo del suo adorato figliolo, lo avete caricato di botte e, non contenti, gli avete pure fregato il pallone. Adesso sta all'ospedale di Civita Castellana con il naso rotto e tutto gonfio. Un bel lavoro, non c'è che dire. Ha detto anche vi denuncerà tutti e a noi ci toccherà pagare una barca di soldi. Il Bastardo!”
Le lacrime trovarono finalmente la strada e sciamarono fuori. Un torrente di montagna dopo mesi di pioggia intensa. Portava con se un sacco di detriti, paura, rabbia, ma anche sollievo. A pensarci bene, soprattutto sollievo. Peloroscio non era morto e, per la seconda ed ultima volta nella mia vita, ne fui felice. Ero scampato di nuovo alla prigione. Subito dopo venne la rabbia. Ci mise un attimo a prendere il sopravvento.
“Non è vero!” Urlai “E’ un bugiardo! Bugiardo lui e bugiardo suo figlio! Il pallone era mio. Quello che mi hai regalato tu, quello di cuoio. Noi stavamo già giocando, poi è arrivato il figlio dell'avvocato, insieme a Peloroscio e a Ringhio, mi hanno gettato in terra e mi hanno fregato il pallone. Il mio pallone, non il suo!
"Se le cose stanno in questo modo, allora avete fatto bene a suonargliele. Domani mi sente quel lurido verme! Erano pure in tre i figli di bagascia. E tutti più grandi di voi.” Vidi lo sguardo del mio vecchio e capii che stava rispolverando l'idea della collana fatta con i denti dell'avvocato Terenzi. La cosa non mi dispiaceva affatto.
“Veramente, papà, non siamo stati noi a dargliele…”
“Ascolta, stronzetto, ho detto niente bugie! Cosa vorresti farmi credere? Che si sono picchiati tra di loro? Che il naso a quel prepotente figlio di prepotenti lo hanno rotto i suoi compari?”
“Non dico bugie! E non ho detto neanche questo! Il naso all'avvocatino lo ha rotto Pietro il Maremmano. E le ha suonate anche ai suoi amici. Anzi, solo a Peloroscio, perché Ringhio se l'è fatta sotto ed è rimasto paralizzato dalla paura.” Dissi tutto d'un fiato.
Mio padre non ci stava capendo più un cazzo. Guardò prima me, poi mia madre, che lo mise al corrente su chi fosse questo Maremmano, che lui non aveva mai sentito nominare, né aveva idea di chi fosse figlio, o dove abitasse. Volse ancora una volta lo sguardo verso di me e, con una calma che proprio non gli riconoscevo, disse: “Ascolta, piccolo, raccontami di nuovo tutto daccapo, senza tralasciare nulla. Poi deciderò il da farsi.” Ed io raccontai. Daccapo. Con dovizia di particolari. Dalla mattina. Raccontai delle biciclette, del pranzo, della partita e infine dello scontro. Il vecchio non mi interruppe mai. Si limitò a seguire il racconto, accompagnandolo con cenni di approvazione, o di disapprovazione, a seconda dell'evolversi degli eventi. Alla fine ero stremato. Stremato ma sollevato. Mi sentivo stranamente leggero. La paura era scomparsa. Mi sentivo bene.
La risata di mio padre piombò giù dalla cima del monte, come una valanga, con lo stesso frastuono e la stessa forza dirompente. Dapprima, io, mia madre e mia sorella, restammo pietrificati, poi ci lasciammo contagiare e fu risata liberatoria per tutta la famiglia. Non capivo bene cosa ci fosse tanto da ridere, ma me ne guardai bene dal protestare; poi era bello ridere tutti insieme. Non riuscivamo più a smettere e papà era quello che rideva più forte. Come suo solito, rideva e piangeva e menava delle manate sul tavolo e sulle mie spalle, facendomi anche male, ma non protestai.
“Certo che questo ragazzino deve essere un bel fenomeno!” Disse quando si fu calmato, “Hai detto che ha la tua stessa età, vero?”
“Si.”
“E ha lisciato il pelo a tre ragazzi più grandi di lui?”
“Si.”
“Davvero un bel fenomeno. Solo mi sfugge una cosa: nel frattempo, tu e quegli altri stronzetti dei tuoi amici, cosa facevate? Non gli avete dato una mano? Anche se, da quanto ho capito, non è che ce ne fosse bisogno. Casomai potevate darla a quegli altri tre perdigiorno!” E giù un'altra mitragliata di risate.
“No.” Risposi molto timidamente.
“No? E perché no? Se le avesse buscate?” Era di nuovo serio.
“Perché avevamo paura! Lui non è di qui. Lui non sa come vanno le cose. Quelli erano più grandi e quelli grandi si approfittano sempre dei piccoli. Guai a protestare. Non era la prima volta che ci fregavano il pallone. Lo fanno sempre. E se ti azzardi a protestare, giù botte.”
Aveva capito. Fece segno di si con la testa. Sicuramente anche quando era un ragazzino lui funzionava così. “Capisco, ci sono passato anch'io. E’ così che va il mondo, perdio! Pesce grosso mangia quello piccolo. E’ una legge di natura. Non ci sono santi. O, forse, no, sembra che il meccanismo si sia inceppato. Credo sia un buon segno.” Sentenziò. Si alzò dalla sedia, si infilò una camicia a quadri sopra la canottiera d'ordinanza, mi fece l'occhiolino e: “Infilati una maglietta pulita e andiamo.” Disse.
“Dove?” Chiesi. La paura stava tornando a farsi sotto. Non ero mai uscito con lui dopo cena.
“Voglio conoscere questo fenomeno del tuo amico. Subito.”
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Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all'angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei tu
tutti i fattorini,
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il dodici sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
i secchi bianchi con i bordi blu;
la ruggine è tua.
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
del letto,
delle auto bianche,
della guancia,
del petto.
Beatrice Zerbini
Dal libro “D’amore” (ed. Interno Poesia)
In comode rate - Poesie ed Eventuali
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Don Carlo e l'on liter in quater
[cose fra me ed @egemon]
Quest'anno danno il Don Carlo e io non ne so praticamente nulla, con Verdi mi sono fermato alla trilogia popolare, avrò sentito sì e no una volta e per caso La canzone del velo ("nel giardin del bello saracino ostello", che è una fantasia spagnoleggiante molto canzonettabile, da friggere sugli organetti di strada), ma niente di più. Voi direte: chi se ne importa, solo ai vecchi, ai vips e a qualche ultimo giapponese nostalgico del melò interessa la prima della Scala. Può essere, ma io sono un passatista, un uomo attaccato a idee e costumi che hanno fatto il loro tempo, e la grandezza dell'opera lirica ancora mi tocca, sebbene non mi piacciano tutte le opere liriche... mi piacerebbe vedere un bel Le nozze di Figaro, per esempio, un bel Mozart in accoppiata con Da Ponte, il mio librettista preferito, e invece insistono con questi melodrammoni storici... che palle. C'è Anna Netrebko che i giornali ci tengono a precisare "filoputiniana", la filoputiniana Netrebko: ora, a me non è che mi abbia mai fatto impazzire al di là della presenza scenica, ma svilirla così, utilizzando questioni che esulano dall'arte, proprio mi dà l'orticaria. Viviamo tempi di maccartismo di ritorno, si sanzionano vite e carriere per insozzarle con questioni politiche... in ogni caso, anche se mi troverò con tutta probabilità in Calabria sarà un po' come essere in Piazza della Scala, fra Palazzo Marino e il monumento di Leonardo dove l'ultimo volta mi sono seduto assieme a mio papà in religiosa ammirazione.
A detta del mio amico Gigino, il simile avviene anche nel centro di Milano, ove la vita degli affari è ormai così sapientemente raccolta, che l’uomo d’affari fa a meno di tram e tassì, ma dopo poche ore cade morto ai piedi del monumento a Leonardo circondato dai suoi discepoli, che gl’intenditori chiamano on liter in quater.
Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore
Il soprannome del monumento "un litro in quattro" ("on liter in quater" in milanese), diffuso alla fine dell'Ottocento, era dovuto alla rassomiglianza tra le cinque statue del monumento a una bottiglia di vino con quattro bicchieri intorno. Diverse fonti dell'epoca attribuiscono allo scapigliato Giuseppe Rovani la creazione di tale soprannome.
Wikipedia
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Tananai: «Ho fame di presente»
Ora Tananai si è ritrovato e ha imparato a vivere il momento. Qui dice la sua sui diritti in pericolo, sulla guerra, sul ruolo dell’artista e rivela il suo lato romantico.
Leggi 'intervista completa.
DI CHIARA OLTOLINI 29 MARZO 2023
Milano, un giorno di marzo, Tananai sta andando a Palazzo Reale alla mostra di Bill Viola, pioniere della videoarte. Un ragazzo lo ferma in piazza Duomo, gli passa lo smartphone, ma non gli chiede un selfie: «C’è mia mamma al telefono, la puoi salutare?». Se qualcuno avesse ripreso la scena, sarebbe diventata virale, come ormai tutti i video che lo riguardano, dal siparietto con il taxista incredulo – «È davvero lei?» – al duetto con la cantante di strada. Sempre Milano, qualche giorno dopo, a pochi passi dallo studio di registrazione dove sta cominciando a provare per il tour in partenza il 28 aprile, con date già sold out, Tananai si ferma a riavvolgere il nastro degli ultimi mesi. Ed è come raccontare da dentro un’onda. Usa parole precise, prive di retorica. Parla nascosto in una felpa beige con il cappuccio in testa che copre i capelli rigorosamente spettinati: «Ne ho già qualcuno grigio», scosta il cappuccio, sorride senza malizia. Perché ci sono state apprensioni ostinate: Sanremo 2022 da ultimo in classifica; subito dopo, il successo inatteso e il cambio di vita dal giorno alla notte, «che è stato traumatico»; l’estate in Fomo (fear of missing out), «cioè con l’ansia di perdermi un evento o un’apparizione, infatti ero sempre in giro e stanchissimo». Eppure, sembra una marea lontana. E Tananai, all’anagrafe Alberto Cotta Ramusino, 28 anni a maggio, una persona diversa. Più matura, centrata. La stessa che al Festival 2023 si è presa il quinto posto con la ballad dolcissima Tango, che cantano tutti, persino Gianni Morandi al sole nel giardino di casa e il video, ovvio, diventa virale.
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Prese il caffè nella sua piccola stanza d'affitto, si fece la barba e si vestì in modo elegante. Indossò il suo impermeabile, perché fuori pioveva. Quando uscì mancavano venti minuti alle otto, e alle otto in punto era alla stazione centrale, sul marciapiede del treno diretto a Santarém. Il treno partì con la massima puntualità, alle 8.05. Fernando Pessoa prese posto in un compartimento in cui era seduta una signora dall'apparente età di cinquant'anni, che stava leggendo. Essa era sua madre ma non era sua madre, ed era immersa nella lettura. Anche Fernando Pessoa si mise a leggere. Quel giorno doveva leggere due lettere che gli erano arrivate dal Sud Africa e che gli parlavano di una infanzia lontana.
Fui come erba e non mi strapparono, disse a un certo punto la signora dall'apparente età di cinquant'anni. La frase piacque a Fernando Pessoa, che l'appuntò su un taccuino. Intanto, davanti a loro, passava il piatto paesaggio del Ribatejo, con risaie e praterie.
Quando arrivarono a Santarém, Fernando Pessoa prese una carrozza. Lei sa dove è una casa sola imbiancata a calce?, chiese al vetturino. Il vetturino era un ometto grassoccio, col naso reso rubicondo dall'alcol. Certo, disse, è la casa del signor Caeiro, io la conosco bene. E frustò il cavallo. Il cavallo cominciò a trotterellare sulla strada maestra fiancheggiata da palmizi. Nei campi si vedevano capanne di paglia con qualche negro sulla porta.
Ma dove siamo?, chiese Pessoa al vetturino, dove mi porta?
Siamo in Sud Africa, rispose il vetturino, e la sto portando a casa del signor Caeiro.
Pessoa si sentì rassicurato e si appoggiò allo schienale del sedile. Ah, dunque era in Sud Africa, era proprio quello che voleva. Incrociò le gambe con soddisfazione e vide le sue caviglie nude, dentro due pantaloni alla marinara. Capì che era un bambino e questo lo rallegrò molto. Era bello essere un bambino che viaggiava per il Sud Africa. Tirò fuori un pacchetto di sigarette e se ne accese una con voluttà. Ne offrì una anche al vetturino che accettò avidamente.
Stava calando il crepuscolo quando arrivarono in vista di una casa bianca che stava su un colle punteggiato di cipressi, Era una tipica casa ribatejana, lunga e bassa, con le tegole rosse spioventi. La carrozza imboccò il viale di cipressi, il ghiaino scricchiolò sotto le ruote, un cane abbaiò nella campagna.
Sulla porta di casa c'era una vecchietta con gli occhiali e la cuffia candida. Pessoa capì subito che si trattava della prozia di Alberto Caeiro, e alzandosi sulla punta dei piedi la baciò sulle guance.
Non mi faccia troppo stancare il mio Alberto, disse la vecchietta, è di salute così cagionevole.
Si fece di lato e Pessoa entrò in casa. Era una stanza ampia, arredata con semplicità. C'era un caminetto, una piccola libreria, una credenza piena di piatti, un sofà e due poltrone. Alberto Caeiro stava seduto su una poltrona e teneva il capo reclinato all'indietro.
Era l'Headmaster Nicholas, il suo professore della High School.
Non sapevo che Caeiro fosse lei, disse Fernando Pessoa, e fece un piccolo inchino. Alberto Caeiro gli indirizzò un cenno stanco di venire avanti. Venga avanti caro Pessoa, disse, l'ho convocata qui perché volevo che lei sapesse la verità.
Intanto la prozia arrivò con un vassoio sul quale c'erano tè e pasticcini. Caeiro e Pessoa si servirono e presero le tazze. Pessoa si ricordò di non alzare il mignolo, perché non era elegante. Si accomodò il bavero del suo vestito alla marinara e si accese una sigaretta. Lei è il mio maestro, disse.
Caeiro sospirò, e poi sorrise. E' una storia lunga, disse, ma è inutile che gliela spieghi per filo e per segno, lei è intelligente e capirà anche se salterò dei passaggi. Sappia solo questo, che io sono lei.
Si spieghi meglio, disse Pessoa.
Sono la parte più profonda di lei, disse Caeiro, la sua parte oscura. Per questo sono il suo maestro.
Un campanile, nel villaggio vicino, suonò le ore.
E io cosa devo fare?, chiese Pessoa.
Lei deve seguire la mia voce, disse Caeiro, mi ascolterà nella veglia e nel sonno, a volte la disturberò. certe altre non vorrà udirmi. Ma dovrà ascoltarmi, dovrà avere il coraggio di ascoltare questa voce, se vuole essere un grande poeta.
Lo farò, disse Pessoa, lo prometto.
Si alzò e si accomiatò. La carrozza lo aspettava alla porta, Ora era diventato di nuovo adulto e gli erano cresciuti i baffi. Dove la devo portare?, chiese il vetturino, Mi porti verso la fine del sogno, disse Pessoa, oggi è il giorno trionfale della mia vita.
Era l'otto di marzo, e dalla finestra di Pessoa filtrava un timido sole.
Antonio Tabucchi, Sogno di Fernando Pessoa, poeta e fingitore - in Sogni di sogni
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Ogni volta che suonano alla porta,
sei tu
che non suoni;
le lettere:
tu che non le hai scritte
e datate,
sei tu la firma,
la forma di un altro nome;
sei tu
che non aspetti al palo,
non qui sotto,
non alla fine della strada,
non all'angolo,
non dietro di me,
non al bar:
sei lo sguardo,
la ricerca,
il vuoto;
sei tu
tutti i fattorini,
sei il mazzo di rose non mio;
sei tu che non regali fiori;
è tuo:
il nero dei maglioni;
tuoi:
il ristorante dietro la stazione,
la stazione,
i treni, quelli che arrivano,
ma anche (e soprattutto)
quelli che
se ne vanno,
quelli che
non tornano,
quelli che
non mi dici;
il dodici sul calendario,
le piante,
il mio pianto.
Sono tuoi:
Piero della Francesca,
Alberto Burri,
i carciofini e il vino
e molto altro fra le labbra;
questa poesia,
i secchi bianchi con i bordi blu;
la ruggine è tua.
camminare per strada in centro è tuo,
che sia felice io
è tuo;
la mia infelicità non è tua,
è tuo: il lato sinistro
del letto,
delle auto bianche,
della guancia,
del petto.
Beatrice Zerbini
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Non c'è mai una sola strada per arrivare nel medesimo luogo. Alberto Asor Rosa art by_samitdigitalart ******************** There is never just one way to get to the same place. Alberto Asor Rosa art by_samitdigitalart
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- Papà io esco, sono arrivati i miei amici a prendermi.
- Va bene Daniele buon div... ma come diavolo sei vestito?
Davanti a me ho la copia bianca e "roscia" di Will Smith nel film Man In Black. Daniele indossa un completo nero con cravatta nera e camicia bianca. Capelli ingellati e pettinati all'indietro e per finire occhiali da sole.
- Andiamo al cinema padreH!
- Ma così vestito, con questo caldo, con l'afa, con... con... confesso che non capisco.
- Andiamo a vedere Barbie il film e abbiamo deciso di andarci vestiti così - mi spiega mentre sorride a sessantaquattro denti.
Vado alla finestra e guardo in strada, sono tre ad aspettarlo e tutti con completo nero e camicia bianca. Capelli impomatati stile anni cinquanta con sorrisi e sghignazzi a profusione.
Così mi ritrovo a guardare sconsolato mio figlio che in auto con i suoi amici parte per la goliardica impresa, guardandoli meglio anziché i Man In Black mi sembrano Le Iene di Quentin Tarantino.
Probabilmente da padre ho sottovalutato la voglia di ridere e scherzare di mio figlio, dei ragazzi d'oggi, dimenticando che anche io da giovane combinavo guai o facevo delle immani cazzate.
Come quella volta che a bordo della FIAT 500 di mia madre, mi riferisco a una FIAT 500 degli anni '60, feci salire sei miei amici. Ci incastrammo l'uno con l'altro utilizzando l'apertura della capote per far uscire qualche testa o gamba, eravamo in sette a bordo di un'auto che poteva ospitare al massimo due passeggeri comodi davanti e due semi comodi e semi sofferenti dietro.
Facemmo circa trecento metri, poi il fondo dell'auto cedette e mi ritrovai con il sedere sull'asfalto.
Mi ricordo ancora oggi il volto di mio padre che scuoteva la testa, tra l'incredulità e la rassegnazione che suo figlio fosse un perfetto idiota, mentre aiutava il carro attrezzi a recuperare l'auto.
Del resto che io avessi aspettative alte dal mio primogenito in fondo dovevo sospettarlo. Come quella volta che ancora neonato e in fase di lallazione, emise dei suoni tipo "Nghe oo bobo ebeo eijo", che io naturalmente interpretai il suo lalluziare come se avesse detto "acido desossiribonucleico". Dio un genio! Forse guardo troppo i programmi di Alberto Angela.
Devo essere più tollerante, comprendere che il diritto alla felicità dovrebbe esistere per tutti, così come il tempo delle sciocchezze.
Di diventare troppo serio in realtà, riflettendoci su ora, non glielo auguro proprio. Del resto io quando sono alla cassa di un fast food esigo il giocattolo in omaggio con il menù, non importa quanti anni ho o se lo voglio per i miei figli. Io lo voglio e basta!
In effetti un mondo di figli premio Nobel sarebbe un mondo triste, servono anche quelli che amano ridere, scherzare e rispettando il prossimo fare anche qualche scemenza. Quelli che si fermano a un chiosco in piena notte per farsi un panino, quelli che hanno il cuore a mille quando provano nuove emozioni, esperienze di vita. Quelli che con una risata ti riempono una casa di calore.
Del resto anche io da ragazzino ero intelligente ma non mi applicavo, magari un giorno comincerò ad applicarmi. Senza fretta, ho più tempo che vita.
#libero de mente#ironia#pensiero#frase divertente#frase#amore#racconto#dialoghi#figlio#vita#divertiti#divertirsi#barbie#man in black#le iene
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Con l’avvento del cristianesimo l’antichissima via Recta fu per secoli il tracciato percorso dai pellegrini diretti alla basilica di S. Pietro. In questa strada si installarono i paternostrari, cioè i venditori di immagini sacre e corone; da loro la strada prese il nome di via dei Coronari. All’angolo tra via dei Coronari e vicolo Domizio c’è un’edicola sacra che contiene un famoso affresco oggetto di devozione: l’Immagine di Ponte. Nel 1523 il notaio della Camera Apostolica Alberto Serra del Monferrato affidò al celebre architetto Antonio da Sangallo il Giovane (1484-1546) il compito di restaurare l’edicola. Sangallo si occupò della struttura in travertino, mentre l’affresco fu realizzato dal fiorentino Perin del Vaga (collaboratore di Raffaello), che qui raffigurò Cristo che incorona la Madonna, insieme a S. Sebastiano e S. Antonio. Il motivo dell’edicola, ispirato alle nicchie del Pantheon, fu poi riutilizzato dal Sangallo nelle finestre del Palazzo Farnese. Sulla trabeazione è scritto: «l’immagine di Ponte, che tu vedi, fu restaurata». Sotto il nome di Alberto Serra il ricordo di un restauro del 1805. Un particolare che devo approfondire riguarda il primo blocco di travertino in basso a sinistra, dove mi sembra di vedere una faccia scolpita (foto Marco Gradozzi) 😊
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