Tumgik
#ah yes. my cringe era /pos
outlying-hyppocrate · 2 years
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hhhhhhhhh
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skyeventide · 7 years
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@catullan (and @nimiana but the thing is in Italian...), I’m posting this only because I know that 90% of my followers won’t be able to understand it. I’m slightly cringing as I reread this thing, I wrote it when I was 18. Forgive me. 
Anyway guys who can read Italian please don’t read this if you don’t want to have Seneca/young!Nero smut forever printed on your brain. (Yes, you read that right.)
Lucio Anneo Seneca torce lentamente le mani, l’una nell’altra, dietro la schiena. Osserva la nuca chinata avanti sull’ampia scrivania di legno massiccio, dove una lieve peluria ammorbidisce la netta attaccatura dei capelli castano chiaro e su cui sporge qualche vertebra del collo: la nuca di Lucio Nerone. L’Imperatore.
Legge affascinato un papiro della Poetica di Aristotele, benché fosse in programma tutt’altra lettura per quel mattino; è anche vero che è così catturato dal testo che Seneca non ha ancora cuore di interromperlo.
Si avvicina lentamente, con un fruscio della toga.
Crede di avere tra le mani la realizzazione del sogno che titilla tutti i pensatori, a cominciare da Platone: un governante affiancato da un filosofo, che lo guidi nelle sue scelte. Eppure ritiene che sia troppo presto, dal momento che Nerone è appena diciassettenne. Avrebbe voluto più tempo, più tempo e lontano dal controllo della madre dell’Imperatore, Agrippina.
Si ferma di fianco allo scranno che Nerone occupa e inclina il collo, con la fronte corrugata. Teme quella donna da quando ha costretto suo figlio a testimoniare contro l’adorata zia.
L’Imperatore interrompe la propria lettura e si volta verso l’alto; sul viso ancora imberbe, sorretto dal collo magro, compare un sorriso sottile.
« Non aggrottare così la fronte, maestro, sembri più vecchio di quanto tu non sia », dichiara.
Seneca adesso solleva le sopracciglia, preso di sprovvista e inchiodato da quegli occhi azzurri.
« E non fare nemmeno quell’espressione », aggiunge. « Sorridi, piuttosto. »
Con una punta di sorpresa, Seneca abbozza un sorriso un poco incerto; il tono dell’Imperatore è quello di un ordine, sì ironico, ma pur sempre un ordine.
Nerone inclina il collo e pondera. « Ecco. Un po’ forzato, ma meglio di nulla. » Seneca ruota gli occhi sul papiro, teso da un rotolo di legno coperto di doratura e, con gli occhi appena ammorbiditi, vi accenna col mento. « Ti piace, quindi? » 
« Oh, sì. Molto. » L’Imperatore appoggia un gomito al bracciolo dello scranno e struscia un polpastrello sulle labbra. « Voglio vedere qualcosa a teatro, nei prossimi giorni. Naturalmente che sia conforme a quello che dice Aristotele. »
Seneca riflette su quale tragedia sarebbe più conforme ai gusti e all’educazione del suo allievo, quindi annuisce piano, stringendo ancora le mani l’una nell’altra dietro la schiena, ancora con troppo nervosismo e veemenza. « Ma certo. Adesso, tuttavia, è il momento di riprendere la nostra lezione. »
Nerone afferra lo scranno per i braccioli e lo spinge indietro, senza strusciarlo sul marmo del pavimento. « Più tardi », decide, mentre si alza in piedi e si sistema la tonaca, appuntando meglio la spillone dorato che la ferma sulla spalla sinistra. Si allontana verso il triclinio, su cui si accomoda.
« Non puoi rimandarla in eterno », ribatte Seneca, storcendo le labbra.
L’Imperatore solleva a malapena lo sguardo da un vassoio appoggiato su un basso tavolino dalle gambe di legno intagliato; contiene alcune arance e dell’uva, da cui sta staccando un acino particolarmente grosso. « Certo che posso. » 
Seneca si avvicina, accigliato nuovamente e pronto a rimproverarlo con l’autorità che gli dà l’essere il tutore della sua educazione, ma Nerone già alza gli occhi, divertito, e aggiunge: « Non temere, maestro, ti ascolterò con piacere. Ma non subito. »
Con questo, l’Imperatore gli fa un cenno con la mano e quindi picchietta con le dita il bordo del triclinio, dove vuole che si sieda.
Seneca solleva il viso, appena segnato dalle rughe della mezza età, raccoglie la toga con un avambraccio e si accomoda vicino alle gambe di Nerone. « Non vi lascerò fare per molto tempo tutto quello che ti piace. Io ho il dovere e l’onore di insegnarti e tu il dovere e il piacere di imparare. »
« Sì », espira il ragazzo, con un afflosciarsi delle spalle che fa suonare stanca la sua voce. « Lo so. » Avvicina alla bocca l’acino d’uva, ma non lo mangia. Sposta gli occhi azzurri su Seneca, che sostiene lo sguardo arcuando le sopracciglia. Nerone prende l’acino tra le labbra e si limita a mangiucchiarlo e suggerne il succo, appoggiato su di un fianco.
Seneca, nel guardarlo, ha l’impressione ancora più netta che l’Imperatore sia troppo giovane. Che la morte del precedente princeps Claudio sia stata fin troppo prematura e quella del suo figlio legittimo Britannico fin troppo premeditata. Non riesce a non vedere la mano di Agrippina, dietro quelle due morti. Teme che anche l’abile prefetto del pretorio che per adesso guida l’Imperatore nelle sue decisioni dentro alla politica non durerà a lungo. Ed è per questo che è necessario occuparsi dell'educazione del giovane quanto meglio si possa.
« Dimmi, maestro… », inizia Nerone, lasciando cadere il nocciolo dell’acino in un piattino a fianco del vassoio, con un gesto molle, « pensi che Aristotele fosse amante del suo insegnante Platone come Alcibiade lo era di Socrate? »
Seneca, distolto all’improvviso dal suo pensiero preoccupato, alza di scatto la testa verso il principe. « Non lo so, temo. Non credo però che Aristotele abbia mai avuto quel rapporto con Platone, anche se era senza dubbio il suo miglior allievo. Alcibiade era un eròmenos e… ma credo di averti già parlato di questo, o no? »
Nerone non lo guarda in volto, osserva invece con una certa noia la propria spalla e sfiora appena lo spillone che buca la stoffa pregiata e la trattiene. « Sì... l’hai fatto. »
Seneca arcua un sopracciglio.
« Dunque è mio desiderio provarlo, io stesso », dichiara Nerone.
Seneca  apre la bocca, così preso alla sprovvista che sul momento non dice nulla. Ha ben capito? Ah, ecco in cos’altro si manifesta l’influenza di quella madre snaturata.
« Avanti, sfilami questa », insiste l’Imperatore, picchiettando il dito sulla spilla.
Seneca si convince che si stia annoiando e si diverta con lui. Aggrotta le sopracciglia: « Smettila con questa sciocchezza. »
Nerone gli pianta addosso gli occhi azzurri. « Non è una sciocchezza, maestro. Prendilo come un ordine. »
Seneca fa per ribattere, ma sostenendo quello sguardo si rende conto che il giovane desidera davvero quello che chiede, che non tentenna, né si burla di lui. La realizzazione lo lascia stranito.
Ha mai pensato al suo allievo come se fosse un ragazzo indirizzato alla paidèia? No, certo che no, fino ad allora. Non ha neppure mai ceduto a un tale rapporto, non saprebbe trovarvi attrattiva… se non fosse che si sofferma, forse troppo, sulla figura snella di Nerone, adagiata su un fianco sopra al triclinio, sul viso non bellissimo, ma ancora benedetto dalla freschezza della giovinezza.
« Maestro? Hai capito? Lo sto ordinando. »
Seneca deglutisce. « Non ci sono soltanto gli ordini per ottenere qualcosa. Ricordatelo. »
L’Imperatore solleva le sopracciglia, ma la sua espressione contraddetta si trasforma subito in un sorriso morbido. Allunga la mano e stacca dall’uva un altro acino, che mordicchia tra le labbra e Seneca, pur riluttante, finisce per osservare la sorte di quel chicco con attenzione. Ci sarebbe, nonostante tutto, qualcosa di molto nobile in un simile rapporto, a patto che nessuno ne sappia niente.
Solleva una mano, ma resta lì a mezz’aria. La sua mente è combattuta tra il rifiutare quel capriccio di Nerone, il rendersi conto che non lo chiede ma lo ordina e il cedere all’idea di un legame amoroso come nella vera educazione di stampo greco. 
Infine si allunga lentamente e, anche con poca attenzione, può notare la soddisfazione che illumina gli occhi dell’Imperatore; afferra lo spillone, quasi guardingo, lo apre e lo sfila. La tonaca così sostenuta si allenta e scivola, scoprendo il petto glabro da ragazzo.
L’Imperatore fa cadere il nocciolo del secondo acino d’uva nel piattino. Il suo sguardo attento mette Seneca nella condizione di proseguire a spogliarlo, ma con una certa soggezione, mentre prende un lembo della tonaca e l’abbassa: rivela il corpo non troppo abbronzato, asciutto, rilassato. La nudità così piacevole alla vista risveglia nel filosofo un delicato desiderio, che esita però a soddisfare. Lascia vagare gli occhi sul braccio posato per il gomito sopra al cuscino, sulla curva del fianco, la linea dell’inguine che finisce in una peluria castana, dove spicca una mezza erezione.
« Sto aspettando », insiste l’Imperatore.
Seneca alza lo sguardo sul viso del ragazzo, che gli pare privato di tutta la pazienza e che eppure attende con un velo di malizia. Espira sbuffando, poggia lo spillone sul tavolinetto e arriccia i lembi della propria toga, scoprendosi le gambe; una spinta di libidine che il suo corpo non conosceva da molto tempo lo convince ad allungarsi su Nerone.
Questi è veloce nell’afferrargli l’indumento vicino alla spalla e a tirarlo verso il basso.
Seneca sussulta, poggiandogli una mano sulla coscia. « Non far sapere di questo a… »
L’Imperatore lo bacia. E’ irruento, non è gentile, un poco inesperto. Seneca chiude gli occhi.
I gesti di Nerone lo guidano per tutto il rapporto; lo guidano, anche se sarebbe lui a doverlo istruire, anche se è lui che lo sovrasta e che ha le sue gambe scattanti agganciate al bacino. L’Imperatore gli afferra le mani e se le sposta sul corpo, così deciso che Seneca non fa in tempo ad accarezzare come vorrebbe un lembo della sua pelle che già si ritrova a toccarne un altro.
E’ sempre Nerone che non gli lascia modo di decidere quanto lentamente o quanto veloce dovrebbe soddisfare il piacere di entrambi. Non gli lascia decidere come muovere l’inguine, anzi gli comanda che cosa voglia.
« Più piano. »
« Baciami. »
« Toccami. »
Lo dice con la voce calda e il fiato corto, ma sono parole secche come disposizioni, anche se il respiro freme.
Seneca obbedisce, quasi rapito. Scivola in una spirale in cui cede ad ogni richiesta.
L’Imperatore gli passa una mano nei capelli brizzolati e si inarca. Vuole che gli lecchi il petto, e Seneca lo fa, mentre il ragazzo mangia un altro acino d’uva, facendosi cullare da movimenti calmi del bacino.
Seneca gli cede ogni volta e cede per l’ultima quando le sue membra, che non credeva capaci di sostenere ancora tanta energia, sono invase da un piacere caldo e diffuso.
L’estasi lo fa adagiare mollemente sopra il corpo di Nerone, che invece si contorce e fatica a contenere la cupidigia della sua giovinezza.
Finiscono arricciolati nella toga bianca e rossa.
Seneca fissa il soffitto affrescato ed espira più volte. Ha detto a Nerone che gli ordini non sono l’unico modo per ottenere qualcosa, e tuttavia non è stato coerente con la sua stessa lezione, avendogli obbedito senza mai fiatare.
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