Tumgik
#accetto solo foto di tette
extremaaratio · 3 years
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Posso mandarti un mio nudo in privato e chiederti un parere?
Arcà zzochemenefrega
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yomersapiens · 6 years
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Non aprite quella porta piuttosto cementificatela.
Internet era un posto stupendo prima che arrivaste voi a rovinare tutto. Mi ero ripromesso di lasciare scorrere le cose, ché tanto non vale la pena di perdersi in discussioni, però vedo che davvero là fuori non state bene e voglio aiutarvi. Allora, prima che arrivaste voi a prendere tutto sul serio qualunque cazzata che si trova scritta nel web, c’era una cosa chiamata fantasia. O immaginazione. C’erano persone come me che scrivevano di fatti reali farcendoli con la propria immaginazione. Poi c’erano i lettori e i lettori, lo dice il nome, leggevano. Ora invece vogliono fare di più, i lettori diventano commentatori, certo, nella rete tutti possono diventare qualcosa di più. Quindi accade che se uno scrittore scrive e quindi fa quello che gli concerne, il lettore commenta e va contro la sua semplice natura di essere passivo. Mi va bene, ho sempre ignorato tutto perché non mi compete, non ho tempo da perdere in discussioni. Cazzo no, piuttosto che perdermi a discutere o a spiegare cose a sconosciuti rincoglioniti sulla rete vado ad ubriacarmi con gli amici. Ma ieri ho scritto una storia che certo poteva sembrare reale, e da ieri vengo bombardato dall’indignazione della rete. È colpa vostra se hanno tolto le tette da Tumblr, voi dannati esseri incapaci di scindere tra realtà e finzione. Colpa vostra che leggete una storia e vi sentite in dovere di diventare parte della storia. Beh, vi informo che voi non eravate su quel treno, non eravate con me in viaggio, o con il possibile bambino che mangiava sushi, non eravate presenti al forse accaduto fatto e sapete perché? Perché tutto quello che ho elencato sopra accade nella mia immaginazione. E voi per fortuna siete esclusi perché vi immaginate che palle se dentro la mia testa dovessi far entrare ognuno di voi inutili esseri incapaci di scindere tra una storia e la realtà? Ecco altri possibili scenari finali per la storia che tanto ha fatto scalpore: il bambino si gira verso di me e dopo aver finito il sushi, mi chiede se credo in Dio, rispondo di no e lui dice beh, forse è ora che inizi a crederci e di colpo si alza in piedi e da sotto la maglietta estrae due pistole e si mette a sparare a tutto il vagone. Questo finale alternativo è realistico tanto quanto io che mi prendo gioco di lui nella mia testa. Ma non è la mia testa la colpevole di tutto questo, no, lei fa solo il suo lavoro, butta fuori pensieri belli e brutti che siano. I colpevoli sono quelli che leggono e non hanno più la capacità di scindere. Un adulto su un treno si prenderebbe gioco di un bambino? Forse sì, forse no, sicuramente un adulto infastidito dall’esistenza di ogni altro essere umano potrebbe scriverci una storia sopra. Relativizzate quello che leggete. Una storia letta gratuitamente su un sito di blogging. Non dovete nemmeno pagare per dovervi indignare. Dovete solo pigramente scrollare, probabilmente mentre siete seduti sul cesso, ed ecco che la vostra reazione nasce dallo stesso impulso che vi porta ad espellere feci. Ricordatevi sempre che in internet il 50% di quello che leggete potrebbe essere una stronzata colossale e se foste intelligenti abbastanza sareste ancora in grado di scindere ma purtroppo no, non tutti lo siete, altrimenti non si spiega la gente che avete mandato al governo sempre per questo problema del prendere l’internet sul serio. Io ho un solo grande difetto, quello di riporre ancora fiducia nell’intelligenza del genere umano ma Cristo se mi state mettendo alla prova. La mia mente produce pensieri orribili, una marea costante, ne produce anche di bellissimi e dolcissimi e romantici ma è tutto parte dell’insieme. Devo accettare il pacchetto completo. Quando ero piccolo mia madre mi portava in chiesa, dovevo ancora fare la prima comunione, mentre il prete parlava l’unica cosa che mi passava per la testa era vedere se riuscivo a fare incazzare Dio così dentro di me bestemmiavo di continuo ed ero terrorizzato mentre lo facevo, pensavo ad insulti orribili durante la mia visita nella casa del Signore e non capivo perché la mia testa generasse tali atrocità. Ma dal vero, se mi conosceste, sapreste che non bestemmio mai e non perché io creda in Dio, ma perché lo trovo di cattivo gusto. Quindi, se pensate davvero che io provi del piacere nel far piangere dei bambini nel reale, non ci andate troppo lontani ma più di tutto mi piace far piangere i bambini nelle mie storie. Adoro creare personaggi e trattarli di merda. Quando parlo di me, mi tratto di merda di proposito proprio per un senso sadico ma è il mio unico potere da scrittore, questo di fare il cazzo che mi pare con le mie parole e i miei personaggi. Così come il potere di chi legge non è il commentare, bensì il NON leggere. Internet è ancora un posto libero anche se vi state impegnando tantissimo a farlo diventare un parco giochi per i vostri dittatori, se qualcosa non vi piace potete non leggerla o potete allontanarla dalla vista. Non verrò sotto casa vostra a raccontarvi dei miei pensieri orribili. Lo faccio con i miei amici e accetto più che volentieri di essere insultato da loro. Perché mi interessa di quel riscontro, questo posto, questo Tumblr, esiste solamente come deposito di ciò che mi gira per la testa. Non sono una blogger che parla del suo passato di droghe e racconta ogni dettaglio della sua esistenza. Non sono un tenebroso tumblero che vive delle domande ricevute da costanti anonimi. Non guadagno un euro nonostante abbia più di 111.000 lettori, sì non so come sia possibile ma tanti anni fa fui messo nella classifica dei Tumblr comici e ci fu un caos di followers che tutt’ora persistono anche se non credo esistano quindi non lo faccio per la popolarità, l’ho avuta e non è servita ad un cazzo. Non lo faccio per sentirmi uno scrittore perché per fortuna vengo pubblicato su libri e riviste che sono sicuro non vi prendereste la briga di leggere dato che non sono gratis e non ve le portano in bagno mentre siete seduti sul cesso. Non lo faccio neanche per dare una mano alla carriera musicale perché anche lì, mi bastano i concerti. Non lo faccio più per darmi un tono, lì lo faccio quando leggo le mie storie in teatro o scrivo sceneggiature per film e cortometraggi. Tutto questo elenco di cose che faccio solo per farvi capire che basta essere in grado di scindere, solo così si può evitare di rimanere fregati dall’internet. Dalle persone troppo belle in foto che vi fanno sentire orribili ma che dal vivo sono prive di filtri e hanno gli stessi brufoli che abbiamo noi. Dai presunti dati statistici che vi portano a non vaccinare i vostri figli e anzi guardate io di questo sono felice perché grazie a voi ho capito che non voglio avere figli, non voglio portare nuovi esseri viventi in questo medioevo esistenziale bis. Dai ministri o signori del selfie che vi fanno sentire parte del tutto, dell’insieme, solo perché sono ignoranti e volgari come siete voi nel profondo. Ma ancora, non ho tempo per queste cose. Non ho nulla da insegnare per fortuna, ho solo un sacco di rabbia e voglia di impedirvi l’accesso alla rete che doveva essere un posto di scambio e crescita e invece è diventata una pattumiera di commenti non richiesti. Non smetterò di scrivere e non censurerò la mia immaginazione, qualunque cosa essa produca. Ma nel reale, sarò il più distante possibile da quello che mi circonda, cercando di avere il minimo contatto con il prossimo apposta per non deludere, fare del male, o essere deluso o ferito. Ho fatto abbastanza danni cercando di essere buono, ora mi basta essere me stesso. Ho tanto da fare, ad esempio adesso devo andare ad aprire la porta dell’ufficio perché mi hanno citofonato deve essere la consegna di gattini orfani da picchiare. Lo faccio sempre quando sono molto stressato dalle discussioni del web. Picchio dei gattini orfani. Ora vediamo se avete capito, picchio davvero dei gattini orfani o lo dico solamente per mettervi alla prova? Siate dannati voi che mi fate uscire dalla mia immaginazione per venire nel reale a farvi il cazziatone. Ringrazio come sempre @kon-igi e @spaam che mi sostengono, leggono, rebloggano e consigliano. Io non sono paziente come loro, nemmeno intelligente, a me basta sapere che se dico qualcosa di orribile solo perché mi fa ridere almeno due persone capiscono che sono un povero stronzo che si diverte così e mi vogliono bene lo stesso. Tutti gli altri hanno il medesimo valore dei bot di Tumblr.
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pangeanews · 6 years
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Siamo quello che la macchina fotografica immortala: da Bresson a Brunelli, gli 11 fotografi di cui non potete fare a meno
Martedì 28 agosto, caffè in pausa pranzo. San Marino, bar alla porta “alta” della Paese. Vedo la Giulia, 18 anni, lavora in un hotel. La invito al tavolo: parliamo come sempre. Ha un nuovo moroso, o meglio, è tornata con il suo ex. Mi fa vedere alcuni selfie che il ragazzo si è fatto e che le ha inviato. Non tutti però, alcuni, mi dice, “non me li può mostrare perché sono intimi”. Li osserva e si lecca i baffi, anche se non li ha. Me ne mostra alcuni, quelli meno scabrosi. Palestrato, tatuato. E soprattutto edonista. Categoria POV, per dirla alla maniera più moderna.
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“Un po’ alla Robert Mapplethorpe” le dico, ma senza malizia: potrebbe essere ampiamente mia figlia, la Giulia, 25 anni di differenza. Rimarco quel “un po’ alla”, per dare sfoggio del mio fisico non da culturista ma da culturale. “Map chi?” ribatte subito. Si apre una voragine generazionale: il mio mondo a pellicola, fatto di mostre e letture, abbarbicato e inturrito nei miei 43 anni, e il suo, immediato e di rapido consumo, figlio dell’età che si porta addosso. Con tutta l’energia e i sogni moderni dell’età sua contemporanea.
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Tra pochi giorni, a metà settembre, si apre il “Si Fest” di Savignano sul Rubicone, tradizionale appuntamento con la fotografia. Ci andrò, ovviamente, ma senza grandi slanci: le immagini di oggi non mi piacciono. “Fermare” il quotidiano che è anche “terzo paesaggio” è un esercizio di stile deciso a tavolino dalle agenzie: “Oggi devo promuovere questo artista lì da voi, poi tu me ne dai uno dei tuoi, lo espongo da me, magari lo pompo con i media locali, e facciamo patta”. Sono i fili invisibili delle relazioni lavorative inurbanizzate. Interessi e conoscenze al primo posto, a discapito della qualità poetica.
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“Te sei vecchio: ti piacciono i classici. La fotografia è cambiata, oggi non è più quella di Cartier Bresson o di Capa. Oggi la fotografia si chiama…” e giù una lista di nomi a me quasi tutti ignoti. Lei è ben incesellata nella manifestazione romagnola. A tal punto che davanti alle immagini di “Genesi” di Salgado ha storto il naso dicendo: “Per noi nate e cresciute a ‘SI Fest’, Salgado è un fotografo se non minore perlomeno vecchio e superato”.
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Più che “SI Fest”, direi piuttosto “NO Fest”. Spesso. Olivo Barbieri per esempio, o Andrea Modica, artista americana di origini italiane presente nei più importanti spazi museali, dal The Museum of Modern Art al Metropolitan Museum of Art al Whitney Museum of American Art. Sono passati a Savignano assieme ad altri. Il primo lo conosco di nome, la seconda no: ho visto i suoi scatti al “Si Fest” due anni fa. Ok, quindi? Ricordo invece con sommo piacere Mike Brodie, classe 1985 che dopo un bellissimo lavoro intitolato “A period of juvenile prosperity” ha già abbandonato la carriera. Ha conseguito il diploma presso il Nashville Auto Diesel College, attualmente lavora come meccanico a Oakland e ha interrotto definitivamente la sua attività di fotografo. Ha detto quello che doveva dire, e in maniera egregia. Poi ha mollato.
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“Non puoi vivere il presente se non conosci i classici”. Qualcuno me l’ha detta, oppure l’ho letta da qualche parte. Nulla di personale contro i nuovi, ma prima di parlare di fotografia devi aver visto o sfogliato o letto questi “Dieci piccoli maestri” non indiani, più 1: le partite si giocano in 11 contro 11, a calcio. Accetto anche una “googlata”, almeno ti sei fatto un’idea. Meglio ancora l’acquisto in qualche bancherella di alcuni libri. Le foto sono materiche e hanno un odore.
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Henri Cartier Bresson (1908-2004), “l’occhio del secolo”. Scoprite i motivi osservando le sue immagini scattate con la Leica.
Sebastiao Salgado (1944). Lo ha rilanciato Wim Wenders con “Il sale della terra”. Le foto che aprono il film e che raccontano la miniera del Brasile non richiedono spiegazioni.
Robert Capa (1913-1954). Racconta lo sbarco degli Alleati in Normandia con 11 foto, “Le magnifiche Undici”. Da ammirare senza respirare.
David LaChapelle (1963). “Heaven to Hell”, viaggio VIP dissacrante, sensuale e cazzone. Saturo di colori e di suppellettili, contemporaneo, pop, trasformista, quasi carnascialesco.
Robert Mapplethorpe (1946-1989). Nessuno come lui ha fotografato il nudo. Per alcuni è al limite della pornografia (nerchie nere lunghe come pitoni), per me è un Maestro.
Helmut Newton (1920-2004). Ho imparato ad apprezzarlo al Museo che Berlino gli ha dedicato. Glam, ironico, circondato da femmine amazzoni e bellissime, l’occhio sul mondo fashion.
Robert Doisneau (1912-1994). Suo il “Bacio davanti all’hotel De Ville”. L’occhio più limpido, assieme a quello di HCB, su Parigi, forse quello più “superficialmente profondo”.
Man Ray (1890-1976). Tutto quello che oggi si fa con Photoshop lui lo faceva nella sua mente. Maestro surrealista, guardatevi le sue rayografie e la schiena di donna con il violino d’Ingres.
Tina Modotti (1896 -1942). Bella, bellissima. Brava, bravissima. Amante del fotografo Edward Weston, raccontò il Messico con la lucidità primordiale e arcaica del b/n.
Elliott Erwitt (1928). È il fotografo che mi fa più ridere: le sue immagini dei cani sono micidiali in quanto ironiche ma allo stesso tempo “imbrattanti”, non te le togli più di dosso.
Giacomo Brunelli (1977). L’ho conosciuto al “SI Fest”: le sue immagini raccolte in “The animals” e fatte con una vecchia Miranda da due soldi congelano il sangue.
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Di ognuno, solo poche righe. Le fotografie non vanno spiegate, mai. Contengono, se rientrano nell’alveo delle opere d’arte, quel linguaggio unico e universale, quello cioè che non richiede la parola. Una comunicazione per immagini e non per fonemi.
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Ci sta tutta l’attenzione che la Giulia mette nel guardare e difendere dagli occhi delle altre femmine il corpo del suo ragazzo. Oggi ci si presenta con l’aspetto, e poco importa che i giovanissimi si bombino di Viagra per soddisfare una coetanea: la vecchia “sindrome da spogliatoio” oggi è emigrata sui siti a luci rosse, ed è sulle piattaforme, e non nella vita reale, che si misura la virilità. Un “canto alla durata” che non ha lo spessore delle parole scritte di Peter Handke (che non è un fotografo).
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Le teen non le guardo. Non ancora: per me le affinità culturali vanno di pari passo con un bel culo. Poi quando diventerò un rimbambito “invecchiato rigorosamente senza maturità”, (ma pur sempre dandy), probabilmente correrò dietro alle “còtole dee tose”. Mi seducono le caviglie, le mani, il profumo, la pelle levigata, il tono della voce e le parole. Quando non riuscirò ad afferrare più queste ultime, mi lascerò andare agli istinti. Oppure andrò a vedere le mostre dei fotografi che mi piacciono, per fantasticare ancora una volta sui culi, tette, labbra socchiuse e colli modiglianeschi. Sempre meno faticoso che aprire un libro.
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Sexting. Come a dire che ti mando foto intime e tu me ne mandi di tue. Poi quando il maschietto si trova davvero la patata tra le mani fa flop e non la sa maneggiare, come se fosse bollente. Segarsi è meno impegnativo perché non devi soddisfare le voglie del/lla partner ma solo le tue. Però in questo modo ti perdi il contatto della pelle, i sorrisi, i respiri, le carezze. La veridicità dell’intimità. Più facile quindi con Internet dove si sceglie “il soggetto” a cui dedicare le proprie attenzioni: colore dei capelli, misure, età, numero, predisposizione e specializzazioni. Più facile certo ma non più bello…
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Difficile meravigliarsi quando i quotidiani danno ampio spazio alla cronaca a luci rosse: di solito lui chiede a lei qualche foto intima, che poi diffonde tra gli amici che a loro volta le inviano ad altri amici. La fanciulla, una volta finita al centro del “pissi pissi” dei corridoi, dalla vergogna lascia la scuola. Vengono intervistati i Presidi, i compagni di classe, gli psicologi, il cane del vicino, la tartaruga e il gatto che, offeso dalle poche attenzioni e dal fatto di essere stato interpellato dopo gli altri, smette di miagolare. I giornalisti ci ricamano per una settimana e poi “Ciaone”, finito lo scoop-scandalo si aspetta quello successivo. Purché sia piccante, meglio se poi viene coinvolto qualche professore.
“Lolita” di Vladimir Vladimirovič Nabokov, che non era un fotografo.
Succedeva anche con le Polaroid, che hanno avuto successo perché scattavi e vedevi (si sviluppavano da sole) senza dover passare dal fotografo. Solo che le immagini non venivano diffuse in ogni angolo terracqueo ma al massimo tra amici e conoscenti. E le foto erano “pezzi unici”: alla peggio, rimanevano incollate tra di loro.
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Semmai il problema è più profondo: siamo quello che la macchina fotografica immortala. Non siamo (più) strette di mano ma pixel. Siamo selfie, a tutte le età. Dalla ragazzina che inizia ad arrotondarsi alla donna matura che “fa le facce” davanti allo smartphone in ogni situazione, dal matrimonio al funerale, passando per il bagno o la camera da letto. Bocche a culo di gallina o imbronciate. Qualche volta si potrebbe anche sorridere…
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Io sono colei che mi si vuole, io non sono colei che mi si crede. Tra Pirandello e gli autoscatti passa la A1. Passa, soprattutto, il tempo. Saper sedurre è un’arte che oggi è solamente fotografica, quindi visiva, e non percettiva. Rispondere alle richieste di immagini personali è una biscia con due teste, non solo soddisfa gli appetiti di chi le riceve ma anche quelli edonistici di chi le invia. Faccio fatica a credere all’ingenuità di chi si scatta “e poi non sapeva”. Basta leggere un quotidiano o, se questo sforzo richiede uno sforzo immane, andare in Rete e informarsi. Informarsi, appunto. Se non invii una foto delle tue tette o della tua passerina come prova d’amore (de càz) lui non ti lascia. E si ti lascia, non era innamorato di te. Eri solo una preda da far vedere agli amici, uno scalpo, un trofeo. “Vedi cosa riesco a farle fare? È ai miei comandi”. Impara a rispettarla e a corteggiarla, stronzo.
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È capitato anche a me, lo ammetto. Non di inviare ma di ricevere. Via mail e successivamente via telefonino. E di contraccambiare. Le ho fatto avere le mie lastre, il palmo della mia mano, il collo, il naso, gli occhiali. Si è incazzata. L’ho invitata a scoprirmi dal vivo, mi ha dato del finocchio. Evidentemente non conosce gli effetti benefici dell’omonima tisana, che aiuta a digerire anche i rospi.
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Sarebbe bello che le persone potessero farsi i selfie ai pensieri. Non alla cultura. Ai pensieri e alle idee, alle passioni e alla… cultura. No, alla cultura no. Alle passioni e a quello che pensano, che sognano. Ma forse il rischio sarebbe quello che per vedere “qualcosa” servirebbe un microscopio. Meglio allora continuare così. Forse.
Alessandro Carli
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