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ANALISI GENETICHE SUGLI ABITANTI DI RAPA NUI CONFUTANO LE TESI DEL COLLASSO ECOLOGICO DELL'ISOLA
ANALISI GENETICHE SUGLI ABITANTI DI RAPA NUI CONFUTANO LE TESI DEL COLLASSO ECOLOGICO DELL'ISOLA La cultura e l'archeologia di Rapa Nui, l'Isola di Pasqua, hanno affascinato i ricercatori per decenni, portando a variegate teorie sul passato e sul collasso dell'isola. I ricercatori dell'Università di Copenaghen e dell'Università di Losanna hanno...
La cultura e l’archeologia di Rapa Nui, l’Isola di Pasqua, hanno affascinato i ricercatori per decenni, portando a variegate teorie sul passato e sul collasso dell’isola. I ricercatori dell’Università di Copenaghen e dell’Università di Losanna hanno collaborato con un team internazionale per indagare sul destino della popolazione antica. Rapa Nui o Te Pito o Te Henua (l’ombelico del mondo),…
#Anna-Sapfo Malaspinas#Bárbara Sousa da Mota#Isola di Pasqua#Rapa Nui#Università di Copenaghen#Università di Losanna#Víctor Moreno-Mayar
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Il rumore provocato dal traffico stradale e ferroviario è associato a un maggior rischio di sviluppare demenza, in particolar modo il morbo di Alzheimer, la principale condizione neurodegenerativa associata al declino cognitivo. Si tratta di una scoperta estremamente significativa poiché l'Alzheimer rappresenta una vera e propria emergenza sanitaria globale; basti sapere che entro il 2050 si stima vi saranno oltre 130 milioni di pazienti in tutto il mondo. Tenendo presente l'impatto sulla salute, sociale ed economico della demenza, che colpisce profondamente anche le famiglie dei malati, conoscere tutti i fattori di rischio coinvolti può aiutare a ridurre sensibilmente decessi e tanta sofferenza.
A determinare che il rumore del traffico è associato a un rischio superiore di demenza è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati dell'Università della Danimarca meridionale, del Centro di ricerca danese sul cancro di Copenaghen e dell'Università Roskilde, che hanno collaborato a stretto contatto con i colleghi dell'Università di Copenhagen, del Dipartimento di Neurologia dell'Ospedale di Slagelse, del Dipartimento di Scienze Ambientali dell'Università di Aarhus, del Centro globale per la ricerca sull'aria pulita (GCARE) del Università del Surrey (Regno Unito) e di altri istituti danesi. Gli scienziati, coordinati dai professori Mette Sørensen e Manuella Lech Cantuaria, sono giunti alle loro conclusioni dopo aver condotto un approfondito studio di osservazione sui dati di circa 2 milioni di cittadini con età uguale o superiore ai 60 anni residenti in Danimarca tra il 2004 e il 2017.
Dall'analisi statistica è emerso che 103.500 partecipanti allo studio presentavano demenza incidente, fra i quali 31.219 con diagnosi di Alzheimer; 8.664 di demenza vascolare; e 2192 di demenza correlata al morbo di Parkinson. Incrociando questi dati con quelli dei decibel prodotti dal traffico nei quartieri in cui vivevano, è stata rilevata un'associazione significativa col rumore prodotto dal costante transito dei treni e dei mezzi su strada. In altri termini, maggiore era il rumore prodotto dal traffico, superiori erano le probabilità di sviluppare una forma di demenza, in particolar modo l'Alzheimer. “Nelle analisi dei sottotipi – spiegano gli autori dello studio – sia il rumore del traffico stradale che il rumore ferroviario erano associati a un rischio più elevato di malattia di Alzheimer, con rapporti di rischio di 1,16 (intervallo di confidenza 95% da 1,11 a 1,22) per traffico stradale con un massimo ≥ a 65 decibelrispetto a < 45 decibel; di 1,27 (1,22 -1,34) per rumore stradale minimo ≥ 55 a decibel rispetto a < 40 decibel; di 1,16 (1,10 – 1,23) per rumore ferroviario massimo ≥ a 60 decibel rispetto a < 40 decibel; e di 1,24 (1,17 – 1,30) per rumore ferroviario minimo di ≥ 50 decibel rispetto a < 40 decibel”. “Il rumore del traffico stradale ma non ferroviario – hanno aggiunto gli studiosi – era associato a un aumento del rischio di demenza vascolare. I risultati hanno indicato associazioni tra traffico stradale e demenza correlata al morbo di Parkinson”, hanno spiegato i ricercatori.
Per comprendere quanto il traffico possa impattare sul rischio di demenza, basti pensare che degli 8.475 casi registrati in Danimarca nel 2017, ben 1.216 potrebbero essere stati causati dal rumore di automobili, camion, moto, treni e altri mezzi in transito. Va tenuto presente che si è trattato di uno studio di osservazione e dunque non è stato ricercato un rapporto di causa-effetto tra rumorosità del traffico e sviluppo della demenza, tuttavia l'associazione non è da sottovalutare visto il numero di persone coinvolte, il periodo di follow-up prolungato e la qualità dei dati relativi all'esposizione del rumore.
“Questa ricerca, con sede in Danimarca, non ci dice la causa dell'aumento del rischio di demenza, ma aggiunge prove che collegano l'esposizione all'inquinamento acustico alla demenza. Sebbene questo sia un ampio studio osservazionale che utilizza stime dettagliate dei livelli di rumore residenziale, considera solo il rumore stradale e ferroviario e non valuta i fattori di rischio legati allo stile di vita associati alla demenza, che potrebbero anche essere attribuiti all'aumento del rischio di demenza”, ha affermato in un comunicato stampa la dottoressa Rosa Sancho, a capo dell'Alzheimer's Research UK. “Sebbene l'eliminazione dell'inquinamento acustico possa avere effetti benefici per la nostra salute e il nostro benessere, non sappiamo ancora se sia d'aiuto nel ridurre il rischio di demenza. Le prove attuali suggeriscono che il modo migliore per sostenere la salute del cervello è rimanere fisicamente e mentalmente attivi, seguire una dieta sana ed equilibrata, non fumare, bere solo entro i limiti raccomandati e tenere sotto controllo peso, colesterolo e pressione sanguigna”, ha chiosato l'esperta. I risultati della ricerca danese dovranno essere dunque confermati da indagini più approfondite. I dettagli della ricerca “Residential exposure to transportation noise in Denmark and incidence of dementia: national cohort study” sono stati pubblicati sulla rivista scientifica The British Medical Journal.
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Cosa significa essere una ragazza di vent’anni?
Ansia, stress, confusione, incertezza, paura... tutte parole che caratterizzano questi anni, soprattutto per noi che siamo entrati in questa fase nel bel mezzo di una pandemia.
Avere vent’anni sembrava l’apice del divertimento visto dagli occhi della me quindicenne, non vedevo l’ora di andare all’università, di fare nuove amicizie, andare alle feste, girare per le grandi città europee, scoprire nuovi posti e magari scoprire una nuova me.
Diciamo che le cose non stanno andando proprio così: seguo il mio primo anno di università seduta alla scrivania in camera mia, o magari direttamente dal letto, sto ore attaccata al pc, nelle pause sto al telefono a scorrere decine di instagram stories di ragazzi che sono nel mio stesso loop.
Mi sarebbe piaciuto viaggiare, visitare Copenaghen, Londra, Amsterdam invece ho appena prenotato le vacanze per andare per l’ennesima volta a Rimini, e non so nemmeno se ci lasceranno uscire dalla regione.
I miei colleghi di università non so chi siano, non conosco nemmeno un volto, nemmeno un nome.
Le feste... beh non vado a una festa da più di un anno ormai, una di quelle feste dove tu e le tue amiche vi trovavate prima a casa di una di voi, vi preparavate con la musica a palla, “amo meglio lo stivale basso o quello con il tacco?”, “tu metti la gonna o i pantaloni?”, “che dici rossetto o lucidalabbra?”. Poi pronte e piene di energia entravate una di fianco all’altra alla festa e iniziavate a salutare tutti i vostri amici e a conoscerne di nuovi.
Adesso il massimo del divertimento consiste nell’andare a fare un giro in bici, sedermi in riva al fiume e fare due chiacchiere.
Che poi tutta questa situazione una cosa me l’ha insegnata, forse l’avete già sentito ripetere allo sfinimento, però veramente, mai come ora, ho apprezzato così tanto le piccole cose, la semplicità: poter andare a fare anche solo un giro in bici, andare a farmi una corsetta di mezz’ora, uscire per il paese e sedermi su una panchina a parlare del più e del meno, tutte cose che fino a un anno e mezzo fa reputavo noiose, se dovevo uscire di casa per sedermi a una panchina piuttosto me ne stavo in casa a guardare Netflix, il sabato sera se non andavo a ballare era una serata persa.
Quindi siamo tutti d’accordo sul fatto che l’ultimo anno e mezzo non è stato un anno facile, ma forse a qualcosa ci è servito tutto questo.
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Copenhagen, l'UNESCO la nomina Capitale mondiale dell'Architettura 2023
Dopo Rio de Janeiro, prima città in assoluto a portare il titolo, sarà Copenhagen la futura capitale mondiale dell'architettura.
La nomina, avvenuta lo scorso 5 maggio da parte di UIA / UNESCO, prevede il titolo per il 2023, in concomitanza con il Congresso mondiale degli architetti UIA, con cadenza triennale, in programma nella città danese dal 2 al 7 luglio 2023.
Già eletta Capitale Verde D'Europa nel 2014, per il merito di aver ricercato soluzioni sostenibili da applicare alla qualità della vita, Copenhagen ha infatti scommesso di diventare la prima capitale carbon free entro il 2025.
Un processo verso le emissioni zero iniziato ormai da molti anni, dove le biciclette superano il numero di automobili, e l'architettura contemporanea circonda chiunque visiti la città della Sirenetta. Tutti gli edifici, dalle residenze agli uffici, scuole, università, biblioteche e musei portano la firma di alcuni tra i maggiori architetti in circolazione con architetture che diventano esempi virtuosi, modello per il resto del mondo.
Grande entusiasmo per la nomina anche da parte di Thomas Vonier - presidente dell'UIA - che ha definito Copenhagen una città "capace di offrire al mondo un fantastico contrasto nel modo in cui l'architettura aiuta le principali città globali ad affrontare le diverse sfide della vita urbana del 21° secolo".
Proseguendo nel discorso, Vonier ha inoltre fatto riferimento alla difficile situazione che stiamo vivendo: "L'attuale pandemia di COVID-19 ci mostra come l'architettura e il design possano aiutarci ad adattarci in tempi di crisi e a cambiare il futuro in meglio." - ha dichiarato. - "L'architettura può aiutare le comunità a recuperare e ricostruire, applicando lezioni che aiutano a evitare future catastrofi sanitarie e ambientali. L'architettura è una grande forza per il bene sociale quando progettiamo e costruiamo responsabilmente".
Le attività saranno sviluppate in stretto dialogo tra la città di Copenaghen, l'UIA, l'UNESCO e la segreteria del Congresso mondiale degli architetti UIA 2023.
Il Congresso mondiale degli Architetti 2023
In programma dal 2 al 7 luglio, il Congresso mondiale degli Architetti radunerà circa 15.000 professionisti, che discuteranno attorno al tema di "Futuri sostenibili - Non lasciare nessuno indietro".
Come affermato da Natalie Mossin - presidente UIA 2023 CPH e copresidente della Commissione UIA sugli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite - "l'obiettivo è democratizzare l'architettura e rispondere ai bisogni sociali attraverso l'architettura, proteggendo al contempo il pianeta".
articolo professionearchitetto
foto unsplash.com/@martenbjork
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Hello from Better Things!
Claudia
Hey mondo! Sono una ragazza di Porto, in Portogallo. La mia passione è la comunicazione, che ho studiato all’università fino all’età di 21 anni. Adesso, alle 22, avevo bisogno di un cambiamento e di fare qualcosa di diverso con la mia vita. Ho fatto un volontariato nella mia città per due anni ed è qualcosa che voglio continuare a fare tutta la mia vita. Mi piacerebbe essere integrata nella communità aiutando le persone e crescendo come persona. Iniziamo l'avventura a Roma!
Veronika
Sono di Ungheria. Ho studiato Pedagogia Sociale e Scienza dell'Istruzione. Dopo quasi 6 anni di università e 2 anni di lavoro volevo provare qualcosa di nuovo e acquisire nuove esperienze attraverso il volontariato. Questa è la prima volta che faccio il volontariato, ma spero davvero di essere un membro utile e prezioso della nostra piccola squadra!
Isa
Si dice che tutte le strade portano a Roma, ma è perché c'è sempre una ragione, la mia è stata collaborare con UILDM. Mi chiamo Isa e vengo da Madrid. Ho studiato Terapia Occupazionale e ho sempre voluto concentrare la mia occupazione su questioni sociali e umanitarie, conoscendo la realtà che vivono altre persone e offrendo le idee e l'aiuto che posso dare, rendendo questo in breve un bel e interessante scambio.
Insomma... questo è solo l'inizio di un grande anno insieme!
Ada
Ciao a tutti! Sono Ada di Varsavia e quest'anno lavorero' con il team della Finestra Aperta. Mi sono laureata in Italianistica e ho lavorato in campo dell'educazione, licenze Creative Commons e la promozione della letteratura. Lo SVE a UILDM sara' il mio primo volontariato a lungo termine. Non vedo l'ora di cominciare!
Mette
Ciao UILDM!
Mi chiamo Mette, ho 20 anni e sono di Danimarca. Ho appena finito la scuola secondaria superiore a Copenaghen. Ora sono qui per fare il volontariato nel progetto di integrazione. Sono molto emozionata di iniziare subito il progetto e provare qualcosa completamente nuovo. Anche se ho fatto un’altro volontariato prima, questo progetto è completamente nuovo per me. Spero di vedervi presto!
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Domingo do leão
Questa domenica mi sveglio con l’idea di spendere la giornata girando attorno le strade del centro e quelle più importanti di Lisbona. Vivo qui in Portogallo da due giorni, trasferitomi a Lisbona per lavoro, e devo fare qualche premessa prima di cominciare a raccontare. Quando sono arrivato, ho notato alcune similarità con la mia città natale, ovvero Palermo. Certe espressioni dei portoghesi, certi modi di fare, alcune somiglianze architettoniche. Due delle cose che più mi rimangono impresse sono: - l’arte dell’ “abbanniare” (arte sicula consistente nel sopraelevamento dei decibel per esprimere qualsiasi concetto di qualsiasi natura, molto usata sopratutto per le attività commerciali) - l’accento e parte del lessico. Una volta, attraversando la strada, sento una signora anziana esclamare ad un’altra (spero di scriverlo giusto) “comprace na vouta!” che al mio orecchio, a prima botta, suonò come “comprasse na voitta!” Apparte questo, son contento del viaggio di oggi, in quanto ho avuto modo di esorcizzare l’impressione infelice avuta i primi due giorni, ma questo perchè la stanza dove mi han collocato sta in una zona industriale e la percezione mi è arrivata un po’ sballata. Fortuna che la mia curiosità mi guida.
19/02/2017 Nel mentre scrivo, quasi giunta mezzanotte, ho deciso di farmi accompagnare dagli instrumental di Clams Casino ed il suo downtempo onirico quanto surreale, servendomi delle sue liquide e fumose atmosfere, le voci (campionate) allucinate e quel pizzico di arroganza hip-hop che ben edulcora i suoi brani. Scelgo di scendere verso le 12 circa e, vista la mia posizione distante rispetto al centro di Lisbona, scelgo una strada propostami da Google Maps, incurante di quanto ci avrei messo (un’ora e mezza). Tralascio la parte percorsa per arrivare lì poichè, apparte qualche cosa bizzarra incontrata per strada (tipo un cavallo solitario vicino la strada.) non succede granchè. Il tutto davvero comincia quando raggiungo l’Alfama, uno dei quartieri più caratteristici e storici di Lisbona, lì dove dicono si incontri la vera gente del posto, lì dove il vero calore portoghese esce e si mette in mostra, a disposizione dei turisti e dei viandanti. Intuendo di essere arrivato lì dove volevo, nel volto più autentico di Lisbona, decido di spegnere il mio lettore mp3 e di dedicarmi totalmente ai suoni e alla quiete di quei posti, facendo come fecero i Red Hot Chili Peppers. Let’s go get lost, let’s go get lost - Road Trippin, Red Hot Chili Peppers, Californication (1999) Vista l’ora di pranzo giunta a quel punto di percorso, scelgo il primo bar all’aperto, situato in una piazza con di fronte il “Museo do Fado”e mi siedo. Aspettando che mi portino da mangiare, colgo l’occasione e mi metto a scrivere, uscendo di zaino un bloc notes mezzo eroso dalla pioggia, una penna e un libro (Lettere d’amore del profeta, di Khalil Gibran a cura di Paulo Coelho). Scrivo testi, solitamente, oppure pensieri sparsi, o anche appunti per questo di testo. Nel mentre scrivo noto la piazza volgere l’attenzione ad un ragazzo con la chitarra ed una ragazza col tamburo. Si presentano e presentano le loro canzoni, musiche tradizionali portoghesi dall’anima malinconica. Lì per lì penso sia quello il famoso “Fado” e, alla prima buona occasione, con i complimenti spesi ai due ragazzi ne approfitto per chiedere se quello fosse il Fado di cui tutti parlano. La ragazza mi dice di no e mi spiega che quel che hanno suonato è una musica tradizionale del nord del Portogallo (probabilmente anche quella denotata come Fado per via delle note malinconica ma lei teneva a far bene la distinzione), mi dice che questa ha uno stampo più politico impegnato e mi consiglia di cercarmi un’artista chiamato José Manuel Cerqueira Afonso dos Santos, in arte Zeca Afonso. Le chiedo poi di spiegarmi cosa fosse quella percussione quadrata che suonava. Si chiama adufe ed è uno strumento a percussione tipico portoghese. Li ringrazio e faccio loro di nuovo i complimenti e torno stavolta a leggere con un buon caffé davanti ed una pipa caricata. Leggendo il libro di Gibran, curato da Coelho, mi colpì un passo che diceva:
Le cose molto grandi possono essere viste solo a distanza
Successivamente si presentò un altro distinto signore di colore, con in mano una chitarra e una buona voce; cantava brani in portoghese ed in spagnolo, attraendo simpatie e applausi dai clienti seduti ai tavoli.
Per le quattro e mezza circa decido di alzarmi e di continuare la mia camminata per le vie e comincio a notare come molte pareti degli edifici siano adornati da mattonelle con decorazioni geometriche e di stile musulmano, sia per colori che forme. Le adoro! Tutte quelle che trovo! Di fatti, se vedrete poi le foto fatte, noterete che una buona percentuale riguardano proprio queste mattonelle, la cui arte viene denominata azulejo.
Una coppia di signori, dandomi indicazioni per la Baixa, mi spiega che tale arte è stata tramandata sia dai musulmani (probabilmente nell’ottavo secolo) sia dalla tradizione Valenciana, che ha esportato la ceramica con questi colori di prevalenza azzurrina. Mi spiegano anche che c’è un museo di tali ceramiche a Lisbona.
Mi sono già segnato il posto: è chiaro che finirò lì dentro
a rubare le ceramiche.
(Queste ceramiche, specie i modelli a mattonella quadrata, mi han fatto venire in mente un progetto artistico, tra l’altro. Ne riparleremo, magari.)
Proseguo per la strada indicatami dai due gentili signori, non prima di fermarmi in una pasticceria e chiedere al tizio quale fosse un tipico dolce portoghese da mangiare. Mi indica il brigadeiro, dolce il cui nome è preso da una famosa università. Un orgasmo fatto di cioccolato. Arrivo in una piazza enorme e piena di negozi e ristoranti (Praça do comércio) per poi spostarmi verso le banchine e ammirare altri artisti di strada tra artigiani della sabbia ed altri musicisti.
Anche con questi attacco bottone e vengo a sapere che loro si chiamano i Nôs Raís, progetto musicale nato a Capo Verde e che vanta di un ensemble di otto elementi con strumenti vari ed una cantante, italiana a quanto ho capito. A spiegarmi tutto è stato Mauricio, il frontman, un buontempone dall’aria del sempre preso a bene, che abita in Olanda e che spesso viene qui a Lisbona, vivendo di sola musica. Chiedo anche informazioni riguardo uno strumento a corda simile ad una piccola chitarra. Mi spiega che è simile ad un ukulele e si chiama cavaquinho.
Promettiamo di rivederci, non solo perchè parlare con lui mi ha messo una certa allegria ma anche perchè vorrei comprarlo davvero il loro cd (per ascoltarlo non so dove visto che il lettore cd del mio portatile è rotto ma fottesega). Più vado avanti nella Baixa, più vedo altra gente esibirsi, altri musicisti e altra gente presa a bene.
Se penso al lavoro che devo fare qui e allo stipendio che prima o poi mi tocca, penso che, una volta avuto, ogni mese una percentuale di esso finirebbe per:
- Comprare vinili e cd alle “feira do vinile”
- Campare gli artisti di strada
- Libri antichi
- Mattonelle azulejos
- Sono sicuro c’è dell’altro che ancora non ho visto e che vorrei comprare di sicuro.
Ad un certo punto mi imbatto nel Mercado de Ribeira e decido di fare un salto al Time Out Market che si presenta come un enorme spazio gestito da tante attività culinarie, ognuna con i suoi prodotti tipici. Questo mi ricorda un altro posto, il Copenaghen Street Food, un posto molto figo dove fare le stesse cose, forse un po’ più grande, ma che non mi suscita bellissimi ricordi: Ci ho lavorato. E’ giunto il momento di raggiunge il Bairro Alto, quartiere giovanile, pieno di locali e musica dal vivo e scopro sin da subito che il Bairro... ..è veramente alto! Ogni volta che chiedo indicazioni, la risposta è “en cima, en cima” ed è davvero così. E’ un continuo salire fino ad arrivare ad un punto panoramico davvero magnifico, affollato di ragazzi d’ogni genere che si intrattengono tra chiacchiere, musica improvvisata, balli euforici e foto con il tramonto alle spalle. Qui decido di fermarmi e godermi altre boccate di tabacco prima di proseguire per i dintorni del Bairro. Incontro i Misticu e la loro musica reggae, incontro un gruppo di ragazzi dell’accademia di belle arti, tutti vestiti in tutù e che suonavano per strada. Tra l’altro una di loro si avvicina a me e mi guarda sorridente, io le dico “Boa Tarde!” e lei arrossisce e scappa via. Nel migliore dei casi, lo ha fatto perchè ha inteso come fossi indecente col taglio di capelli che attualmente mi ritrovo. Nel migliore dei casi. Incontro anche altri due ragazzi musicisti, uno ucraino (Andrej) ed uno brasiliano (Diego) e anche con loro è chiacchiere e musica (appagante la loro esibizione di Feel Good Inc. dei Gorillaz assieme ad una cantante che si è aggiunta poco dopo.) Decido di tornare e ripercorro la strada a ritroso. Mi fermo all’Alfama in un piccolo locale dove mi han servito dell’ottima zuppa verde (e ho fatto la cazzata di bere acqua subito dopo. Pirla.) e decido di fare il ritorno costeggiando il rio, tirandomi sul cappuccio della felpa e somigliando ad un incrocio tra una mucca pezzata ed un dalmata abbandonato. Un’altra ora e mezza mi aspetta e stavolta ad accompagnarmi ci sono i Subsonica. Con grande gaudio aspetto i prossimi due loro progetti. Tutto questo, mi ha portato a dire una cosa, benefica come non mai. “Lisbona mi piace!”. Con i suoi colori, i suoi tram, la sua movida, la sua malinconia nascosta tra le nuvole e la sua quiete tra i viali. Con le sue piazze vaste e gremite e i suoi artisti che affollano le strade, con la sua lingua musicale e i suoi azulejos, con i suoi continui dislivelli (di certo ci vogliono buoni polpacci per scegliere di non prendere alcun mezzo di trasporto...) e la gentilezza dei suoi abitanti. E ora finisco di chiudere questo diario. Credo sia un diario. L’unica cosa certa che so e che domani mi aspetta il primo giorno del nuovo lavoro. E già la mia mente è persa alla prossima occasione per tornare all’Alfama, alla Baixa, al Bairro Alto, al Chiado, al Mercato de Ribeira, al centro di Lisbona. Ora posso cominciare a vivere Lisbona.
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“Voglio risvegliare la coscienza della gente, così che nessuno sprechi la propria vita”. Kierkegaard, il pensatore necessario
Alla grande domanda “come si può essere umani in questo mondo?” implicita in tutte le opere di Søren Kierkegaard, si può cadere nella tentazione di rispondere: “bisogna non essere Søren Kierkegaard”. Il grado di ricerca della sofferenza da parte del filosofo danese rasenta i confini del masochismo. Infatti, se qualcuno gli avesse mai chiesto cosa significava per lui essere cristiano, Kierkegaard gli avrà probabilmente risposto: soffrire incommensurabilmente. Poco prima della sua morte, nel 1855, all’età di soli 42 anni, scrisse che “essere cristiani è la più abominevole delle agonie; è – e così dev’essere – come avere il proprio inferno qui sulla terra”. I titoli dei suoi libri – Timore e tremore, La malattia mortale, Il concetto dell’angoscia – certamente veicolano questa affermazione, così come la sua vita scandita dalla sofferenza praticamente dall’inizio alla fine.
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Nato nel 1813, Søren è stato uno dei soli due fratelli su sette ad aver vissuto oltre i 33 anni di età. Nel 1840, chiese la mano di Regine Olsen, ma dopo un anno ruppe il fidanzamento; una scelta necessaria, secondo Kierkegaard, per compiere il suo destino di autore. Per i successivi 14 anni visse in solitudine, producendo una quantità di scritti abnorme tanto che il suo cagionevole corpo faticava a sostenere. Inoltre, veniva spesso coinvolto in numerose controversie dai giornali o dalla chiesa danese e ciò lo rese un esiliato nella sua stessa patria, almeno secondo il suo biografo Joakim Garff.
Ciononostante, Kierkegaard era convinto – in modo non dissimile da Gesù – che la sua sofferenza avrebbe salvato il genere umano. “Voglio risvegliare la coscienza della gente, così che nessuno sprechi la propria vita,” scrisse nel 1847. Ne La malattia mortale (1849) dichiarò che smarrire sé stessi “può passare sotto silenzio e come una cosa da niente in questo mondo; mentre qualsiasi altra perdita, un braccio, una gamba, cinque dollari, propria moglie, etc., salta subito all’attenzione”. Si trattava di un pericolo tipico della società contemporanea. Kierkegaard riconosceva l’industrializzazione repentina, l’ascesa delle masse e del materialismo delle economie capitaliste, come minacce alla psicologia dell’individuo. In Postilla conclusiva non scientifica alle briciole di filosofia (1846), Kierkegaard sosteneva che “l’astrazione del livellamento, quest’autocombustione del genere umano indotta dall’attrito che si crea quando viene a mancare l’isolamento religioso dell’interiorità personale, resterà alta come diciamo di un aliseo che corrode ogni cosa”.
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Come ci illustra Clare Carlisle nella sua nuova e straordinaria biografia, Philosopher of the Heart, Kierkegaard fu “probabilmente il primo grande filosofo a vivere nel mondo riconoscibilmente moderno dei giornali, dei treni e delle vetrine, dei luna park e dei grandi negozi del sapere e dell’informazione. Anche se la vita stava diventando materialmente più semplice e confortevole per le persone più abbienti come lui, stavano sorgendo nuovi tipi di problematiche riguardo alla propria identità e alle proprie apparenze”. In altre parole, Kierkegaard esperì le ambiguità, le contraddizioni e le difficoltà della vita moderna che esplorò nella propria opera. Disprezzava la venuta della società di massa, tuttavia passò la propria vita nei quartieri centrali di Copenaghen; si espresse con sdegno sulla borghesia, eppure visse nella ricchezza e nelle comodità che gli erano state concesse dall’eredità paterna; era un fervente cristiano, però fu l’antagonista più noto della cristianità stabilita. Per di più, Kierkegaard si addentrò nelle condizioni moderne non come un predicatore o un oratore o con un supporto istituzionale accademico: scrisse “senza l’autorità”, come lui stesso afferma. “Kierkegaard vedeva l’intera industria accademica come una scappatoia dall’esistenza autentica”, osserva Carlisle, “metteva in relazione questo distacco intellettuale con la cinica commercializzazione della conoscenza: i professori delle moderne università vedevano le proprie idee come i mercanti vendono le proprie merci, ma in modo ancora più ipocrita, poiché le loro astrazioni furbescamente infiocchettate non contengono un briciolo di autentica saggezza”.
Per il pensatore scandinavo, la crisi spirituale dell’umanità necessitava di una risposta opposta a questo tipo di presuntuoso distacco. La minaccia all’io moderno era troppo grande. Essere costantemente circondati da persone assorte non nel rapporto con Dio, ma negli spettacolari luccichii della società borghese, rappresentava il rischio di perdere la coscienza di sé stessi. Kierkegaard vedeva nell’io la sintesi fra finito e infinito, fra temporaneo ed eterno, in continuo divenire, in costante cambiamento. Ciò esponeva le sue vulnerabilità: il solipsismo, la disintegrazione; in breve, l’interruzione del rapporto con Dio, che per Kierkegaard era l’aspetto più importante della reale individualità. Una vita che non si fonda sinceramente su Dio, per quanto piena e felice resta una vita vissuta nella disperazione, dal momento che la disperazione è la “perdita dell’eterno e dell’io”. Il compito dell’individuo è avere fede, ossia l’opposto della disperazione: “mettendosi in rapporto con sé stesso, volendo essere sé stesso, l’io si fonda in trasparenza nella potenza che l’ha posto”.
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Kierkegaard sapeva ciò di cui parlava. La sua gigantesca opera può essere vista come un lungo, compulsivo ed esasperante tentativo di capire chi fosse e quale fosse il suo posto nel mondo. Come osserva Carlisle, Kierkegaard “era invischiato in una discussione fra traguardi terreni e la rinuncia estetica”: era combattuto fra il desiderio di continuare a scrivere e la tentazione di ritirarsi in campagna e abbandonare per sempre la sua attività autoriale. A tal proposito, la vita di Kierkegaard, come quella di Nietzsche, è un monologo, un monodramma al quale il pubblico rispondeva contestualmente con assoluto smarrimento. Nessuno sapeva cosa fare del suo lavoro. Quando nel 1843 i due volumi di Aut-Aut iniziarono a circolare a Copenaghen, Signe Læssøe scrisse a Hans Christian Andersen, che al tempo si trovava a Parigi: “Comprendo solo una piccola frazione del libro – il tutto è troppo filosofico”.
Con i suoi molti pseudonimi, la propensione all’ironia e l’abilità nel mescolare generi letterari e filosofici, Kierkegaard propiziava questo tipo di risposte. Nulla di ciò che faceva o scriveva era mai chiaro. “Il paradosso”, scrisse nel suo diario nel 1838, “è l’autentico pathos della vita intellettuale, e come soltanto le grandi anime sono esposte alle passioni, così soltanto i grandi pensatori sono esposti a ciò che io chiamo paradossi, i quali non sono che grandiosi pensieri prematuri”.
*
“Ha scoperto”, scrive Carlisle, “che vivere in una moderna metropoli intensifica il livello di ansia da lui stesso riconosciuto come universalmente umano. Fin dai tempi di Adamo ed Eva, gli esseri umani si sono sentiti ansiosi e ora, accerchiati dalle migliaia di riverberi della città, le loro ansie si moltiplicano, poiché diventano inquieti spettatori delle loro stesse vite”. Nonostante il personaggio pubblico polemico, Kierkegaard era estremamente gentile con amici e parenti, soprattutto se in difficoltà. Scrisse lunghe e premurose lettere alla cognata che soffriva di depressione, ricordandole di “amare sé stessa”. Un amico, Hans Bröchner, una volta disse che “lui lo capiva come pochi altri e che non lo sollevava dalle proprie tristezze nascondendole, ma facendogliele capire, snocciolandole fino alla chiarezza più assoluta”.
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Alcuni si potrebbero chiedere se davvero Kierkegaard sia stato credente, una domanda evidentemente paradossale che in tanti rigetterebbero con un po’ di alterigia. Com’è possibile dubitare della fede di Kierkegaard, che praticamente si uccise scrivendone? Eppure, questa domanda contiene un’intuizione valida. Dopo tutto, la concezione di cosa voglia dire vivere una vita cristiana, per Kierkegaard, è così esigente da diventare inumana nella quotidianità. “La fede non si può comprendere, il massimo a cui si arriva è poter comprendere che non si può comprendere” scrisse ne Il mio punto di vista, un’osservazione che Albert Camus avrà avuto sottomano quando, ne Il mito di Sisifo, dichiarò che Kierkegaard “fa qualcosa di meglio che scoprire l’assurdo: lo vive. […] Quel viso tenero e insieme sghignazzante, quei movimenti repentini, seguiti da un grido che parte dal fondo dell’anima, sono lo spirito dell’assurdo stesso alle prese con una realtà che lo supera”.
Dove Camus vedeva la soglia dell’assurdo, Kierkegaard si librava in un salto di fede. Ma la sua versione del cristianesimo è spesso indistinguibile dallo stato dell’assurdo; tant’è che, come Camus afferma, Kierkegaard attribuisce a Dio le caratteristiche principi dell’assurdo: ingiustizia, incoerenza e incomprensibilità. E nelle sue feroci sferzate alla chiesa danese e alla cristianità stabilita, Kierkegaard si avvicina a Nietzsche: come il tedesco, riconosce che non solo Dio è morto, ma che la fede si è estinta nelle anime degli uomini d’oggi, e in particolare nell’anima di chi si proclama emissario di Dio. “Kierkegaard si sente fortemente combattuto nei confronti del cristianesimo, e utilizza il termine “cristianità” in modo denigratorio,” commenta Carlisle all’inizio. “Crede che il cristianesimo – le sue tradizioni, i suoi concetti, i suoi ideali – sia diventato così familiare e dato così tanto per scontato, che presto potrebbe scomparire sotto la linea dell’orizzonte”.
Così, sia per quelli che non possono che librarsi in quel salto, sia per chi invece pensa che il cristianesimo sia effettivamente tramontato, l’opera di Kierkegaard ha il paradossale effetto di restituirci all’assurdo, ossia dichiarare il confronto fra il nostro desiderio di significato e il silenzio dell’universo. E restituendoci all’assurdo, rivelandoci l’impraticabilità e l’efferatezza di una vita cristiana, ci aiuta – forse inavvertitamente – a iniziare a rispondere alla questione che Kierkegaard stesso si è posto in principio: come si può essere umani in questo mondo?
Morten Høi Jensen
*L’articolo è stato pubblicato in forma completa su “The American Interest”; la traduzione è di Giacomo Zamagni
L'articolo “Voglio risvegliare la coscienza della gente, così che nessuno sprechi la propria vita”. Kierkegaard, il pensatore necessario proviene da Pangea.
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L'eccesso di peso influisce sull'inquinamento ambientale
L’eccesso di peso influisce sull’inquinamento ambientale
Secondo uno studio condotto dall’Università di Copenaghen, dell’Alabama e dell’Ateneo di Aukland in Nuova Zelanda l’obesità, eccesso di peso porta ad una maggior produzione di CO2 sia per l’eccesso processo metabolico dell’individuo che l’eccesso consumo di cibo.
La ricerca è stata svolta calcolando le emissioni in più prodotte da un individuo obeso rispetto a individui di peso normale,…
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Hai gli occhi azzurri? Ecco l’affascinante teoria sulle tue origini
Hai gli occhi azzurri? Ecco l’affascinante teoria sulle tue origini
Siamo soliti pensare che il colore dei nostri occhi sia semplicemente una caratteristica fisica che ci distingue o accomuna ad altre persone. In realtà, secondo una ricerca, avere gli occhi azzurri significa qualcosa di molto particolare.
L’affascinante studio, condotto dall’Università di Copenaghen, sostiene che le persone con gli occhi blu condividono un antenato con tutti coloro che hanno la…
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MACERATA – Il quinto appuntamento dei ‘Concerti di Appassionata’ giovedì 7 dicembre alle 21 al Teatro Lauro Rossi è una serata speciale che anticipa il 2018, in cui si celebra il centenario della morte di Claude Debussy. A Macerata, infatti, Benedetto Lupo si esibisce nel primo di una serie di concerti che porteranno il pianista in Italia, negli Stati Uniti e in Canada con un programma integralmente dedicato al compositore francese.
La prima e la seconda serie di Images, le Estampes, le Masques, D’un cahier d’esquisses e L’isle joyeuse: sono le pagine musicali scelte all’interno della vasta opera di Debussy che costituisce un autentico punto di svolta nel repertorio per pianoforte e che ha dato il via ai linguaggi e alle sperimentazioni del Novecento.
A far rivivere le suggestive atmosfere di uno dei compositori più amati da pubblico e critica è Benedetto Lupo, accademico effettivo dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma. Pianista considerato a livello internazionale come uno dei talenti più interessanti e completi della sua generazione, Lupo è stato il primo italiano a vincere il prestigioso Concorso Internazionale Van Cliburn nel 1989.
Da allora ha suonato con le più illustri orchestre americane ed europee in una intensa attività concertistica che l’ha visto protagonista al Lincoln Center di New York, alla Salle Pleyel a Parigi, alla Wigmore Hall a Londra, alla Philharmonie a Berlino, al Palais des Beaux Arts di Bruxelles, al Festival di Tanglewood, al Festival Internazionale di Istanbul, al Festival “Enescu” di Bucarest e al Tivoli Festival di Copenaghen.
Titolare della cattedra di pianoforte all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e docente al conservatorio ‘Nino Rota’ di Monopoli, Benedetto Lupo incontra gli studenti delle scuole maceratesi nel secondo appuntamento di ‘Fuori dal pentagramma’ alle 11 di giovedì 7 dicembre al Teatro Lauro Rossi. Per potervi prendere parte è sufficiente contattare l’associazione inviando una mail ad [email protected].
La stagione 2017-2018 dei ‘Concerti di Appassionata’ è organizzata dal Comune di macerata con la direzione artistica di Appassionata, il contributo di MiBACT, Regione Marche, Società Civile dello Sferisterio-Eredi dei Cento Consorti, APM, Università di Macerata, Istituto Confucio e Anmig. Main sponsor della stagione è Menghi Shoes.
Biglietti in vendita alla Biglietteria dei Teatri in piazza Mazzini 10 a Macerata (T 0733-230735, lun.-sab. 10.30-12.30; 16.30-19.30; il giorno stesso del concerto anche in teatro a partire dalle 20); online su vivaticket.it. L’acquisto dei biglietti con la Carta del Docente è possibile alla Biglietteria dei Teatri a Macerata. Per informazioni comune.macerata.it e appassionataonline.it.
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Fichte. Fichte, Johann Gottlieb. - Filosofo tedesco (Rammenau, Lusazia sup., 1762 - Berlino 1814). Seguace della filosofia kantiana, e in particolare della sua teoria morale, intese costruire l'edificio sistematico del sapere su un principio di libertà. Principio di tutto, per F., è l'io, che pone sé stesso e allo stesso tempo oppone a sé stesso un non-io (la natura), per poter affermare la sua libertà. La filosofia di F. esercitò un grande influsso sui romantici, perché intendeva la realtà non come qualcosa di esterno all'uomo, ma come il prodotto della sua libera attività spirituale. Con i suoi Reden an die deutsche Nation (1808) contribuì al risveglio del sentimento nazionale tedesco contro l'invasore francese. VITA E OPERE Di origini contadine, studiò grazie all'aiuto del barone von Miltitz, morto il quale dovette affrontare dure difficoltà di vita. Studiò nelle università di Jena e di Lipsia. Fu precettore a Zurigo nel 1788, dove conobbe Marie Johanne Rahn, nipote di Klopstock, che poi sposò. Dopo la lettura delle opere di Kant, che lo entusiasmarono, si recò a Königsberg nel 1791 per conoscere personalmente il filosofo, e gli presentò il Versuch einer Kritik aller Offenbarung che, pubblicato anonimo nel 1792, fu attribuito allo stesso Kant. Nel 1793 pubblicò i Beiträge zur Berichtigung der Urteile des Publicums über die französische Revolution, apologetico della Rivoluzione e di Rousseau, interpretati entrambi con criteri che già annunciano gli ulteriori svolgimenti della sua filosofia. Dal 1794 al 1799 professore di filosofia all'università di Jena, dovette lasciare l'incarico in seguito a un'accusa di ateismo, che ebbe strascichi polemici. Agli anni di Jena appartengono le sue opere fondamentali: Ueber den Begriff der Wissenschaftslehre oder/">oder der sogenannten Philosophie (1794), Grundlage der gesammten Wissenschaftslehre (1794), Vorlesungen über die Bestimmung des Gelehrten (1794), Grundlage des Naturrechts (1796), Das System der Sittenlehre nach den Prinzipien der Wissenschaftslehre (1798). Dopo Jena si recò a Berlino, dove ebbe contatti con il circolo romantico. Fu poi a Königsberg e a Copenaghen. Nell'inverno 1807-08 tenne a Berlino le famose Reden an die deutsche Nation. Fu professore e rettore dell'università fondata a Berlino nel 1810. Come F. stesso dice, fu la Kritik der praktischen Vernunft di Kant a rivelargli un nuovo mondo diverso da quello della necessità, il mondo della morale, del dovere, della libertà. PENSIERO Il punto di partenza e il tema fondamentale della meditazione fichtiana è costruire un edificio sistematico che abbia come fondamento un principio di libertà. Il corso storico, la vita politica, la vita individuale tendono e devono tendere verso la realizzazione di una sempre maggiore libertà, contro il meccanicismo, la passività, la ripetizione. Aderire a una filosofia come la sua, dice F., non è soltanto il risultato di una riflessione, ma è essenzialmente una scelta, quella scelta che è lo stesso punto di partenza della filosofia fichtiana, la quale ha confessatamente origine in un atto di fede, la fede nell'autonomia e nella libertà dell'uomo. Per dare un fondamento speculativo a queste esigenze, F. si serve di un metodo, che pretende di andare più a fondo di quello di Kant, il quale si limitava a constatare e analizzare, mentre F. costruisce o piuttosto descrive una genesi ideale. Il problema è ricondurre a un principio unico di libertà ogni fenomeno, compresi quelli che si presentano con caratteri opposti ad esso. Questo principio di libertà è l'Io, puro atto verso la cui realizzazione noi tendiamo. Nella Grundlage (1794) F. espone la genesi ideale del mondo attraverso alcuni principi fondamentali. Il primo principio è l'io pone sé stesso, col quale principio noi pensiamo un'attività illimitata, un assoluto atto spirituale. Il secondo principio è l'io pone il non-io; anche questo principio è assoluto, inderivabile dal primo, e rende ragione della necessità di una opposizione, di una resistenza, perché l'io si realizzi. Con ciò io e non-io sono in reciproco rapporto e si limitano reciprocamente. Di qui il terzo principio, l'io oppone nell'io all'io divisibile un non-io divisibile. Abbiamo così raggiunto la coscienza empirica, la cui esperienza, sia in quel che ha di attivo, sia in quel che ha di passivo, ha la sua fonte ultima nell'io puro. L'esperienza dell'io è duplice, teoretica e pratica. La prima è la presa di coscienza dell'io attraverso la rappresentazione dell'oggetto; dalla sensazione alla ragione si ha un progressivo intervento delle facoltà rappresentative nel processo di costituzione dell'oggetto conosciuto, ciascuna delle quali interviene perché il soggetto cerca di possedere pienamente l'oggetto, ossia di trovare in sé stesso la ragion d'essere di esso. Ma questa esigenza non può essere soddisfatta appieno, giacché, se lo fosse, verrebbe meno la stessa esperienza teoretica, la quale presuppone l'alterità dell'oggetto e quindi l'urto del soggetto nell'oggetto. Questa esigenza di possesso completo dell'oggetto è la meta ideale (destinata a rimanere tale) verso cui tende progressivamente l'attività pratica. E tale è in generale il compito dell'uomo morale; ma questo compito si attua attraverso una serie di azioni particolari, a seconda delle singole persone e delle circostanze. Ora la particolarità dei doveri non è data dall'impulso morale puro, ma dall'unione di impulso morale e impulso naturale; l'impulso naturale offre la materia dell'azione, il morale puro la forma. Con ciò F. cerca evidentemente di superare le difficoltà del formalismo kantiano; comunque la sua morale è una morale dell'autonomia spirituale. Strettamente connessa con la dottrina morale di F. è la sua dottrina politico-giuridica. Il diritto è fondato sull'autonomia della persona e sorge dall'esigenza di garantire questa autonomia. Ma a ciò non bastano le volontà singole; occorre una volontà superiore che faccia propria l'esigenza giuridica e le dia forza. Questa volontà è lo stato, la cui autorità si basa sul consenso dei singoli, secondo lo schema contrattualistico, ripreso da Fichte. Ma lo stato fichtiano non è semplicemente giuridico; ha anche una funzione etico-pedagogica, volta a promuovere la libertà dei cittadini. Non deve, per es., limitarsi a garantire il diritto di proprietà, ma deve fare in modo che tutti ne fruiscano; lo stato pertanto interviene nella vita economica, tanto che si è parlato talora di un socialismo di stato fichtiano. L'azione dello stato è però soltanto un mezzo per l'attuazione della vita morale, sì che esso si estinguerebbe se la vita morale potesse realizzare la meta ideale cui aspira, ma alla quale, come si è osservato, essa può solo progressivamente avvicinarsi. Si suole parlare di una seconda fase della filosofia fichtiana, che si fa cominciare col 1800, anno di pubblicazione di Die Bestimmung des Menschen. In essa ritroviamo tutti gli elementi della precedente speculazione, ma con un mutamento di accenti e di toni. L'io puro diventa una sorta di assoluto, al di sopra dell'io finito; beninteso è sempre l'io finito che rivela e realizza questo assoluto, ma è l'assoluto che è il primo, e la libertà, il sapere dei singoli gli sono subordinati. F. indulge a motivi religiosi, come quello della grazia o dell'aspirazione all'eterno, ripercorrendo itinerarî neoplatonici; i vecchi motivi della sua filosofia continuano tuttavia a vivere, ma all'interno di questo nuovo quadro. Ciò è caratteristico del pensiero politico, i cui temi restano i medesimi, solo che F. sovrappone ad essi una funzione pedagogica (e autoritaria), che li promuova; il popolo, per es., che egli aveva teorizzato sovrano, è ora incapace di governarsi da sé e ha ancora bisogno di essere educato.
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