#Una bellezza russa e altri racconti
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Trascinato dall'estroso vento dei sogni fuori delle vallate della notte, stavo sul ciglio di una strada, sotto un limpido cielo tutto dorato, in una meravigliosa contrada montana. Senza guardare, percepivo da qualche parte laggiù, dietro di me, la lucentezza, gli spigoli e le sfaccettature dell'immenso mosaico di rupi, i precipizi abbaglianti, lo specchio corrusco di molteplici laghi. La mia anima era in preda a una sensazione di divina policromia, di libertà, di sublime: sapevo di essere in Paradiso. Tuttavia, in questa mia anima terrena permaneva, simile a una fiamma che straziava, un unico pensiero ancora terreno – e con quale gelosia, con quale inflessibilità lo proteggevo da quell'aura di titanica bellezza che mi circondava. Quel pensiero, quella nuda fiamma di tormento erano rivolti alla mia patria sulla terra: scalzo e misero, sul ciglio di una strada montana, attendevo i caritatevoli, luminosi abitanti del Cielo, mentre il vento, quasi il presentimento di un miracolo, scherzava tra i miei capelli, riempiva le gole di un rombo cristallino, e scompigliava le sete fiabesche degli alberi che fiorivano tra i dirupi lungo la strada; steli d'erba slanciati lambivano i tronchi come lingue di fuoco; ampie corolle di fiori si staccavano soavi dai rami lucenti e, come aerei calici traboccanti di luce solare, galleggiavano nell'aria, gonfiando i diafani petali aperti; il loro profumo, dolce e umido, mi ricordava quanto di più bello avessi mai conosciuto nella vita.
Vladimir Nabokov, La parola in “Una bellezza russa e altri racconti”
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“Ho l’animo ardente e odio questa gente buona a nulla, le prediche infinite per farci accontentare del nostro destino”. Il giovane Dostoevskij e il suo doppio
L’argomento è intrigante e malizioso. Cos’è il doppio? Chi è che ci duplica? Quando ci accorgiamo di avere una duplice presenza siamo ancora integri? Uno dei primi a darsi delle risposte fu Dostoevskij giovane ne Il sosia. Però lo fece eludendo le domande, inscenando una polemica con l’artefice della tradizione del doppio che nella sua letteratura era Gogol’: questo stando a quanto dice la storia dei libri, perché molto deve essere passato fuori di lei, nei sogni, nei disegni dei tappeti e nei cerchi di fumo.
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I manuali ci raccontano infatti una storia deliziosa e tracciata con la mano garbata dell’erudizione: il doppione parte dai racconti gialli dell’orrore di Hoffmann e di Poe e arriva ai libri brevi dei discorsi di Stevenson su Jekyll e Hyde, fino all’epilogo degno di nota col ritratto del signor Gray. Poi c’è Freud e le sue elucubrazioni sul doppione, la scissione atomica del super-io. Ma questa è un’altra storia. E credo che qui scattasse il matto a Nabokov.
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Nabokov fu il doppio di Dostoevskij, se mi si passa il motto di spirito. Entrambi scrissero da giovani sul doppio. Il romanzo di Dostoevskij è del 1846 ed esce che il nostro ha 25 anni e un po’ di galera ancora da scontare. Ma c’è già. Andiamo a sfogliare le lettere che si assiepano in quegli anni (o Aragno, ma costano milioni, o altrimenti sul web la prima edizione inglese Chatto & Windus del 1917). Sfotte così in una lettera al fratello Michael dei primi del 1846: “gli editori del Contemporaneo potrebbero rifiutarlo; non mi nuoceranno troppo”. Il sosia “come Povera gente va avanti con facilità e leggerezza”. Ecco le qualità che Freud sottovalutava nel doppio di Dostoevskij, nella personalità che si spacca senza l’accetta: la leggerezza di tocco, il gesto inevitabile di fare un romanzo ad umor nero, virato sul canto di Gogol’.
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Quanto a Nabokov. Per uno scherzo fatale, arriva a pubblicare il suo Disperazione in inglese in mezzo a una collana di libri popolari, quasi gialli, durante gli anni berlinesi (“un rinoceronte circondato da colibrì” scrisse agli amici con sagace presunzione). La cosa va avanti per le lunghe con l’editore inglese. Se voi scorrete gli estratti del suo epistolario, Selected letters 1940-1977 troverete certo le lettere più ricche che sono quelle alla moglie Vera; ma se guardate bene, ci sono delle pregevoli incazzature con gli editor, vuoi americani vuoi inglesi. In quel giro d’anni il conte Vladimir vorrebbe dare un cazzotto virtuale a Mr. Mangione (chiaramente newyorkese) e in altri momenti si trova a dover usare il pugno di ferro rivestito di velluto coi vari vassalli degli studi editoriali associati, come quando si mette di santa pazienza a difendere la sua traduzione inglese di Disperazione con tale Altagracia de Jannelli dicendogli: faccia di meglio Lei se ci riesce. “Forse può lavorare sulla traduzione dal russo che le mando sia per la vecchia edizione di Camera oscura che per Disperazione (di cui le mando il manoscritto e che dovrebbe uscire in Inghilterra la prossima primavera)”.
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Sia Dostoevskij che Nabokov fecero a pugni per diffondere a stampa le loro idee del doppio che è in noi e ci attraversa: come dicono i tedeschi, echeggiando le passeggiate romantiche, Doppelgänger, colui che cammina insieme a noi.
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In Dostoevskij è un sosia che si affaccia al salone del rispettabile protagonista e lo diffama. Una storiella che fu come un colpo di fulmine per García Márquez. In Nabokov invece “ci si interroga sulle sottili dissezioni di una mente tutt’altro che ‘ordinaria’ o ‘nella media’ dal momento che la natura ha profuso sul mio eroe una buona dose di genio letterario intingendolo nel sangue; il criminale in lui, prevalendo sull’artista, prende poi a impiegare quei mezzi che originalmente la natura aveva elargito solo al suo ‘io’ artistico. Non è assolutamente un romanzo per detective” (lettera del 1936 ad Hutchinson & Co.)
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Quel che fa sorridere, a conti fatti, è il destino che appaia Dostoevskij e Nabokov. In lotta con Gogol’ il primo. In lotta con Dostoevskij, sempre e comunque, il secondo. (E scusate se vedo troppa foga di far fuori i padri letterari in questa vicenda). Ironia della sorte, si trovarono a pubblicare in russo su due riviste che avevano nomi quasi identici: Sovremennik ai tempi dell’Ottocento, Sovremennye zapiski ai tempi dell’emigrazione russa di Nabokov. Erano entrambe riviste a vocazione socialistoide. Forse per questo i due geniacci si facevano terra bruciata intorno…
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Ecco Dostoevskij col lanciafiamme per finire in bellezza. Scrive al fratello senza mezzi termini un anno dopo aver composto Il sosia, con la testa ancora incasinata: “Guarda bene fratello, da tutta questa faccenda del giornale ho dedotto una sola regola. Primo, il lieto autore di successo si fa solo del male a farsi amici gli editori e i proprietari di giornali perché questi signori si prendono delle libertà e si comportano in modo disonesto. Di più, l’artista ha da essere indipendente e infine deve consacrare il suo strumento al santo spirito d’arte – ché il suo strumento è davvero santo e casto e gli richiede tutto il suo cuore, senza altri amori. Il mio cuore scoppia per tutte le immagini che gli arrivano dall’anima. Fratello, mi sta succedendo come una metamorfosi non solo morale, ma fisica. Mai prima di oggi ero stato così lucido, così ricco di dentro; mai ero stato così tranquillo di natura, né così soddisfacente per quanto riguarda il fisico”. Straordinario. Dopo aver scritto Il sosia, Dostoevskij è diventato la copia migliore di quel che era prima. Un tipo schizoide? Non sarei così riduttivista…
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E infatti, solo un anno dopo queste vicende, ne aveva 26, si trova a bestemmiare contro tutti quelli che vorrebbero semplificare il mondo e renderlo un piattume dove non ci sono anfratti per la personalità ricca di settemplici contraddizioni.
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In quel 1847 scrive “solo” La padrona, un racconto di genere nero con tanto di incubi sulla paternità e cartomanti vari. Forse si era già bruciato come autore giovane e bofonchiava col fratello: “Invero la dissonanza tra noi e la società è cosa terribile. Nervi e fantasia incominciano a prender troppo spazio dentro le nostre coscienze, ogni vicenda esterna appare colossale e ci spaventa. Si comincia ad aver paura della vita”. Davvero bisogna ritradurre perché dopo la traduzione-versificazione di Lo Gatto (1950) e quella per bibliofili di Aragno (2017) le sue parole non vadano al vento: “Dio santo, ci sono tanti con la faccia inacidita, anime piccine e di mente ristretta, filosofi dal capo ingrigito, professori di tutte le arti dell’esistenza, Farisei che si inorgogliscono della loro sedicente esperienza di vita – a dire, della loro mancanza di individualità, ché sono tutti intagliati dallo stesso pezzo di legno – gente buona a nulla con le loro prediche infinite per farci accontentare del nostro destino, per farci aver fede in qualcosa (basta che sia qualcosa) e che noi si faccia soltanto domande modeste alla vita, accettando la stazione dove ci è capitato di trovarci – e così non pensano nemmeno alle parole che usano, ché il loro contentamento è l’autocastrazione da chiostro; giudicano con indicibile e striminzita animosità la natura veemente e ardente di chi non è come loro e rifiuta di accettare l’insipido ‘compito quotidiano’ che lor signori mettono a calendario dell’esistenza. Oh come sono falsi questi predicatori che dicono false le gioie terrene, come sono falsi, uno per uno! Quando finisco in mezzo a loro soffro i tormenti dell’inferno…”. (Andrea Bianchi)
*In copertina: Il’ja Repin, “Ritratto di Aleksej Pisemskij”, 1880
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“Discendere dentro il proprio cuore”. Alieni al tempo, prediligiamo la via dei folli… Cristina Campo e i “Racconti di un pellegrino russo”, il libro insostituibile
“Vegliate e pregate in ogni momento”, dice Gesù secondo Luca (21, 36). Su questo versetto poggia l’idea – a tratti, nell’arco della storia cristiana, presa come eresia, dacché all’agire nel mondo si prediligeva la contemplazione dell’altro mondo, alla sapienza tra i grandi del tempo l’insipienza e l’estasi dell’eremitaggio – che quintessenza dello stare in Dio sia pregarlo. Si riduce il vocabolario all’orazione, la retorica a una formula: “Signore Gesù Cristo Figlio di Dio, pietà per me peccatore”. Lo zenit della “preghiera incessante” ha il campione in Evagrio Pontico (“De Oratione”) e nell’enigmatico Macario/Simeone, stanziato in eresia, secondo cui “per l’uomo insidiato dal male, la preghiera è anzitutto sforzo, perseveranza nel gridare a Dio, nel bussare e nel cercare da lui la liberazione… la vera preghiera deve essere continua, perché il male opera sempre” (in Macario/Simeone, “Discorsi e dialoghi spirituali”, 1988, p.17). “I saggi… devono essere sempre solleciti e pregare sempre. Infatti il male che è in essi, il fumo e il peccato cresciuto con loro, scorrono sempre, come una fonte; i pensieri fanno guerra all’anima non stanno mai in ozio: non vi sono pensieri solo quando preghi, ma germinano sempre, anche quando fai qualcosa di necessario, e quando riposi. Allo stesso modo, anche tu devi combattere sempre”. Il cristianesimo è inteso da Macario/Simeone – o Pseudo-Macario – come una lotta costante, da contrastare con la preghiera incessante. Da questo terreno, s’elevano, mirabili, i “Racconti di un pellegrino russo”, testo carismatico e narrativo sorto dal polmone ortodosso nel XIX secolo, che forgia la figura dello ‘jurodivyj’, lo ‘stolto in Cristo’, il ‘folle di Dio’, alieno al mercato umano, al mercanteggio clericale. Quel testo, necessario, reso da Milli Martinelli per Rusconi nel 1973, è stato introdotto da un insuperabile testo di Cristina Campo di cui qui propongo alcuni brandelli. (d.b.)
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“Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro”. Questa apertura, tra le più ammalianti della letteratura di ogni paese – comparabile a quella dell’Amleto o della Storia del facchino di Bagdad – inaugura insieme un grande trattato spirituale, un romanzo picaresco, un risplendente poema russo e una fiaba classica. Nel misterioso testo anonimo trascritto sull’Athos dall’abate Paissy del monastero di S. Michele Arcangelo dei Ceremissi presso Kazan’ intorno al 1860, la fiaba per una volta si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo “che è dietro quello vero” soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti. Come quell’eroe nordico che a ogni prezzo voleva “imparare a rabbrividire”, il Pellegrino russo è risoluto a procedere all’infinito dinanzi a sé oltre le steppe e le foreste, le città e i villaggi, oltre l’interminata curva del globo se occorra, purché gli sia svelato il senso di tre parole dell’apostolo Paolo udite per caso entrando in una chiesa: “Pregate senza intermissione”. Di questo comando, che gli appare subito fatidico ed iperbolico (come pregare senza intermissione, occupati come siamo a pressoché ininterrottamente vivere?), il Pellegrino trova abbastanza presto la chiave. Un incantevole genio, quello starets che è difficile dire se egli lo incontri in corpo o in ispirito, tanto la morte che li separa poco dopo si rivela incidente trascurabile, dal quale il loro estatico dialogo non è neppure momentaneamente sospeso, gli consegna una antica e possente formula sacra, una invocazione brevissima nella quale è contenuto il Nome “che è sopra ogni nome e al quale piegano il ginocchio il cielo, la terra e gli inferni”: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me”. Altri due talismani accompagnano il dono e hanno, come lo schiavo della lampada di Aladino, il compito di insegnarne l’uso: un libro dal titolo singolare: Filocalia o Amore della Bellezza, e un rosario ritualmente intrecciato, ogni nodo formato da sette nodi, sul quale scandire infinitamente la formula. Il racconto del Pellegrino russo non è se non la cronaca della sua stupefatta ed ebbra convivenza con la Preghiera del Nome. È questa la gemma portentosa il cui fulgore protegge il corpo e illumina l’intelletto, disvela cose lontane e ammansisce le fiere, vince tutti i cuori, sazia tutti i bisogni e tramuta tutti i paesaggi. Non solo: è anche una presenza, vivente al punto, e al punto dolcemente imperiosa, che un bel mattino “è la Preghiera a svegliarlo”, e dopo sarà sempre lei a sollecitarlo, a stringerlo nel suo anello di prodigi, nella sua mandorla di beatitudine…
Resta l’enigmatico precetto che è il cardine su cui ruota non il Pellegrino soltanto ma tutta la contemplazione bizantina: “discendere dentro il proprio cuore”, “riportare la mente nel cuore”, “ricondurre l’attenzione dalla mente nel cuore”, perché là dentro dimora Iddio e là dentro bisogna incontrarlo. Sembra il rovescio perfetto dell’uscire dall’io della mistica occidentale, del suo “gettare il cuore e la mente in Dio” dimenticando il corpo dietro di sé come una casa deserta. Talché è dell’Occidente il rapimento estatico che trae l’anima fuori dai sensi, la levitazione che svelle il corpo da terra quasi a fargli seguire la mente scoccata in alto. In Oriente, il corpo inabitato da Dio nel segreto del cuore si accende di luce e quasi di gloria, come quello di san Serafino di Sarov, che rifulse come un sole dinanzi agli occhi di un atterrito signor Motovilov. Ma poiché in tali dimensioni non vi è alto né basso non fuori né dentro, e il centro del cuore non è altra cosa dall’infinito dei cieli, né l’atomo dalle galassie, e le parole perdono ogni precisa direzione, le due esperienze non sono in realtà due ma una sola. Si potrebbe parlare di un doppio e simultaneo movimento dello spirito che si ritrae cercando Dio nella segreta stanza del cuore e trova in quel centro l’infinito nel quale lanciarsi… Così la grande stirpe russa degli iurodivi e degli stranniki, i vagabondi e folli per amor di Dio, ha la sua testimonianza occidentale, più ancora che negli antichi pellegrini e romei quali Rocco di Montpellier, in quel gaudioso, tenero ed inflessibile accattone perennemente “errante di luogo in luogo”, da Compostella a Bari, da Loreto a Montserrat e di basilica in basilica romana fino a morire sui gradini di una di esse, Benedetto Labre: tra le cui reliquie, puri stracci irrigiditi dal fango, sono un rosario e due libri: il Breviario e le Vite dei Santi Padri. Quei Padri stessi che il Pellegrino ritrova nella Filocalia. Quelle Vite che, tramandate da scribi greci, copti, siriaci, attraverso Bisanzio e la letteratura ecclesiastica slava fondarono in qualche modo lo stile narrativo puramente russo, dal Pellegrino a Gogol a Dostoevskij a Cekhov. Stile narrativo che non ha l’aria di voler finire se molto della sua monumentale innocenza e dignità troviamo ancora nel linguaggio liturgico di Pasternak, nei brevi apologhi severi di Solzenitzin, nei bianchi fogli di taccuino di Andrej Siniawski.
Cristina Campo
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Daniele Mencarelli, poeta, scrive il romanzo più eversivo degli ultimi tempi. Una storia di disperazione. E di rinascita. Intervista a occhi spianati
La prima cosa da fare è afferrare Anna Achmatova. Requiem. La raccolta più dolente. Una delle più dolenti del Novecento. Impaniata nella censura russa. Ovviamente. Racconta i giorni in cui la poetessa, tra le grandi del secolo, mendicava notizie del figlio Lev, arrestato dal regime sovietico nel 1935 e poi, definitivamente, nel 1938. Elemosinava notizie al carcere della Kresty, Leningrado. Insieme a lei, code di madri, di mogli, di derelitte. “Ho passato diciassette mesi in fila davanti alle carceri di Leningrado”, scrive la Achmatova In luogo di prefazione a Requiem. “Una donna dalle labbra livide che stava dietro di me e che, sicuramente, non aveva mai sentito il mio nome, si riscosse dal torpore che era caratteristico di noi tutti e mi domandò in un orecchio (lì tutti parlavano sussurrando): ‘Ma questo lei può descriverlo?’. E io dissi: ‘Posso’. Allora una sorta di sorriso scivolò lungo quello che un tempo era stato il suo volto”. Il brano, di sonora sofferenza e dedicata bellezza, è la serratura per capire il primo romanzo di Daniele Mencarelli, La casa degli sguardi (Mondadori 2018, pp.226, euro 19,00). Il romanzo di Mencarelli, romanzo, classe 1974, tra i poeti più riconosciuti di oggi, comincia con una resa all’oblio (“non ricordo nulla”, dice il protagonista, Daniele medesimo, corrotto dall’alcol, divorato dall’annientamento, da una fragilità tumorale) e si chiude, con la leggerezza di una corolla, di una corona, con una pretesa di memoria (“Voglio ricordare tutto”). Mencarelli, come la Achmatova, allora, non volge le spalle dall’orrore, non annega, voluttuosamente, nel male – esercizio abusato dai dandy della narrativa, che godono l’eroina del nulla. Ha il coraggio della memoria, lotta (il romanzo è dedicato “ai lottatori”) per definire una fiamma nell’oscurità. Ha la gloria – così difficile, oggi, così gratuita – di raccontare una resurrezione. Il romanzo, in effetti, è questo. Siamo nel 1999 e Daniele – che è proprio lui, Mencarelli, ma non è lui, diluito in una storia di vertigini assolute – è un ragazzo perduto. Ha il crisma poetico, ma la vita lo spaventa, spazia in lui il male. Daniele si ubriaca. E quando si ubriaca non capisce nulla, non ricorda nulla, fa le peggio cose. Il romanzo parte sull’apice del primo giorno del ‘risveglio’. Daniele, grazie a un amico poeta (Davide Rondoni), trova lavoro presso una società di servizi all’Ospedale Pediatrico Bambino Gesù. Va a fare le pulizie. Un purgatorio devastante. L’obbligo di un lavoro umile – nitida la scena in cui Daniele deve nettare un bagno letteralmente pieno di merda: “vorrei scappare, in fondo a me dei bagni pubblici invasi di merda dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù cosa cazzo me ne frega?” – la necessità di dialogare con una vasta umanità di perduta gente. Il luogo, di per sé, è un agghiacciante Purgatorio. “Luogo di tortura, di maledizione”, lo chiama Daniele. Al Bambino Gesù si curano i bambini incurabili. Spesso i bambini muoiono. Muoiono ed è come una grandinata sulla testa di Daniele. Una grandinata di vite pure, di feti, di innocenti (micidiale la scena “in una sala d’autopsie a misura di bambino”, dove fiammano le domande lancinanti: “se ci sei tu, Dio, dietro tutto, perché non hai preso me? O qualsiasi altro adulto sulla faccia della terra?”). Il rapporto – mai astratto o concettuale o peggio, intellettuale, ma sempre fisico, in narrativa carnale – tra il perduto, il peccatore a contatto con la purezza che muore è devastante. Daniele, alla fine, si salverà. A piccoli, dolorosi passi. Scoprendo la vita. E incarnando la vita nella poesia – il direttore dell’ospedale pediatrico che gli commissiona una raccolta poetica sul Bambino Gesù, che effettivamente sarà pubblicata, con il titolo Bambino Gesù, nel 2001, presso le Tipografie Vaticane, ed è uno dei libri più atroci e sublimi di Daniele. Il romanzo, insomma, è di avventata bellezza, è una avventura nella tenebra della perdizione, un inno di gioia. In questa è l’eversione. Possente.
Parto dalla cosa più semplice, che non è mai semplice. Cosa si scrive, cosa ti scrive, perché scrivi? Scrivi la vita, la verità, la salvezza, la santità, la perdizione… cosa? Perché?
Scrivo perché, per quanto ci provi, tutti i giorni, non riesco a farmi passare la vita come un fatto ordinario, è qualcosa incastrato negli occhi, nello sguardo, ha a che fare con la reale grandezza di quel che ci circonda, è una grandezza maestosa, sovrana. Scrivo perché non mi è mai passato per le mani un giorno in cui non mi sia speso alla ricerca di qualcosa, se vuoi chiamalo significato, una preda inafferrabile, una caccia impossibile, almeno per me, che non è mai riuscita a sbocciare pienamente in una fede, una cosa da cani in pena. Scrivo perché mi risulta inconcepibile affidare al caos ciò che amo e ho amato. Scrivo per testimoniare tutto questo.
Parto da un dato di fatto molto semplice, scabro. Sei un poeta. Per quanto narrativo. Resti un poeta. Che ora si muove nel palazzone del romanzo. Come hai fatto? Che cambiamenti hai fatto? Che moine formali hai accettato, quale accesso concedi?
Sono un poeta che concepisce la poesia come l’unione di due elementi sostanziali: lo sguardo, nominato poc’anzi, come motore primo, come visione scatenante; e uno più formale, intimamente formale, il respiro. Il mio metro dominante è il respiro, il verso come un’unica emissione d’aria, saldare parola a vitalità. Nel passaggio al romanzo ho rinunciato, ma non del tutto, a quest’ultimo elemento, al respiro, quindi alla versificazione in senso stretto. Meno che mai, ma quello sarebbe impossibile, allo sguardo, al mio modo di vedere le cose. Se devo dirti, però, ho anche guadagnato qualcosa, mi hanno sempre intrigato le strutture dei grandi romanzi, la gestione delle psicologie dei personaggi, è un lavoro diverso rispetto alla poesia, ma non meno affascinante. In parte sono stato anche fortunato: per me la poesia e la narrativa, più in generale l’arte tutta, hanno a che fare con, per dirla con le parole di Eliot, “una scena che si dispone e si compie”, ho bisogno di correlativi, di azioni, comportamenti. Lascio ad altri le astrazioni, le scritture che ambiscono alla verticalità dimenticando tutto il resto. Nella scrittura del romanzo mi sono imposto, a tutti i costi, di non scadere mai nel poetico, questo sì, questo è l’unica vera disciplina che mi sono dato.
Racconti una delicatissima storia di perduti e salvati. Una ossessione, penso, pensando ai tuoi ‘romanzi in versi’. In questa storia, quanto c’è di vero, quanto di fiction?
La letteratura non è mai doppione assoluto della realtà, quando tenta di esserlo fallisce miseramente, semplicemente perché è regolata da leggi fisiche diverse, da meccanismi propri. Quindi il romanzo, com’è ovvio, ha elementi d’invenzione, ma il perduto e salvato che racconto, il Daniele protagonista del libro, sono in tutto e per tutto io. La parabola è quella che ho vissuto realmente in quegli anni: l’alcol, i problemi psicologici, la disperazione mia e di chi mi stava intorno. Questa tema torna spesso nei miei lavori, semplicemente perché non mi ha mai abbandonato, ho sconfitto le dipendenze, ma convivo con lo sguardo che mi è toccato in sorte. Costa fatica, mentale, fisica.
Ho avuto la fortuna, mesi fa, di avere una redazione di questo libro che non so se è l’ultima. Come è capitata Mondadori? Hai dovuto accettare tagli o un lavoro serrato con l’editor? Di cosa sei grato e cosa, ostinatamente, rivendichi?
A riguardo si sentono racconti horror…io sarò l’eccezione che conferma la regola, ma il mio rapporto con Mondadori, da Carlo Carabba a Marilena Rossi, a Barbara Gatti, è stato bellissimo sin dal primo giorno, credimi, non c’è un grammo di ruffianeria in quel che sto dicendo. Sul testo: non ho dovuto tagliare, o difendere, né ho rivendicazioni, abbiamo editato con grande tranquillità. Mi ha senz’altro aiutato, in tutta la fase di lavorazione del libro, il fatto che anche io sia un editor, non di libri ma di fiction, quindi parto dal presupposto che un autore, per quanto bravo e famoso, non è una divinità intoccabile e onnipotente. In Italia su questo tema siamo indietro di trent’anni. Il bravo editor sa contenere l’autore, consigliarlo, quando serve anche contraddirlo. Ma, ripeto, tutta la fase di editing è andata come mai avrei immaginato.
Quali sono i tuoi maestri, quelli di vita e di letteratura, come sempre, intendo? Insomma: per cosa vivi, che cosa leggi?
Maciniamo secoli, epoche e mode, ma se ti devo nominare un esempio vero, tra tante ipocrisie, torno a Cristo sulla croce, la sua eterna attualità, il giudizio come azione da rivolgere a se stessi, questa cosa mi innamora ogni volta, se ci pensi la storia può essere sintetizzata nella contrapposizione tra il “noi”, quindi il bene, e “gli altri”, il male da combattere. La vera rivoluzione è guardare in primo luogo ai propri peccati, errori, solo così possiamo crescere. Il mondo cambia cambiando noi stessi. Cosa leggo? Sono nato nel vecchio secolo, vivo nel nuovo, ma il legame con il Novecento, soprattutto italiano, per me è imprescindibile. Sbarbaro su tutti, ho una specie di venerazione, poi Caproni e Ungaretti, Turoldo, sino a Bellezza, e ancora più vicino a noi Salvia. Poi non posso non nominare Giovanna Sicari. Salto la generazione dei fratelli maggiori e arrivo ai nostri coetanei, quindi Francesca Serragnoli, Isabella Leardini, il grande Simone Cattaneo.
Che giudizio hai della letteratura italiana recente e della poesia? Tu lavori in Rai occupandoti di fiction, dunque si presume che conosci i diversi modi della comunicazione: perché il poeta è sempre il lebbroso, l’esiliato, l’emiro spacciato della società?
Torno al dato anagrafico: sono nato nel Novecento, ho esordito su rivista, ClanDestino, nel 1997. Lo sai quanto me: il mondo letterario che noi abbiamo avuto la fortuna di conoscere, anche se nella sua fase crepuscolare, non esiste più, quel fiorire di riviste, collane. La rete, i social, che nell’immaginario di tutti avrebbero dovuto sostituire la carta hanno, in realtà, creato soltanto confusione, e dispersione. Questi sono i dati, ma ciò non vuol dire che siano morti i poeti. Tra i nati negli anni Settanta ci sono poeti che rimarranno, oggi occorre lottare di più perché gli spazi sono sempre di meno, ma di qualità in giro ne vedo, e tanta. Mi occupo di fiction, di serialità televisiva, forse il prodotto più trendy di questi anni ultimi. È un problema di peso specifico, di grammatura. La poesia è reietta perché chiama alla negazione delle apparenze, vuole vedere veramente, quindi è per sua natura eversiva, quando è vera. Non mi sembra un’epoca, la nostra, dotata di una volontà eversiva rispetto alle visioni dominanti. Forse un giorno…
L'articolo Daniele Mencarelli, poeta, scrive il romanzo più eversivo degli ultimi tempi. Una storia di disperazione. E di rinascita. Intervista a occhi spianati proviene da Pangea.
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