#Turrite Secca
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sansa55 · 2 years ago
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Torrente Turrite Secca a Castelnuovo Garfagnana
Turrite Secca stream in Castelnuovo Garfagnana
http://www.obiettivofotografia.it/stefanosansavini/gallerie/paesaggi/citta-italiane/castelnuovo-di-garfagnana-prima-parte/
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vecchiorovere · 3 months ago
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"Se metti piede in questo borgo, viaggerai indietro di 700 anni. Il Ponte Colandi è il monumento più conosciuto della località di Fabbriche di Vallico, in Italia. Costruito da muratori locali nel XIV secolo d.C. vicino a un mulino ad acqua, questo ponte in arenaria è ancora in ottimo stato di conservazione ed è tuttora utilizzato. Il ponte collega le due parti
di Fabbriche di Vallico e in passato segnava il confine tra il territorio della Repubblica di Lucca e il Ducato Estense. È considerato uno dei ponti più belli della valle del Turrite Secca."
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aneddoticamagazinestuff · 8 years ago
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L'otturazione più antica ha 13.000 anni
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L'otturazione più antica ha 13.000 anni
Una grande scoperta.
Fra le mille paure riconosciute come patologie ce n’è una che è chiamata odontofobia è non è altro che la semplice paura del dentista, riconosciuta come tale anche dall’organizzazione mondiale della sanità. L’appuntamento dal dentista infatti rappresenta per molti di noi uno spiacevole incontro e nonostante ciò, anche se con una sensazione di urtante disagio ci facciamo coraggio e ci rimettiamo a lui con la solita preghiera: – Per cortesia…non mi faccia male…-. Alla fine di tutto questo ci accorgiamo poi che il male maggiore lo subirà il nostro portafoglio. A proposito di dolore… Ma una volta i denti venivano curati? Ma per una volta non intendo cento o duecento anni fa…per una volta intendo ben tredicimila anni fa…Si avete capito bene, è notizia di pochi giorni fa (esattamente del 10 aprile) che in Garfagnana è stata ritrovata su dei denti umani risalenti all’era glaciale la più antica otturazione di sempre. Tutte le maggiori riviste scientifiche specializzate danno notizia del clamoroso ritrovamento e addirittura anche l’ANSA (l’agenzia nazionale stampa associata) riporta la notizia con enfasi. Allora il mal di denti e di conseguenza l’utilità del dentista erano già ben noti ai nostri antenati, e questa otturazione considerata la madre di tutte le riparazioni dentali esistenti non deve essere stata solamente la più datata ma a mio avviso anche la più dolorosa. La scoperta riguarda due incisivi superiori, rinvenuti nel sito archeologico di Riparo Fredian, situato lungo la Turrite Secca non distante dall’antico borgo dell’Isola Santa. Prima di andare al nocciolo della questione il sito e la zona intorno al Riparo Fredian merita due righe, perchè oltre a questa scoperta questo luogo archeologicamente parlando è fra i più importanti della Toscana ed è frequentato da studiosi di tutto rispetto che attraverso approfondite ricerche hanno ricreato l’ipotetico ambiente, l’economia e le attività quotidiane di questi uomini preistorici che vivevano in quel luogo già dal Mesolitico (periodo che va dal 10.000 all’8000 a. C). Essi effettivamente si occupavano di caccia e raccolta. Ritrovamenti ossei di stambecco confermano la caccia esclusiva di questo animale non più presente nelle nostre zone che con i secoli fu sostituito dal cervo che divenne così fonte principale d’alimentazione.
Qui si praticò la caccia anche ai piccoli mammiferi come lepri, castori e conigli e in questi antichi uomini nel medesimo periodo si intensificò pure la raccolta di bacche e frutti spontanei, in particolare è ben testimoniata la raccolta delle nocciole, data l’abbondanza dei resti di gusci carbonizzati rinvenuti. Fra le varie scoperte fatte, sono stati ritrovati anche utensili in selce di svariate forme (trapezi,triangoli e semi-lune) che certificano che lo strumento di caccia prediletto era la lancia, queste piccole pietre si presume che fossero la punte di queste lance che potevano eventualmente essere usati come frecce e arpioni. Tutti i numerosi ritrovamenti avvenuti in questo sito garfagnino convalidano la tesi che questo posto è fra i più importanti dell’Italia centrale in fatto di preistoria, proprio perchè è ben documentato che qui vi fosse una popolazione stanziale che si spostava solamente nella montagna sovrastante in estate, mentre d’inverno quando in altura cominciava il freddo pungente faceva nuovamente ritorno a valle. Il Riparo Fredian fra le altre cose ha segnato la sua fortuna e il suo destino proprio nei denti, tanto è vero che tra gli svariati resti ossei che sono stati recuperati di animali estinti ci sono due premolari del mitico leone delle caverne, forse di per sè vorranno dire poco, ma quei denti appartengono all’ultimo leone finora documentato sul territorio italiano.
Il leone delle caverne del paleolitico
  Questo fantasmagorico felino è vissuto nelle Alpi Apuane circa undicimila anni fa, come misurato e calibrato con il carbonio 14.  Ma dopo questo doveroso ed interessante preambolo veniamo alla mirabolante scoperta dei giorni nostri, quando antropologi dell’università di Bologna, in collaborazione con studiosi americani e irlandesi hanno scoperto denti umani attribuiti a sei individui di età differenti, ma quelli che hanno fatto sobbalzare dalla scrivania questi esimi studiosi sono questi due incisivi superiori appartenuti a “Fredian 5” (così sono stati ribattezzati dai ricercatori), questi denti da analisi fatte appartengono a un soggetto di non giovane età, inoltre non si conosce il sesso e le condizioni di salute, ma rimane il fatto che possiamo datare con una certa precisione questo eclatante ritrovamento che risale al Paleolitico e con più precisione a tredicimila anni fa, ciò ci può far dire che questa è senza ogni ombra di dubbio la più antica otturazione al mondo, cosa ancor più sorprendente invece è che già al tempo ci fossero conoscenze rudimentali in materia odontoiatrica, a sostegno di questa tesi il professor Stefano Benazzi (docente presso il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Bologna) ci dice che attraverso l’analisi dei denti di questo uomo preistorico,(fatte con diverse tecniche di microscopia) sono stati individuati due fori centrali, trattati con piccole incisioni, per meglio capirsi queste cavità furono scavate e allargate presumibilmente per ripulire l’area dalla carie e con ogni probabilità questa operazione fu effettuata con schegge di pietra (l’equivalente del trapano attuale del dentista moderno):- Sulla parete dentale -ci dice ancora Benazzi- abbiamo trovato una serie di minuscoli segni orizzontali-. Ma il dettaglio sorprendente non risiede in queste incisioni, ma nella specificità del trattamento, infatti i ricercatori attraverso svariate metodologie di indagine che vanno dai microscopi elettronici a scansione per arrivare alla tomografia ai raggi X, hanno individuato all’interno dei denti tracce di bitume, associate a fibre vegetali e peli animali e se i frammenti vegetali e i peli potrebbero essere rimasti “intrappolati” accidentalmente nella cavità, la presenza di bitume al suo interno non può essere casuale, quindi questa è (così dicono gli esperti) una vera e propria cura con finalità terapeutica e questo mix di fibre vegetali, peli e bitume è da considerarsi una vera e propria pasta per otturare l’apertura, ridurre il dolore e impedire al cibo di andarsi a depositare nella zona sensibile. Era una soluzione rozza e probabilmente anche fastidiosa, ma questo ci indica che questi uomini avevano una certa conoscenza delle piante officinali, l’archeologo Claudio Tuniz dell’università di Wollogong (Australia) ci suggerisce che il bitume in associazione con le fibre vegetali potrebbe essere stato usato come disinfettante, inoltre ci spiega che la necessità di questi interventi dentali sarebbe con il tempo diventata sempre più importante e in questo influi molto il variare della dieta dei primitivi, in particolar modo quando furono introdotti i cereali e i cibi zuccherini come il miele.
Rimane quindi per questi universitari un’immensa soddisfazione per le ricerche fatte, i dettagli di questo studio sono stati pubblicati nientedimeno che nella famosissima rivista scientifica “American Journal of Physical Anthropology”.
Gli incisivi di “Fredian 5” sono quindi il più antico esempio di questo tipo di intervento e l’indelebile traccia lasciata dal primo dentista della storia dell’umanità, che come abbiamo letto era sicuramente un “garfagnino”.
Bibliografia:
 “American Journal of Physical Anthropology” pubblicazione del 27 marzo 2017
6° Convegno di Archeozoologia. Università di Pisa
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iltirreno · 6 years ago
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Isola Santa è una frazione del comune di Careggine, in provincia di Lucca. Si tratta di un piccolo paese situato sulle Alpi Apuane, in Garfagnana. Posto a 550 metri fu probabilmente fondato come ospizio nell'alto medioevo, sulla strada che collegava la Garfagnana alla Versilia. Questo borgo, un tempo abbandonato, è stato in parte ristrutturato negli ultimi anni e, pur mantenendo un aspetto molto rustico, è stato trasformato in un albergo diffuso. Isola Santa è abbellita da un'antica chiesa dedicata a San Jacopo, citata nel 1260 e ormai sconsacrata. Il borgo si affaccia su un lago artificiale, riempito dalle acque del torrente Turrite Secca fermate da una diga nel 1948-49 (ad uso della vicina centrale idroelettrica), che in parte sommerse l'antico abitato. Ogni dieci anni, lo svuotamento del bacino fa riafforare gli edifici semidistrutti del villaggio, in particolare un mulino e un ponticello di pietra . . La foto è di @giuma1965 . . @iltirreno seguite il nostro profilo . #isolasanta #igerslucca #betuscan #careggine #colors #lights https://ift.tt/2IYrjL4
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historicalgram · 4 years ago
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🔴The Ponte Colandi Bridge 🔴 . ⚫It's most well-known monument in the village of Fabbriche di Vallico , Italy. ⚫The sandstone bridge was built by local masons near a water-mill in the 14th century. ⚫It is in a good state of preservation and currently is still in use. ⚫Ponte Colandi connects the two parts of the village of Fabbriche di Vallico. ⚫The bridge marked the line between the territory of the Republic of Lucca and the Estense Duchy passed here. ⚫Ponte Colandi is considered to be among the most beautiful bridges in the Turrite Secca valley. . . Follow me @historical_grams to enjoy more posts about History, archaeology and mysteries!👀 . . #bridge #italy #fabbrichedivallico #village #pontecolandi #rome #roma #stone #river #civilization #kingdom #archaeology #history #ancient #newyork #world #traveling #discovery #historical_grams #travel #archaeological #historic #london #paris #photography #explorepage #vacation #travelphotography #featured (at Italy) https://www.instagram.com/p/CQLGfPNnvf5/?utm_medium=tumblr
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vecchiorovere · 3 months ago
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Il Ponte Colandi è il monumento più conosciuto della località di Fabbriche di Vallico, in Italia.
Costruito da muratori locali nel XIV secolo d.C., vicino a un mulino ad acqua, questo ponte in arenaria è ancora in ottimo stato di conservazione ed è tuttora utilizzato. Il ponte collega le due parti di Fabbriche di Vallico e, storicamente, segnava il confine tra il territorio della Repubblica di Lucca e il Ducato Estense. Ponte Colandi è considerato anche uno dei ponti più belli della valle del Turrite Secca.
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aneddoticamagazinestuff · 8 years ago
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L'otturazione più antica ha 13.000 anni
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L'otturazione più antica ha 13.000 anni
Una grande scoperta.
Fra le mille paure riconosciute come patologie ce n’è una che è chiamata odontofobia è non è altro che la semplice paura del dentista, riconosciuta come tale anche dall’organizzazione mondiale della sanità. L’appuntamento dal dentista infatti rappresenta per molti di noi uno spiacevole incontro e nonostante ciò, anche se con una sensazione di urtante disagio ci facciamo coraggio e ci rimettiamo a lui con la solita preghiera: – Per cortesia…non mi faccia male…-. Alla fine di tutto questo ci accorgiamo poi che il male maggiore lo subirà il nostro portafoglio. A proposito di dolore… Ma una volta i denti venivano curati? Ma per una volta non intendo cento o duecento anni fa…per una volta intendo ben tredicimila anni fa…Si avete capito bene, è notizia di pochi giorni fa (esattamente del 10 aprile) che in Garfagnana è stata ritrovata su dei denti umani risalenti all’era glaciale la più antica otturazione di sempre. Tutte le maggiori riviste scientifiche specializzate danno notizia del clamoroso ritrovamento e addirittura anche l’ANSA (l’agenzia nazionale stampa associata) riporta la notizia con enfasi. Allora il mal di denti e di conseguenza l’utilità del dentista erano già ben noti ai nostri antenati, e questa otturazione considerata la madre di tutte le riparazioni dentali esistenti non deve essere stata solamente la più datata ma a mio avviso anche la più dolorosa. La scoperta riguarda due incisivi superiori, rinvenuti nel sito archeologico di Riparo Fredian, situato lungo la Turrite Secca non distante dall’antico borgo dell’Isola Santa. Prima di andare al nocciolo della questione il sito e la zona intorno al Riparo Fredian merita due righe, perchè oltre a questa scoperta questo luogo archeologicamente parlando è fra i più importanti della Toscana ed è frequentato da studiosi di tutto rispetto che attraverso approfondite ricerche hanno ricreato l’ipotetico ambiente, l’economia e le attività quotidiane di questi uomini preistorici che vivevano in quel luogo già dal Mesolitico (periodo che va dal 10.000 all’8000 a. C). Essi effettivamente si occupavano di caccia e raccolta. Ritrovamenti ossei di stambecco confermano la caccia esclusiva di questo animale non più presente nelle nostre zone che con i secoli fu sostituito dal cervo che divenne così fonte principale d’alimentazione.
Qui si praticò la caccia anche ai piccoli mammiferi come lepri, castori e conigli e in questi antichi uomini nel medesimo periodo si intensificò pure la raccolta di bacche e frutti spontanei, in particolare è ben testimoniata la raccolta delle nocciole, data l’abbondanza dei resti di gusci carbonizzati rinvenuti. Fra le varie scoperte fatte, sono stati ritrovati anche utensili in selce di svariate forme (trapezi,triangoli e semi-lune) che certificano che lo strumento di caccia prediletto era la lancia, queste piccole pietre si presume che fossero la punte di queste lance che potevano eventualmente essere usati come frecce e arpioni. Tutti i numerosi ritrovamenti avvenuti in questo sito garfagnino convalidano la tesi che questo posto è fra i più importanti dell’Italia centrale in fatto di preistoria, proprio perchè è ben documentato che qui vi fosse una popolazione stanziale che si spostava solamente nella montagna sovrastante in estate, mentre d’inverno quando in altura cominciava il freddo pungente faceva nuovamente ritorno a valle. Il Riparo Fredian fra le altre cose ha segnato la sua fortuna e il suo destino proprio nei denti, tanto è vero che tra gli svariati resti ossei che sono stati recuperati di animali estinti ci sono due premolari del mitico leone delle caverne, forse di per sè vorranno dire poco, ma quei denti appartengono all’ultimo leone finora documentato sul territorio italiano.
Il leone delle caverne del paleolitico
  Questo fantasmagorico felino è vissuto nelle Alpi Apuane circa undicimila anni fa, come misurato e calibrato con il carbonio 14.  Ma dopo questo doveroso ed interessante preambolo veniamo alla mirabolante scoperta dei giorni nostri, quando antropologi dell’università di Bologna, in collaborazione con studiosi americani e irlandesi hanno scoperto denti umani attribuiti a sei individui di età differenti, ma quelli che hanno fatto sobbalzare dalla scrivania questi esimi studiosi sono questi due incisivi superiori appartenuti a “Fredian 5” (così sono stati ribattezzati dai ricercatori), questi denti da analisi fatte appartengono a un soggetto di non giovane età, inoltre non si conosce il sesso e le condizioni di salute, ma rimane il fatto che possiamo datare con una certa precisione questo eclatante ritrovamento che risale al Paleolitico e con più precisione a tredicimila anni fa, ciò ci può far dire che questa è senza ogni ombra di dubbio la più antica otturazione al mondo, cosa ancor più sorprendente invece è che già al tempo ci fossero conoscenze rudimentali in materia odontoiatrica, a sostegno di questa tesi il professor Stefano Benazzi (docente presso il Dipartimento dei Beni Culturali dell’Università di Bologna) ci dice che attraverso l’analisi dei denti di questo uomo preistorico,(fatte con diverse tecniche di microscopia) sono stati individuati due fori centrali, trattati con piccole incisioni, per meglio capirsi queste cavità furono scavate e allargate presumibilmente per ripulire l’area dalla carie e con ogni probabilità questa operazione fu effettuata con schegge di pietra (l’equivalente del trapano attuale del dentista moderno):- Sulla parete dentale -ci dice ancora Benazzi- abbiamo trovato una serie di minuscoli segni orizzontali-. Ma il dettaglio sorprendente non risiede in queste incisioni, ma nella specificità del trattamento, infatti i ricercatori attraverso svariate metodologie di indagine che vanno dai microscopi elettronici a scansione per arrivare alla tomografia ai raggi X, hanno individuato all’interno dei denti tracce di bitume, associate a fibre vegetali e peli animali e se i frammenti vegetali e i peli potrebbero essere rimasti “intrappolati” accidentalmente nella cavità, la presenza di bitume al suo interno non può essere casuale, quindi questa è (così dicono gli esperti) una vera e propria cura con finalità terapeutica e questo mix di fibre vegetali, peli e bitume è da considerarsi una vera e propria pasta per otturare l’apertura, ridurre il dolore e impedire al cibo di andarsi a depositare nella zona sensibile. Era una soluzione rozza e probabilmente anche fastidiosa, ma questo ci indica che questi uomini avevano una certa conoscenza delle piante officinali, l’archeologo Claudio Tuniz dell’università di Wollogong (Australia) ci suggerisce che il bitume in associazione con le fibre vegetali potrebbe essere stato usato come disinfettante, inoltre ci spiega che la necessità di questi interventi dentali sarebbe con il tempo diventata sempre più importante e in questo influi molto il variare della dieta dei primitivi, in particolar modo quando furono introdotti i cereali e i cibi zuccherini come il miele.
Rimane quindi per questi universitari un’immensa soddisfazione per le ricerche fatte, i dettagli di questo studio sono stati pubblicati nientedimeno che nella famosissima rivista scientifica “American Journal of Physical Anthropology”.
Gli incisivi di “Fredian 5” sono quindi il più antico esempio di questo tipo di intervento e l’indelebile traccia lasciata dal primo dentista della storia dell’umanità, che come abbiamo letto era sicuramente un “garfagnino”.
Bibliografia:
 “American Journal of Physical Anthropology” pubblicazione del 27 marzo 2017
6° Convegno di Archeozoologia. Università di Pisa
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aneddoticamagazinestuff · 9 years ago
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Venti anni fa la tragedia. L''alluvione a Fornovolasco
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Venti anni fa la tragedia. L''alluvione a Fornovolasco
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Sono già passati venti anni da quel 19 giugno del 1996.Le previsioni meteo in Garfagnana avevano dato cielo sereno e terso…niente di più falso.In verità si stava formando sulle creste delle Alpi Apuane uno scontro di aria fredda proveniente dal nord Italia,con aria calda umida proveniente dalle coste, creando così una rapidissima evoluzione meteorologica,ed infatti violentissimi temporali si scatenarono a partire dal primo mattino sulle Apuane a cavallo fra la Garfagnana e la Versilia e precisamente nella “striscia” di terra compresa fra i paesi di Cardoso di Stazzema  e Fornovolasco. La mattinata passò quasi indenne a Fornovolasco,pioveva forte si, la Turrite si era ingrossata, ma niente lasciava  presagire a quello che sarebbe successo di lì a poco.Verso le ore tredici il disastro si compì,la pioggia si trasformò in vero e proprio diluvio, in poche ore il pluviometro delle Apuane registrò un valore cumulativo di precipitazioni da record pari a 440 mm in otto ore con una punta massima di 157 mm in un ora.Fatto sta che dalla montagna scese acqua mista a fango e detriti che distrusse i ponti di Fornovolasco e le case.
Fornovolasco, qualche mesedopo l’alluvione (foto tratta da facebook Laura Giannini)
Dal Monte Forato che sta ad ovest del paese,ma sopratutto dalla Pania Secca e dalla Pania della Croce insieme all’acqua, questi monti “vomitarono” migliaia di metri cubi di terra dalla profondità delle loro viscere.Purtroppo la tragedia ebbe il suo apice con la morte della povera signora Isola Frati,la sua casa fu travolta dalla furia dell’acqua e dei massi.Il paese di Fornovolasco quel giorno rischiò veramente di sparire dalla faccia della terra.Ben più grave in fatto di vittime fu il bilancio versiliese. Cardoso contò quel maledetto 19 giugno ben 12 vittime. Lo stesso Gallicano è bene precisare a detta degli esperti rischiò seriamente quel giorno,fortuna volle che più a valle la diga di Trombacco fosse completamente vuota perchè in manutenzione e fu così in grado di accogliere l’impeto della gran parte della piena.A tragedia avvenuta ancora in molti non si spiegano la tanta acqua precipitata in così poco tempo,mai era successa una cosa simile,mai da archivi storici locali risulta almeno in tempi moderatamente recenti una catastrofe simile.
Oggi Fornovolasco
Comunque il paese si rimboccò le maniche e trovò l’immediata reazione dei suoi abitanti e degli enti locali e Fornovolasco un anno dopo poté già inaugurare i due ponti e la ricostruita Piazza Pascoli,nonché il ripristino della chiesa di San Francesco di nuovo agibile e affrescata dal maestro Paolo Maiani.Ad oggi Fornovolasco è ancora lì;grazie a Dio più bello che prima.
di Paolo Marzi
http://paolomarzi.blogspot.de
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aneddoticamagazinestuff · 7 years ago
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Minatori e miniere
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Minatori e miniere
Abbiamo sempre saputo della dura vita dei cavatori di marmo delle Apuane, ma mai, o almeno in pochi, abbiamo sentito parlare dell’altrettanto dura vita dei minatori della Garfagnana. Già nel 1300 a Fornovolasco prese vita il primo centro siderurgico della Valle che nei piani di Ercole I duca di Modena doveva far concorrenza a centri della valli lombarde, infatti nei dintorni del paese (che prende il nome proprio da queste attività) sorgevano forni fusori e fabbriche per la lavorazione dei metalli, nati grazie alle miniere di ferro presenti nelle vicinanze e dove la gente lavorava duramente. Le miniere negli anni subirono alterne fortune, ma ciò non fu per i minatori che difficilmente riuscivano ad arrivare a 50 anni di vita e dove i bambini venivano usati come cavie da esplorazione dentro le grotte da dove spesso non facevano più ritorno. Rimane il fatto che un bel giorno alle miniere di Fornovolasco giunse in visita Ludovico Ariosto che su queste miniere scrisse alcuni versi…
  Fino a un po’ di tempo fa se si voleva minacciare un uomo sfaccendato, che non s’impegnava sul lavoro, o si comportava in modo poco onesto, partiva il grido: – In miniera !!!- . Che cosa significava questa perentoria e secca minaccia? Andare a lavorare in miniera significava infilarsi in un un buco ogni mattina e rimanerci per dieci, dodici ore al giorno, significava picchiare sulle pietre con picconi o martelli, respirare polvere fino ad ammalarsi, oppure rischiare di morire per i numerosi crolli delle gallerie, in più quando si tornava a casa ogni sera ci si ritrovava coperti di polvere e terra e di conseguenza bisognava strofinarsi per un ora in una tinozza d’acqua, per poi la mattina dopo ripartire e ricominciare tutto da capo. Questa era la vita del minatore, che non vedeva mai la luce del sole, faticava come un animale, ma che doveva portare a casa (un misero) stipendio. Anche i garfagnini affrontarono questa vita. In Garfagnana abbiamo poca conoscenza dell’esistenza di miniere, conosciamo il durissimo lavoro dei cavatori di marmo, ma abbiamo dimenticato che anche nella nostra valle esistevano miniere, per la precisione miniere di ferro. Il primo centro siderurgico della Garfagnana ebbe la sua nascita a Fornovolasco, l’origine del paesino vide la luce verso la fine del 1200, grazie proprio a queste miniere e dai forni che servivano per fondere il ferro. Leggenda, o verità, bene non si sa, narra che un certo conte Volaschio, mastro fusore, proveniente dal bresciano fosse a capo di una squadra di uomini dediti a questo mestiere, che trovarono proprio in queste terre ampie aree boschive per alimentare i forni fusori, insieme alle ottime acque della Turrite fondamentali per forgiare il metallo e azionare i mantici che soffiavano aria nei forno.
Fornovolasco (foto tratta da Daniele Saisi blog)
Già a quel tempo, figuriamoci un po’, tale industria era già fiorente, infatti da un registro del 1308 si apprende da un certo Ser Filippo, notaio in Camaiore,  dell’esistenza di due prospere fabbriche appartenenti a un certo Coluccio di Giacomino e a Fulcerio, proprietario insieme al fratello Guido detto “il Passera“, questo ci dice che era già passato il tempo in cui il lavoro era sostanzialmente artigianale e se si vuole anche un po’ domestico e una certa tecnologia all’avanguardia era più che mai presente a Fornovolasco. Altro fattore determinante per il loro sviluppo era anche la posizione geografica di queste miniere, la vicina “strada” che collegava con la Versilia permetteva l’approvvigionamento di altro materiale proveniente dall’Isola d’Elba e lo smercio dei prodotti finiti verso diversi mercati. Ma un conto era la già dura attività lavorativa davanti ad un forno, ma un altra cosa era la vita di miniera.
Quello che rimane oggi della Miniera Monticello Le Pose (Foto tratta da Speleoclub Garfagnana C.A.I)
 La prima miniera del luogo fu la miniera di “Monticello-Le Pose” e qui la vita era veramente al limite dell’umano. Si scavavano piccole gallerie, poco profonde che costringevano questi poveri uomini a lavorare in ginocchio o sdraiati, indicatissimi per questi lavori erano i bambini, spesso orfani o gli stessi figli dei minatori che già a sei-sette anni d’età erano mandati per gli stretti meandri delle grotte in esplorazione alla ricerca di vene di ferro, molti morivano a causa del freddo o per essersi persi durante queste spedizioni, per di più la luce fioca per mezzo di torce fatte con legni resinosi non durava molto e rendeva l’aria irrespirabile. Agli inizi del 1400 il primo giacimento di “Monticello-Le Pose” si dimostrava insufficiente a coprire il fabbisogno delle attività siderurgiche, si cercarono nuovi giacimenti nelle zone vicine, fino a che si scoprì un nuovo sito detto “Le Bugie” in località Trimpello, fu un vero colpo di fortuna , queste miniere alimentarono l’attività mineraria fin quasi ai giorni nostri. La spinta decisiva a questa industria si ebbe nel 1430 quando Fornovolasco passò dal dominio lucchese a quello modenese.
Ercole I d’Este colui che incentivò le miniere di Fornovolasco
Grandi progetti aveva per questi luoghi il duca estense Ercole I, che venne personalmente a visitare queste siti e in particolare il sito delle “Bugie”. Le intenzioni del duca erano serie, voleva rompere il monopolio della lavorazione del ferro delle valli lombarde e cosa più importante voleva rinnovare completamente le munizioni dell’artiglieria modenese con l’intenzione di sostituire le pietre da bombarda con palle metalliche, per questo scopo furono chiamati (ecco quando la verità storica abbraccia la leggenda) mastri forgiatori dalle valli bresciane e bergamasche. L’incarico di portare nuove innovazioni nelle strutture e nelle tecniche estrattive fu dato a mastro Iacomo Tacchetti da Gerla di Valtellina, ambito dalle signorie di mezza Italia. L’aumento di lavoro in questa miniera, è bene dirlo, portò da una parte indubbi vantaggi economici, ma dall’altra aumentò maggiormente lo sfruttamento dei lavoratori. Le miniere infatti appartenevano al Ducato che comprava per pochi soldi il ferro estratto dai minatori di Fornovolasco e come se non bastasse, concedendo le licenze di scavo nei territori ducali, pretendeva nuovamente altri soldi per il pagamento dei diritti di escavazione. Questa situazione portò ad un periodo nefasto, per guadagnare ancora di più la gente cominciò a scavare in maniera disordinata, si aprivano cunicoli, gallerie, piccoli anfratti in ogni dove, provocando frane in tutto il sito, frane che causarono vittime su vittime, questo avrebbe compromesso anche lo stesso sito,  ma prima che la situazione sfuggisse di mano lo stesso duca corse ai ripari, chiamando ancora nuovi mastri che regolamentassero gli scavi e che mettessero in sicurezza le gallerie.
Insomma a quanto pareva (industrialmente parlando) tutto andava a gonfie vele, nella zona agli inizi del 1500 si potevano già contare tre ferriere esistenti a Fornovolasco, alle quali si aggiunse un forno ducale e anche una fabbrica per la lavorazione del ferro a valle del paese. Oscuri presagi però si affacciavano all’orizzonte… Se da una parte si raggiunsero picchi produttivi che neanche le valli lombarde avevano mai raggiunto, dall’altra invece non si riusciva a dare una certa continuità alla produzione, per due motivi: la scarsità di materiale dentro le miniere e quello che preoccupava di più era la penuria di combustibile, i boschi nelle vicinanze che fornivano legna per i forni ormai erano tutti diradati, le montagne quasi tutte “pelate” e questo fu la causa maggiore che portò al progressivo declino di Fornovolasco. Ma intanto c’era ancora spazio per la gloria, al tempo rimase nella memoria di tutti la visita alle miniere di Sua Eccellenza Illustrissima il Governatore della Garfagnana messer Ludovico Ariosto, che di quella visita scrisse:
Lo scoglio, ove il sospetto fa soggiorno, alto dal mare da seicento braccia, e ruinose balze cinte intorno,
e da ogni parte il cader moinaccia: il più stretto sentier, che guida al Forno,  la dove il Garfagnin il ferro caccia
Ludovico Ariosto governatore di Garfagnana
Diciamo che la visita dell’Ariosto chiuse per sempre un periodo pieno di speranze e illusioni. Nei secoli a venire si alternarono periodi di fiducia e di altrettanto sconforto. Nel 1636 gli Estensi diedero il via ad un nuovo progetto in Trombacco(a tre km da Fornovolasco) attivando uno nuovo scavo per una nuova miniera che sembrava foriera di nuove prospettiva. In realtà il materiale era scarso e l’attività quindi durò circa dieci anni. Nel 1702 sul sito minerario delle “Bugie” venne usata una nuova tecnica di scavo: la polvere da sparo, questa innovazione che in un colpo solo faceva il lavoro di cento uomini portò alla riattivazione delle miniere(che già erano state chiuse negli anni precedenti) e dei forni di Trombacco e Fornovolasco, ma dopo pochi anni il filone si esaurì, bisognò ricorrere di nuovo al ferro dell’Isola d’Elba.
Palazzo Roni a Vergemoli La famiglia del monopolio del ferro di Fornovolasco
Il 1800 portò poi una sostanziale novità, cessarono tutte quelle licenze a persona che negli anni portarono alla morte di molte persone, era cominciata l’epoca delle rivoluzioni industriali, sparirono così i piccoli cavatori “ad uso familiare” e subentrarono gli imprenditori. In questa ottica già negli anni precedenti la famiglia Roni di Vergemoli aveva capito da quale parte stava andando il mondo, riuscendo ad accaparrarsi il monopolio delle miniere di ferro, ma i tempi belli come detto erano passati. Oramai Fornovolasco per le insufficienti vie di comunicazione e l’affermarsi di nuove tecnologie non riuscì più a stare al passo con i tempi. Comunque non si volle “mollare l’osso” e altri tentativi furono ancora fatti. Si ritentò ancora di estrarre nel martoriato sito delle “Bugie”. Insigni geologi ed esimi ingegneri elaborarono un piano a dir poco ambizioso che prevedeva la riapertura delle gallerie e il trasporto del minerale attraverso una funivia che portava direttamente a Gallicano, dove (nel progetto) sarebbe giunto un troncone della ferrovia…Le intenzioni erano ottime, ma i risultati però non furono all’altezza. Di li in poi fu un continuo“tentar di levare il sangue dalle rape“. Negli anni si susseguirono industrie come la Calceramica insieme alla Montecatini (1913), poi nonostante un periodo di estrazione piuttosto intenso le miniere passarono nel 1950 alla Desideri e Severi di Colle Val d’Elsa, dal 1952 al 1972 subentrò l’IMSA di Roma e infine nel 1973 l’EDEM, anch’essa di Roma che dopo vari tentativi di convertire produzioni e altri esperimenti similari decise di chiudere per sempre tutto e le miniere vennero definitivamente abbandonate.
Oggi le miniere di Fornovolasco si presentano così (Foto tratta da Speleoclub Garfagnana C.A.I)
Quello che rimane di questa storia non sono le miniere e nemmeno la loro interessante storia, quello che rimane di questo articolo sono quelli che Charles Dickens definiva “i perseguitati dell’inferno”: i minatori. Una vita breve ed intensissima. La maggior parte di loro non raggiungeva i cinquant’anni d’età, morti di lavoro a causa dei crolli e di intossicazioni polmonari.
  Bambini minatori in Pennsilvanya (U.S.A)
La loro morte nella comunità non destava nemmeno stupore, era la normalità. Insieme a loro (come abbiamo letto) i bambini, usati come cavie da esplorazione, la maggior parte di loro si perdeva nei cunicoli delle grotte, non riusciva più a far ritorno alla luce, morti al buio, di freddo e di fame. A tutti loro va il nostro pensiero…
        Bibliografia
“Le miniere di Fornovolasco” a cura dell’Associazione Buffarello Team
“Breve storia del lavoro in miniera” Mursia 1973
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aneddoticamagazinestuff · 7 years ago
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Minatori e miniere
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Minatori e miniere
Abbiamo sempre saputo della dura vita dei cavatori di marmo delle Apuane, ma mai, o almeno in pochi, abbiamo sentito parlare dell’altrettanto dura vita dei minatori della Garfagnana. Già nel 1300 a Fornovolasco prese vita il primo centro siderurgico della Valle che nei piani di Ercole I duca di Modena doveva far concorrenza a centri della valli lombarde, infatti nei dintorni del paese (che prende il nome proprio da queste attività) sorgevano forni fusori e fabbriche per la lavorazione dei metalli, nati grazie alle miniere di ferro presenti nelle vicinanze e dove la gente lavorava duramente. Le miniere negli anni subirono alterne fortune, ma ciò non fu per i minatori che difficilmente riuscivano ad arrivare a 50 anni di vita e dove i bambini venivano usati come cavie da esplorazione dentro le grotte da dove spesso non facevano più ritorno. Rimane il fatto che un bel giorno alle miniere di Fornovolasco giunse in visita Ludovico Ariosto che su queste miniere scrisse alcuni versi…
  Fino a un po’ di tempo fa se si voleva minacciare un uomo sfaccendato, che non s’impegnava sul lavoro, o si comportava in modo poco onesto, partiva il grido: – In miniera !!!- . Che cosa significava questa perentoria e secca minaccia? Andare a lavorare in miniera significava infilarsi in un un buco ogni mattina e rimanerci per dieci, dodici ore al giorno, significava picchiare sulle pietre con picconi o martelli, respirare polvere fino ad ammalarsi, oppure rischiare di morire per i numerosi crolli delle gallerie, in più quando si tornava a casa ogni sera ci si ritrovava coperti di polvere e terra e di conseguenza bisognava strofinarsi per un ora in una tinozza d’acqua, per poi la mattina dopo ripartire e ricominciare tutto da capo. Questa era la vita del minatore, che non vedeva mai la luce del sole, faticava come un animale, ma che doveva portare a casa (un misero) stipendio. Anche i garfagnini affrontarono questa vita. In Garfagnana abbiamo poca conoscenza dell’esistenza di miniere, conosciamo il durissimo lavoro dei cavatori di marmo, ma abbiamo dimenticato che anche nella nostra valle esistevano miniere, per la precisione miniere di ferro. Il primo centro siderurgico della Garfagnana ebbe la sua nascita a Fornovolasco, l’origine del paesino vide la luce verso la fine del 1200, grazie proprio a queste miniere e dai forni che servivano per fondere il ferro. Leggenda, o verità, bene non si sa, narra che un certo conte Volaschio, mastro fusore, proveniente dal bresciano fosse a capo di una squadra di uomini dediti a questo mestiere, che trovarono proprio in queste terre ampie aree boschive per alimentare i forni fusori, insieme alle ottime acque della Turrite fondamentali per forgiare il metallo e azionare i mantici che soffiavano aria nei forno.
Fornovolasco (foto tratta da Daniele Saisi blog)
Già a quel tempo, figuriamoci un po’, tale industria era già fiorente, infatti da un registro del 1308 si apprende da un certo Ser Filippo, notaio in Camaiore,  dell’esistenza di due prospere fabbriche appartenenti a un certo Coluccio di Giacomino e a Fulcerio, proprietario insieme al fratello Guido detto “il Passera“, questo ci dice che era già passato il tempo in cui il lavoro era sostanzialmente artigianale e se si vuole anche un po’ domestico e una certa tecnologia all’avanguardia era più che mai presente a Fornovolasco. Altro fattore determinante per il loro sviluppo era anche la posizione geografica di queste miniere, la vicina “strada” che collegava con la Versilia permetteva l’approvvigionamento di altro materiale proveniente dall’Isola d’Elba e lo smercio dei prodotti finiti verso diversi mercati. Ma un conto era la già dura attività lavorativa davanti ad un forno, ma un altra cosa era la vita di miniera.
Quello che rimane oggi della Miniera Monticello Le Pose (Foto tratta da Speleoclub Garfagnana C.A.I)
 La prima miniera del luogo fu la miniera di “Monticello-Le Pose” e qui la vita era veramente al limite dell’umano. Si scavavano piccole gallerie, poco profonde che costringevano questi poveri uomini a lavorare in ginocchio o sdraiati, indicatissimi per questi lavori erano i bambini, spesso orfani o gli stessi figli dei minatori che già a sei-sette anni d’età erano mandati per gli stretti meandri delle grotte in esplorazione alla ricerca di vene di ferro, molti morivano a causa del freddo o per essersi persi durante queste spedizioni, per di più la luce fioca per mezzo di torce fatte con legni resinosi non durava molto e rendeva l’aria irrespirabile. Agli inizi del 1400 il primo giacimento di “Monticello-Le Pose” si dimostrava insufficiente a coprire il fabbisogno delle attività siderurgiche, si cercarono nuovi giacimenti nelle zone vicine, fino a che si scoprì un nuovo sito detto “Le Bugie” in località Trimpello, fu un vero colpo di fortuna , queste miniere alimentarono l’attività mineraria fin quasi ai giorni nostri. La spinta decisiva a questa industria si ebbe nel 1430 quando Fornovolasco passò dal dominio lucchese a quello modenese.
Ercole I d’Este colui che incentivò le miniere di Fornovolasco
Grandi progetti aveva per questi luoghi il duca estense Ercole I, che venne personalmente a visitare queste siti e in particolare il sito delle “Bugie”. Le intenzioni del duca erano serie, voleva rompere il monopolio della lavorazione del ferro delle valli lombarde e cosa più importante voleva rinnovare completamente le munizioni dell’artiglieria modenese con l’intenzione di sostituire le pietre da bombarda con palle metalliche, per questo scopo furono chiamati (ecco quando la verità storica abbraccia la leggenda) mastri forgiatori dalle valli bresciane e bergamasche. L’incarico di portare nuove innovazioni nelle strutture e nelle tecniche estrattive fu dato a mastro Iacomo Tacchetti da Gerla di Valtellina, ambito dalle signorie di mezza Italia. L’aumento di lavoro in questa miniera, è bene dirlo, portò da una parte indubbi vantaggi economici, ma dall’altra aumentò maggiormente lo sfruttamento dei lavoratori. Le miniere infatti appartenevano al Ducato che comprava per pochi soldi il ferro estratto dai minatori di Fornovolasco e come se non bastasse, concedendo le licenze di scavo nei territori ducali, pretendeva nuovamente altri soldi per il pagamento dei diritti di escavazione. Questa situazione portò ad un periodo nefasto, per guadagnare ancora di più la gente cominciò a scavare in maniera disordinata, si aprivano cunicoli, gallerie, piccoli anfratti in ogni dove, provocando frane in tutto il sito, frane che causarono vittime su vittime, questo avrebbe compromesso anche lo stesso sito,  ma prima che la situazione sfuggisse di mano lo stesso duca corse ai ripari, chiamando ancora nuovi mastri che regolamentassero gli scavi e che mettessero in sicurezza le gallerie.
Insomma a quanto pareva (industrialmente parlando) tutto andava a gonfie vele, nella zona agli inizi del 1500 si potevano già contare tre ferriere esistenti a Fornovolasco, alle quali si aggiunse un forno ducale e anche una fabbrica per la lavorazione del ferro a valle del paese. Oscuri presagi però si affacciavano all’orizzonte… Se da una parte si raggiunsero picchi produttivi che neanche le valli lombarde avevano mai raggiunto, dall’altra invece non si riusciva a dare una certa continuità alla produzione, per due motivi: la scarsità di materiale dentro le miniere e quello che preoccupava di più era la penuria di combustibile, i boschi nelle vicinanze che fornivano legna per i forni ormai erano tutti diradati, le montagne quasi tutte “pelate” e questo fu la causa maggiore che portò al progressivo declino di Fornovolasco. Ma intanto c’era ancora spazio per la gloria, al tempo rimase nella memoria di tutti la visita alle miniere di Sua Eccellenza Illustrissima il Governatore della Garfagnana messer Ludovico Ariosto, che di quella visita scrisse:
Lo scoglio, ove il sospetto fa soggiorno, alto dal mare da seicento braccia, e ruinose balze cinte intorno,
e da ogni parte il cader moinaccia: il più stretto sentier, che guida al Forno,  la dove il Garfagnin il ferro caccia
Ludovico Ariosto governatore di Garfagnana
Diciamo che la visita dell’Ariosto chiuse per sempre un periodo pieno di speranze e illusioni. Nei secoli a venire si alternarono periodi di fiducia e di altrettanto sconforto. Nel 1636 gli Estensi diedero il via ad un nuovo progetto in Trombacco(a tre km da Fornovolasco) attivando uno nuovo scavo per una nuova miniera che sembrava foriera di nuove prospettiva. In realtà il materiale era scarso e l’attività quindi durò circa dieci anni. Nel 1702 sul sito minerario delle “Bugie” venne usata una nuova tecnica di scavo: la polvere da sparo, questa innovazione che in un colpo solo faceva il lavoro di cento uomini portò alla riattivazione delle miniere(che già erano state chiuse negli anni precedenti) e dei forni di Trombacco e Fornovolasco, ma dopo pochi anni il filone si esaurì, bisognò ricorrere di nuovo al ferro dell’Isola d’Elba.
Palazzo Roni a Vergemoli La famiglia del monopolio del ferro di Fornovolasco
Il 1800 portò poi una sostanziale novità, cessarono tutte quelle licenze a persona che negli anni portarono alla morte di molte persone, era cominciata l’epoca delle rivoluzioni industriali, sparirono così i piccoli cavatori “ad uso familiare” e subentrarono gli imprenditori. In questa ottica già negli anni precedenti la famiglia Roni di Vergemoli aveva capito da quale parte stava andando il mondo, riuscendo ad accaparrarsi il monopolio delle miniere di ferro, ma i tempi belli come detto erano passati. Oramai Fornovolasco per le insufficienti vie di comunicazione e l’affermarsi di nuove tecnologie non riuscì più a stare al passo con i tempi. Comunque non si volle “mollare l’osso” e altri tentativi furono ancora fatti. Si ritentò ancora di estrarre nel martoriato sito delle “Bugie”. Insigni geologi ed esimi ingegneri elaborarono un piano a dir poco ambizioso che prevedeva la riapertura delle gallerie e il trasporto del minerale attraverso una funivia che portava direttamente a Gallicano, dove (nel progetto) sarebbe giunto un troncone della ferrovia…Le intenzioni erano ottime, ma i risultati però non furono all’altezza. Di li in poi fu un continuo“tentar di levare il sangue dalle rape“. Negli anni si susseguirono industrie come la Calceramica insieme alla Montecatini (1913), poi nonostante un periodo di estrazione piuttosto intenso le miniere passarono nel 1950 alla Desideri e Severi di Colle Val d’Elsa, dal 1952 al 1972 subentrò l’IMSA di Roma e infine nel 1973 l’EDEM, anch’essa di Roma che dopo vari tentativi di convertire produzioni e altri esperimenti similari decise di chiudere per sempre tutto e le miniere vennero definitivamente abbandonate.
Oggi le miniere di Fornovolasco si presentano così (Foto tratta da Speleoclub Garfagnana C.A.I)
Quello che rimane di questa storia non sono le miniere e nemmeno la loro interessante storia, quello che rimane di questo articolo sono quelli che Charles Dickens definiva “i perseguitati dell’inferno”: i minatori. Una vita breve ed intensissima. La maggior parte di loro non raggiungeva i cinquant’anni d’età, morti di lavoro a causa dei crolli e di intossicazioni polmonari.
  Bambini minatori in Pennsilvanya (U.S.A)
La loro morte nella comunità non destava nemmeno stupore, era la normalità. Insieme a loro (come abbiamo letto) i bambini, usati come cavie da esplorazione, la maggior parte di loro si perdeva nei cunicoli delle grotte, non riusciva più a far ritorno alla luce, morti al buio, di freddo e di fame. A tutti loro va il nostro pensiero…
        Bibliografia
“Le miniere di Fornovolasco” a cura dell’Associazione Buffarello Team
“Breve storia del lavoro in miniera” Mursia 1973
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aneddoticamagazinestuff · 8 years ago
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Viaggio nei "paesi fantasma" della Toscana
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Viaggio nei "paesi fantasma" della Toscana
Mi sembra giusto ricordare un po’ tutti questi borghi che per un motivo o per un altro sono stati progressivamente abbandonati. La Garfagnana sicuramente è una fra le zone in cui maggiormente è avvenuto questo fenomeno e pensare che una volta questi luoghi erano pieni di vita ed attività lavorative, abitati da centinaia di persone e oggi la vegetazione li ha “mangiati” e la memoria li ha cancellati. Questo articolo di oggi non vuole essere però un censimento dei paesi abbandonati della valle, chissà quanti ci sono che non conosco e quanti ce ne sono stati che nessuno ricorda più, vuole essere semplicemente un viaggio in questo fenomeno non tipicamente garfagnino ma che riguarda sopratutto il nostro Paese, infatti secondo dati ISTAT in Italia abbondano a quasi seimila i borghi abbandonati, considerando i veri e propri paesi, gli alpeggi e gli stazzi. Ognuno di questi centri disabitati racconta la storia del proprio territorio e la propria intima vita quotidiana. Quando si disquisisce sui “paesi fantasma” bisogna andare a vedere innanzitutto le cause dell’abbandono che possono essere molteplici. Una fra le cause principali può essere determinata dalle forze della natura, viene subito alla mente il centro storico de L’Aquila distrutto dal terremoto del 2009 e fino a poco tempo fa semi deserto e per esempio nel nostro piccolo esiste(o meglio non esiste più) il borgo di Bergiola nel comune di Minucciano. La sua storia si è sviluppata attraverso i secoli senza particolari problemi fino a quel tragico settembre del 1920 quando (come ben si sa) un distruttivo terremoto colpì l’intera Garfagnana e questo per Bergiola significò una dolorosa fine.
Bergiola (foto tratta dal sito bergiola.it)
Il paese venne così completamente abbandonato. In seguito con l’andar degli anni la vegetazione si fece fitta ed era difficile anche raggiungerlo e si innescò per questo un clima di mistero e paura, si racconta che in certi periodi dell’anno ci si poteva imbattere in un mostruoso serpente nero chiamato (dai pochi sfortunati che giurano di averlo visto) con l’inquietante nome di Devasto. Da non sottovalutare nemmeno le cause riguardanti le epidemie. Nei secoli scorsi alcuni alpeggi garfagnini a ridosso dell’Appennino tosco-emiliano a partire più precisamente dal 1629 (quando ormai la peste stava dilagando in Garfagnana), furono letteralmente dati alle fiamme dalle guardie governative del Duca di Modena Francesco I d’Este, che cercavano in questo modo di delimitare il contagio ai centri urbani più grandi, per questo come detto alcuni piccoli abitati dei pastori furono incendiati e di questi centri addirittura non si conosce più nemmeno il nome. A riguardo di epidemie, curiosa è la probabile etimologia del nome del “paese fantasma” di Camperano (località che si trova tra Trombacco e Chieva di Sotto nel comune di Gallicano). La storia ci dice che in questo posto venivano portati i lebbrosi da Piastreto, sotto le grotte di Burioni a Trassilico, il prete dava a quegli sventurati la benedizione e guardando in basso verso di loro scuotendo la testa diceva – Camperanno o moriranno?- e di lì il nome Camperano.
Vispereglia (foto Daniele Saisi)
Fra tutte le altre cause possibili la più frequente è sicuramente quella economica. Tutti sanno che nel secondo dopoguerra in Italia c’è stato l’abbandono delle montagne e l’invasione delle città o di quei paesi dove cominciavano a sorgere le industrie. Questi villaggi “lontani dal mondo” e con ormai poche possibilità di guadagno furono lasciati progressivamente deserti fra gli anni ’50 e ’60  e non mancò a questa regola nemmeno la Garfagnana. Vispereglia e Col di Luco sempre nel comune di Fabbriche di Vergemoli ne sono un esempio pratico, questi paesini vivevano infatti di vita propria, proprio in quei tempi in cui il ritmo della vita non era quello di questi anni, andavano avanti come piccoli ecosistemi autonomi, riuscendo ad avere tutto di quello di cui avevano bisogno, grazie alle coltivazioni, alle risorse naturali e all’ingegno delle persone. Non ci possiamo nemmeno dimenticare delle cause belliche, perchè quando non è la natura, è l’uomo a distruggere quanto costruito da se stesso. La guerra esiste da quando esiste l’uomo e sono numerosi i paesi distrutti dai bombardamenti della II guerra mondiale a conferma di questo il paese di Col di Favilla nel cuore delle Apuane nè è un fulgido esempio. Le attività principali degli abitanti erano la produzione del carbone, la pastorizia, la lavorazione dei metalli presso il canale delle Verghe e l’estrazione del tannino dal castagno, destinato alle concerie del pisano, insomma il paese era più vivo che mai e solo i bombardamenti alleati dell’ultimo conflitto mondiale, dove il borgo subì gravi distruzioni e le allentanti comodità che offriva il fondovalle fecero cessare per sempre il cuore battente di questo ultra secolare abitato.
Col di Favilla (foto di Aldo Innocenti)
Altro singolare esempio di paese scomparso per cause sempre riguardanti la guerra ed eventuale pericolo di invasione è la curiosa storia del villaggio di Monti situato nel prospiciente colle davanti a Castelnuovo Garfagnana. Il piccolo paesello annoverava una “signora” chiesa intitolata a San Pantaleone e a San Michele, risalente addirittura al 1045, non per questo il
duca Alfonso II d’Este si fece dei problemi e nel 1579 non esitò a costruirvi l’attuale e famosa Fortezza di Mont’ Alfonso, cosicché lo sfortunato paese fu inglobato letteralmente nelle imponenti mura, negli anni successivi fu militarizzato e di conseguenza cancellato da qualsivoglia mappa.
Può succedere anche che un paese venga completamente espropriato e questo è successo al più famoso di tutti i “paesi fantasma” cioè a Fabbriche di Careggine. I giorni che suo malgrado lo resero nella memoria di tutti immortale arrivarono all’inizio del 1941 quando la Società Selt Valdarno (l’attuale E.N.E.L)sbarrò il corso del fiume Edron con lo scopo di costruire un bacino idroelettrico e così tra il 1947 e il 1953 venne costruita la diga (92 metri di altezza) che portò alla nascita del lago di Vagli e alla conseguente morte del paese che ormai già stava sotto a 34 milioni di metri cubi di acqua.
Fabbriche di Careggine semi sommerso
Quando venne sommerso la località contava 31 case popolate da 146 abitanti, un cimitero,un ponte a tre arcate e la chiesa romanica di San Teodoro risalente al 1590. I 146 abitanti che a malincuore lasciarono le loro case furono trasferiti nel vicino paese di Vagli di Sotto oppure in altri paesi della valle.
L’Isola Santa (foto tratta dal blog Giorni Rubati)
L’Isola Santa (foto tratta dal blog Giorni Rubati)
Simile fine la fece pure l’antico borgo dell’Isola Santa nel comune di Careggine, ma qui il discorso cambia un po’ e la causa fu da considerarsi antropica (mamma mia che parolona!!!), per antropico si intende tutti quei fattori che, attraverso la mano dell’uomo provocano delle reazioni che hanno la risultante di produrre (in questo caso) lo spopolamento di un paese. Il più lampante in Garfagnana riguarda proprio l’Isola Santa, lì la pace finì nel 1949 quando venne costruita un ennesima diga per lo sfruttamento della Turrite Secca. Il centro abitato fu in parte sommerso: alcune case, un ponte ed un mulino. Il peggio però doveva ancora venire, difatti si scoprì che tutto il resto del paese rimasto in superficie aveva problemi di stabilità,problemi dovuti alle grandi escursioni di acqua, imposte dalla Selt Valdarno. La situazione venne risolta alla fine degli anni ’70, ma ormai lo spopolamento era avvenuto e danni irreparabili erano già stati fatti, l’Isola Santa era ormai quasi disabitata. Nel 1975 gli ultimi abitanti rimasti, durante uno svuotamento del bacino artificiale, occuparono il paese in segno di protesta per rivendicare il diritto a case nuove e sicure. La lotta in buona parte ebbe successo, le abitazioni nuove furono costruite altrove, e fu la definitiva morte di un antichissima comunità.
Si conclude così questo piccolo viaggio nei paesi abbandonati della Garfagnana e il mio pensiero va a tutti gli abitanti (ormai quasi tutti scomparsi) di questi
borghi e alla tragedia che hanno subito, veder sradicate le loro origini,le loro abitudini, abbandonare le case e i campi che loro stessi o i loro genitori costruirono e coltivarono con sacrificio e amore deve essere stato uno strazio inimmaginabile e di difficile sopportazione.
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aneddoticamagazinestuff · 8 years ago
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Viaggio nei "paesi fantasma" della Toscana
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Viaggio nei "paesi fantasma" della Toscana
Mi sembra giusto ricordare un po’ tutti questi borghi che per un motivo o per un altro sono stati progressivamente abbandonati. La Garfagnana sicuramente è una fra le zone in cui maggiormente è avvenuto questo fenomeno e pensare che una volta questi luoghi erano pieni di vita ed attività lavorative, abitati da centinaia di persone e oggi la vegetazione li ha “mangiati” e la memoria li ha cancellati. Questo articolo di oggi non vuole essere però un censimento dei paesi abbandonati della valle, chissà quanti ci sono che non conosco e quanti ce ne sono stati che nessuno ricorda più, vuole essere semplicemente un viaggio in questo fenomeno non tipicamente garfagnino ma che riguarda sopratutto il nostro Paese, infatti secondo dati ISTAT in Italia abbondano a quasi seimila i borghi abbandonati, considerando i veri e propri paesi, gli alpeggi e gli stazzi. Ognuno di questi centri disabitati racconta la storia del proprio territorio e la propria intima vita quotidiana. Quando si disquisisce sui “paesi fantasma” bisogna andare a vedere innanzitutto le cause dell’abbandono che possono essere molteplici. Una fra le cause principali può essere determinata dalle forze della natura, viene subito alla mente il centro storico de L’Aquila distrutto dal terremoto del 2009 e fino a poco tempo fa semi deserto e per esempio nel nostro piccolo esiste(o meglio non esiste più) il borgo di Bergiola nel comune di Minucciano. La sua storia si è sviluppata attraverso i secoli senza particolari problemi fino a quel tragico settembre del 1920 quando (come ben si sa) un distruttivo terremoto colpì l’intera Garfagnana e questo per Bergiola significò una dolorosa fine.
Bergiola (foto tratta dal sito bergiola.it)
Il paese venne così completamente abbandonato. In seguito con l’andar degli anni la vegetazione si fece fitta ed era difficile anche raggiungerlo e si innescò per questo un clima di mistero e paura, si racconta che in certi periodi dell’anno ci si poteva imbattere in un mostruoso serpente nero chiamato (dai pochi sfortunati che giurano di averlo visto) con l’inquietante nome di Devasto. Da non sottovalutare nemmeno le cause riguardanti le epidemie. Nei secoli scorsi alcuni alpeggi garfagnini a ridosso dell’Appennino tosco-emiliano a partire più precisamente dal 1629 (quando ormai la peste stava dilagando in Garfagnana), furono letteralmente dati alle fiamme dalle guardie governative del Duca di Modena Francesco I d’Este, che cercavano in questo modo di delimitare il contagio ai centri urbani più grandi, per questo come detto alcuni piccoli abitati dei pastori furono incendiati e di questi centri addirittura non si conosce più nemmeno il nome. A riguardo di epidemie, curiosa è la probabile etimologia del nome del “paese fantasma” di Camperano (località che si trova tra Trombacco e Chieva di Sotto nel comune di Gallicano). La storia ci dice che in questo posto venivano portati i lebbrosi da Piastreto, sotto le grotte di Burioni a Trassilico, il prete dava a quegli sventurati la benedizione e guardando in basso verso di loro scuotendo la testa diceva – Camperanno o moriranno?- e di lì il nome Camperano.
Vispereglia (foto Daniele Saisi)
Fra tutte le altre cause possibili la più frequente è sicuramente quella economica. Tutti sanno che nel secondo dopoguerra in Italia c’è stato l’abbandono delle montagne e l’invasione delle città o di quei paesi dove cominciavano a sorgere le industrie. Questi villaggi “lontani dal mondo” e con ormai poche possibilità di guadagno furono lasciati progressivamente deserti fra gli anni ’50 e ’60  e non mancò a questa regola nemmeno la Garfagnana. Vispereglia e Col di Luco sempre nel comune di Fabbriche di Vergemoli ne sono un esempio pratico, questi paesini vivevano infatti di vita propria, proprio in quei tempi in cui il ritmo della vita non era quello di questi anni, andavano avanti come piccoli ecosistemi autonomi, riuscendo ad avere tutto di quello di cui avevano bisogno, grazie alle coltivazioni, alle risorse naturali e all’ingegno delle persone. Non ci possiamo nemmeno dimenticare delle cause belliche, perchè quando non è la natura, è l’uomo a distruggere quanto costruito da se stesso. La guerra esiste da quando esiste l’uomo e sono numerosi i paesi distrutti dai bombardamenti della II guerra mondiale a conferma di questo il paese di Col di Favilla nel cuore delle Apuane nè è un fulgido esempio. Le attività principali degli abitanti erano la produzione del carbone, la pastorizia, la lavorazione dei metalli presso il canale delle Verghe e l’estrazione del tannino dal castagno, destinato alle concerie del pisano, insomma il paese era più vivo che mai e solo i bombardamenti alleati dell’ultimo conflitto mondiale, dove il borgo subì gravi distruzioni e le allentanti comodità che offriva il fondovalle fecero cessare per sempre il cuore battente di questo ultra secolare abitato.
Col di Favilla (foto di Aldo Innocenti)
Altro singolare esempio di paese scomparso per cause sempre riguardanti la guerra ed eventuale pericolo di invasione è la curiosa storia del villaggio di Monti situato nel prospiciente colle davanti a Castelnuovo Garfagnana. Il piccolo paesello annoverava una “signora” chiesa intitolata a San Pantaleone e a San Michele, risalente addirittura al 1045, non per questo il
duca Alfonso II d’Este si fece dei problemi e nel 1579 non esitò a costruirvi l’attuale e famosa Fortezza di Mont’ Alfonso, cosicché lo sfortunato paese fu inglobato letteralmente nelle imponenti mura, negli anni successivi fu militarizzato e di conseguenza cancellato da qualsivoglia mappa.
Può succedere anche che un paese venga completamente espropriato e questo è successo al più famoso di tutti i “paesi fantasma” cioè a Fabbriche di Careggine. I giorni che suo malgrado lo resero nella memoria di tutti immortale arrivarono all’inizio del 1941 quando la Società Selt Valdarno (l’attuale E.N.E.L)sbarrò il corso del fiume Edron con lo scopo di costruire un bacino idroelettrico e così tra il 1947 e il 1953 venne costruita la diga (92 metri di altezza) che portò alla nascita del lago di Vagli e alla conseguente morte del paese che ormai già stava sotto a 34 milioni di metri cubi di acqua.
Fabbriche di Careggine semi sommerso
Quando venne sommerso la località contava 31 case popolate da 146 abitanti, un cimitero,un ponte a tre arcate e la chiesa romanica di San Teodoro risalente al 1590. I 146 abitanti che a malincuore lasciarono le loro case furono trasferiti nel vicino paese di Vagli di Sotto oppure in altri paesi della valle.
L’Isola Santa (foto tratta dal blog Giorni Rubati)
L’Isola Santa (foto tratta dal blog Giorni Rubati)
Simile fine la fece pure l’antico borgo dell’Isola Santa nel comune di Careggine, ma qui il discorso cambia un po’ e la causa fu da considerarsi antropica (mamma mia che parolona!!!), per antropico si intende tutti quei fattori che, attraverso la mano dell’uomo provocano delle reazioni che hanno la risultante di produrre (in questo caso) lo spopolamento di un paese. Il più lampante in Garfagnana riguarda proprio l’Isola Santa, lì la pace finì nel 1949 quando venne costruita un ennesima diga per lo sfruttamento della Turrite Secca. Il centro abitato fu in parte sommerso: alcune case, un ponte ed un mulino. Il peggio però doveva ancora venire, difatti si scoprì che tutto il resto del paese rimasto in superficie aveva problemi di stabilità,problemi dovuti alle grandi escursioni di acqua, imposte dalla Selt Valdarno. La situazione venne risolta alla fine degli anni ’70, ma ormai lo spopolamento era avvenuto e danni irreparabili erano già stati fatti, l’Isola Santa era ormai quasi disabitata. Nel 1975 gli ultimi abitanti rimasti, durante uno svuotamento del bacino artificiale, occuparono il paese in segno di protesta per rivendicare il diritto a case nuove e sicure. La lotta in buona parte ebbe successo, le abitazioni nuove furono costruite altrove, e fu la definitiva morte di un antichissima comunità.
Si conclude così questo piccolo viaggio nei paesi abbandonati della Garfagnana e il mio pensiero va a tutti gli abitanti (ormai quasi tutti scomparsi) di questi
borghi e alla tragedia che hanno subito, veder sradicate le loro origini,le loro abitudini, abbandonare le case e i campi che loro stessi o i loro genitori costruirono e coltivarono con sacrificio e amore deve essere stato uno strazio inimmaginabile e di difficile sopportazione.
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