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📌Hoy Almeida comienza hacer caja con los nuevos parquímetros de cinco barrios de Ciudad Lineal y Carabanchel 📌Manifestación PP: Fracaso y simbología franquista 📌El Tamayismo, fase superior del Tamayazo 📌Las aseguradoras aprovechan el discurso ‘antiokupas’ para crear un nuevo nicho de negocio https://carabanchel.net
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Frd Rock Classic: (No Pussyfooting)
Artista: Eno & Fripp Etichetta: EG Anno: 1973 Album uscito a novembre del 1973, (No Pussyfooting) documenta la prima di una lunga serie di collaborazioni tra Brian Eno e Robert Fripp. Il primo, venticinque anni, neo transfuga dai Roxy Music, il secondo, ventisette, in pausa dai King Crimson, dopo l’uscita del quarto album Island. Per i due musicisti, questa collaborazione sarebbe stata seminale…
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#(No Pussyfooting)#Brian Eno#elettronica#Eno#ENO & FRIPP#Frippertronics#No Pussyfooting#Robert Fripp#Sperimentale#Terry Riley#time-lag accumulator#Youtube
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#TípicaArgentinaTilinga mostrando su #VivezaCriolla Si así es en campaña, imagínate lo #Transfuga que va a ser cuando la elijan #VotalaNomás (en Córdoba, Argentina) https://www.instagram.com/luis.sde.cba.1904/p/BvlTNOVD8MDDl9-FgZ9UFeuqZyn5cH-oiVe7dE0/?utm_source=ig_tumblr_share&igshid=18hwbkno8p2bf
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"E' stata una vicenda lunga, ho dovuto lasciar qualcosa sul tavolo ma ora sono felice di essere qui. Ho sentito il leader Tizio solo una volta tempo fa, mi ha detto cose che mi hanno motivato. E si, sono da tempo in contatto con Caio arrivato prima di me alla sua corte. Ma non sono tanto le persone, è stato il progetto a convincermi".
Indovina: sono dichiarazioni di ventenne illetterato second generation acquistato al calciomercato, di transfuga da FI ad Azione o di Kompetenzeh Kottarelli ?
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Creo verme en un bosque desde arriba
Algo me atraviesa
me siento inmersa en ello
En la niebla espesa
Tan transfuga corriendo entre las ramas
La luna no para de seguirme y las espinas de hundirse en mi piel
Un esfinge que no se imnuta
Llueve adentro
De desvelo me lleno
Y Ami centro aun no llego
El azul invade mi cuerpo
Entonces solo recuerdo el olor
Se acerca el invierno
Finalmente me veo
-isis Vargas
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Gennaio 1950: come Togliatti regolò i conti con “il rinnegato Silone”
Ignazio Silone anticipò il suo saggio “Uscita di sicurezza” sulla rivista Comunità di Adriano Olivetti nell’ Ottobre 1949, annunciando la pubblicazione del libro “Il Dio che è fallito. Testimonianze sul comunismo” (con testi di Ignazio Silone, Arthur Koestler, Andrè Gide, Louis Fisher, Stephen Spender e Richard Wright). Palmiro Togliatti replicò a tutta pagina su l’Unità IL 6 Gennaio 1950, regolando i conti con il “rinnegato”. Così si formava all'epoca la mentalità media del militante del PCI.
L’Unità, 6 Gennaio 1950Lettera di Palmiro Togliatti alla rivista ComunitàCONTRIBUTO ALLA PSICOLOGIADI UN RINNEGATOCome Ignazio Silone venne espulso dal PCI Egregio signor Direttore, nella rivista “Comunità” n.5 (Settembre-Ottobre 1949) Ella pubblica un articolo di Ignazio Silone, intitolato ‘Una uscita di sicurezza’. Se ho ben capito lo scritto è estratto da una progettata antologia di rinnegati del comunismo, cioè di autori i quali come Gide, o Koestler, o lo stesso Silone, dopo essere stati comunisti o simpatizzanti col comunismo, sono diventati anticomunisti.L’antologia, a quanto ho letto, dovrebbe essenzialmente servire a documentare, secondo gli uni, come il distacco dal comunismo crei in coloro che ne fanno l’esperienza uno stato d’animo particolare, che non si cancellerebbe più, o a documentare, secondo altri, che si staccano dal comunismo coloro che a questo distacco erano predestinati da certe loro qualità innate.La indagine è interessante e non nego possa essere anche per noi, comunisti, alquanto lusinghiera. Se non fossimo un movimento serio, che implica un impegno profondo tanto del pensiero quanto della volontà, non solo non potremmo essere, come siamo, sicuri del nostro successo, non solo non potremmo aver dato al nostro paese un uomo come Antonio Gramsci e migliaia di combattenti eroici per la libertà, ma non interesserebbe proprio nessuno lo studio della psicologia dei nostri rinnegati. Che interesse potrebbe mai presentare l’analisi dei motivi che possono avere indotto, verbigrazia, il dato esponente liberale dei nostri giorni a uscire dal suo partito per rientrarvi poco dopo, diventarne il dirigente, uscirne di nuovo, star sulla porta e così via, avanti e indietro, e così via secondo spira il vento che trasporta portafogli ministeriali?Nello scritto in questione però, oltre alla trattazione di questo tema, si trovano richiami diretti alla mia attività. Vi si trovano affermazioni relative alla posizione che il Silone ebbe nel Partito comunista in un periodo in cui ne ero il dirigente più responsabile. Ciò mi dà il diritto di una replica, o meglio di una messa a punto, e non credo di dovermi riferire alle vigenti leggi sulla stampa, ma esclusivamente alla Sua cortesia e al Suo interesse per i dibattiti politici, per chiederle un poco del Suo spazio.Tanto meglio mi pare se l’esercizio di tale diritto di replica mi consentirà di dare un contributo allo studio di quella particolare psicologia del transfuga del comunismo di cui certamente il Silone è uno degli esemplari più in vista.Negli episodi di vita giovanile attraverso i quali Silone (che noi allora chiamavamo Pasquini, e il cui nome vero era Tranquilli) venne spinto a dare l’adesione al partito della rivoluzione proletaria, non trovo nulla di particolare. E’ stata quella, su per giù, la strada di molti altri fra i nostri militanti: l’importante però, lo riconosco, è di riuscire a passare dalla aspirazione generale alla giustizia per i lavoratori, alla coscienza di quello che deve essere il partito politico rivoluzionario della classe operaia nelle condizioni della lotta di classe e politica dei tempi nostri. Ma per Ignazio Silone le cose furono molto più semplici. Comunque, egli non uscì dal nostro partito: ne venne espulso. Dunque non fu lui che decise di non esser fatto per il nostro partito; fummo noi che, dopo lunga esperienza, concludemmo che gli mancavano quelle qualità che non solo un dirigente, ma un semplice militante del Partito comunista deve possedere. E vorrei subito aggiungere che si tratta di qualità abbastanza elementari, di onestà e sincerità nei rapporti con l’organizzazione cui si appartiene, di devozione alla causa per cui questo organismo combatte.Lascio da parte qualsiasi rilievo circa la crisi che il movimento comunista di vari paesi attraversò nel periodo di costituzione della Internazionale comunista. Questa Internazionale -lo dice il suo stesso appellativo- non poteva essere un coacervo di riformisti, sindacalisti anarchici, estremisti parolai, opportunisti, intellettuali rammolliti, ecc…Bisognava scegliere e educare nel movimento operaio mondiale quadri politici nuovi, e senza aspre lotte politiche questo non si è mai potuto fare e non si farà.
Vengo quindi senz’altro al fatto che Silone pone al centro del suo racconto e di cui fa scandalo: la riunione dell’ Esecutivo allargato dell’ Internazionale comunista del maggio 1927. Le cose sono veramente accadute come Silone racconta (salvo qualche inesattezza su cui non insisterò e che non ha valore) : non riesco però veramente a capire come si possa addurre quello che avvenne in quella riunione come una prova che “il gruppo dirigente russo” fosse reo “di intrighi e prepotenze…contro ogni espressione indipendente degli altri partiti affiliati”. A quella riunione venne presentato dalla delegazione del partito russo (bolscevico) un progetto di risoluzione contro Trotzky e i trotzkisti. La risoluzione era tale che, approvata, avrebbe significato l’ esclusione dal movimento comunista del gruppo condannato. I delegati francesi, italiani, svizzeri e spagnoli (e se ben ricordo anche i belgi) dichiararono di non essere ancora convinti della necessità di quel voto. Si trattava di partiti che, per ragioni diverse, erano allora meno direttamente al corrente del modo come si svolgeva nel partito russo la lotta contro il trotzkismo. Per noi comunisti italiani si trattava, a ragione o a torto, di tener conto della necessità di orientare i quadri nel paese e in carcere: si poteva temere, a ragione o a torto, ripeto, che una decisione presa in quella riunione non venisse ancora compresa da tutti. Ma che fecero allora i compagni russi? Lo dice lo stesso Silone: “Se un solo delegato, disse Stalin, è contrario al progetto di risoluzione, esso non potrà essere presentato in seduta plenaria”. Le delegazioni indicate non modificarono la loro opinione: il progetto venne quindi ritirato. Si può tacciare di “sleale”, “prepotente”, soffocatrice di ogni espressione indipendente questa condotta? Al contrario, mi pare. Sapendoci tutti “in buona fede”, essi stessi i compagni russi rispettarono la nostra “libertà” di non essere ancora del tutto convinti, ci consentirono di attendere, di “sperimentare”, ecc…, cioè fecero proprio quello che, secondo Silone e gli altri rinnegati, essi sarebbero del tutto incapaci di fare.Di rado ho trovato l’esempio di un calunniatore che in questo modo, con le sue parole stesse, con l’esempio da lui portato, distrugge la sua stessa calunnia!
Giudicando le cose ora, riconosco che le nostre riserve alla proposta dei bolscevichi erano fuori luogo. Aveva ragione Stalin, il quale conosceva meglio di noi quale stoffa di traditore fosse Trotzky. E l’ Esecutivo che, poco tempo dopo, condannò Trotzky duramente, era composto di compagni che avevano già acquistato quella stessa convinzione. Aveva il diritto di farlo; ma noi, se avessimo voluto, avremmo potuto benissimo, senz’altro rischio che quello di aprire una discussione, dichiarare il nostro disaccordo. Non solo non lo facemmo perché comprendemmo come le cose si stavano sviluppando, ma lo stesso Silone non accennò nemmeno lontanamente a proporlo. Circa il merito, la storia ha deciso: la linea difesa nella rivoluzione cinese da Stalin ha portato Mao Tse-dun alla vittoria che tutti sanno. Trotzky è affogato nel tradimento. Ma qui siamo in ballo per quanto riguarda Silone. Egli si maraviglia che si desse ai comunisti inglesi il consiglio di nascondere ai dirigenti sindacali reazionari la loro qualità di comunisti per poter restare nei sindacati. Sembra si ribelli in lui un amico della “verità”, un nemico a tutti i costi della “bugia”. Ma allo stesso modo si sarebbe potuto rimproverare ai comunisti che lavoravano in Italia durante il fascismo di non manifestare pubblicamente la loro qualità di comunisti e di non denunciarla all’OVRA. Escludere da un sindacato un operaio perché comunista è infatti un sopruso, una misura reazionaria e di tipo fascista, a cui è lecito sottrarsi con qualsiasi mezzo. Ma il sincero Silone, questo cultore singolare della verità sin dall’infanzia, come si portò dunque nel nostro partito? La riunione famosa, che gli avrebbe squarciato il velame dell’ immoralità dei comunisti e del loro “fallimento” fu nel 1927. Silone fu espulso dal movimento comunista con una risoluzione approvata il 4 luglio 1931 dall’Ufficio politico del Partito comunista svizzero, nel quale egli si era rifugiato. Quattro anni di crisi faticosa, di riflessioni, di tormento interiore? Ma nemmeno per sogno, perché in quegli anni il Silone continuò a far parte dei più elevati nostri organismi dirigenti, del Comitato centrale, dell’ Ufficio politico (l’ attuale Direzione), della Segreteria e fu persino segretario incaricato dell’ organizzazione. Né si può dire che fosse in questi posti passivo, indifferente spettatore di una degenerazione fatale. Condusse anzi una lotta vivace e senza alcuno scrupolo di moralità e di sincerità per diventare, proprio lui che oggi ci dice essere stato in preda allora all’atroce dubbio, il dirigente di tutto il nostro Partito.
Era ambizione; c’era qualcuno che glielo faceva fare per evidenti scopi; ed era egli stesso che tendeva, come sembra tenda per sua natura tuttora, a sfasciare l’organizzazione politica cui aderisce? Per ora la risposta non è facile.Ma ecco come si venne alla sua espulsione dalle nostre fila. Nel 1929 e nel 1930 dovemmo condurre una azione energica per liberarci da alcuni elementi opportunisti rivelatisi nel nostro centro dirigente. Il primo espulso fu Angelo Tasca, che andò a finire, durante l’ occupazione tedesca della Francia, tra i “socialisti” sostenitori di Petain e della collaborazione con Hitler. Silone approvò quella espulsione; la votò insieme con tutti gli altri; scrisse articoli per spiegare la giustezza del provvedimento. L’espulsione di Tasca però, e la necessità di correggere alcuni errori che erano stati precedentemente compiuti da tutto il centro dirigente, avevano creato in questo centro una situazione confusa. Ed ecco Silone intervenire attivamente, il 15 gennaio 1930, con una lettera al Comitato centrale. Nella lettera, pur riconoscendo che i dirigenti del partito si erano fino allora “preoccupati più del partito che della loro biografia” (e forse stava e sta proprio qui il contrasto fondamentale fra noi e questo signore: ma per fortuna del nostro Paese il nostro partito è sempre stato diretto da uomini che sapevano mettere le sorti del movimento al di sopra della loro persona!), tortuosamente li accusa di non avere saputo applicare la linea politica dell’Internazionale comunista e propone se stesso come il solo capace sia di comprenderla che di applicarla. Leggendo ciò che egli scrive oggi, quando afferma che dal 1927 e anche prima vedeva il “fallimento” dell’ Internazionale comunista e respingeva, per ragioni di moralità, dice, i metodi con cui era diretta, e si pensa che nel 1930 egli voleva essere riconosciuto come il vero depositario della politica dell’ Internazionale, ci si incomincia a fare un’idea abbastanza precisa di che cosa è per Silone la morale: si incomincia a capire meglio quale è la singolare psicologia di questi rinnegati; si comprende come fosse loro impossibile la permanenza in una collettività di onesti combattenti e di persone per bene.Ma forse interesserà conoscere come il Silone aveva organizzato il suo attacco. Non è escluso che persino l’on. Saragat e l’on. Romita ci trovino qualche analogia con vicende recenti e ne traggano qualche insegnamento utile.Mentre Silone scriveva la sua lettera al Comitato centrale altri tre membri della Direzione scatenavano un attacco dentro all’ ufficio politico, per un mutamento radicale di politica e di direzione. Chiedevano essenzialmente che si rinunciasse allo sforzo continuo per mantenere in vita il partito all’interno del paese, e condivano con vari pretesti politici questa loro rivendicazione liquidatrice. I “tre” e Silone erano, naturalmente, d’accordo.
Con questo accordo, che però avrebbe dovuto restare segreto, Silone si preparava la possibilità di presentarsi al momento buono (e anzi, di presentarsi all’Internazionale stessa) come l’uomo superiore ai due gruppi in lotta, destinato a salvare le cose prendendo nelle sue mani la direzione di tutto, ecc…Il piano fallì. La maggioranza della direzione condannò Silone e i “tre” Il Comitato centrale, dove erano i compagni che lavoravano in Italia, confermò senza esitazione la condanna e ne aggravò le condizioni. I “tre” passarono alla lotta aperta contro il Partito, aderirono ai raggruppamenti trotzkisti francesi, iniziarono una campagna pubblica di discredito del partito stesso e dei suoi dirigenti. Non potevano che essere espulsi e lo furono.Allora si ebbe il colpo di scena. Silone, non sollecitato da nessuno, invia al Comitato centrale (gennaio 1931) una dichiarazione in cui dice: “1) sono d’accordo con la linea generale dell’ IC e del PCI; 2) non ho mai avuto e non ho nulla in comune, né politicamente né organizzativamente, con il gruppo dei tre espulsi; 3) condanno questo gruppo…e sono solidale con la lotta che l’ IC e il PCI hanno condotto e conducono contro di essi e contro la frazione trotzkista; 4) accetto senza riserva alcuna la disciplina e le decisioni dell’ IC e del PCI”. La dichiarazione era esauriente, tassativa, energica; era stata data spontaneamente, e poiché la prova che Silone, mentre la scriveva, fosse uno spudorato mentitore, non la avevamo ancora, le cose sarebbero finite lì. Ma la dichiarazione venne resa pubblica, e allora fu la volta dei “tre” di protestare fieramente, di rendere pubbliche essi stessi le prove che Silone era sempre stato ed era tuttora d’ accordo con loro, aveva saputo dei loro rapporti con Trotzky, li aveva seguiti, stimolati, diretti in tutta la lotta contro il partito. Tutto questo risultava da un abbondante epistolario politico siloniano, che fu reso pubblico in un bollettino edito dallo stesso Trotzky.Il nostro cultore della “verità” e nemico della bugia sopra ogni cosa, smascherato, tentò ancora una strada, inviandoci una lettera che potrebbe essere pubblicata in appendice al “Tartufo” come insuperato saggio di ipocrisia. La lettera è a disposizione nostra e potremo pubblicarla, se sarà necessario. L’argomento su cui si fonda è che le comunicazioni per il coordinamento della sua azione con quella del gruppo trotzkista non le aveva scritte (materialmente) lui: le aveva fatte scrivere (sotto dettatura) da sua moglie! Ma dopo tutto questo terminava tuttavia affermando che la sua permanenza nel movimento comunista non avrebbe potuto essere di più breve durata della sua permanenza tra gli uomini! Considerammo questo documento come prova definitiva della impossibilità di mantenere nel nostro partito, che è una organizzazione seria, siffatto ciarlatanesco campione del doppio giuoco; chiedemmo al partito svizzero di fare i passi necessari ed ebbe luogo l’espulsione, dopo una riunione presieduta non da Di Vittorio, ma da Ruggero Grieco.Ma anche qui Silone vuole aggiungere una bugia. Siccome non può atteggiarsi ad eroe e perseguitato, mentre sono vivi e vitali tutti i testimoni di questa lamentevole storia, dice di essere stato espulso per “motivazioni infamanti”, cioè per aver detto di essere un “anormale”.Forse pensa di riuscire in questo modo a circondarsi di un poco di quella aureola di anormalità a cui tanto tiene un altro rinnegato, Andrè Gide. Ma le cose non stanno affatto così. Il comunicato di espulsione, redatto dai compagni svizzeri, fu pubblicato sulla nostra rivista “lo Stato operaio”. E’ di due pagine. Prima espone le posizioni difese da Silone nei suoi documenti scritti. Poi riferisce esattamente la conversazione che ebbe luogo nella riunione esecutiva e tra l’altro dice: “Egli ha confermato tutti i punti della sua lettera…Egli ha dichiarato di essere un anormale politico, che il suo caso è un caso clinico, ecc…”. Seguono i motivi dell’ espulsione, nei quali queste confessioni non sono per niente richiamate, ma si dà un sommario giudizio politico di tutta la condotta tenuta dall’espulso, constatando che essa tendeva chiaramente a disgregare il centro dirigente del nostro partito in uno dei periodi più difficili della sua vita. Ora lascio alle persone che non sono “anormali” il giudizio. Noi parlammo allora di un caso di “malavita politica”. Adesso ci si vuol presentare la condotta del Silone come rivelazione di non so quali valori della moderna metafisica dei costumi che da noi, militanti comunisti, sarebbero misconosciuti, calpestati, distrutti. Così vuole la moda. Ma noi siamo uomini semplici. La nostra moralità non conosce quelle complicazioni metafisiche attraverso cui un truffatore diventa un eroe del pensiero contemplativo o della volontà pura. Ci atteniamo al giudizio degli uomini semplici. L’ intrigante lo chiamiamo intrigante. Il bugiardo, bugiardo. All’uno e all’ altro non facciamo posto nelle nostre file. Ecco tutto! Cordialmente e ringraziando, Palmiro Togliatti P.S.- Avevo terminato questa lettera e stavo per spedirla, quando mi è stato segnalato che lo scritto di Silone è stato fatto proprio, in parte più o meno grande, ma persino senza richiamo e citazione, da una schiera di campioni della penna, e sta facendo il giro dei quotidiani. Mi attendo divederlo ricomparire con la firma dei classici più noti dell’anticomunismo, del Tupini piccolo, del gesuita Padre Lombardi, che ci farà una predica e persino, che so io, di Benedetto Croce e di Vittorio Gorresio. Questo mi obbliga a passare anche io alla stampa quotidiana, per misura in certo modo preventiva, le mie precisazioni. Ne invio ugualmente copia a Lei, ma se Ella non riterrà più possibile ospitarla nella sua rivista, riconosco che la colpa sarà stata tutta mia
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Qui nel cerchio già chiuso nel monotono giro delle cose nella stanza sprangata eppure invasa da una luce lontana di crepuscolo può darsi nasca un’acqua ed una nebbia il mare sconosciuto e il lido dove per prima devi imprimere il tuo piede calando dalla nave consueta, transfuga che il rombo frastorna in corsa nella mente, lungo le belle curve di conchiglia. Sarà prossimo il centro: là s’appunta il nero occhio, la nostra perla di pece sempre in fiamme, serrata tra le ciglia, che per un attimo, in un battito ribelle intacca il puro ovale dello zero.
Bartolo Cattafi, Nel cerchio, da Le mosche del meriggio, 1958
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ANTONIO PIZZUTO, RITRATTO DI UN IRREGOLARE
Accingersi a scrivere un articolo, una recensione o un qualsiasi tipo di nota critica su qualcosa di Antonio Pizzuto, (1893-1976), cercando magari in questo modo di riscattarlo dall’oblio letterario nel quale è stato da anni confinato, può apparire opera improba. I suoi testi magmatici, oscuri, ermetici, il suo stile del tutto inedito, impervio a ogni convezione, certamente non aiuta, e se un articolo deve riuscire in qualche modo a decodificare il segno, le invarianze e la specificità della parola, materia prima di un testo e tutte le specole del suo linguaggio, nel caso in questione un tale tentativo può essere destinato al fallimento, perché parlandone in qualche modo si rischia di far svanire l’incanto, un po’ come è accaduto a Orfeo che fa dissolvere in una nuvola d’aria l’amata Euridice, voltandosi poco prima che questa vedesse la luce uscendo dall’Ade, come gli era stato prescritto di non fare.
L’incanto della penombra è propria dello scrittore siciliano e forse non varrebbe nemmeno scriverne, ecco forse perché da decenni non se ne sente più parlare. Forse questa è la condanna e il paradosso di una sua lettura critica, spesso superficiale o assente del tutto e che lo ha destinato alla sparizione dagli scaffali di librerie e biblioteche, in ossequio a una strana legge e perverso atteggiamento culturale molto diffuso che vuole che ci si interessi a un autore in modo inversamente proporzionale alla complessità del suo discorso narrativo.
Ne ho avuto in qualche modo conferma procacciandomi nella biblioteca della mia città due suoi testi, quando la bibliotecaria, benché stupita, si è mostrata entusiasta di andarmi a trovare in un’ala nascosta della stessa, in un fondo chiuso alla consultazione pubblica, dietro una sorta di porta blindata dove evidentemente giacciono tutti i libri dimenticati, i due volumi da me richiesti, aggiungendo che meno male c’ è ancora qualcuno che legge Pizzuto e che proprio perché i suoi libri non sono richiesti da nessuno che non li tengono sugli scaffali, in libera consultazione e che lei stessa ci aveva messo così tanto per trovarli, nascosti come erano evidentemente nell’Ade dei libri. Mi sono immaginato a una tale rivelazione come l’ex-questore nato a Palermo, avrebbe accennato una scrollata di spalle e una sardonica risata.
I due volumi in questione sono Signorina Rosina, suo romanzo di esordio e un bellissimo e utilissimo volume critico dal titolo più che invitante in tal senso: Pizzuto parla di Pizzuto a cura di Paola Peretti, con una poderosa introduzione di Walter Pedullà. Il volume edito nel 1977 dall’editore storico di Pizzuto, Lerici, lo stesso di Signorina Rosina, è un’intervista svolta nel corso dell’ultimo anno di vita dell’autore. Secondo la moda del tempo è arricchita e intercalata a ogni pagina da stralci di note critiche all’opera dello scrittore siciliano che ne testimoniamo sia l’importanza del suo innovativo percorso narrativo e, per gli stessi motivi, il quasi naturale scetticismo se non ostracismo verso una lettura critica approfondita dei suoi romanzi, proprio per una sospettata “indecifrabilità”, tanto da far domandare ai suoi sparuti e sempre troppo frettolosi recensori se la fatica svolta avesse potuto portare a dei risultati concreti dal punto di vista filologico che ne potessero giustificare lo sforzo.
L’effetto di questa mancata attenzione e approfondimento a testi che con la loro solo apparente non leggibilità ne avrebbero meritata, incentivandone in tal modo la lettura e trasmissione a un pubblico più vasto, lo ha confinato negli anni alla totale sparizione dal dibattito letterario pubblico. Se si fa eccezione degli scritti di Gianfranco Contini, a partire dal suo lusinghiero articolo sul Corriere della sera del 6 settembre del 1964 su Paginette, fino all’attenta analisi di Cesare Segre apparsa su Strumenti critici del giugno 1967, e altre rare e meritevoli analisi, sull’opera di Pizzuto è infatti sceso il buio. La cosiddetta critica militante, almeno dal 1968 in poi, ha semplicemente liquidato le sue come manipolazioni letterarie avanguardistiche, proprio lui che pur avendole lambite aborriva le avanguardie, in quanto ancora intrise di quello “storicismo” che stilisticamente e ideologicamente rifiutava, o nel migliore dei casi relegando le sue opere a astruse sperimentazioni, mettendosi così al riparo sotto l’ombrello della diffidenza e della stigmatizzazione. Quanto invece c’è di realistico nella sua prosa, a partire dal suo esordio letterario, alla tenera età di anni sessanta con Signorina Rosina, dopo il pensionamento da questore e aver ricoperto addirittura il ruolo di vicecommissario di quella che è l’attuale Interpol (quando si parla dell’artista puro verrebbe da dire), è un tema degno di studio e approfondimento e non come mero esercizio filologico o accademico rivolto al passato, ma anche come possibile studio sul futuro del romanzo al tempo attuale e sulla sua capacità di leggere la realtà, viste anche certe più a noi prossime tendenze, fra ibridazioni varie, vere o presunte rivoluzioni stilistiche, polverizzazione dei generi di riferimento in sottogeneri e sottogeneri di sottogeneri.
L’attualità di un Pizzuto in tal senso potrebbe emergere solo cimentandosi pazientemente con il suo testo, magari proprio partendo dal suo breve romanzo di esordio, appena 146 pagine nell’edizione Paperbacks di Lerici del 1967, titolo uscito per la prima volta nel 1956 con scarso successo e riproposto nel 1959. Questo romanzo, lo chiamiamo così per convenzione, è un caleidoscopio infinito di storie. La Rosina al di cui titolo è una pura traccia, è una, trina, tetragona e forse ancora di più, tante sono le sue oggettivazioni in modo apparentemente casuale all’interno della narrazione, sotto forme diverse, con l’unico comun denominatore che è un’identità di nome, assumendo di volta in volta le sembianze di una vecchia rattrappita e moribonda, la quale poco dopo e praticamente a inizio romanzo muore sul serio, per poi riapparire sotto forma di una donna incontrata per caso al Luna Park, la quale riassetta un bottone cadente al (protagonista)? Bibi, fino a materializzarsi sotto forma di una perpetua che prepara i pasti per il parroco che dà alloggio allo stesso Bibi, fino ad assumere addirittura le fattezze di un asino, di una nave e di un fuoco fatuo nel cimitero dove il suddetto Bibi, altro motore transfuga del romanzo, condannato e sballottato nelle più insulse incombenze, era stato chiamato per certi lavori di riparazione.
Di carneadi, più che personaggi, in Signorina Rosina se ne trovano molti altri ma è Rosina il fulcro invisibile. Il suo eterno ritorno, anche se solo il nome, la connota come il motore immobile del romanzo, è l’irrompere nelle sue varie occorrenze della presenza di un elemento eccentrico, il dato inutile che interviene nell’apparente utilità della vita. Rosina è il rumore bianco, un nome intorno al quale si muove la narrazione che è pura musica, la quale non necessita in sé di una sua spiegazione, di un suo svolgimento orizzontale o connessione, perché come ci dice lo stesso autore “alla musica non è chiesto di giudicare” e allo stesso modo “chiarire significa uccidere”. L’andamento musicale è il dato più evidente della prosa di Pizzuto, la musica degli amati Bach e Beethoven. Lo spirito e il senso musicale è assorbito sicuramente in famiglia: il nonno fu un apprezzato latinista e la madre una poetessa citata persino nei versi che aprono Rimi e ritmi dal Carducci. Sono più i suoni a commuovere che i significati, i significanti a predominare sui significati direbbe Lacan.
Come ebbe a dire Oreste Del Buono, un altro dei suoi pochi, generosi e attenti critici, leggere Pizzuto è sprofondare nella sua musica, un combinato di spontaneità e logica che volendolo riassumere in una formula, come suggerito dall’autore, può essere definito “indeterminismo narrativo”, formula con la quale come suggerito dallo stesso autore si può racchiudere il suo credo estetico, la più appropriata connotazione stilistica per definire in modo assiomatico come sia la forma letteraria la generatrice della sostanza del rappresentare, non del raccontare, termine da lui aborrito in quanto un richiamo alle incrostazioni di un ingenuo realismo. Indeterminismo narrativo, non è un esercizio di stile, come potrebbe essere tacciato di avanguardismo? Un avanguardista a 70 anni? Ci scherza su Pizzuto, non è la scrittura automatica, non è Proust o Joyce al quale in particolare viene spontaneamente e frettolosamente assimilato da certa critica, pur dovendone per certi versi riconoscerne il suo ruolo di epigono, anche se Il nominalismo dello scrittore ed esule irlandese, padre del modernismo amplia a dismisura il dettaglio polverizzato in modo lirico, mentre quello dello scrittore siciliano lo restringe fino a renderlo microscopicamente irriconoscibile, adoperando in alcuni casi dei rivoluzionari espedienti e miracoli stilistici, facendo ad esempio di tutte le subordinate delle principali.
La realtà, la sostanza, la vita, seppure nella forma minima di impiegati, amanti, maestrine di provincia rimane e si fa rappresentare pur in modo apparentemente disconnesso, per effetto della formidabile, prodigiosa memoria del suo autore, nella piena consapevolezza che solo la forma di un’opera determina la sua sostanza, per quanto mai sfuggente e parcellizzata. L’indeterminismo non è un vezzo, ma elogio della molteplicità, irriducibilità del reale pur rappresentato dal nostro nelle sue sfrangiature e polverizzazioni, con il lessico, con la sintassi, con il ritmo, spesso in dissonanza. La prosa di Pizzuto non trasfigura il mondo, è il mondo che non può che essere quella forma verbale grandiosa e insieme modesta grammaticalizzazione dell’essere. Signorina Rosina ne è il primo e forse più fulgido esempio all’interno di tutta la sua opera. E’ il relativismo della coscienza, oltre che la storia di un amore improbabile. Le vicissitudini di Bibi e le varie “apparizioni” di Rosina sono intercalate come in contrappunto dalle vicende e dal monologare dialogante di Compiuta, l’amante di Bibi, la complicazione dell’amore, oltre a altri personaggi che appaiono in filigrana: la maestrina, Properzia, figlia di Bibi, la gattina Camilla, ricordi di infanzia forse, quanto di proustiano c’è in Pizzuto, figure da ricomporre nell’ immaginario di un autore sfuggente, puntini da riempire come in un cruciverba.
Si va per approssimazioni, tracce che sfuggono, in un processo di conoscenza contro-intuitivo. Ci sono spazi bianchi da riempire fra i vari episodi e al lettore è dato il compito di farlo, forse di riscrivere il libro? Una linearità della prosa fatta a “tozzi e bocconi”, “lampi e baleni” come ebbe a definirla Montale.
È La sua sintassi nominale, l’andamento paratattico della sua prosa che riducendo al minimo le indicazioni di casualità e successione dissemina sulle pagine un mero allineamento di parole che segue il libero flusso della memoria e tramite le quali il lettore si dovrà sviluppare per ricomporre le varie tessere di un puzzle dai pezzi infiniti, per trovarne un senso o solo un barlume di decifrabilità che lo possa incoraggiare a proseguire. Proprio come in un cruciverba tutte le opere di Pizzuto richiedono l’attiva partecipazione del lettore, l’interazione diremmo oggi, arrivando in tal modo a una sorta di riscrittura, la cella e il regno dell’interpretazione che è qualcosa di dannatamente post-moderno, cosa della quale forse nemmeno l’autore si è reso conto fino in fondo.
I suoi romanzi sono oggetti ai quali è necessario educarsi. Una lettura svelta e vorace sarebbe sicuro causa di choc titillante e puntilistico nel quale pare di intravedere un disegno anche se è difficile precisarlo. Le cose sono vive anche se l’occhio nel profluvio di parole non riesce a determinarle, come se l’occhio del lettore riuscisse solo a scorgerle a una determinata tensione, mentre invece sono lì da sempre e Pizzuto ce le fa vedere quella tensione, quando scatta il giudizio che le fa vivere. Leggere Pizzuto mette di fronte alla fatica della sua decifrazione, come i discorsi raccolti fra la gente nella folla. Gli elementi strutturali del romanzo tradizionale sono invertiti, tanto da dare l’idea che il libro scomposto e ricomposto nelle sue parti potrebbe assumere la fisionomia di un racconto tradizionale. La forma quindi prima di tutto. Eppure un romanzo come Signorina Rosina dove verità e poesia sono indissolubilmente avvinte, nei frammenti degli episodi slegati come le nostre diverse carni, nell’alea della sua scrittura, nell’anarchica sintassi, perché questa in fondo è la vita, quella cosa che da sempre imita la letteratura e non viceversa, trasuda ancora un certo “naturalismo” se è lecito utilizzare degli ismi per un autore che ha sempre rivendicato orgogliosamente di non appartenere ad alcuna scuola e non voler essere il maestro di nessuno e alcunché.
Con Rosina siamo ancora nei territori del figurativismo, di un riconoscimento, anche se solo nominale, cosa che a partire dalla terza opera pubblicata dall’ex questore e insieme a altri scritti postumi, da Paginette, a Giunte e caldaie, è del tutto abbandonato e sembra lì di immergerci in un puro astrattismo. Ravenna, la sua terza prova, appare in una sorta di cameo meta letterario in questo esordio e quasi a sancire nel modo lapidario di un manifesto tutta la sua opera successiva: “Certo manoscritto Ravenna, vera e propria empietà, insulto alla ragione e al buon gusto dicevano, tessuto di farneticamenti dai quali sotto il velo dello stile impuro, traluceva lo spirito della rivolta”
Rivolta stilistica certo, e metodologica, per dire quanto di non improvvisato ci sia in questo autore. L’adesione al realismo di Pizzuto, quella che testimonia la presenza povera, concreta, immotivata delle cose, come dire che esistono delle Bambole da riparare, è un dato difficilmente riscontrabile a occhio nudo e la sua scrittura ha un fascino difficilmente descrivibile, proprio qui sta il suo ipnotismo e la sua bellezza. Se la realtà è una fusione imperfetta e molteplice dei più svariati oggetti, lo scrittore con la prosa, perché secondo Pizzuto la prosa più di tutte le altre forme letterarie “rappresenta” il reale, come atto creativo, intendendo come reale non la pura materia, Pizzuto dice infatti: “Lo spirito è un fatto, la materia un opinione”, determina la lettura del mondo. La prosa fa questo in maniera compiuta, non il teatro che lo “registra” nell’atto irripetibile, non la poesia che è chiusa in una sua autosufficienza stilistica. Il procedimento è induttivo, in un percorso inverso dove i principi non sono punti di partenza ma di arrivo, contrariamente a quanto avviene nelle scienze naturali e potremmo dire nelle forme letterarie tradizionali, quindi: il relativo dall’assoluto, il naturalistico dall’informale, la cultura dall’arte, la letteratura dalla musica.
Ecco, se disposti ad addentrarci nel suo studio ci si accorgerebbe che questo non è frutto di un banale spontaneismo, di una certa fascinazione verso l’écriture automatique o il puro estetismo con un certo gusto del kitsch, in quanto si trovano impregnate nella sua prosa nozioni filosofiche, la teoria della conoscenza come trasmessagli dal suo maestro di speculazione Cosmo Guastella per il quale “ogni conoscenza deriva dal’esperienza” e in senso più ampio dall’empirismo inglese di Berkeley e Locke con il suo assioma “Esse est percipi”, dallo scetticismo di Hume, nonché dalla grande corrente fenomenologica e dagli “Orizzonti inglobanti” di Jaspers, una conoscenza non meramente fattuale e materica, ma trascendentale. Pizzuto stesso ammette il suo debito verso questi grandi pensatori e la necessità di inquadrare entro i loro riferimenti il sostrato della sua opera: “sono le grandi linee del mio sistema filosofico: che è il fondamento e il pilastro della mia narrativa, perché senza conoscere tutto questo, se uno prende in mano un mio libro non capisce neanche una parola”.
Le fondamenta della narrativa di Pizzuto sono in modo insospettabile sature di teorizzazione e il suo stile presuppone la sistematizzazione di una fondata struttura filosofica che è poi anche il fondamento delle più piccole e minime cose della vita, le stesse che possono diventare materia narrativa. È la filosofia della conoscenza a impregnare le sue pagine. Tramite un testo narrativo Pizzuto ci introduce alla filosofia di Cosmo Guastella diventando già un breve romanzo come Signorina Rosina uno stimolo a interrogarci sul nostro stesso porci di fronte alla realtà delle cose e dei segni. La sua adesione alla forma romanzo in tal senso sembra un espediente, una convenzione della quale si serve per demolirlo direbbero gli avanguardisti. Forse Pizzuto se ne serve per sondarne la praticabilità nella rappresentazione (non registrazione) della realtà, nella sua irriducibile molteplicità, in un periodo storico nel quale fra l’altro il realismo tradizionale nelle sue varie forme, letterario, cinematografico e figurativo mostrava le prime crepe.
Per effetto della sintassi nominale, nei romanzi di Pizzuto la totale abolizione della categoria del tempo ha sottratto al romanzo borghese la sua classica linearità orizzontale entro la quale il personaggio vi agiva all’ interno di una forma costituita, e i singoli momenti non contano più per se stessi, ma all’interno di un reale pulviscolare e inafferrabile tanto da far apparire i personaggi stessi pre-testuali, figure minime che si stagliano dallo sfondo come potrebbe fare un paesaggio o un elemento decorativo in un’ elegante casa di signori di provincia, la media borghesia fatta di ingegneri, impiegati, ufficiali a riposo, dattilografe, o parroci di paesi di campagna.
Lo sguardo di Pizzuto cerca proprio di cogliere e rendere sulla pagina questa molteplicità, esporta da oltralpe la tradizione dell’École du regard e il Nouveau roman, senza che quasi nessuno se ne sia accorto, un autore che se sessant’anni fa avessero pubblicato in Francia un suo romanzo avrebbero gridato al capolavoro, forse facendo impallidire Sarraute e Butor e che da noi, pur essendo stato a suo tempo enfatizzato l’interesse suscitato dalla critica italiana e straniera, è passato unicamente sotto l’etichetta dello sperimentalismo e relegato ben presto nel dimenticatoio.
Pizzuto, già con Signorina Rosina, rompe sicuramente la tradizione del romanzo nostrano, prima delle avanguardie. Lo fa abbattendo gli stessi presupposti del pensiero classico, chiuso, conservatore, circolare e che riporta sempre sugli stessi pensieri. Rosina e tutti altri scritti di Pizzuto sono invece la rottura di questa divina circolarità per una via lunga e dritta ove i suoi personaggi vanno a una velocità tale che si disintegrano. La rottura ha la forma del quadrato, è la dissonanza al posto dell’armonico circolo del ritorno, a dispetto del ricorrere nominalista. Il nonimalista Pizzuto per il quale conoscere lingue diverse non significa avere modi diversi per dire la stessa cosa, ma modi diversi di esprimere i propri pensieri, pensieri in sé diversi, intraducibili, indecifrabili, quanto meno a prima vista.
Il “cubista” Pizzuto entro queste forme a malapena riesce a rendere riconoscibili i suoi personaggi che assumono le fattezze di simulacri o pittogrammi sotto la mano del suo burattinaio, colui che dichiara che “la narrativa non ha a che fare con la ragione, con il ragionamento, non è razionalità. La narrativa deve essere spontanea, non avere nessi logici e intellettualoidi” sebbene già siamo a conoscenza delle solide basi teoriche della sua scrittura, e senza che questo sfoci nell’onirismo o nel surrealismo, perché sotto il simbolismo di tali forme ancora si nasconde la “registrazione” storiografica del “fatterello”, dominion del realismo ingenuo. L’iconoclasta Pizzuto che non riesce a dissimulare il suo candido disprezzo per il lettore di consumo, l’autore per il quale scrivere è un attività che fa il pari con l’atto stesso di vivere, la vita stessa si genera con la scrittura, più di un manifesto estetico questo assieme alla implicita parte strutturale filosofica dei suo lavori che altrimenti non potrebbe essere compresa.
In tal senso Pizzuto crea la sua identità nel linguaggio, nasce a cinquant’anni anni, battezzato quasi a settanta, quando i suoi scritti hanno ottenuto un minimo di visibilità, a partire proprio da Signorina Rosina nel quale ha iniziato il suo frugare dappertutto nella realtà, per rappresentarla, fino alle opere successive, dopo l’intermezzo di Si riparano bambole, l’episodio più autobiografico, a partire da Ravenna in poi, dove il dato intimo e in qualche modo proustiano della memoria è polverizzato nei fratti di Paginette, in Pagelle, nella loro dis-connessione da collage, vere e proprie frantumazioni degli oggetti della scrittura in un universo in sé chiuso, un autosufficiente monadismo verbale, opere strutturate in lasse senza accapo, infiniti capitoli a sé stanti, narrazioni che procedono in modo pulviscolare e con una loro autotomia da cellule grammaticali e di significanti, sintassi asservita a periodi che avanzano come un’infinita sequenza di parentesi senza che queste vengano mai chiuse. Sempre più il tema della narrazione diventerà la narrazione stessa, il cerchio entro il quale si svolge si restringe sempre più su sé stesso, auto-rispecchiandovisi, non come in Signorina Rosina, dove ancora sopravvivono nelle pagine fratti di tempi, oggetti, persone, la vita minima insomma, fino a un puro astrattismo, gioco di forme che pure crea la vita, la letteratura che ne è la struttura.
È certamente vero che rovesciando versi non si compone La Divina Commedia, seppure secondo i precetti del calcolo infinitesimale ognuno di noi da qui all’eternità potrebbe essere l’autore del poema dantesco, ma noi viviamo in un tempo finito e il capolavoro di Dante è già stato scritto, forse solo questo Pizzuto ha voluto dirci con i suoi libri. Pizzuto è sovra-letterario, meta-letterario, intra-letterario, da qualunque parte lo leggi ti sfugge e questa è la sua bellezza. Uno scrittore d’eccezione, tale da sbalordire e lasciare perplesso anche il lettore più preparato. Pur definito da alcuni critici del suo tempo il Pollock della narrativa, uno che poteva vantare di aver letto l’Ulisse di Joyce e La critica della ragion pura di Kant in originale, dettagli non da poco se si fa riferimento al suo credo estetico, rimane un mistero come possa essere scomparso dal dibattito letterario pubblico ed è questa una lacuna che dovrebbe essere sanata.
Signorina Rosina può essere una valida porta di ingresso al mondo pizzutiano e a un mondo letterario con il quale forse non siamo più abituati a corrispondere, forse per una semplice questione di educazione delle nostre orecchie, una nostra deficienza nell’ascolto del segno letterario che ancora parli della realtà, della sua irriducibilità a vuote e astratte formule troppo spesso farcite di ismi. Citando Bibi che al cimitero si rivolge all’ immagine di Rosina invocandola: – Ma ritornerà Zia Rosina? Ritornerà? Basta pensarmi, pensarmi è chiamare – così dovremmo augurarci che possa avvenire per la letteratura di Antonio Pizzuto, che ancora in molti la pensino. In gioco vi è la verità dell’arte, il suo stesso spirito musicale che non chiede di giudicare, come lo stesso Pizzuto, l’ex questore nato a Palermo, trasferito a Roma e prestato alla letteratura, il borghese isolano inurbato non giudica quel mondo di piccole cose quasi gozzaniane che ha inteso solo rappresentare, innestando sulla pagina assieme il futile e il sublime, elevandosi a dispetto del buco nero che lo ha risucchiato, a uno degli splendidi cantori dell’inutilità e della bellezza della letteratura.
di Simone Bachechi
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bitcoin
conchemimare,nisiquiera recuerdo la última vez que me di la paja de escribir una entrada,seguramente debio ser antes de que entrara a la u,puta..no quiero explayarme mucho dentro de lo innecesario,porque de verdad tengo unas ganas de ir directo al grano con este tema,QUETECAGASTÍO
puta,yo siempre fui un curious cat cuando se trata de probar weas nuevas,llevo años fumando marihuana y creí haber llegado a la nube 9 con esa planta,pero el 29 de noviembre toqué el cielo.
a lo mejor va a ser como medio weoncito que lo cuente pero de verdad,siento que ya le he contado a todo el mundo y no siento que le he dicho a suficiente gente! parte maomeno asi
Con mi pololo nos quedamos en temuco,con intenciones de basilar y compartir,un amigo cercano de mi pololo le manda un flyer de una rave que harían en un spot secreto,honestamente fue difiicil de convencer a mi pololo,yo super entusiasmada,quien bien me conozca sabe que la musica electronica es mi amante,peno y muero por esa musica culia,listo. al pasar de unas horas me dice que si,que si iremos y que nos pegaremos una pila,UNA PILA? QUE WEA? yo la verdad he escuchao tanto nombre que le ponen al pobre extasis que no se realmente si se tratase de lo mismo,la cosa es que fuimos,antes de ir fumamos un caño y quedamos todos locos,entre toda la locura del pito intentaba mentalizarme de como seria la wea,ciudad relativamente nueva para mi,sustancia nueva,no podia pegarme el show po,menos en frente de mi pololo y sus amigos,caminando al centro cachamos realmente lo transfuga que es esta ciudad culia,a una cuadra de llegar,veniamos escuchando un llanto muy fuerte,que al parecer solo yo escuchaba porque los cabros venian conversando,cuando pasamos por la calle habia una mina botada al lado de la vereda rodeada de hombres,solo hombres weon,quise ir a ayudar pero se formo una discusion,tampoco queria irme con la mala vola a carretiar,cuando llegamos vimos al amigo de mi pololo TODO LOCO porque se habia mandado un tusi,antes de entrar nos tomamos la pila,habia un porsche y un bitcoin,que cliché un auto po weon,no existe nada mas bacan que la primera moneda virtual,elegí esa,me la trague sin agua,a lo machomacho,aun estaba vola,y estaba emocionada solo queria sentirme derretida pronto,cruzamos la cuadra hacia el lugar y sentía de ahi la musica,ahi caché como sería la wea,un portón,nadie pensaria que ahi sería po,nos abren la puerta y nos pasan una pulsera fluor y un coyac,muy 2008,pero creanme que la wea realmente la necesitaba,entramos a la pseudo disco,que era un container,que importa weon,adentro estaban todos bacilando trance y deep,habia una barra donde vendian el agua a 3 lucas y al frente una llave de agua...libre.. jajajjajajaja , el chiste se cuenta solo,empezamos a calentar el cuerpo y yo solo pensaba,weon quiero que me pegue prontoooo,igual estaba como emocionada porque seria el primerisimo carrete con mi pololo despues de 3 años,queria verlo a el igual como iba a quedar,nos regalaron jelly shots de vodka,nuevamente fumamos y mientras ya me adaptaba mas al ritmo y bailando,igualmente que como si hubieran encendido un interruptor,las luces rojas se volvieron brillantes,cuando sentia la musica sentia mas energia de bailar,cerraba los ojos y me derretía,estaba dura y deretida,no me percaté en que momento sucedió,cuando abri los ojos comence a bailar junto con mis manos,la pulsera fluor y mis manos se movian frame per second,y de repente miro pal lao,mi pololo,vuelto loco bailando,me dio tanta felicidad verlo asi,en realidad,desde que entré a ese container solo senti felicidad,y es raro,porque sufro de depresion y ansiedad y derepente senti que la pila me encerró todas esas preocupaciones en una habitación aparte en mi cabeza y me dediqué a sonreir,a bailar,a reirme,me reia de cualquier wea,con el amigo de mi pololo nos acordamos del video de un weon que usaba un filtro de water y decía “hasta la proxima..aaaa...” y yo lloraba de risa,luego de bailar y bailar senti una mano en la cintura,era mi pololo,la verdad que estando lucida me siento un poco mal en pensar que al principio estaba tan pegada bailando que poco lo pesque,pero al ratito me pegue como lapa a el,le miraba la cara y era como que mi vista era como una camara profesional y solo estaba enfocandole su cara,el se empezo a mover mas lento y nuevamente lo estaba viendo en frame per second,pal pico po..le tomaba las manos y las tenia todas sudadas,yo tenia mis orejas hirviendo,como quien diria cuando te estan pelando.. nos mirabamos caleta,no se que rollo se estaba pasando mi cabeza pero yo sentia que era la primera vez que lo veía,cada wea que nos deciamos sentia que el me las decia por primera vez,y nos comimos,y ahi entendi porque le decian droga del amor,de verdad viaje a otra dimension,seguiamos bailando,y le hacia cariño y sentia como corriente,la wea era realmente hermosa,luego..me pegué mirando telas de araña en el techo del container,y pensaba que las arañas estaban bailando,fase derretida. luego de un rato empecé a bruxar,a apretar la jeta como vulgarmente se diria,recordé mi coyac,me duró caleta,mordía el palo del coyac con toda la fuerza de mi mandibula,y seguia bailando y no me cansaba,me decian que salieramos y no queria,pero recorde dentro de toda la locura que si no salia,me iba a dar hipertermia por todo el calor que habia y el calor que tenia en mi cuerpo,asi que sali,y le decia a los cabros que sentia el frio,pero no tenia frio,les decia que me sentia poderosa,y volvia a bailar. volvia a bailar con mi pololo,y no olvido y me costará olvidar bastante cuando le dije al oido que quería estar asi para siempre. nos termino dando como las 5 de la mañana y nos fuimos,yo aun muy loca,como era primeriza la pila se mando la paletia de prolongarme el efecto,mi pololo compro comida y yo no comi nada,llegamos al departamento y en el ascensor me vi los ojos,gigantes,cafes,hermosos,y sonrei como weona,hasta que me dolia la cara,me tomo un par de horas quedarme dormida,porque aun no podia asumir que fue una de las mejores noches de mi vida y que sin duda volveria a repetir.
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GRUPO MIXTO ILEGAL Teníamos razón.El Grupo Mixto que Almeida respaldó y el Presidente del Pleno conformó con concejales tránsfugas nunca debió existir. Era ilegal y así lo confirma el Tribunal Supremo aunque sus efectos no puedan reparar este atropello del PP a las instituciones. Video publicado por Más Madrid Ciudad @MasMadridCiudad
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Un teleoperador, el único condenado por el 'tamayazo".
- "Después de 15 años, el único condenado soy yo. Manda huevos", se lamenta.
- Alberto Moreno: "Yo era un teleoperador de Telefónica Móviles" Moreno fue acusado de difundir los registros de llamadas de la trama del tamayazo.
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5.A.M.
Sin sabor como pizza con aceituna Viendo lo que este hace y tu na Un calor que de mi piel emana Dejando de ser rey cada semana Lo nuestro ya no se expandía Quedé como ozymandias
Barras anchas como gamba de Adama Traoré Malas rachas de comba sin fe Caras largas en ronda sin pues Varas bajas que me causan estrés
La luna alumbra y yo soy el que brilla Hasta que el sol calumnia y saca su grilla Dónde es realmente ella la que me apilla Me esta haciendo falta saquenle amarilla
De la estructura yo soy el pilar Arquitecto del bien estar No bajo letras le trabajo paz mental Pero siempre lo mio queda muy mal
En la semana de la dulzura Y yo sin la suya Que era la mas pura Me quedo en la cruda De su mirada ruda Del momento me siento transfuga Me hago bolita tras la fuga Mi frialdad es quien me escuda Revive aunque con ella parece muda De lejos te sigo viendo Si de nada soy dueño Aun sigue siendo Quien me quita el sueño
Desde que entra al bar No la dejo de mirar Que me lleve a caminar Sus pasos por delante De su mano junto andar Queriendo sentarte En la mesa familiar
Me habla y me deja demente Yo tendria que ser mas coherente No creer todo lo que invente Pero no puede salir de mi mente Quiero tenerla de frente Que su sonrisa opaque mis dientes
Duele como piedra en la vesicula Y yo que me siento una partícula No es particular El daño ocular de estar tan mal Bailemos un lento Tus brazos al viento Sobre mis hombros en evento Disfruta el momento Bésame sin lamento
Cada vez que conectamos Nuestros picos son muy altos Como para ser superados Le digo que super a dos Almas que no se han superado Quién supera los Limites de nuestro estado Nadie porque es ilimitado No podrán hacerlo ni imitado Aunque te alejes y quede de lado Y a veces me sienta timado Queriendo futuro recordando lo pasado Parece que quedamos enrededados Conexión que hiberna al costado Me pongo a pensar en su peinado Que menso soy quisiera estar en tu reinado Fue inmenso el legado
¿Por qué ayer estabamos tan bien Y hoy no recibo tus palabras? Por vos doy mas que mi cien Aunque me trates de forma macabra Siempre de ti pensaré bien y de tu vida querré ser la cabra G.O.A.T
El que escribe su felicidad Y borra su tristeza Muchas palabras de calidad Que sobran en su mesa
Se nota cuando no sos prioridad La espero a priori sin paz cambia los planes y que mas da Solo soy una irregularidad De su vida a la que ya no te tentas Cada vez mas te alejas Se vencio el helado de menta Y a mi cora le hizo un penta
Aunque no estés a disposicion Y le bajes el precioa nuestra relación Por ti siempre tendre pasión Si sos quien aparece en cada canción Que escucho en toda ocasión Soñando por fin llevarte a mi mansión De ti no me queda ración Pero por ti late mi corazón Si lo rompió cuando estaba blindado Haciendolo sentir realmente amado Y lo dejó todo congelado De un golpe abandonado Kokoro frustrado
No hay manera de encontrar el suceso Sentirse solo debe ser parte del proceso Si caigo al pozo solo quiero estar en excesos ¿Esta mal o esta bien solo pensar en el peso de sus besos?
Le deseo lo mejor aunque ese sea Yo. Que encuentre quien le pueda hacer su arroz A rozarme en la vida lo buscó Que se me asemeje, oyó Minimo su ida tirado me dejó Que no sea este un error
No se como es el tema pero te mantenes con tu lema Aunque a veces crei oir mentira Tira mensajes que aflojan mi ira
Siempre la voy a apreciar Si su cariño es caviar Su perdida la lamento en escabiar Aunque la respuesta es cambiar
Se me desintegraron los laureles Es que el aura levanta niveles Punto alto contactan nuestras pieles Donde sabian que siempre serian fieles Mientras contaba tus lunares Que destinos tan crueles Esperando ver que tan alto vueles Mientras mis pigmentos mueren.
Son las 5 de la matina. Y no puedo dejar de pensarte mina.
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ayer no
ayer no escribí, no salí, no hice nada, hoy tampoco.
y no me siento bien ni mal por ello, quiero cambiar y sentir que puedo fluir en una corriente autoproducida
ahora mismo escucho una canción reconfortante, de una artista italiana, últimamente es mi salvaguarda, mi forma de relajar esta ansiedad
ayer no estuve presente para nada ni nadie, y no por ello me he ido aún, solo fue un hibernar evitando la transfuga a otra forma
de pensar, de vivir, que se sitúe lejana al punto inicial que aún hoy creo habitar, mas mi ser no es el mismo, ni mi entorno cercano, ni el mundo que me rodea
aunque no lo perciba, aunque todo parezca ser eternidad, el espejo y los recuerdos no me dicen lo mismo
hoy escribir se me hace difícil, quería obligarme a realizar ciertas acciones diarias y esta era una de ellas, mi diario en el rincón anónimo, solitario y virtual, a la espera de que la mierda diaria llegara
en forma de retahila caótica o versos carentes de estructura, cualquier forma es buena como desahogo y disfrute en este monólogo interno que arremete con fuerza
ante los intentos en vano de comenzar a realizar acciones, algunas que deberían ser tan sencillas, como el simple hecho de salir a pasear o incluso ver un vídeo interesante
supongo que el ser humano a todo se acostumbra, incluso a la apatía vital, la pereza, el desasosiego y el ánimo (iba a decir “a todo lo malo”, pero quién soy para definir los límites y las definiciones)
quién soy para juzgar desde mi posición entre millones, único aún insignificante en esta existencia extraña a mis ojos, en la que busco sentido a un sinsentido, y a la vez pierdo el sentido cuando tengo un objetivo, solo soy un enemigo propio más
el confabulador de las contradicciones, la rueda de prensa manipulada que filtra la información interesada y que controla a las masas, es así, soy mi mayor corrupción, un político en el desengaño
mas el desengaño no debería derivar en meras frustraciones , pena, dolor, pues es el principio del aprendizaje
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Pogonus transfuga Chaudoir, 1871 https://ift.tt/E3FZ1BP
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Spojrzenie na wydarzenia bieżące oraz na historię z punktu widzenia genetyki populacyjnej bardzo pomaga w odzyskaniu równowagi ducha i optymizmu. Gdy zdamy sobie sprawę z tego, że:
1. Ludzie (i grupy ludzi) są może równi przed obliczem Boga (to zobaczymy, jeśli można coś zobaczyć bez oczu, jak powiedział Petroniusz), ale na tej marnej Ziemi różnią się od siebie astronomicznie! Różnią się do tego stopnia, że nazywanie ich wszystkich tym samym mianem jest komiczne. Różnice między nimi są wrodzone i przekazywane genetycznie z pokolenia na pokolenie. Istnieją takie zestawy genetyczne, które tworzą jednostki (fenotypy) inteligentne, twórcze, piękne i o silnym charakterze.
A są też i inne genotypy.😢
Gdy ich nosiciele są pokorni i posłuszni, a jednocześnie istnieje zapotrzebowanie na kopaczy dołków i zbieraczy bawełny - wówczas, chwilowo, pozwala im się żyć. Te czasy, nawiasem mówiąc, właśnie dobiegają końca.
2. Historia naszego gatunku (jak również jego podgatunków, i gatunków pokrewnych) jest usiana cmentarzyskami genetycznymi i ślepo zakończonymi zaułkami ewolucyjnymi, wymarłymi gałęziami etc. Grupy głupsze, leniwsze i mniej twórcze - były (na ogół) po prostu eksterminowane. Jeśli garstki spośród nich do dziś przetrwały, to jedynie dlatego, że ślepy los fortuny udostępnił im jakąś niszę ekologiczną, której nikt nie chciał (np. Buszmeni, Pigmeje, Australoidzi, pre-drawidyjska ludność Indii etc.).
3. Obserwowanie ludności wszystkich wielkich miast na świecie (np. Warszawy) jest przygnębiające. To w większości bydło, samobieżne systemy pokarmowe. Globaliści posługują się nimi do pozbycia się patriotów w wyborach. Spójrzmy jednak z perspektywy historycznej - Rzym starożytny był w swym schyłkowym okresie potwornym, ponad milionowym zbiegowiskiem motłochu z całego świata, "Pastorum convenarumque plebs, transfuga ex suis populis", "gniazdem Kwirytów, bez Kwirytów”. I cóż, w pewnym momencie władza osłabła i przestała motłoch karmić. I wyzdychał on, lub rozbiegł się po całym świecie.
W dzisiejszych czasach odpowiednikiem powstrzymania "panem et circenses", byłoby odcięcie dopływu prądu i wody do wielkich miast. Gdy spojrzymy na setki tysięcy lat historii rodzaju Hominidae stwierdzamy, że większość samców w ogóle się nie rozmnożyła. Urodzili się (po co?), obsrywali Ziemię przez pewien czas, jak gołębie rynek i zniknęli, podlegli przemianie w humus, nie pozostawiając po sobie nic, prócz smrodu i legendy.
M. D.
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Atorrante transfuga,ya de entrada una de sus candidatas fue presa por punga y mechera..y bue,hubo un presidente que tuvo de financista a Raul Martins prosceneta preso en Mexico.
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