#Sant’Agostino citazioni
Explore tagged Tumblr posts
Text
Non so per quale sentimenti intimo e naturale quando siamo felici o infelici dimentichiamo quello che ci è accaduto come se non fosse mai avvenuto, perché ormai è passato.
Sant’Agostino, La libertà
#La libertà#letteratura#citazioni#citazione#citazioni libri#citazione libro#frasi#pensieri#felicità#infelicità#tristezza#sentimenti#Sant’Agostino#Sant’Agostino citazioni#sant'agostino
43 notes
·
View notes
Text
“Conoscere te stesso è il principio di tutta la saggezza" (Aristotele)
“Per conoscere in qualche modo la natura della vita dovete conoscere fino in fondo è senza alcuna riserva voi stessi” (Buddha)
“Chi conosce gli altri è sapiente chi conosce se stesso è illuminato” (Lao Tzu)
“Non uscire da te stesso, rientra in te. Nell’intimo dell’uomo risiede la verità" (Sant’Agostino)
“Oh uomo! Viaggia di te stesso in te stesso” (Rumi)
“Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si risveglia” (Jung)
“Chi conosce se stesso conosce il mondo” (J.Krishnamurti)
“Chi agisce per gli altri senza approfondire la conoscenza di se stesso, non avrà niente da dare agli altri” (Thomas Merton)
“L’anima deve rientrare in se stessa” (Santa Teresa D’Avila)
“Non è ignoranza conoscere tutto, ma non il sé che tutto conosce?” (Sri Ramana Maharshi)
“Trovi la pace e la quiete solo conoscendo te stesso” (Nisargadatta Maharaj)
“Chiunque conosce se stesso, conosce il suo Signore” (Maometto)
“Quando conosci te stesso, conosci Dio” (Sri Ramakrishna Paramahamsa)
“Il regno di Dio è dentro di voi” (Gesù Cristo)
“Quello che stiamo cercando è ciò che sta vedendo” (San Francesco d’Assisi)
“Dio si nasconde nel fondo del fondo di noi stessi.” (Marguerite Porete)
“Nessuno conosce Dio se prima non conosce se stesso” (Meister Eckhart)”
“La conoscenza di sé è il fondamento della conoscenza di Dio” (San Giovanni della Croce)
“Colui che non conosce se stesso è privo di ogni cosa ed è lui stesso privazione” (San Tommaso)
“Dovremmo conoscere noi stessi sempre” (Ajahn Chah)
“Non vi affannate a cercare Dio fuori di voi, perché egli è dentro di voi, è con voi” (San Padre Pio)
#conosci te stesso
#citazioni
9 notes
·
View notes
Photo
#buongiorno Che cos’è la paura? Lovecraft, il grande maestro del brivido scrisse: La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell’ignoto. Sant’Agostino invece: O è il male ciò di cui abbiamo paura, o il male è che abbiamo paura. Ci sono molti punti di contatto. Bisogna usare le proprie paure e non rimanerci bloccati. #instagood #paura #fear #instacool #citazioni #instacool #bnw_addicted #blackandwhite #biancoenero #art #emotions #cry #think https://www.instagram.com/p/BzFFMUvi78k/?igshid=kg16mnkgbrtd
#buongiorno#instagood#paura#fear#instacool#citazioni#bnw_addicted#blackandwhite#biancoenero#art#emotions#cry#think
0 notes
Text
La musica e l’islam secondo Henri Irénée Marrou
La musica e l’islam secondo Henri Irénée Marrou.
Per il grande storico francese la musica nell’islam è posta sotto il patronato di Iblis, l’angelo caduto, Satana. Questo, però, non implica necessariamente che tutta l’arte musicale, pur legata alla Potenza delle Tenebre, sia semplice peccato. Il problema sta nel fatto che è lo stesso Satana ad essere concepito in modo tale da risultare non dico simpatico ma a suo modo un modello di vita spirituale. Dice Marrou:
L’immagine di Satana è complessa: essa non si identifica, al modo dei manichei, con lo spirito del Male. Iblis è, senza dubbio, un dannato, un ribelle, ma il suo peccato è stato di farsi, contro Dio stesso, campione di Dio e dei suoi privilegi, rifiutando, unico tra gli Angeli, di prosternarsi al suo comando davanti alla bellezza della creatura e di adorare Adamo (il Corano ha inteso che parlasse di Adamo quel versetto di Ebr 1,6, che riguarda Cristo).
Nella pratica quotidiana l’islam e la cultura araba tratteranno con indulgenza la musica a patto però, ed è qui l’osservazione che può essere applicata ai giorni nostri, di non essere presa sul serio, di non avere alcun valore metafisico. La musica è espressione di futilità, pur sempre riprovevole, ma innocua ed è per questo che nell’islam si salva, relativamente ma si salva. Marrou continua raccontando di Mansur al-Hallaj (858-922):
Un giorno, mentre passavamo con lui per una delle stradine di Baghdad, udimmo, proveniente da dietro il muro di un giardino, il suono squisito di un flauto, così dolce che ci venivano agli occhi lacrime di commozione. E uno di noi disse: cos’è? E al-Hallaj rispose: è la voce di Satana che piange la perdita di questo mondo.
La nostra Sehnsucht romantica, la desolata nostalgia che sperimentiamo ascoltando la musica e che spesso chiamiamo piacere, ma piacere non è in senso stretto perché quasi sempre appare sotto l’ombra della perdita, perché essenzialmente ci ricorda il tempo, la sua fuga e la sua fine, è il segno, per l’islam, del nostro attaccamento al mondo. Se esso è destinato a passare, ed è inevitabilmente così anche per i moderni che differiscono questa consapevolezza senza poterla cancellare sotto gli orpelli dello stordimento, allora non è consentito all’uomo indugiarvi. Significherebbe distogliere, diabolicamente, il pensiero da ciò che solo è immutabile e permane, mentre la musica appare come quello che è sommamente e irrimediabilmente impermanente e dispersivo.
È certo però che l’islam attuale ha perso la finezza dei suoi migliori interpreti quando si scorda, in preda alla follia di questi giorni, di ricordarsi il Trattato d’Amore di Abenhazam l’Andaluso:
Rinfrescate le vostre anime in qualcosa di vano, affinché esso sia per loro un aiuto in ciò che è serio.
Le citazioni sono tratti da uno dei libri più belli di Henri-Irénée Marrou, Il silenzio e la storia. Trattato della musica secondo lo spirito di sant’Agostino, Medusa, Milano 2007, p. 103-104. View On WordPress
0 notes
Text
“Guardandosi, l’uomo si scopre disumano, un’anima mostruosa”: dialogo con Franco Rella
Il pensatore mette l’indice nella ferita, la slabbra, fino al virus che diventa gioia. Dà accesso all’inaccessibile, scaraventa gli occhi in ciò che va ignorato, non va detto, celato dal fondotinta del consenso e del corretto. Il pensatore va al fondamento, al cadavere primo che ha dato origine alla civiltà, alla parola che pone un ago sull’ombelico, sta nel gorgo della stimmate. Da Scritture estreme (Feltrinelli, 2005) a Immagini e testimonianze dell’esilio (Jaca Book, 2018), per citare due libri da una bibliografia poderosa, Franco Rella fa così: s’intride nell’oscuro, esplora l’inenarrabile e l’escluso. Così, nell’ultimo libro, Territori dell’umano (Jaca Book, 2019), il filosofo fa scempio di ogni retorica e ci scaglia in petto il Minotauro: la mostruosità dell’uomo, l’ineluttabile disumanità, l’avvio al tremendo (“Molte ha la vita forze/ tremende; eppure più dell’uomo nulla,/ vedi, è tremendo”, è l’apice di Antigone secondo la traduzione di Hölderlin). “L’io faccia a faccia con se stesso si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano. Cosa ci ha raccontato Shakespeare di Macbeth, del suo incontro con le streghe, e dell’incubo di sangue che lo perseguita? Cos’altro ha detto Melville raccontando la lotta di Achab con la balena bianca, e Bartleby immobile con la faccia contro un muro? Cos’è la metamorfosi dell’umano nel mostruoso nel bal des têtes che Proust ci presenta come un atroce cerimoniere, quasi a conclusione della Ricerca del tempo perduto? Cosa racconta Odradek con quella voce che sembra il fruscio di foglie cadute?”. Con devozione amanuense, Rella scava nelle grandi opere letterarie – qui c’è Cuore di tenebra di Conrad e Pornografia di Gombrowicz, Simone Weil e Kafka, Ballard, Baudelaire, Canetti –, in ciò che sfugge perfino alla volontà dello scrittore, sfogando enigmi. Non conta il florilegio delle citazioni (ma l’“ultima annotazione” di Rilke dal “suo ultimo quaderno”, alla mercé di sconfitta e dolore è sconfinata: “Vieni tu, tu ultimo ravvisato,/ Tu, insanabile dolore, intramato/ ora nel corpo. Un tempo nello spirito,/ ecco, in te, sonio io ora calcinato…/ Salii, nudo, puro, né progetti,/ né futuro, sull’intrico/ del rogo del dolore”): i verbi servono per affondare nell’uomo, per sondarne le ossessioni, con una quieta veemenza che ha sentore di necessità. (d.b.)
L’io faccia a faccia con se stesso “si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano”. Dunque, è questo l’uomo? Della sua vita labirintica scopre di essere Minotauro. Dimmi.
Nel libro ho citato un pensiero di Valéry che ho più volte richiamato. L’uomo, dice Valéry, incontra l’indefinibile: l’indefinibile della morte e l’indefinibile dell’io. Credo che andare a fondo dell’io sia un’impresa problematica e coraggiosa. Qualche anno fa ho scritto un testo, Alla ricerca dell’io perduto. Perduto o forse mai davvero ritrovato. Ci vuole animo per percorrere i labirinti che ci portano nella profondità dell’io, che ci fanno avvertire il gusto aspro del buio e delle tenebre, per poi salire sulla vertigine dei sogni più audaci. In un altro testo – anche questo citato nel mio libro – Valéry proponendo un suo Faust fa affermare a Mefistofele: “Felice l’uomo che va dal Bene al Male, dal Male al Bene, ponendosi tra la luce e le tenebre; e adora e rinnega; percorre tutti i valori che la carne e lo spirito, gli istinti, la ragione, i dubbi e i casi, introducono nel suo assurdo destino, può vincere o perdere… ma IO!… essere il diavolo è ben misera cosa”. Ma già sant’Agostino aveva detto che l’io è una incontenibile molteplicità. L’uomo che si china scrutare dentro il proprio io si scopre angelo e bestia, scopre la densità dell’umano che tiene in sé anche il disumano e l’inumano. È il grande insegnamento di Kafka.
Nel tuo libro ti riferisci spesso a Melville e a Kafka. Cosa tiene insieme la Balena Bianca e lo scarafaggio, Achab e Odradek?
Melville e Kafka sono più che due immensi scrittori. Sono degli ossessi, ossessionati della propria ricerca che è per loro un destino. Ciò che li tiene insieme è essere arrivati all’estremo. La nave che affonda in Moby Dick portando con sé tutto, compreso un pezzo di cielo, meno Ismaele che sopravvive a cavallo di una bara per raccontare il faccia a faccia di Achab con la sua ossessione, con il mostro bianco. Il faccia a faccia di Gregor Samsa, di Franz Kafka, con l’immane insetto della Metamorfosi è anch’esso un confronto con l’animalità che è indissolubilmente legata all’umanità, perché l’insetto continua nell’orrore della sua mostruosa animalità ad avere pensieri umani. È questo che sconvolge e che fa di questo racconto un’esperienza unica che si imprime nelle nostre coscienze. Infine Odradek che è il personaggio di Kafka che va oltre tutto. Non è uomo, anche se parla, non è animale. È uno strano oggetto che vaga sui corridoi, sulle scale, nelle soffitte, senza fissa dimora, da tutto esiliato. È un essere disumanato, come tanti esseri che sfilano davanti a noi resi muti dalla sofferenza. Forse, come ha detto George Steiner, Kafka è in modo inquietante profetico.
Fin da subito imponi un tema: da testimoni di un fatto, di cui dunque portiamo testimonianza (il ‘testimone’ si passa anche nella staffetta…), siamo passati a essere spettatori di uno spettacolo subito. Come mai?
L’alternativa – spettatore/testimone – si è sempre posta. Essere spettatori di ciò che accade senza esserne coinvolti, oppure testimoniare. Nel primo caso c’è, a mio giudizio, complicità con le forze che si abbattono sui deboli, penso per esempio alla tragedia dei migranti, con cui siamo confrontati ogni giorno. O, invece, essere testimoni, per quanto debole possa apparire la forza della nostra testimonianza. Con il mio libro ho cercato di farmi testimone dei terribili tentativi di sottrarre umanità agli esseri umani. Sto parlando del destino dei migranti, ma anche dell’orrore dei regimi tirannici e dittatoriali, con cui non solo conviviamo ma con cui concludiamo affari. Un mercato osceno in cui a prezzi stracciati si smercia umanità. Parlo anche della colonizzazione delle coscienze tesa, appunto, a far tacere il testimone, a trasformarlo in spettatore.
Metto insieme due citazioni. Canetti che parla di Kafka: “Bisogna sdraiarsi per terra tra gli animali per essere salvati”. E l’ultimo verso della poesia estrema di Rilke: “E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto”. Forse l’uomo, per compiere la propria umanità, deve essere a sé irriconoscibile, forse deve mutarsi in altro da sé. Lavorare per sconfiggersi. Comunque, deve mutare stato, deve abbassarsi, deve sparire, deve bruciare. Ritieni sia così?
Credo che Rilke voglia dire che il dolore è in grado di assorbire tutto, di ingoiare tutto, anche a nostra identità: “Da Nessuno riconosciuto”. Canetti attribuisce a Kafka una lotta contro il potere a cui ci si sottrae anche mettendosi a terra, dunque al di sotto della furia del potere. Si è così salvati? In realtà i topi della Ferrovia di Kalda temono e al contempo sono aggressivi, non danno tregua, premono dalle fessure che stanno rasoterra, tra parete e il terreno. Cosa teme poi l’essere protagonista del racconto La tana? Cosa può incontrare nei cunicoli che egli ha scavato sotto terra per proteggersi, se non feroci piccoli animali? Ecco, forse si potrebbe dire che attraversando l’impenetrabile cortina del dolore, e avvicinandosi ai terrori animali, si scopre un’ignota dimensione dell’umano. Ma non ho certezze a proposito.
Tra i testi che citi. Il Kurtz di Conrad che vede solo l’orrore, Gombrowicz, invece, che ha lo sguardo lascivo, che si lascia al grottesco, al comico dell’uomo. Come conciliare le visioni? L’uomo è orrendo, è grottesco, è inumano… cosa?
Marlow è il grande testimone della follia e dell’orrore di Kurtz. È questo che egli porta con sé dal cuore di tenebra fin dentro la city of dead che è nel cuore dell’Europa. Gombrowicz è grottesco, lascivo, come dici, ma al tempo stesso fa emergere in molti suoi testi, attraverso le maglie del grottesco, la percezione di un dolore assoluto, che diventa la trama non solo dell’uomo ma dell’universo intero, del “Cosmo”, come egli intitola uno dei suoi libri più emblematici. La follia di Kurtz, l’orrore della foresta, il grottesco, l’inumano, accanto all’ebbrezza e magari alla gioia: tutto questo e molto altro è l’uomo, è l’umano. Siamo noi.
Concludi dando lettura di alcune icone dell’arte, come mai? Che testimonianze vedi in quelle raffigurazioni e quale opera ti ha sconvolto?
Credo che alcune delle raffigurazioni che ho riportato nel penultimo capitolo siano iconiche nel dare forma e figura all’umano nel rapporto con il dolore, con la morte, con il potere, dunque con le istanze a cui ci troviamo costantemente confrontati. Sono solo alcune icone. Leggendo credo si capisca quanto io ne sia stato colpito, quando continui ad esserne colpito e inquietato. Queste sono solo alcune. Potrei ricordarne molte altre. Ne ricordo solo una: lo sguardo del ragazzo in primo piano de Le dejeneur dans l’atelier di Manet che ho visto per la prima volta direttamente quest’estate a Monaco. Uno sguardo perduto verso un altrove che avvertiamo subito come un luogo misterioso che ci riguarda, che ci riguarda da vicino.
L’epilogo lo dedichi al bambino, all’infanzia. In una forma aforistica. “Nessuno sa la vita e la morte come la sanno in profondità i bambini… Nessuno sa la solitudine come i bambini”. Cosa testimoniano allora i bambini?
Quando ho scritto quelle pagine ho capito che il libro era finito. Che non avrei potuto scrivere una parola in più. Quelle pagine sono una sorta di raccomandazione a guardare, a cercare di guardare nella misteriosa umanità infantile, che si è declinata nelle grandi fiabe che oggi abbiamo dimenticato e che non siamo più in grado di leggere.
*In copertina: intorno all'”Annunciazione di Recanati” di Lorenzo Lotto, del 1534 circa, Franco Rella scrive pagine ispirate nell’ultimo libro, “Territori dell’umano” (Jaka Book, 2019)
L'articolo “Guardandosi, l’uomo si scopre disumano, un’anima mostruosa”: dialogo con Franco Rella proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2pUOVY8
0 notes
Text
Gli eventi della prossima settimana della rassegna della Fondazione Ordine degli Architetti di Genova “Big November 4 – Architectura et Media”.
Martedì 27 novembre, ore 17.45, Palazzo Ducale
Incontro con Fala Atelier – Tropi
Nella Sala del Munizioniere di Palazzo Ducale si svolge l’incontro “Fala Atelier – Tropi”, evento a cura di Lorenzo Trompetto nell’ambito di Big November 4 “Architectura et Media”, la rassegna della Fondazione Ordine degli Architetti di Genova. Fala è uno studio di architettura naïve con sede a Porto, fondato da Filipe Magalhães, Ana Luisa Soares e Ahmed Belkhodja. Istituito nel 2013, l’atelier lavora con ottimismo metodico su una vasta gamma di progetti, dai territori alle casette per gli uccelli. I progetti di Fala sono un intreccio di linguaggi formali, riferimenti, citazioni e temi, regolati da un’ossessione per la chiarezza.
Durante l’incontro, il giovane studio emergente portoghese, racconta la sua visione del progetto come combinazione di forme, riferimenti, citazioni e temi regolati dall’ossessione della chiarezza; un’architettura sia edonistica che post-modern, intuitiva e retorica. Il ricorso alle figure retoriche sono solo una delle conseguenze di un processo di addizione senza fine.
Giovedì 29 novembre, ore 9-18, Aula Benvenuto, Stradone Sant’Agostino
Giornata dedicata a Edoardo Benvenuto – Un uomo del Rinascimento del XX secolo
Dalle 9 alle 18, nell’aula Benvenuto del Dipartimento di Architettura e Design, in Stradone Sant’Agostino, il programma di Big November 4 propone una giornata commemorativa dedicata alla figura di Edoardo Benvenuto, ingegnere, pensatore e preside della Facoltà di Architettura di Genova. Una giornata di dialoghi intorno a Filosofia, Teologia, Arte, Architettura, Musica e Letteratura ispirata alla sua figura di umanista e uomo di scienza. L’evento è organizzato dalla Fondazione Ordine degli Architetti PPC della Provincia di Genova, dall’ Ordine degli Architetti Pianificatori Paesaggisti e Conservatori di Genova, dall’Associazione Edoardo Benvenuto, dal Dipartimento Architettura e Design – Scuola Politecnica e dall’Associazione Amici del Liceo Colombo Genova.
Edoardo Benvenuto (1940-1998) è stato docente di Scienza delle costruzioni e Preside della Facoltà di Architettura di Genova. In qualità di Preside ha promosso programmi culturali e operativi con l’Amministrazione pubblica e gli Ordini professionali intorno ai temi della difesa dell’ambiente e del recupero dei centri storici; decisivo, in questo senso, il suo contributo a favore del trasferimento della sede di Architettura sulla collina di Sarzano. In parallelo agli impegni istituzionali e di ricerca svolti in Facoltà ha sempre mantenuto vivo il suo interesse verso gli studi sul pensiero scientifico, filosofico, artistico, teologico e musicale (era diplomato in pianoforte). La giornata a lui dedicata vuole esaminare i vari aspetti della sua ricca e poliedrica personalità affidando ad illustri studiosi l’analisi degli importanti contributi da lui forniti alla cultura scientifica ed umanistica. Programma completo nel comunicato stampa in allegato.
Giovedì 29 novembre, ore 17.45, aula San Salvatore, Piazza Sarzano
Incontro con Alterazioni video e Fosbury Architecture – Incompiuto, la nascita di uno stile
Nell’Aula San Salvatore del Dipartimento di Architettura e Design, in piazza Sarzano, si presenta il volume “Incompiuto. La Nascita di uno Stile”, una ricerca di Alterazioni video e Fosbury Architecture che indaga le opere pubbliche incompiute attraverso una prospettiva estetica, rintracciando e riscostruendo gli elementi di uno stile unitario: lo stile dell’incompiuto. L’incontro fa parte della rassegna Big November 4 “Architectura et Media”, promossa dalla Fondazione Ordine degli Architetti di Genova, ed è curato da Lorenzo Trompetto.
La quantità di manufatti, l’estensione territoriale e le incredibili peculiarità architettoniche fanno dell’Incompiuto il più importante stile architettonico italiano dal secondo dopoguerra a oggi. L’intento del lavoro, frutto di dieci anni di ricerca sul campo, è di fornire gli strumenti per conoscere un fenomeno che caratterizza il paesaggio italiano contemporaneo e rappresenta una prospettiva dalla quale leggere la storia recente del nostro Paese. Un periodo storico che ha visto lo sviluppo e l’infrastrutturazione della penisola coincidere con il diffondersi delle opere pubbliche incompiute su tutto il territorio nazionale. Più di un migliaio di opere in tutta Italia, finanziate con soldi pubblici e rimaste interrotte per i più svariati motivi (errori progettuali, bancarotta, valutazioni economiche inaccurate, drenaggio di fondi) rappresentano un patrimonio utile a una comprensione più ampia dei rapporti tra il territorio e coloro che lo abitano. Un dato che ci mette oggi nelle condizioni di interrogarci sulle dinamiche del progresso, i suoi limiti e i suoi fallimenti. L’Incompiuto ci consente di riflettere sulla compresenza di differenti linguaggi, sull’intrecciarsi di grammatica e retorica, sulla costruzione di un immaginario condiviso, sul rapporto tra ideologia e politica.
“Incompiuto: La nascita di uno Stile”, edito da Humboldt Books e curato da Alterazioni Video e Fosbury Architecture, accompagna il lettore in un nuovo “Viaggio in Italia”, un “Grand Tour” tra le rovine della contemporaneità. Un insieme di 160 immagini, raccolte nella sezione Opere, insieme alle Mappe regionali e ai dati e le misurazioni fornite nel Catalogo Tipologico, definiscono la natura di questi manufatti: la loro storia, fenomenologia ed estetica.
Sabato 1 dicembre, ore 10, Piazza Caricamento
Walking Lectures “La città attrice nei film”
Quarto e ultimo appuntamento delle Walking Lectures, le passeggiate tematiche nel cuore della città organizzate dalla Fondazione Ordine degli Architetti di Genova nell’ambito della rassegna Big November 4. Il punto di ritrovo per l’ultima “passeggiata” è alle 10 in Piazza Caricamento, presso il Monumento a Rubattino. L’incontro, dal tema “La città attrice nei film”, è curato da Alessandro Ravera e racconta una Genova in 35 mm tra poliziotteschi e cinema d’autore: Risi, Clement, Soldini, Winterbottom, ma anche Enzo Castellari in “La polizia incrimina, la legge assolve”.
L’occhio della macchina da presa ha sempre mostrato Genova in un modo “diverso” da come i genovesi si aspettano, privilegiando punti di vista particolari e leggendo la città in modo particolare. Cesure che gli abitanti danno per scontate emergono in tutta la loro drammaticità, allo stesso modo del senso di straniamento e di scoperta che deriva da un tessuto urbano che non ha praticamente eguali; il punto di vista cinematografico mette in risalto una serie di caratteristiche che finiscono per definire un immaginario di città piuttosto diverso da quello che hanno i genovesi.
L’evento è a ingresso libero e ha una durata di circa 4 ore. Consigliata la prenotazione: 010 2473946; [email protected].
Tutti gli eventi sono a ingresso libero.
Per il calendario completo di Big November: http://ordinearchitetti.ge.it/bignovember/
Chiara Tasso
www.studiovialevondergoltz.it
Cooperativa Battelieri del Porto di Genova
NetParade.it
Quezzi.it
AlfaRecovery.com
Comuni-italiani.it
Il Secolo XIX
CentroRicambiCucine.it
Contatti
Stefano Brizzante
Impianti Elettrici
Informatica Servizi
Edilizia
Il Secolo XIX
MusicforPeace Che Festival
MusicforPeace Programma 29 maggio
Programma eventi Genova Celebra Colombo
Genova Celebra Colombo
Big November 4 “Architectura et Media” – Gli appuntamenti da martedì 27 novembre a sabato 1 dicembre Gli eventi della prossima settimana della rassegna della Fondazione Ordine degli Architetti di Genova “Big November 4 – Architectura et Media”.
0 notes
Text
“La poesia è l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spillo”: da Leonardo Da Vinci a William Faulkner, passando per Wislawa Szymborska, Umberto Saba, Charles Bukowski, Joyce Lussu, cronaca dei tentativi – lirici & maldestri – di spiegarci cos’è davvero la poesia
Che cos’è davvero la poesia?
Leonardo Da Vinci ebbe a dire: “La pittura è una poesia muta, e la poesia è una pittura cieca”. E come ciechi sembrano davvero brancolare nel buio tutti i più grandi poeti davanti a questa domanda, a dimostrazione che la poesia può tutto, tranne spiegare sé stessa.
Wislawa Szymborska, forse la più grande icona poetica mondiale contemporanea, non si avventurò a definire la poesia nemmeno in occasione del discorso per il Premio Nobel. In quel 7 dicembre 1996, giorno in cui la piccola poetessa polacca balzò dal suo modesto bilocale di Cracovia alle cronache del mondo intero, si limitò a dire che qualunque cosa fosse l’ispirazione nasceva da un grande “non lo so”. E quando negli anni Cinquanta curava una piccola rubrica letteraria su una rivista locale, alla precisa domanda di un lettore la poetessa preferì citare il collega americano Premio Pulitzer Carl Sandburg: “La poesia è un diario scritto da un animale marino che vive sulla terra e vorrebbe volare”.
*
Altra rara e preziosa conferenza venne registrata nel 1967 ad Harward, quando per ben sei lezioni fu invitato il grande Jorge Luis Borges a dirimere la questione. Ovviamente senza mai arrivare a una conclusione univoca, e rifacendosi come tutti in larga parte a citazioni altrui: “Il sapore della mela non sta nel frutto né nella bocca che lo assapora: serve l’incontro e il contatto tra i due perché la magia avvenga, così è la poesia”, disse citando prima il vescovo George Berkeley per poi ricorrere alle parole di Robert Louis Stevenson, celebre autore dell’Isola del Tesoro, per il quale “le parole nascono per un uso normale, quotidiano, ma il poeta le trasforma in elementi magici capaci,” disse citando a sua volta Coleridge “di creare un’alchimia tra chi legge e chi scrive: una volontaria sospensione dell’incredulità”.
Tutto un intreccio di metafore, insomma, perifrasi e allegorie perché, ammette Borges, in fondo noi “sappiamo cos’è la poesia e per questo non sappiamo definirla con altre parole, come non possiamo definire il gusto del caffè o il colore giallo, il significato dell’amore o dell’odio”. E per analogia cita in conclusione Sant’Agostino: “cos’è dunque il tempo? Se nessuno me lo chiede, lo so; se voglio spiegarlo a chi me lo chiede, non lo so”. L’unica vera concessione che Borges fa riguarda sé stesso “per quanto riguarda me, mi reputo uno scrittore. Cosa significa essere uno scrittore? Semplicemente essere fedele alla mia immaginazione”.
*
Tema, questo della fedeltà a sé e ai lettori, molto caro anche a Umberto Saba, il quale scrisse nel 1911 per “La voce” un articolo che però la rivista rifiutò, poi ritrovato tra le carte del poeta e pubblicato solo nel 1959: “Quello che resta da fare ai poeti”, afferma secco e perentorio nel testo, “è fare la poesia onesta”. Quella grande onestà e trasparenza che non mancò mai ad Alda Merini, poetessa nostrana per eccellenza: “il poeta è sempre lontano dall’impossibile” disse, ma soprattutto visse, scrivendo ancora “la casa della poesia non avrà mai porte”.
Altrettanto sfuggente fu Giorgio Caproni, in una altrettanto rara apparizione pubblica avvenuta il 16 febbraio 1982 al Teatro Flaminio di Roma. “Il poeta è un minatore” disse per poi rifugiarsi anch’egli in una citazione: “è poeta colui che riesce a calarsi a fondo in quelle che il grande Machado definiva «le segrete gallerie dell’anima»”. Riferendosi al paradosso per cui tanto più il poeta si immerge in profondità nel proprio io, tanto più si allontana da ogni autoreferenzialità, perché è in quella profondità vera che si cela l’universale. Ma meglio che con le parole, come spesso accade, anche Caproni se la cavò in poesia:
Buttate pure via ogni opera in versi o in prosa. Nessuno è mai riuscito a dire cos’è, nella sua essenza, una rosa.
*
In generale, più i poeti sono grandi, e più tendono a descrivere l’immensità della poesia come qualcosa di molto piccino e fragile. “La poesia è l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spillo”, diceva Faulkner. Così pure Charles Bukowski, che oltre a essere scrittore irriverente e scandaloso fu poeta dolce e sorprendente, riferendosi alla sua scrittura diede forse una delle definizione più belle: “La poesia dice troppo in pochissimo tempo, la prosa dice poco e ci mette un bel po’. In ogni caso io godo nel minacciare il sole con una pistola ad acqua”.
Definizione che ricorda la bella e fragile sfrontatezza dell’amico Franco Arminio: “La poesia è una lucciola alle due del pomeriggio, è un mucchietto di neve in un mondo col sale in mano”. Non meno ironico e profetico seppe essere il grande Pier Paolo Pasolini quando sentenziò: “il capocannoniere di un campionato è sempre il miglior poeta dell’anno”.
Altro aneddoto gustoso ci arriva da Valerio Magrelli nel suo audio libro Cos’è la poesia?, scritto in forma di abbecedario poetico, che in conclusione cita Roman Jackobson: “In Africa, un missionario rimprovera i fedeli della tribù che si ostinano a girare completamente nudi. E tu? Ribattè uno di loro indicando il viso del missionario. Non sei anche tu nudo in qualche parte? Certo, replicò lui, ma questo è il volto! Al che gli indigeni risposero: ma in noi dappertutto è volto”. Così è la poesia, dove ogni elemento ha la stessa importanza di tutto l’insieme.
*
Persino i rivoltosi, i poeti rivoluzionari, gli antipoeti, finiscono per accomunarsi con i poeti mainstream nell’impossibilità di definire la poesia fosse pure per darle contro. È il caso del cileno Nicanor Parra, considerato un genio da intellettuali come Harold Bloom e Roberto Bolaño, nel ’54 pubblicò un libro fondamentale per tutta la letteratura ispano americana dove teorizzava il concetto di “Antipoesia”, termine da lui coniato in polemica con i Pablo Neruda e altri poeti dell’epoca, nella quale respinge ogni registro alto e situa la poesia nel quotidiano, inserendovi il lessico dei mass-media, facendo uso dell’ironia e della parodia, e accompagnando spesso le sue liriche con disegni e opere grafiche: “La poesia muore se non la si offende: bisogna possederla e umiliarla in pubblico, poi si vedrà cosa diventa” scrisse inserendo i versi tra due cosce di donna oscenamente aperte. Impegnato politicamente contro ogni regime, tra i suoi versi più dolenti sul ruolo dei poeti certamente ci sono quelli contro ogni repressione: “La tortura non dev’essere sanguinaria: a un intellettuale, per esempio, basta nascondere gli occhiali”.
Accanto a lui viene in mente il grande poeta rivoluzionario americano Amiri Baraka, attivista e icona della rivolta afroamericana. Per lui fare poesia significa assumere su di sé il dolore del mondo per poi trasformarlo: “È quello che Keats e Bu Bois chiedevano ai poeti di fare: portare Verità e Bellezza. Illuminare la mente umana, dare luce al mondo. Poetate!” esortava invitando alla pratica poetica come a una vera battaglia.
Concetto quanto mai attuale che sarebbe piaciuto tanto a un’autentica rosa rossa della poesia, con la quale concludiamo il nostro viaggio: Joyce Lussu, compagna dell’antifascista Emilio Lussu, ma soprattutto poetessa riscoperta troppo tardi grazie al lavoro di una giovanissima Silvia Ballestra che a metà anni ’90 per Baldini & Castoldi raccolse diciannove conversazioni incise su nastro. Joyce Lussu rompe una convenzione non da poco: parlare male degli altri poeti, senza peli sulla lingua. “I poeti andrebbero divisi in due categorie: quelli che hanno dato tanta noia al fascismo da essere schedati e combattuti come pericolosi sovversivi, Nazim Hikmet, Garcia Lorca, Agostinho Neto, Guillen, Ho Chi-Min,Marcellino Dos Santos, e quelli che al fascismo non hanno dato nessuna noia o addirittura ne sono stati accarezzati come Saba, Montale, Quasimodo o Ungaretti, del quale andrebbero prima rilette le poesie e poi il viscido discorso che fece quando fu accolto nell’accademia fascista”.
“I veri poeti”, conclude Joyce Lussu, “sono quelli che ci rendono un po’ più intelligenti, non soltanto per osservare la realtà, ma per parteciparvi attivamente. Un vero poeta non canta la rivoluzione: fa la rivoluzione cantando. E per rivoluzione intendo anche i piccoli gesti quotidiani. La vera poesia è forza liberatrice”.
*
E non ultimo, anche per chi vi scrive in queste colonne, piccolo tra i grandi, la poesia resta un mistero. Mi piace però pensare che sia nata la prima volta che un essere vivente si è inchinato a raccogliere una conchiglia non perché servisse a tagliare, cacciare o coltivare, ma solo perché bella. Facendo della poesia un bisogno necessario proprio perché in grado di elevarci oltre lo stretto indispensabile. Insomma la poesia è nata “la notte in cui l’uomo ha iniziato a contemplare la luna, consapevole del fatto che non era commestibile”, come dice il poeta rumeno Valeriu Butulescu, o se preferite, dato che alle citazioni altrui non si scampa: “dunque un poeta è veramente un ladro di fuoco”, come disse Arthur Rimbaud, forse il più grande, che a soli vent’anni aveva già detto tutto e tutto piantò per avventurarsi in un lungo viaggio senza ritorno nel cuore dell’Africa e dell’umanità, dove al posto delle parole si mise a commerciare in armi. Tragica metafora.
Luca Gaviani
L'articolo “La poesia è l’intera storia del cuore umano su una capocchia di spillo”: da Leonardo Da Vinci a William Faulkner, passando per Wislawa Szymborska, Umberto Saba, Charles Bukowski, Joyce Lussu, cronaca dei tentativi – lirici & maldestri – di spiegarci cos’è davvero la poesia proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2YprYc5
1 note
·
View note