#Saba e la dignità
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pier-carlo-universe · 2 months ago
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"Città Vecchia" di Umberto Saba: Un Ritratto Poetico degli Umili. Recensione di Alessandria today
Un inno alla vita e alla dignità dei reietti della società
Un inno alla vita e alla dignità dei reietti della società Città Vecchia, uno dei componimenti più toccanti di Umberto Saba, rappresenta un’immersione nell’umiltà e nel dolore delle persone comuni che popolano la zona più degradata di Trieste, città natale del poeta. Attraverso versi pieni di empatia, Saba dipinge un quadro in cui la dignità dell’essere umano si manifesta anche tra le strade più…
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pangeanews · 4 years ago
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“Il poeta non è vate, non profetizza, non lancia appelli: egli vede, ascolta e invita alla meditazione”. Sulla poesia di Tolmino Baldassari, che sfugge alle aule e cerca i lettori nelle piazze, tra le vie, negli angoli dei borghi
«Ormai per me scrivere poesia è diventato un mio vero, profondo modo di essere, di pormi nel mondo per quello che veramente sono […] il poeta sente l’enorme divario tra le emozioni che ci aprono all’amore e la violenza che quasi soffoca il mondo: la base prima della cultura è sapere che al mondo ci sono anche gli altri…» (T. Baldassari, Qualcosa di una vita, postf. di A. Bertoni, Ass. Cult. Il Bradipo, Lugo, 2007, p. 62)
Molti altri brani simili a questo di Tolmino Baldassari ci permettono di centrare il tema intorno al quale gira non solo il mondo di un poeta, ma l’esistenza di un uomo, e di avere un’idea del suo vocabolario semplice ma essenziale: poesia, mondo, emozioni, amore, cultura e (corsivo dell’autore) sapere. È raro che poesia e vita coincidano, ma quando accade occorre fermarsi e riflettere un attimo.
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In uno dei primi importanti interventi sulla poesia di Baldassari Franco Brevini rilevava come la sua lingua dialettale si sottraesse allo «stereotipo giocoso della tradizione regionale», il «romagnôl sbraghê» di ascendenza guerriniana, «in nome della dura realtà del lavoro e dello sfruttamento, ben nota al poeta, già bracciante e sindacalista» (Le parole perdute. Dialetti e poesie nel nostro secolo, Einaudi, Torino 1990, p. 329); e in un’importante sede antologica Franco Loi, presentando Baldassari, rilevò come il poeta di Cannuzzo si avvicinasse più alle sponde delle Myricae pascoliane che alla tradizione drammatico-narrativa di molta poesia romagnola (da Guerra a Baldini a Nadiani a Spadoni). Due premesse critiche per dire che (a) non è possibile una reductio ad unum della tradizione lirica della poesia dialettale romagnola (e questo va da sé), in rapporto non solo a quella dialettale in generale, ma alla vasta e articolata tradizione del Novecento; (b) nel caso specifico di Tolmino occorre supporre una forma di “resistenza”, superiore alle attese, di quel sentimento di una letteratura come vita (per usare un’espressione invalsa in un contesto non troppo lontano) che porta a leggere la letteratura non in un’ottica autoreferenziale, ma alla luce di una interiore morale, ovvero al fine di attingere – riprendendo il titolo di un libro testamentario di Baldassari – «Qualcosa di una vita». Leggiamo ancora: “Le nostre letture sono percorsi di vita. La letteratura è vita, non superfetazione. Dentro c’è l’uomo, e quando non c’è si gira a vuoto. A ben intendere, l’uomo ci può essere anche quando non sia protagonista diretto dell’azione, ma in primo piano ci sia altro, purché non artificio fine a se stesso”. (Qualcosa di una vita, cit., p. 42)
Questo “qualcosa” ci rimanda, forse, a quel 5% di vita di cui Montale diceva, in tanti anni, di aver vissuto; ma in Baldassari, nella sua modesta consapevolezza, quale emerge dalle pagine del libro summentovato, ci pare di scorgere un’intuizione meno strategicamente depistante di quanto non dimostri di avere l’autoironica confessione di Montale: ed è il riconoscimento che non si può fare a meno della poesia, non dico tanto per dare senso alla vita, magari soddisfacendo certi impulsi narcisistici, quanto per comprenderne, se possibile, il disegno etico, e quindi lasciarvi un segno a beneficio di coloro che vorranno o sapranno scorgervi qualcosa della propria vita.
La poesia che riparte dalla cesura sperimentale degli anni Sessanta è uno slancio utopico che non obbedisce all’ambizione di un vano ripristino o di una faticosa salvaguardia (magari sotto un’asettica teca) dell’aura perduta della poesia, bensì risponde al desiderio di confrontarsi con il mondo, accolto nella sua complessa e persino contraddittoria varietà, attraverso la lingua della poesia.
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“Il poeta non è vate, non profetizza, non lancia appelli; nemmeno è voce querula, però. Egli vede, ascolta e sente e la sua voce è soprattutto un invito alla meditazione. In questo sta la sua dignità, e la sua necessità”. (Qualcosa di una vita cit., p. 66)
Mi ha colpito profondamente che il mondo di cui ha fatto esperienza Baldassari si presenta nelle prime pagine di Qualcosa di una vita attraverso le lenti del lavoro, a partire da quello – il più umile e duro – del bracciante: “Tra i mestieri della mia vita, quello che ricordo con nostalgia è quello di bracciante. Lavoravo, faticavo, ma ascoltavo anche le allodole, alte nel cielo. E ricordo tanti, tanti compagni di lavoro”.
Nostalgia? Mi pare un passo emblematico per entrare nella personalità di Baldassari: anche il lavoro più spietato non ottunde i canali delle emozioni (il canto delle allodole), e non fa dileguare i ricordi (i tanti compagni di lavoro). Credo sia interessante sottolineare questo aspetto del lavoro per comprendere meglio il quadro entro il quale matura la poesia di Baldassari, e per intenderne il messaggio, che altrimenti, staccato dalla sua matrice, rischia di scivolare in un lirismo neocrepuscolare. La sensibilità di Tolmino per quella che alcuni hanno interpretato come l’intuizione di una generica «aspirazione all’unità fra unità e cosmo», scaturisce, invero, da quell’orizzonte storico che si determinò dopo la guerra e che coinvolse quanti si erano battuti contro il totalitarismo con il sogno di realizzare «una nuova società, di buoni e di giusti» (Qualcosa di una vita cit., p. 26). Perciò, il Tolmino bracciante che diventa sindacalista non lo fa per sentirsi “funzionario”, salendo un gradino sopra agli altri, in maniera da imbonirli, e portando acqua al mulino del partito, ma per incontrare gli altri, e in quell’incontro (e scontro) sentirsi – avrebbe detto Saba, percorrendo città vecchia, o seduto al Caffè Tergeste – come gli altri. Possiamo ignorare la lezione che, negli anni di apprendistato sindacalista, Baldassari ebbe da qualche lettura di Marx e dei suoi interpreti? Si trattava, in fondo, di una filosofia che non era possibile calare sic et simpliciter nella realtà sociale, ma andava dosata affinché mutassero i rapporti di forza fra le classi, a favore dei diritti dei più poveri e sfruttati, ma anche perché il bisogno di riflessione esistenziale di un poeta non laureato, di umili origini, si coniugasse con la volontà di non venir meno al dovere di testimoniare.
Insomma, è come se la visione di matrice pasoliniana di uno “sviluppo senza progresso” costituisse la cornice della poesia di Tolmino: una cornice che non condiziona la scelta di temi affatto privati, personali, ma contribuisce a modificare la percezione di quegli stessi temi. In sostanza, Baldassari non si perita di fare della poesia engagée, non sente dentro di sé la vocazione dello scrittore impegnato, pronto a parlare sopra le righe, e però non trascura mai questo aspetto decisivo nella sua esistenza: l’esperienza del sindacalista, se non ha lasciato scorie nell’opera poetica, tuttavia ha trasformato, nello scrittore, le sue categorie percettive della realtà.
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Per Baldassari, l’aver rischiato la prigione, la condanna a otto anni di reclusione (con cinque anni di condizionale), nonché qualche ammenda pecuniaria, non lasciano traccia nei versi ma si depositano nella sua coscienza di uomo che si accinge a mettere la sua vita in versi, e si tramutano in una “forza di umiltà” che potrebbe ricordare analoghe esperienze (come quella di altri poeti-contadini, da Scotellaro a Buttitta) e intanto consente di vincere la tentazione di chiudersi in un sacello letterario in cui celebrare la poesia come un rito d’élite. La poesia in dialetto, in particolare, diventa il luogo di un conflitto linguistico interno alla tradizione letteraria, attraverso cui il poeta disancora finalmente la sua parola dall’idillismo vernacolare e la lega al destino sociale, suo e di quanti con lui condividono quella parola. Trattasi – avrebbe chiosato Nino Pedretti (Al vòusi, pref. di A. Stussi, Edizioni del Girasole, Ravenna 1975, p. 11) – di «una lingua di sofferenza, di dolore e di rabbia […] una lingua tragica», in cui non c’è niente da ridere, come recita la poesia È pianafört di Baldassari:
Burdell, n’iv ’të d’astë da me robi da ridar: nench ste dialèt e pò scòrar dla vita.
(‘Ragazzi, non aspettatevi da me / cose da ridere: / anche questo dialetto / può parlare della vita’)
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Probabilmente Baldassari non correrà mai il pericolo di diventare un poeta per lettori sofisticati. Uno di quei poeti non immuni da depressione asfittica: simili a piante cresciute nelle serre che temono la vera luce del sole, e se commestibili temono le padelle in cui dovranno affrontare qualche sapore forte. Di tutt’altra specie, Baldassari continua a sfuggire alle aule – e questo in parte è ancora la sorte di tanta poesia dialettale (non solo del Novecento) – perché cerca i suoi lettori nelle piazze, nelle vie, negli angoli di un borgo che sta rapidamente cambiando la sua identità per acquisirne forse un’altra. Forse. Perché non è detto che la poesia – estrema sponda cui il dialetto, lingua degli “umili”, approda dopo aver percorso i secoli fuori da ogni gabbia grammaticale – riesca a trovare sempre nuovi lettori e un giorno non si estingua.
Mi piace sottolineare questo aspetto perché spero esso possa confutare coloro che fanno del poeta che scrive in dialetto un “nostalgico” del dialetto, nel senso che cerca una lingua in grado di esprimere poeticamente la propria lacerazione psicologica, protendendo l’autore verso il «rispir d’un êtar temp». In poeti come Baldassari vi è un’istanza più profonda, translinguistica direi, che trova energia nella sensibilità creaturale per la natura e le cose, sorta di pietas rerum, nell’adesione etica e sociale alla terra, nella coscienza di «una medesima prospettiva destinale» (M. Cohen, Il gabbiano oltre il vetro, in T. Baldassari, Un mònd ch’u s’è stret, Il Vicolo, Cesena 2014, p. 10), com’è vero che «Siamo tutti poveri, per il nostro apparire fugace e a prima vista senza senso. Ciò che veramente interessa al poeta è il destino» (G. Lauretano, Prefazione, in T. Baldassari, L’ombra dei discorsi. Antologia 1975-2009, Puntoacapo, Novi Ligure 2010, p. 7).
In tal senso la poesia di Baldassari trova la via di una tonalità gnomico-sentenziosa talmente leggera, mai svagata, tanto meno risentita, da trascolorare senza sforzo dall’originaria valenza politico-ideologica a una schietta pronuncia filosofica, di taglio esistenziale, dei temi fondamentali della vita, afferenti alla sfera naturale, o che riverberano sentimenti e stadi emozionali: parliamo, per esempio, del tempo atmosferico, variamente declinato secondo le sue manifestazioni o fenomeni di brina, gelo, neve, pioggia o acqua; ma possiamo ricordare anche il binomio luce/oscurità, che trova fondamento in una notte carica di ombre e di presenza, di apparizioni e scomparizioni.
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Dicevamo della nostalgia. Sentimento che non concerne solo il dialetto, ma qualcosa di più profondo che in quella lingua si esprime, ed è una forma di vita (in senso agambeniano) che consiste in «un continuo fraterno dialogo tra gli esseri viventi, e al contempo, un naturale, intimo e religioso ponte lanciato con l’aldilà e l’altrove, come fitta trama di relazione silenziosa con le ombre-anime dei trapassati» (Cohen, Il gabbiano cit., p. 12). Vero che è proprio la poesia in dialetto ad apparire attratta, sin dai primi decenni del Novecento, non solo dal tema dei vecchi come custodi di un mondo che resiste e sopravvive alla storia, ma dal tema dei morti che hanno portato via con sé il segreto di un mondo sempre più spopolato, fra ricordi che premono e si affollano in una simultaneità di tempi mai trascorsi, e la lezione di un’altra forma di esistenza, per cui non mi pare errato costruire un percorso interno alla nostra tradizione da Pascoli a Tessa a Eduardo (penso, in particolare, alla commedia Questi fantasmi, del 1947), a Pierro, a Pedretti, a Bertolani, e quindi a Baldassari.
In Baldassari, così come avviene in altri autori neodialettali, la lingua costituisce un drammatico diaframma tra io e mondo, nel quale convivono due tempi: quello antico di una cultura contadina in estinzione, giunta al bivio tra rimozione e imbalsamazione, e quello di una cultura in caotica e tumultuosa espansione, sulla via forse di un’implosione planetaria; quello contrassegnato – si può dire in altre parole – dalla rarefazione di una poesia che allevia la ferita della subalternità, sofferta per secoli, del dialetto, e quello marchiato da una bulimia accumulativa che produce omologazione e standardizzazione comunicativa. Senza dubbio Baldassari è incline a percorrere la linea in direzione di un idioma aurorale, adamitico, pre-cristiano, fino ad approdare a un porto miracoloso «di chiarezza e intensità, di purezza e levità» (M. Cohen, La conoscenza per stupore, in «Il parlar franco», a. VII, n. 7, 2007, pp. 67-72), in cui ritrovare una nuova, più profonda ragione di poesia. Scrive Gianfranco Lauretano (Prefazione, a Baldassari, L’ombra dei discorsi cit., p. 6): “nel suo lavoro prevale non la ricerca della poesia, ma l’essere trovato da essa […] Ogni [suo] testo potrebbe essere l’ultimo e in questo abisso, in questo essere sull’orlo della fine della voce sta l’intensità dell’attimo che è ogni poesia”.
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Gli è che la poesia di Baldassari è inintenzionale: se è vero che la sua parola è “un fatto che succede”, allora ogni suo verso suggella la preminenza del farsi evento della poesia nel mondo rispetto al suo farsi progetto o programma o manifesto (così come avviene in tanta poesia del Novecento), e quindi la preminenza dell’attenzione, del gesto che rallenta il tempo dell’osservazione per cogliere (e sperare di scrivere) l’essenziale, rispetto alla ritualizzazione ossessiva e compulsiva della Modernità che sfigura la meditazione sul nostro destino nell’ansia di eluderla o disattenderla.
C’è una lezione, dunque, nella poesia di Tolmino, un messaggio che si divincoli dallo stigma di volatilità e impermanenza che scheggia i suoi versi, tra confessioni e preterizioni? Mi pare proprio di sì, e io lo vorrei esemplificare in un’immagine che mi piace, concludendo, ricordare: penso a quell’uomo che, recluso in una camera a scontare una malattia, allunga lo sguardo dalla finestra verso un’immensa campagna coltivata, in fondo alla quale si intravedono, immersi in una tenue foschia, i primi colli che volgono a sud, ancora si meraviglia davanti ai variabili fenomeni delle stagioni e, nello stesso tempo, non cessa di interrogarsi sulla sublime indifferenza della natura nei confronti di ogni io che, chiuso nella propria torre d’avorio, presume di occupare il centro del mondo che invece non lo riconosce – penso a quell’uomo che, nonostante la malattia, non mette da parte la coscienza della sua umanità coltivando il rapporto con gli altri, interagendo fino alla fine con il mondo, del mondo conservando un pensiero che non finisce.
Salvatore Ritrovato
(intervento letto alla giornata dedicata a Tolmino Baldassari, Milano Marittima, 18 gennaio 2020)
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pangeanews · 7 years ago
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Due lettrici di rara intelligenza a confronto: una mitragliata di grandi libri, da McCarthy a Flannery O’Connor, Gadda e Ralph Ellison
Come i malati. Quando mi sento male, in assenza di linguaggio, e divento debole come una foglia. Ho due libri sul comodino. Le Elegie duinesi di Rilke (forse la traduzione di Michele Ranchetti è la più bella, ma sono affezionato a quella dei De Portu). Le poesie di Boris Pasternak tradotte da Ripellino. Giusto per riprendermi. Elettroshock linguistico. Ora che ricordo. Il mio personale ‘canone’ contempla anche un paio di nipponici, Kawabata – il genio del chiaroscuro, della leggerezza – e Tanizaki – le sottili perversioni di un maestro. E poi Mario Pomilio, autore di un romanzo fuori dai canoni, Il quinto evangelio. E poi Meridiano di sangue, il più bel romanzo di Cormac McCarthy. Che cosa strana, il canone. Appena ne compili uno, ti ricordi di tutti quelli che ti sei dimenticato di canonizzare. Per fortuna mi aiutano due lettrici eccezionali, a capire ciò che amo con troppa distrazione.
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Elisabetta Cipriani
I fratelli Karamazov, Fëdor Dostoevskij. Possono accadere le più turpi tragedie – padri che castrano figli, figli che uccidono padri, bastardi che scimmiottano il nichilismo ed intellettuali euclidei che si fanno gabbare da demoni meschini; fiere donne che febbrilmente amano, odiano, ridono, piangono, cadono in ginocchio e stringono mani. Tutto può accadere in Russia. Tanto il sipario calerà sempre su un puro folle che dinnanzi a un pubblico di ragazzini giurerà: “Certamente risorgeremo, certamente ci rivedremo e ci racconteremo l’un l’altro allegramente tutto ciò che è stato”.
Fahrenheit 451, Ray Bradbury. Perché se vuoi salvare il mondo, te stesso e una storia non hai che da imparare a memoria il libro di Giobbe.
Giobbe, Joseph Roth. Perché l’uomo sarà pestato nel torchio della sventura ma il giusto vivrà per la sua fede, specie quando l’avrà persa.
Tutto scorre, Vasilij Grossman. Il monumento più schietto e antiretorico mai eretto al dissenso e alla libertà.
Tutti i racconti, Flannery O’Connor. Il reale del reale è la grazia.
Sessanta racconti, Dino Buzzati. Più vero del verosimile è il fantastico.
Canzoniere, Umberto Saba. “Per l’altezze l’amai del suo dolore/ perché tutto fu al mondo, e non mai scaltra,/ perché tutto seppe, e non se stessa, amare”. Se esiste un intelletto d’amore è qui, in questi versi.
I giusti, Albert Camus. Non c’è terrorismo, dagli anarchici all’Isis, che questo dramma non incenerisca con il suo specchio ustorio.
Quattro quartetti, T. S. Eliot. “L’unica saggezza che possiamo sperare di acquistare è la saggezza dell’umiltà”. Grimaldello antinovecentesco impugnato dalla più grande poesia del Novecento.
Sunset limited, Cormac McCarthy. Vale la pena vivere, sì o no? Tutte le altre questioni impallidiscono per poi svanire, semplicemente.
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Una lettrice
Questi, i libri che accompagnano le tappe della mia vita. Cominciamo:
L’adolescenza:
Lo spleen di Parigi, Charles Baudelaire: I Fiori del male messi a nudo, spogliati della retorica. Rimane l’essenza.
La fisica teorica: un viaggio attraverso la bellezza della matematica (così simile a quella della musica e della poesia) verso l’infinto, un’India immaginaria, le cui porte “sono trasferite in tutt’altro luogo e più lontano e più in alto”. Il senso del limite che condanna l’uomo a perdere, ma, nella sconfitta, gli regala la bellezza.  Due libri:
Un medico di campagna, Franz Kafka: Il nuovo avvocato, In galleria, Il messaggio dell’imperatore.
L’Aleph, Jorge Luis Borges: La ricerca di Averroè, La scrittura del dio e, ovviamente, La casa di Asterione.
L’America:
Chadzi-Murat, Lev Tolstoj: il più bell’incipit della letteratura? Il guerrigliero e il cardo che si confondono e si fondono nella parola “tatar”.
Cuore di tenebra, Joseph Conrad: il viaggio attraverso la parte più cupa della civilizzazione, con un linguaggio che si fa esso stesso foresta. Attuale, purtroppo.
Invisible man, Ralph Ellison: la scoperta del jazz e della letteratura afro-americana. La prosa e la musica che si compenetrano: “I am an invisible man. […] I am a man of substance, of flesh and bone, fiber and liquids — and I might even be said to possess a mind. I am invisible, understand, simply because people refuse to see me.”
Il ritorno:
Viaggio al termine della notte, Louis Ferdinand Céline: la realtà, nuda, raccontata con una prosa che ti squarta la pelle. Difficile, a volte, proseguire nella lettura.
Morte dell’inquisitore, Leonardo Sciascia: il racconto della vita (vera) dell’eretico Fra Diego La Matina, che, in un gesto di disobbedienza, uccide il proprio inquisitore. Uno dei personaggi più amati da Sciascia. Sullo sfondo, l’Inquisizione spagnola nella Sicilia del ‘600, e la ragnatela di connivenze con la politica e la società cosiddetta “civile”. In ogni pagina, Sciascia trattiene, con uno sforzo di lucidità, la passione e la partecipazione alle sorti del condannato, per non sottrarre valore al sacrificio del frate e al suo messaggio di dignità.
Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, Carlo Emilio Gadda: geniale, ironico, acuto. A tratti, impossibile trattenere il riso. Una dichiarazione d’amore a Roma, da un milanese che ogni strada ha calpestato e amato ogni pietra di essa.
I demoni, Fëdor Dostoevskij: il libro che sto finendo di leggere e mi è entrato sotto pelle. Tante le domande: chi è Stavrogin? Perché uno dei personaggi più cari a Dostoevskij? È davvero il male assoluto o c’è in lui una scintilla di luce? Perché il nome porta su di sé la croce?
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