#Riassunto onesto
Explore tagged Tumblr posts
Link
Da ieri mattina risuonano tra le pareti di casa mia le note di “Ogni giorno rischio di essere felice”, l’ultimo cd dei Letti Sfatti, gruppo nato negli ormai lontani anni ’90 in quelle terre a Nord di Napoli che sono anche le mie terre. Oggi i Letti Sfatti sono un duo formato dal chitarrista e multistrumentista Jennà Romano e dal batterista e percussionista a tutto tondo Mirko Del Gaudio. Ma si tratta di un duo aperto agli incontri artistici più svariati e stimolanti (la musica popolare di Patrizio Trampetti, il teatro canzone di Peppe Lanzetta, il pop d’autore di Tricarico, il jazz rock dei Napoli Centrale e di Franco Del Prete, il Neapolitan power dei Tiempo Antico, lo sperimentalismo di Pasquale Di Resta, il virtuosismo suggestivo del compianto Fausto Mesolella, le parole esatte di Erri De Luca…, ma anche felici incursioni nella musica per ottoni, nel teatro e nelle cover d’autore – dalla versione napoletana de “Il Vino” di Piero Ciampi a “Stella di Mare” di Lucio Dalla suonata con un bouzouki greco). In gran parte avevo già avuto modo di sentire un’anteprima dei brani di questo cd prima della masterizzazione finale e sento confermate tutte le buone impressioni che avevo avuto al primo ascolto. Dalla sua tana di provincia (uno studio ben attrezzato e ricco di strumentazioni digitali e analogiche e strumenti tradizionali, vintage o reinventati), Jennà Romano mi aveva già preannunciato che questa sarebbe stata solo la prima parte di un progetto artistico concepito in due volumi (l’uscita della seconda parte è prevista per novembre di quest’anno), un progetto in cui si era messo personalmente in gioco senza preoccuparsi delle regole di un mercato musicale sempre più asfittico e raccogliticcio; un progetto di ricerca compositiva ed esecutiva fuori dalle righe e dalle regole, suonato con “strumenti veri”, che in più di un punto rievocano un sound anni ’70-’80 (il tempo in cui i musicisti si chiudevano in uno studio e ricercavano un suono che li contraddistinguesse, senza affidarsi a loop e basi preregistrate); un lavoro lento e impegnativo, ben riassunto dalla lumaca che percorre l’asfalto che campeggia sulla copertina del cd. La lumaca è un animale saggio che costruisce in solitudine la casa che porta sulle sue spalle; ma ad un certo punto si rende conto che il suo guscio sta raggiungendo la taglia massima in rapporto alle proprie dimensioni e comincia gradualmente a rallentare, fino a che non decide di fermarsi e di dedicarsi esclusivamente alla riparazione di eventuali scalfiture o rotture di quella casa-conchiglia che la protegge dai predatori e dalle insidie dell’ambiente circostante. E come la lumaca, Jennà Romano mi ha raccontato di essersi rinchiuso nel suo guscio/studio/sala di incisione per dare voce allo stato d’animo che stava vivendo a seguito di vicende private e personali che è superfluo raccontare qui nei dettagli, ma che sono in buona parte rappresentate nelle tracce di questo lavoro che lui stesso definisce “emotivo” ed “umorale”. L’album si apre con una “serranda” che si chiude. Un brano di forte impatto, con un arrangiamento essenziale e ricercato che per un breve intervallo cita anche “Brown Rice” di Don Cherry (vediamo chi scopre in quale punto della canzone viene rievocato l’immaginifico trombettista di Oklahoma…). Su un tappeto di una serrata chitarra ritmica, del sapiente drumming di Mirko Del Gaudio e del sostegno armonico del Rhodes di Filippo Piccirillo, entriamo subito nell’atmosfera del cd con sguardi che sembrano serrande e diventano muri di incomunicabilità. La seconda traccia si chiama “Acquaragia” e comincia con i toni intimistici di un canto accompagnato da arpeggi di chitarra e qualche effetto d’amosfera, ma poi irrompe un accattivante giro di basso che fa cambiare clima al brano e ne fa un blues riflessivo e contemporaneo: “Ahi, agliagliagliai, / quante cose avrei se fossi meno onesto. / Ahi, agliagliagliai, / Quante cose avrei se fossi meno disonesto.”. Poi un nuovo cambio umorale e il canto si fa di nuovo disteso, quasi lisergico: “Ti do un’idea, avvelenami, / farò finta che sia grappa / questa acquaragia / e poi dammi una sigaretta, / anche se non fumo. / Fammi accendere, / anche se non fumo”. “Lei balla il mambo” è l’unico brano non inedito dell’album, ma lo ascoltiamo in un bellissimo riarrangiamento che si avvale della riorchestrazione per ottoni del Maestro Domenico Brasiello che aggiunge malinconia e conferisce un certo “Latin tinge” a questa canzone di Jennà Romano che nel 2012 era stata registrata anche da Patrizio Trampetti nell’album “Qui non si muove mai niente”. “Mi piace” è uno dei brani più intimi (e più belli) dell’album e Jennà se lo suona tutto da solo (voci, chitarre, basso, minimoog), intervallandolo con lunghe pause e sospensioni, fino a quando il canto e la musica si interrompono del tutto e restano là, volutamente sospesi sul verso finale: “Mi piace smettere all’improvviso”. “L’amore è uguale per tutti” è una struggente canzone dedicata a un amore già finito, destinato a finire o a trascinarsi “per inerzia o per dolcezza”, come tutti, come tutto. Su un tappeto di corde, la batteria di Mirko irrompe in chiave espressionistica su un testo che ha dentro una disperazione travestita da un cinismo che mi fanno pensare a Luigi Tenco, a Bindi, a Brassens, al primo De André e, soprattutto, a Piero Ciampi, che per i Letti Sfatti è una sorta di nume tutelare maledetto e malinconico. “La gratitudine” è probabilmente la canzone dalla struttura più tradizionale di tutto l’album, ma la sua coda strumentale affidata al sax soprano di Mario Lupoli è splendida e insinuante. Inoltre, il suo ritornello potrebbe farla diventare una sorta di canzone-sigla dei concerti dei Letti Sfatti: “E ringrazio te, che mi sai ascoltare. / E ringrazio te, che mi sai capire, / senza udire le parole, che io non ti so dire.” “Una strada”, che so essere una sorta di lettera che Jennà ha dedicato al padre recentemente scomparso, è la canzone di “Ogni giorno rischio di essere felice” che mi suona più “vintage”. Per un attimo ho avuto l’impressione di star ascoltando la prima PFM. Anche se poi, come accade spesso nelle tracce di questo album, il brano prende un’altra inaspettata direzione. Come la vita. Un pregio di cui possono fregiarsi pochi brani di musica pop o della cosiddetta canzone d’autore italiana, infettati come sono dal morbo della più assoluta prevedibilità. “La vita è fatta ad angoli / e gira sui suoi spigoli. / Le curve sono ripide / per inseguire te. / È un mondo senza limiti / che accelera nei vicoli, / si ferma in una strada / che non porta più da te…” Nell’ultima traccia, intitolata “Stelle comete“, Jennà torna a fare tutto da solo. Salvo l’incipit di una sola strofa (6 versi in tutto) il brano è un suggestivo strumentale che chiude malinconicamente e magnificamente il CD. “E chissà se domani / ci sarà più domani / quando dentro i tuoi occhi / avrò perso anche i miei…”.
2 notes
·
View notes
Text
Riassunto poco serio: Casey Affleck è l’omino della manutenzione delle case popolari di Boston: potente, rispettato e con una una cassetta degli attrezzi tutta sua, le donne vorrebbero dargliela ma lui le rifiuta con sdegno; può trattare male i condomini a proprio piacimento ma non lo licenziano mai; vive da solo e nel tempo libero fa risse nei bar menando gli yuppie. Una vita da favola, ma siccome tutte le cose belle prima o poi finiscono, ad un certo punto deve tornare nel paese natìo perchè gli muore il fratello. In un attimo si ritrova dentro una puntata di Una mamma per amica, ma molto più lenta, popolata di maschi depressi e sfigatissimi, e infarcita di pessime battute e di pessimo tempismo. Siamo solo alla prima mezz’ora e più avanti il film peggiora pure, ma per fortuna la musica classica copre gran parte dei dialoghi e uno manco se ne accorge di: brutte metafore, sbalzi d’umore, sbornie tristi (musica classica) scazzottate a caso, luoghi comuni sull’adolescenza, Michelle Williams regredita allo stadio Dawson Creek (musica classica) luoghi comuni sulla solitudine, mono-espressioni, neve (musica classica) auto-commiserazione, il funerale più lungo di tutti i tempi (musica classica)… e quella fottutissima barca di merda. Dopo due ore abbondanti, quando l’ incubo sembra giunto al termine, appare Matthew Broderick grasso, bigotto e con le meches, che è il vero motivo per cui il protagonista ha cercato, diverse scene prima, di spararsi. Unica cosa veramente divertente (ma solo per gli specialisti e i pazzi in sala): ciascuno dei personaggi ha uno specifico, conclamato e ben riconoscibile disturbo mentale; ci si potrà dunque divertire a indovinare, scommettendo la cena dopo il cinema o la retta mensile della casa di cura.
MBTS_3869.CR2
Commento serio: ad ogni nuova annuale “infornata” di nomination agli Oscar, complice forse il numero sempre più elevato delle candidature nella categoria Miglior film (troppe, quest’anno ben nove!), ci si imbatte sempre più spesso in quello che io amo definire “equivoci”: film di pretese autoriali, che trattano argomento alti, profondi, ma che di autoriale, alto e profondo conservano solitamente l’involucro esterno o tutt’al più una parvenza di stile, risolvendosi a conti fatti in svolgimenti banali, contenuti triti, idee riciclate. Nonostante questo gli “equivoci” piacciono; emblematici furono gli Oscar 2015 dove questa tipologia di film letteralmente fiorì e sedusse critici e giurati: Birdman (che addirittura vinse), Whiplash, La teoria del tutto, Selma. Questa lunga premessa serve per dire che Manchester by the sea ha solide basi per diventare “l’equivoco” per eccellenza del 2017. Sei nomination e una lunga serie di clichè inanellati uno dietro l’altro: la colonna sonora costruita con pezzi di musica sinfonica, il rapporto adulto-giovane, il protagonista tormentato, il passato e i drammatici eventi, la fotografia dai toni tenui, ecc… Il film manca di equilibrio innanzitutto nella sceneggiatura. La troppa tragicità nei momenti drammatici impantana di continuo i personaggi nella loro impotenza; gli scambi e le battute più ironici non bilanciano l’atmosfera, risultando anzi quasi sempre fuori luogo; l’insistere sull’incomunicabilità e sul male di vivere attraverso dialoghi volutamente monchi diventa alla lunga irritante: i personaggi tacciono quando dovrebbero parlare (e far progredire anche di poco il film) e dicono cose scontate quando potrebbero tacere. Il protagonista, interpretato da Casey Affleck, mantiene per oltre due ore un’unica, monocorde, estenuante, espressione afflitta; Michelle Williams, che è un’attrice che fin qui non mi aveva mai deluso, si limita a dire parolacce (nella prima parte del film) e piangere come una fontana (nella seconda parte): cinque scene in tutto che durano dai 2 ai 5 minuti e nomination, per me inspiegabile, per miglior attrice non protagonista; da sottolineare infine l’enorme antipatia del “nipote” adolescente di Casey Affleck, uno dei personaggi-chiave, ma caratterizzato in modo profondamente sbagliato. Il film non trova purtroppo una sua via di uscita nemmeno con il finale, poco coraggioso e “telefonatissimo”: se parli per due ore di traumi, almeno cerca di fare intravedere, a noi che guardiamo, una strada da percorrere o una luce da seguire. Invece niente: tutti in barca a navigare. In una valle di lacrime, però: Lonergan infatti, con una regia che ricorda più un pilot televisivo che un’opera per il grande schermo, sembra voler sedurre lo spettatore senza però mai portarlo a letto e il film soffre dello stesso male del suo protagonista, ovvero la quasi assoluta incapacità di mostrare un approfondimento dei sentimenti, una elaborazione originale del lutto, un coinvolgimento emotivo credibile e onesto, se non la lacrima facile e scontata e un generico “stare male” per le sfortune infinite che puntellano le vicende dei protagonisti. Una banalizzazione dei sentimenti terrificante a mio avviso. Deludente e, nonostante il finale, comunque inutilmente pessimista (e – badate bene – io non sopporto gli ottimisti), alla Notte degli Oscar il film ufficializza il suo status di “equivoco” 2017: statuette per la miglior sceneggiatura originale e per il miglior attore protagonista con Casey Affleck, che ritira il premio con la stessa verve mostrata nel film, ma con con molti più peli.
Manchester by the sea (2016) Riassunto poco serio: Casey Affleck è l'omino della manutenzione delle case popolari di Boston: potente, rispettato e con una una cassetta degli attrezzi tutta sua, le donne vorrebbero dargliela ma lui le rifiuta con sdegno; può trattare male i condomini a proprio piacimento ma non lo licenziano mai; vive da solo e nel tempo libero fa risse nei bar menando gli yuppie.
0 notes
Text
Victoria Ocampo, la regina della letteratura. Storia dell’ideatrice di “Sur”, corteggiata da Drieu e da Tagore, adorata da Borges e da Camus
Spigliata, scontrosa, “una oligarca”, dicevano; affascinante – lo dice una fotografia di Man Ray –, “quella bellissima milionaria argentina”, precisava Virginia Woolf, con cui intrattenne un rapido epistolario, a cui dedicò un libro, Virginia Woolf en su diario (1954). Voleva fare dell’Argentina il centro del mondo, l’equatore della letteratura planetaria – ricchissima, di antica genia aristocratica, educata tra Londra, Ginevra, Parigi (il francese fu la sua prima lingua), piuttosto, lavorò affinché il suo dito mignolo fosse la Delfi della cultura del tempo. Ci riuscì.
*
È pressoché impossibile districarsi tra l’armeria di relazioni che hanno punteggiato la vita di Victoria Ocampo – relazioni, s’intende, in cui è lei, sempre, a detenere lo corona. Avrebbe compiuto 130 anni lo scorso 7 aprile, è nata a Buenos Aires e lì riposa, in un trionfo di marmi, dal gennaio del 1979; morì a 88 anni – infinito raddoppiato al contrario –, l’articolista del “New York Times” ricordò una sua intervista del 1966 in cui lei, imperiale, disse, “mi attaccano perché pubblico troppi stranieri: di certo, non pubblicherò mai chi non sa scrivere in modo eccellente”.
*
A New York, tra l’altro, la Ocampo era atterrata nel 1946 per conoscere Albert Camus. “Il corridoio che circonda la mia casa è come il ponte di una nave, una nave che naviga sul verde. Era estate. Avevo appena letto Caligola, il lavoro di uno sconosciuto. Mi sembrava di conoscerlo da sempre. Cominciai a tradurlo”. Camus è ospite della Ocampo, nel 1949; lei fa di tutto per divulgare la sua opera in Argentina, il loro rapporto è testimoniato dalla Correspondencia (1946-1959) edita da Sudamericana lo scorso anno.
*
D’altronde, il mix fascino-soldi-superbia intellettuale aveva già vinto un mucchio di scrittori. Nel 1929 comincia il rapporto con Pierre Drieu La Rochelle, che “più tardi paragonerà il ruolo avuto da lei nella sua vita a quello che ebbe Madame de Staël nell’esistenza di Benjamin Constant” (Massimo Cescon), riassunto nell’epistolario edito da Archinto come Amarti non è stato un errore. Lettere 1929-1944 (2011). Qualche anno prima, è il 1924, alcune fotografie la ritraggono, in posa estatica, di fianco a Tagore, poeta, mistico, Nobel per la letteratura nel 1913. Visse un paio di mesi nella casa di lei a San Isidro: lei aveva 34 anni, lui 65. Le dedicò un florilegio di poesie, si videro un’ultima volta nel 1930, lei, molti anni dopo, diede fiato narrativo ai ricordi in Tagore en la Barrancas en San Isidro (1961).
*
Donna di spericolata energia, la Ocampo è a Roma nel 1935, intervista Benito Mussolini, nonostante ne disapprovi l’azione politica; fu arrestata nel 1953 perché ostile al Presidente Péron – la difese, pubblicamente, Aldous Huxley; andò in estro per Lawrence d’Arabia, di cui tradusse parte di The Mint e a cui dedicò due libri, 338171 T.E. (1942) e Lawrence de Arabia y otros ensayos (1951): non potendolo conoscere di persona – era già trasvolato all’altro mondo – si presentò dal fratello e dalla madre di lui. Con inesorabile energia, tra gli anni Cinquanta e Sessanta tradusse William Faulkner e Graham Greene, Lanza del Vasto e Colette, Dylan Thomas e Ghandi. Naturalmente, pubblicò tutto con la sua casa editrice.
*
Il capolavoro sommo di Victoria Ocampo, piuttosto, è la rivista Sur, “non semplicemente una rivista o una istituzione, piuttosto, una tradizione dello spirito”, scrisse Octavio Paz. La rivista nasce nell’estate del 1931, è inaugurata da una “Lettera a Waldo Frank” (scrittore americano dai vezzi marxisti nel club di Victoria), e porta in copertina, a caratteri cubitali, la scritta: “Trimestrale pubblicato sotto la direzione di Victoria Ocampo”. Nelle fotografie che ne festeggiano i primi trent’anni, Victoria troneggia, tiranneggia, elegantissima, occhiali scuri, di moda, in mezzo a un’ammucchiata di maschi, una fiera dell’intelletto. “Di sera, era ottobre, il 1929, camminavo per il quartiere Palermo. L’aria tremava pesante per della prossima tormenta e l’odore delle rose e della terra era compatto, come nebbia. Eppure, passeggiavo senza assaporare questa dolcezza. Mi rimproveravo con violenza la mia inattività, e per la prima volta il nome di questa rivista – che non aveva nome – fu pronunciato. Esiste l’angoscia di chi spera, in piena attività, che una tregua, una interruzione forzata lo costringa al riposo. Ed esiste l’angoscia di chi, in piena inattività, spera che qualche compito gli sia imposto dalle circostanze”. Queste sono le prime parole che inaugurano il primo numero di Sur. In cui compaiono testi di Drieu – Cartas a unos desconocidos – e di Jules Supervielle, di Walter Gropius, di Benjamin Fondane – El cinema en el atolladero.
*
Naturalmente, in quel primo numero di Sur appare anche Jorge Luis Borges, con El Coronel Ascasubi. “A Buenos Aires ero un ragazzo, uno sconosciuto. La Ocampo fondò Sur, mi chiamò, per me fu una grande sorpresa. Fu lei a vedermi, quando per gli altri ero invisibile. Se fui nominato direttore della Biblioteca Nacional lo devo a lei”, ricorda lui. “Se mi chiedono un ricordo di Victoria Ocampo, è curioso, ricordo che ci siamo sempre voluti bene. Eppure, non eravamo d’accordo su nulla”. In effetti: i grandi racconti di Borges sono pubblicati da Sur, e per le edizioni Sur della Ocampo JLB pubblica Ficciones. Per lui la Ocampo inaugura il genere ‘agiografia borgesiana’, con Diálogo con Borges (Sur, 1969; tradotto nel 2016 da Archinto). Borges fu incaricato di onorare la sua morte con un discorso onesto, cosa che fece – “Era la figura più eminente di questo paese, pensava al mondo come a una festa della cultura”. Victoria, sofisticata femminista, non distingueva l’intelligenza dall’aristocrazia, desiderava un governo di pochi savi: la sorella, Silvina, poetessa di talento, si accasò con Adolfo Bioy Casares, che con Borges scrisse una manciata di libri (tra gli altri: Cronache di Bustos Domecq e Sei problemi per don Isidro Parodi).
*
Il manage della Ocampo, è logica, non andava a Witold Gombrowicz, che nel suo Diario dedica alla “anziana aristocratica piena di milioni la cui entusiastica ostinazione l’aveva portata a diventare amica di Paul Valéry, a ricevere Tagore e Keyersling, a prendere il tè con Bernard Shaw e a entrare in confidenza con Strawinskij”, un ritratto spietato. “Quell’insistente sentore di milioni, quell’intenso profumi di soldi aleggiante intorno alla signora Ocampo mi toglievano la voglia di fare la sua conoscenza. Si diceva che un famoso scrittore francese le si fosse buttato in ginocchio davanti giurando di non alzarsi finché non avesse ottenuto i venti o trentamila pesos che gli servivano per fondare una rivista letteraria. E li aveva ottenuti giacché, come poi aveva detto la Ocampo, ‘Che altro potevo fare con quello lì in ginocchio, che non voleva saperne di alzarsi?’”. Gombrowicz è tagliente: in questo caso, però, cede al livore. Elevare un inno al sottosuolo – “Io ero affascinato dagli strati inferiori del paese, mentre quelle erano le altre sfere” – equivale a idolatrare il lusso, non elevarsi oltre il bozzettismo grottesco vuol dire, in fondo, desiderare quella potenza che gli è preclusa. Il problema, in effetti, non sta nella Ocampo, sagace maîtresse, ma nel damerino che le baciava le ginocchia per ottenere portafogli e favori. Tra l’altro, su Sur hanno pubblicato Alejandra Pizarnik e Gabriela Mistral, Ernesto Sabato e José Ortega y Gasset; nelle sue edizioni la Ocampo ha pubblicato Camus e Henry Miller, Faulkner e Nabokov, Jean Genet, André Malraux, Yukio Mishima, Walter Benjamin, Henri Michaux… Rischiava di essere l’attico della cultura ‘che conta’ – non lo fu: l’ondivago, parziale, eccentrico fiuto della Ocampo permise a molti l’esordio e quel tot di fama. Pubblicare per Sur, insomma, era come dire, fino a dieci anni fa, pubblico per Adelphi.
*
Più che altro, il regalo di compleanno ce lo fa la Biblioteca Nacional, digitalizzando i numeri di Sur, una manna, un mattatoio di grandezze. Estraggo a caso – cioè facendo tomistica sul caos, secondo la rapacità di Borges – segnalando ciò che per nitidezza mi abbaglia. Luglio 1935: Jung scrive dei “tipi psicologici” e Borges recensisce Chesterton. Febbraio 1936: numero dedicato ad Aldous Huxley e a Virginia Woolf. Settembre 1936: apre Stefan Zweig (Resurreccion de Jorge Federico Händel), Supervielle e Michaux speculano sulla poesia, Borges scrive intorno a Shaw. Il numero del marzo 1948 è un “Homenaje a Gandhi” con testi di François Mauriac, Lanza del Vasto, Romain Rolland, la traduzione del carteggio tra Gandhi e Tolstoj. Nel febbraio del 1959 appaiono pezzi di Gustav Herlin (La victoria de Pasternak), di Hector Murena, di Thomas Merton, di Juan Rodolfo Wilcock. Nel numero di aprile del 1960, Borges omaggia Alfonso Reyes e la Ocampo scrive di Camus; si onora Vladimir Nabokov (il “Sebastian Knight”), ma si recensisce anche Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. La faccio corta: è davvero una festa. La grafica è ineluttabile: una lunga freccia preme, dall’alto verso il basso, lungo la copertina, colpendo la U di Sur. Una specie di indicazione che rovescia il globo – la cultura si fa da questa parte. E di scettro. E di allarme. La Ocampo fu regale e fu regina, virgo virile, specie di Elisabetta del proprio tempo. Regnò a lungo. Non doveva essere male lucidarle le ginocchia, visti i risultati. (d.b.)
L'articolo Victoria Ocampo, la regina della letteratura. Storia dell’ideatrice di “Sur”, corteggiata da Drieu e da Tagore, adorata da Borges e da Camus proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/34ucqaq
0 notes
Text
Riassunto poco serio: due fratelli corrono nei boschi, si arrampicano sulle rocce e fanno la lotta, fino a che il più grande, come ogni fratello maggiore che si rispetti, tenta di uccidere il più piccolo a mattonate. Il più grande a questo punto si pente e si converte, ma a causa del trauma quando cresce diventa Andrew Garfield. Inoltre sviluppa una fobia per le armi e un’insana passione fetish per gli aghi, il sangue e le procedure mediche invasive in genere: ci sarebbero gli estremi per un ricovero coatto ma siccome siamo in un film di Mel Gibson il nostro protagonista prima fa l’amore, poi, piuttosto che sposarsi, va a fare anche la guerra. Le sue strane perversioni hanno ormai preso il sopravvento: sarà un soldato ma al posto del fucile sarà armato solo di clisteri, pappagalli e padelle. Il periodo dell’addestramento è durissimo da sostenere: il sergente istruttore è Vince Vaughn con un’uniforme di due taglie più piccola, tutti ripetono male scene e battute prese a caso da Gunny e Full Metal Jacket e lo stesso Andrew Garfield è pettinato che non si può guardare. Per questo ufficiali e commilitoni lo odiano, lo isolano, lo menano di brutto e cercano di buttarlo fuori. Finisce davanti alla Corte Marziale: anche il padre del protagonista prova a spiegare ai giudici che il figlio è un coglione, ma – come ampiamente dimostrato dalle ultime presidenziali – tale minoranza è tutelata dalla Costituizione degli Stati Uniti. Finalmente può realizzare il suo sogno: partire con Avventure nel Mondo per una sperduta isola in mezzo al Pacifico tentando di salvare vite umane, mentre i suoi compagni cercano di difendersi dai locali e il coordinatore litiga con quelli dell’albergo. Infatti qualcosa non va nell’organizzazione: dovevano arrivare a Okinawa ma si ritrovano sotto la Pietra di Bismantova (traduzione letterale di Hacksaw Ridge), a cui qualcuno ha pure appeso un quadro svedese per facilitare l’ascesa. In cima c’è pieno di giapponesi che campeggiano, armati fino ai denti perchè nessuno occupi le loro griglie: ma gli americani sono cinque anni che aspettano ‘sto barbecue, è Pasquetta e non ci sono cazzi. E’ l’inizio di una carneficina a base di raudi, fucili da caccia e diavolina usata come arma di distruzione di massa; fuoco, fiamme, sangue che schizza e corpi mutilati: nulla di più di una normale puntata di Uomini & Donne, ma non ci si abitua mai a certi spettacoli. Un Andrew Garfield abbandonato e solo dopo che la Sony ha perso i diritti di Spiderman, guarda i suoi compagni feriti e morenti, si scuote dalla paura e capisce che il suo obiettivo è di portarli in salvo; ci vorrebbero litri di Montenegro, ma lui ha solo poche fiale di morfina e della carne in scatola: invoca Dio e MacGyver e inizia una rescue mission che ha del miracoloso. Il protagonisita è instancabile e dalla Pietra comincia a calare, senza sosta e uno dopo l’altro, i sopravvissuti di una delle grigliate più lunghe e pesanti della storia: il record dell’anno prima viene polverizzato, sono 75 tra indigestioni, coma etilici e figure di merda con le fidanzate degli amici. Pieni di vergogna e puntine di maiale, ma sono salvi. Nel frattempo ai giapponesi, accortisi che non avrebbero mai finito tutte le portate del menù Infinity, non resta che fare harakiri. Andrew Garfield è portato in trionfo e preso da esempio, anche se non aveva messo la sua quota per la carne: il congresso USA e la Società Internazionale di Gastroenterologia gli assegnano lo stesso medaglie, onoreficienze e accertamenti gratuiti con esenzione totale. E l’imperatore del Giappone e la mutua muti.
Commento serio: l’eroismo secondo Mel Gibson risiederebbe in alcune caratteristiche specifiche: la discrezione nel fare del bene, l’abnegazione nel portare avanti la propria missione, la coerenza con i propri valori morali e una certa dose inevitabile di solitudine. Il regista e attore australiano porta avanti questo discorso – molto cristiano, come ci si aspetta da lui – con grande mestiere costruendo una trama solida ed emozionante, seppur figlia dei più collaudati codici e clichè dei war movies. Nulla di già visto, sentito, mostrato quindi, ma tutto fatto molto bene e con grande convinzione. Al punto che Gibson non si vergogna nemmeno di entrare a piedi pari nel terreno della retorica di guerra. Questo è vero soprattutto nella prima parte, piuttosto canonica, in cui viene presentato il protagonista, Desmond Doss – interpretato da un bravo Andrew Garfield – soldato americano e obiettore di coscienza, deciso ad arruolarsi per salvare vite umane invece che per imbracciar fucili. Il “trauma” infantile e il milieu familiare che danno ragione della sue scelte, alcuni simbolismi superficiali (il mattone, la cintura), una love story piuttosto scialba e forse anche un po’ inutile ai fini dello svolgimento della trama, la parte dell’adestramento: tutti elementi facili, comodi, prevedibili. Poi – come succedeva anche in Braveheart – la seconda parte del film scardina il sentimento scontato e le soluzioni banali: ti mette a fianco di Desmond Doss attraverso un uso serrato e quasi senza respiro di primi e primissimi piani, di semi-soggettive. La camera, sempre ad altezza uomo, ti costringe a vivere e soffrire sull’Hacksaw Ridge insieme ai soldati, ai loro volti spaventati, ai corpi feriti e martoriati; non si arretra e non c’è alternativa se non la scelta radicale del protagonista che, come Sant’Antonio in mezzo al deserto, ad un certo punto è solo a combattere la sua personale battaglia. Ed è questo approccio cinematografico crudo, scabro, ma comunque onesto che mi porta a perdonare a Gibson le “concessioni” alla mitologia sulla guerra (leggi: ancora banalità) come alcuni dialoghi sul tema del coraggio, o la rappresentazione del nemico giapponese come irrimediabilmente cattivo. E’ un film che potrebbe anche deludere, questo Hacksaw Ridge, fino a quando ci si rende conto che in realtà non potrebbe essere differente da ciò che è e che, come tale, va accettato: un bel film di guerra tratto dalla storia vera di una bella persona.
La Battaglia di Hacksaw Ridge (2017) Riassunto poco serio: due fratelli corrono nei boschi, si arrampicano sulle rocce e fanno la lotta, fino a che il più grande, come ogni fratello maggiore che si rispetti, tenta di uccidere il più piccolo a mattonate.
0 notes