#Parole per la guerra
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Quando un romanzo diventa profezia.

E poi c’è questo signore qui che ci ha detto una cosa pericolosissima che fa paura a molti: attenzione, fate attenzione, la guerra ha inizio dalle parole. Dal controllo delle parole. «Chi controlla la lingua, deciderà cosa la gente pensa».
Ci ha scritto un romanzo addirittura, 1984. Sapeva che non puoi rendere desiderabile agli occhi della gente la guerra, ma puoi farle credere che la guerra è la premessa della pace. Puoi convincerla che senza la guerra non può esserci pace. Basta un semplice slittamento «semantico». Se la guerra è la via necessaria per la pace, chi può dirsi contrario alla guerra? Questo fa il Grande Fratello: cambia di continuo il senso e il significato delle parole.
Originariamente si credeva che le parole fossero incantesimi. Gli antichi aramaici dicevano Avrah KaDabra: io creo quello che dico. Le parole non sono soltanto parole: sono universi. Creano mondi. Ecco perché i regimi in ogni tempo ed epoca hanno maneggiato, rivoltato e tentato di togliere significato alle cose e di chiamarle con un altro nome. Ed ecco perché le guerre divengono «missioni umanitarie», le armi di distruzione di massa «missili intelligenti», le vittime «danni collaterali».
Orwell però ci ha detto anche un’altra cosa: non puoi zittire il pensiero critico, puoi però persuadere la gente ad odiare chiunque abbia un pensiero critico. Come? Cambiando il modo in cui chiami quelle persone. Criminalizzando chi la pensa in modo diverso. In una società che non conosce più il senso e il significato della parola dialogo e confronto, sapete qual è la più grande forma di Resistenza? Incominciare a chiamare le cose con il loro nome. E ricordatevi sempre: ciò che non si può dire è quasi sempre l’unica cosa degna di essere detta.
- Guendalina Middei.
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«Ora ci prendiamo cura di lei, non più della malattia». La dottoressa consulente di terapia del dolore usa queste parole per dirlo a mia madre. La diagnosi non lascia spazio: tumore al polmone al quarto stadio con metastasi alle ossa e al fegato, in corso una polmonite interstiziale. Mia madre, per vivere, deve essere attaccata a una bombola di ossigeno. Altrimenti non satura. È sotto antibiotico da giorni. E ha già iniziato gli oppioidi per i dolori alle ossa.
Poi, l’«offerta terapeutica», come la chiamano: se non se la sente di andare a casa, può scegliere di restare in hospice. È un suo diritto.
«Vuoi cambiare stanza mamma? La 4 ha la vista più bella…». «No, resto qui». «Saggia sei, non si rubano le stanze ai morti, questione di karma», le dico ridendo. Scherzare su tutto compresa la morte per tenerla fuori dalla porta, abbiamo sempre fatto così. Nella mia testa risuonano ancora le parole di alcuni parenti e amici che, non consultati, le hanno detto: gli hospice sono posti da poveretti, torna a casa.
Svizzera, eutanasia, suicidio assistito, cure palliative, morfina. Sono solo parole finché non ci passi in mezzo, poi diventano questioni gigantesche da affrontare con cervello e cuore. Chi non ne ha di entrambi, è meglio che taccia.
Siamo la stanza 10. L’ultima. Quella in fondo al corridoio, girato l’angolo, vicino alla cucina degli infermieri. Di giorno sentiamo cantare i due pappagalli la cui gabbia si trova nella sala comune, Dante e Beatrice. Ridendo ci diciamo che sono odiosi. Ma quando scopriamo che uno dei due ha l’alopecia ci preoccupiamo molto.
La mattina ci svegliamo con il profumo della caffettiera degli infermieri. Dormo in una poltrona letto scomodissima ma mi sembra la cuccia migliore del mondo perché è di fianco al letto di mia madre. C’è un frigo in cui si può mettere il cibo portato da fuori.
«Una settimana di vita, al massimo due», è stata la sentenza dell’oncologo. «In hospice ha qualche speranza in più perché la curano sicuramente meglio».
In realtà, la camera dove resteremo per i successivi due mesi è tutt’altro che da pezzenti. Non è di lusso, è dignitosa.
Di quella stanza, insieme, iniziamo a imparare a conoscere le ombre che sole e luna lasciano sul muro tinteggiato di rosa. Col passare dei giorni, le infermiere e gli infermieri diventano personaggi mitologici di cui scoprire le storie. Natalia, russo-ucraina, gli occhi duri, simpatica. Liuba ucraina, ma del Sud, occhi azzurri ma dolci. Eleonora, milanese, che a giugno va in pensione e con lei troviamo sempre il modo di ridere. Le Oss e gli Oss (gli operatori socio-sanitari) diventano il nostro mondo. Dopo un po’ ti parli senza aprire bocca. Altre volte parli troppo come con Estrella che un giorno mi dice: stanotte ho sognato tua madre, non so se è un buon segno. O con chi, come Stefania, si sta specializzando e ti ricordi di chiederle come è andato l’esame. O Maria, la cleaner ecuadoriana che entrando in stanza è sempre arrabbiata ma se le dici buongiorno si illumina e non la smette più di raccontare e di cantare.
Donne, quasi tutte donne, perché del dolore, certo, si devono occupare le donne. Così anche le cose che sembrano più inutili, diventano utili. I profumi, come stanno le piante, cosa hai sognato stanotte, le vibrazioni, le premonizioni. È Cicely Saunders, la pioniera delle cure palliative. Primi del Novecento, la famiglia desidera per lei l’università di Oxford, ma lei vuole diventare infermiera. Durante le notti interminabili in corsia negli anni della Prima guerra mondiale, Saunders vede morire tra sofferenze indicibili ragazzi forti e coraggiosi, suoi coetanei. Comincia ad annotare i tentativi e i fallimenti, le intuizioni, le buone pratiche che consentono di lenire la sofferenza. Osserva urine, feci, temperatura, respiro, il “dolore erratico” che si presenta a ondate e gli effetti della morfina che sembra alleviare solo per pochi istanti gli spasimi. Nel 1967 riesce ad aprire il primo moderno hospice, un luogo in cui poter essere curati, assistiti anche dai propri familiari vivendo con dignità, gli ultimi istanti.
SI PROVA A GALLEGGIARE, CI SI AGGRAPPA A QUELLO CHE C'È, A CIO' CHE RESTA DI QUESTE VITE
È come combattere una guerra senza armi. A volte, ti puoi solo sedere e aspettare provando a tenere il plotone di esecuzione fuori dalla porta, con i discorsi più stupidi e quelli più profondi mescolati insieme. I reparti di cure palliative – gli hospice appunto – non sono attrezzati come tutti gli altri. Non si interviene in emergenza, si fanno poche analisi. Si prova a galleggiare, si dosano i farmaci come a fare dei cocktail per stare in bolla. E ci si aggrappa a quello che c’è, quello che resta.
Se la nottata non è tranquilla o se comunque dormire è difficile, cammino in corridoio. Su e giù, guardo dentro le stanze degli altri. Alla 6 c’è un signore moldavo, è/era un autista di tir che faceva su e giù sulle rotte dell’Est Europa. Con sua moglie che di giorno fa le pulizie e non sa più dove sbattere la testa parliamo per due volte dell’Ue e della guerra. Siamo giunte alla conclusione che è un mondo dove poche cose hanno senso. Alla 8, una signora algerina sta con il velo in testa anche a letto e quando il marito viene a trovarla gli fa delle ramanzine spettacolari. Parla in arabo, non capisco bene cosa gli dice ma comunque faccio il tifo per lei. Con suo figlio autistico, una volta, ho giocato mentre aspettava con la sorella che medicassero sua madre. Alla stanza 1, una notte, è morto un muratore di Cremona, un toro di 120 chili che le infermiere smadonnavano quando dovevano girarlo. Aveva un tumore rarissimo del polmone. Lascia un figlio di 6 anni e una moglie piccolina, insegnante di sostegno, con cui ci siamo abbracciate giù in ingresso mentre lo portavano in obitorio.
E infine c’è Paola, manager di una grande azienda. Stanza 7, madre piemontese tostissima ma che la adora, figlia unica anche lei, caregiver che non stacca un attimo. Siamo diventate subito amiche, a fare pausa e mangiare i toast giù al bar. Un regalo. «Non tutto forse succede per caso», mi ha detto un giorno mentre cercavamo di trovarci un senso. Sembra Il Bar sotto il mare di Stefano Benni, che mia madre mi leggeva quando ero piccola. Ognuno con la sua storia, ognuno col suo dolore e la sua gioia. Bolle dentro la bolla, dove c’è una quantità di vita tale che in certi momenti ti fa fare pace con il mondo in guerra.
Ma quando il dolore tracima è un posto tutt’altro che letterario o romantico.
A volte, sono scappata per qualche ora a farmi una doccia, a togliermi di dosso l’adrenalina che il dolore di chi ami e la tua paura ti lasciano sulla pelle e sui capelli.
Ma sono sempre tornata.
Fino alla fine. Fino al 6 febbraio alle 20.50, fino all’ultimo respiro, quello più leggero, in pace.
Da un articolo sul Corriere della sera
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"STATO PENALE DI POLIZIA
Ieri sera la camera dei deputati ha approvato a larghissima maggioranza il Ddl 1660, col quale senza troppi giri di parole, si istituisce in Italia lo stato di polizia.
🔴 Il blocco stradale e quindi gli scioperi diventano reato penale con condanne fino a 2 anni di carcere;
🔴 le proteste in carcere o nei Cpr possono essere punite col carcere fino a 20 anni;
🔴 idem per chi protesta contro le grandi opere;
🔴 Anche la "propaganda" delle lotte è punibile fino a 6 anni, essendo considerata "terrorismo della parola";
🔴carcere fino a 7 anni per chi occupa una casa sfitta o solidarizza con le occupazioni;
🔴 Fino a 15 anni per resistenza attiva
🔴 Fino a 4 anni per resistenza passiva (nuovo reato, ribattezzato "anti-Ghandi")
🔴 Facoltà per forze dell'ordine di detenere una seconda arma personale al di fuori di quella di ordinanza e al di fuori del servizio.
🔴 Carcere immediato anche per le madri incinte o con figli di età inferiore a un anno
🔴 Dulcis in fundo, si vieta agli immigrati senza permesso di soggiorno finanche l'uso del cellulare, vincolando l'acquisto della SIM al possesso del permesso.
Tutto ciò col silenzio complice delle "opposizioni parlamentari", le quali al di là di un voto contrario puramente di bandiera non hanno mosso un dito per contrastare realmente le nuove leggi "fascistissime", peggiorative rispetto allo stesso codice Rocco.
Anzi: su circa 160 parlamentari, al momento del voto a Montecitorio l'"opposizione" ne aveva in aula soltanto 91!!!
Non solo: prima della votazione finale del Ddl, PD e 5 stelle hanno presentato alcuni ordini del giorno (recepiti dal governo) che impegnavano quest' ultimo ad incrementare la spesa per assumere nuovi agenti di polizia e di guardie penitenziarie: l'ennesima riprova di come, al di la di qualche sfumatura, nella sostanza siano tutti uniti nella direzione di un inasprimento dei dispositivi repressivi, funzionale alla guerra e all'economia di guerra, cioè di fatto all'introduzione di una vera e propria legge marziale!
Ora la parola passa al senato, il quale sicuramente approverà in tempi brevi questa ignobile ed infame legge.
Sosteniamo la Rete Liberi di Lottare- fermiamo insieme il Ddl 1660."
Nadia Urbinati

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Visto che l'altro post ha fatto un sacco di note:
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Il sionismo è un progetto colonialista per la sua stessa natura.
Non esiste una forma di sionismo che non preveda la prevaricazione dei palestinesi.
Fin dalle sue origini, il progetto sionista, che si è sviluppato sotto l'influenza dei nazionalismi europei, ha individuato come finalità e criterio necessario la realizzazione di uno Stato in cui gli ebrei non fossero minoranza. Come? Tramite la colonizzazione della Palestina (anche se non è stata l'unica zona geografica presa in considerazione inizialmente!).
Inoltre, l'affermarsi del sionismo è stato supportato da una serie di primi ministri, leader e statisti dell' imperialismo britannico. Il ruolo protagonista dell'imperialismo britannico è stato cruciale fin dal principio della prima guerra mondiale.
Theodor Herzl, il fondatore del sionismo, a cui dobbiamo l'opera/ il pamphlet Der Judenstaat (Lo Stato ebraico) del 1896 (!), prevedeva che le potenze europee avrebbero sostenuto il sionismo per tre motivi: oltre all'interesse imperialistico, la possibilità di liberarsi degli ebrei e quindi assecondare le pressioni antisemite, evitando anche l'afflusso di immigrati ebrei dall'Europa orientale, e infine l'obiettivo di utilizzare l'influenza ebraica organizzata per combattere i movimenti rivoluzionari della zona.
Nel tempo si sono sviluppate varie correnti sioniste, alcune di queste assurdamente catalogate come "sionismo di sinistra" -poi vabbè, in Italia ci sarebbero da fare un bel po' di discorsi su cosa significhi l'espressione "di sinistra". In ogni caso, non esiste un sionismo che non sia basato sull'oppressione del popolo palestinese, o meglio, degli abitanti della Palestina che non appoggino l'entità occupante (perché questo è Israele), indipendentemente dalla loro etnia.
Sulle atrocità che vengono compiute oggigiorno e che possiamo vedere con facilità dai nostri cellulari non è necessario dilungarsi (speriamo). Ma Netanyahu è solo l'ultimo pezzetto di questa storia. Non è sufficiente opporsi agli innumerevoli crimini di guerra perpetrati oggi, se poi non si approfondisce e soprattutto denuncia la storia del progetto sionista dalle sue origini, o si ignora cosa siano la Nakba, i massacri come quello di Tantura, il funzionamento dell'amministrazione israeliana in Cisgiordania, gli accordi con le università italiane che, tra le varie cose, tramite la ricerca in ambito ingegneristico e tecnologico contribuiscono materialmente allo sterminio, la fondazione Med-or che avalla tutto questo e serve da facciata istituzionale, e, appunto, le finalità e gli interessi del sionismo già dalla sua origine fino al presente che ora ci troviamo ad affrontare.
Supportare la causa palestinese è una questione anti-imperialista, e pronunciare queste parole dev'esser fatto nella maniera più radicale possibile.
#visto che il post con l'altra storia di karem ha fatto un sacco di note#quando iniziamo a mettere DAVVERO in discussione il sionismo?#smettiamola di fare i democristiani perché c'è bisogno di andare alla radice#supportare la causa palestinese è una questione anti-imperialista#non soltanto una questione di diritti umani#sanremo#sanremo 2025#sanremo25
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Ci sono parole che diventano familiari col tempo e che, spesso, hanno a che fare con eventi drammatici ai quali purtroppo, in un modo o nell’altro, ci abituiamo. O, peggio ancora, anestetizziamo. Allah Akbar, Allah è grande. Quella che un tempo era una preghiera pronunciata sottovoce è diventata l’urlo dei terroristi islamici. Jihad, la guerra santa piombata con due aerei contro le Torri Gemelle di New York e poi in Europa con le bandiere nere dello Stato islamico. E oggi “taharrush gamea”, lo stupro legalizzato del branco maghrebino. Un’onda continua che separa le donne. E che diventa onta. Offesa. Vergogna.
La storia è nota. La prima volta è in piazza Tahrir, in Egitto, durante le Primavere arabe. In quella rivoluzione, che avrebbe dovuto portare libertà e democrazia, avanza il gruppo estremista dei Fratelli musulmani. Le donne diventano qualcosa da nascondere. Qualcosa che non ha dignità. Se scendono in piazza le si accerchia. Le mani corrono ovunque. Sui fianchi. Sotto i vestiti. E loro non possono fare nulla. Non basta il “no”. Non basta implorare pietà. Quella donna deve essere annichilita. Il “gioco” della gang, soprattutto in quei Paesi dove il gruppo è ancora sentito, piace e si diffonde, come è ovvio, anche nel Vecchio continente. Succede a Colonia, dove gruppi di immigrati nordafricani si fiondano, nella notte di capodanno del 2016, su donne indifese. Il procuratore della Repubblica si affretta a dire che la stampa esagera e che questi stupri sono dovuti “alla misoginia” più che alla presenza di profughi. Per la prima volta, però, si fa il nome e si parla di “taharrush gamea”. I giornali provano ad approfondire nonostante politici e magistrati facciano il possibile per nascondere e minimizzare. Succede ancora. Ad Amburgo, in Gran Bretagna, in Svezia, in Belgio. E anche nel nostro Paese. Nella notte di Capodanno del 2022 e in quella del 2024. Ancora una volta “taharrush gamea”. Ancora una volta i media minimizzano.
Un'interrogazione presentata dal capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia, Galeazzo Bignami, chiede chiarimenti al ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, che risponde: “L’autorità giudiziaria sta accertando il quadro delle responsabilità, facendo piena luce su quanto accaduto anche al fine di verificare, come sembra, se si sia trattato di una pratica organizzata ascrivibile al cosiddetto ‘taharrush gamea’”. Come sembra, dunque. Perché le violenze che abbiamo visto durante l’ultima notte dello scorso anno sono sovrapponibili a questo macabro rito. Non a caso, l’onorevole Sara Kelany ha detto: “Sono sempre le stesse modalità: gruppi di uomini di origine nordafricana che, con lo stesso schema, accerchiano, neutralizzano e violentano le donne.
Da anni Fratelli d’Italia denuncia questo scempio, oggi siamo lieti del fatto che la procura finalmente indaghi, finalmente si solleva quel velo di ipocrisia buonista che per troppo tempo ha fatto sì che queste vicende venissero taciute per non essere tacciati di islamofobia”.
“Taharrush gamea”, quindi. Il termine è nel nostro vocabolario perché è già entrato nelle nostre vite. Ed è bene intervenire. Prima che sia troppo tardi (anche se forse già lo è).
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Sapevate che nell’Illiade c’è una delle scene d’amore più commoventi di tutta la letteratura? E sì in questi giorni ne abbiamo bisogno!
Ecco, Ettore è appena morto. Allora Priamo si traveste da mendicante e avanza nella notte per raggiungere la tenda di Achille. E cosa accade? Si mette in ginocchio davanti all’assassinio di suo figlio! Questo è uno dei momenti più intensi di tutta l’Iliade: Priamo, un uomo che è Re nella sua terra, s’inginocchia e bacia quelle «mani tremende».
Bacia la mano di chi gli ha ucciso il figlio! E questo gesto è più potente di mille parole, in questo gesto c’è tutto: umiltà, coraggio, amore incondizionato. E in quel momento la guerra non è più gloriosa, non è più eroica, c’è soltanto il dolore di questo padre che chiede che gli venga restituito il corpo del figlio. E poi Priamo fa una cosa altrettanto sconvolgente: parla, mettendo a nudo al suo cuore. «Abbi pietà di me»,dice ad Achille «ho sopportato quello che nessun altro mortale ha sopportato: di portare alla bocca la mano dell’uccisore di mio figlio».
E cosa succede? Che Achille, l’invincibile, l’inamovibile, scosta Priamo dalle sue ginocchia e lo abbraccia. E i due piangono assieme. Ecco come finisce l’Iliade, con questa scena. Che cosa vi sta dicendo Omero? Che la vera «forza» non sta nei muscoli, nella ricchezza o nel potere di una persona.
Priamo ha gli uni e gli altri eppure si inginocchia, Achille non teme nessuno, eppure piange. La vera forza non sta in ciò per cui ti batti ma per cosa ti inginocchi. Sta nella parola che unisce i cuori o li allontana, e sta nell’umiltà, perché amare ed essere umili sono la stessa cosa. E soprattutto ci ricorda che in guerra non ci sono vincitori o sconfitti ma solo cuori lacerati. Dovremmo ricordarlo, no?
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Il Generale della Folgore Marco Bertolini su questa situazione di merda in cui ci troviamo, parole sensate: “Rendiamocene conto prima, soprattutto per il bene dei nostri figli e di chi verrà dopo di noi, perché dopo sarà troppo tardi.
La UE di Ventotene, di Spinelli e della Pace, non esiste più, se mai fosse esistita.
È morta con il sostegno guerrafondaio dato all'Ucraina e con la guerra contro la Federazione Russa.
Ora è nelle mani di luridi avventurieri che, per proprio tornaconto e vile danaro, si riuniscono sotto il comando di una nazione, il Regno Unito, che ha ripudiato l'Europa unita fuoriuscendone con un referendum ed ora, mettendosi a capo dei restanti Paesi europei, vuole portarci tutti in guerra per realizzare il suo obiettivo storico, quello di distruggere la Russia per smembrarla in tanti piccoli stati vassalli e depredarne con il suo classico spirito colonialista le sue immense risorse.
Le elites europee, immemori delle catastrofi verso cui sono andati incontro tutti coloro che, dalla Confederazione polacco-lituana nel 1630-1634 all'Impero svedese nel 1700-1721 e da Napoleone nel 1813 a Hitler nel 1941, hanno tentato di conquistare i territori russi, oggi vorrebbero di nuovo attaccare la Russia portando ancora una volta guerra e distruzione in Europa.
Il paradosso è che questa guerra la vogliono tutti coloro che hanno sbandierato fino ad ora i colori della pace e ciarlato di Europa di Pace, di Libertà e di Democrazia proprio nel momento in cui USA e Federazione Russa stanno trovando un accordo di pace.
Falsi, più falsi di una banconota da 1€.
Per questo motivo spero vivamente che questa orribile U.E, oligarchica, guerrafondaia, autoritaria e antipopolare, fallisca presto e che Stati veramente sovrani trovino forme di collaborazione e cooperazione diverse da quelle attuali tendenti alla Pace e al benessere sociale ed economico dei loro cittadini.”
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Fascista, matrigna ma soprattutto bugiarda e voltagabbana.
Parole e musica di GiorgiO Meloni 🔽
"Le parole di Matteo Renzi che esaltano il regime dell’Arabia Saudita sono vergognose e inaccettabili. L’Arabia Saudita è uno Stato fondamentalista islamico che applica alla lettera la sharia nel quale le donne non sono libere e i loro diritti costantemente lesi; si può essere condannati a morte anche per apostasia (rinuncia alla religione islamica), adulterio, omosessualità; è permessa l’ignobile pratica delle spose bambine.
Ma non è tutto, perché l’Arabia Saudita, al pari del suo rivale Qatar, diffonde in modo sistematico e voluto teorie fondamentaliste che sono la principale cause della crescita dell’integralismo islamico in Europa e nel mondo creando l’humus nel quale prospera il terrorismo.
Fratelli d’Italia, praticamente in totale solitudine, da sempre denuncia il pericolo che si cela dietro la rete di influenza e rapporti coltivati, anche se in contrasto tra loro, da Qatar e Arabia Saudita, ma la sinistra ci ha sempre osteggiati.
Ora che emerge il caso gravissimo di Renzi (ex Presidente del Consiglio, segretario del PD e attore fondamentale della maggioranza rosso-gialla) pagato da un fondo islamico, si capiscono meglio le battaglie della sinistra a favore dell’immigrazione musulmana illegale di massa e la guerra a chi parla della difesa delle radici e dell’identità cristiana d’Europa.
Pd e M5S ora non facciano finta di scandalizzarsi per i rapporti tra Renzi e l’Arabia Saudita visto che da sempre sono compiacenti con i generosi stati fondamentalisti islamici. Basti pensare a come hanno felicemente sottoscritto di recente l’accordo di cooperazione culturale tra Italia e Qatar.
Questa sinistra spregiudicata non può avere in mano le sorti della nazione."
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L’unica immagine che ha rispecchiato il mio sentire
è il nero,
il buio di questo inutile dolore.
La guerra ci colpisce come uno schiaffo per la vicinanza fisica, per la contiguità.
Per questo il primo pensiero, urgente e doloroso, va alle Donne .
Tante donne, che ci raggiungono per il loro dolore, per la loro forza, in fuga, resistenti, combattenti che siano.
Le donne a cui si affida la fuga per a cura dei piccoli, figli loro o altrui, degli anziani, della sopravvivenza.
Le donne che vogliono resistere, fare la differenza, anche se questo significa abbracciare un mitra, tirare una molotov, arruolarsi.
Le donne che nascono, come la piccola Mia, partorita nel tunnel della metropolitana, diventato bunker.
Le donne, ragazze, bimbe che muoiono.
Le donne che brillano per la loro assenza ai tavoli dove si negozia, dove si decide.
Non ci sono donne laddove si decide di guerra, di bombardamenti, di confini, di misure d’emergenza, ma che sono sempre presenti dove la guerra si subisce.
Le donne che prendono posizione, netta definitiva, anche rinunciando ad un pezzo della loro storia.
Mi attraversano le parole che cercano di descrivere, di fermare in un’unica forma ciò che vedo, che leggo, che sento. Che tengo, trattengo dentro di me, perché niente di questa immane, dolorosa forza vada perso: le lacrime, la forza, il dolore, il sorriso, lo sgomento, la determinazione, la paura, l’amore, la salvezza, la sconfitta, il sovvertimento di ogni sicurezza, l’annientamento, la perdita di futuro, la fame, a sete, la lotta, la resistenza.
Lo stupro.
Lo stupro, ancora e ancora. Non è in questa guerra. E’ la guerra per le donne. Sempre.
Ancora oggi, nelle guerre (si perché “conflitti”- “operazioni speciali” sono termini troppo edulcoranti, che lasciamo agli infingardi) ci sono uomini che vedono nel corpo delle donne un terreno di conquista, sul quale sfogare la radice della violenza e del modo di essere e sentirsi uomo.
Ed è tremendamente amaro il constatare che il corpo delle donne, di tutte le donne, è ancora considerato semplicemente una cosa di cui appropriarsi.
Non ha a che fare con la fame di energia, i territori da conquistare, i confini da ridisegnare: sono i confini della donna ad essere violati
E lo stupro di guerra ne è la forma più schifosa, come se nello stupro ci fosse una rivincita bestiale, un trofeo, una testa mozzata da appendere alla lancia.
Lo stupro e tutte le forme di violenza sessuale vengono usati come armi di guerra per sopraffare, annientare fisicamente e psicologicamente le donne e le ragazze. Sempre. Centinaia di loro , di NOI, sono sottoposte a trattamenti brutali allo scopo di degradarle e privarle della loro umanità. La gravità e la dimensione di questi reati sessuali sono spaventose, al punto da costituire crimini di guerra.
Ho ancora negli occhi il viso di una giovane che ho incontrato in un campo profughi durante la guerra. Non si può mettere su un foglio tutto l’ orrore che stava dietro quello sguardo pulito, profondamente disfatto e senza lacrime.
Ma nessuna di noi che l’ha incontrata ha il diritto di accantonarlo in un angolo buio dei ricordi difficili.
Il suo pianto silenzioso deve fare rumore attraverso di noi.

-Anna Maria Romano
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PENSA
Ci sono stati uomini che hanno scritto pagine Appunti di una vita dal valore inestimabile Insostituibili, perché hanno denunciato Il più corrotto dei sistemi, troppo spesso ignorato Uomini o angeli, mandati sulla terra Per combattere una guerra di faide e di famiglie Sparse come tante biglie su un isola di sangue Che fra tante meraviglie, fra limoni e fra conchiglie Massacra figli e figlie di una generazione Costretta a non guardare, a parlare a bassa voce A spegnere la luce, a commentare in pace Ogni pallottola nell'aria, ogni cadavere in un fosso
Ci sono stati uomini che, passo dopo passo Hanno lasciato un segno, con coraggio e con impegno Con dedizione, contro un'istituzione organizzata Cosa Nostra, cosa vostra, cos'è vostro? È nostra la libertà di dire Che gli occhi sono fatti per guardare La bocca per parlare, le orecchie ascoltano Non solo musica, non solo musica La testa si gira e aggiusta la mira, ragiona A volte condanna a volte perdona, semplicemente
Pensa, prima di sparare Pensa, prima di dire e di giudicare prova a pensare Pensa che puoi decidere tu Resta un attimo soltanto, un attimo di più Con la testa fra le mani
Ci sono stati uomini che sono morti giovani Ma consapevoli che le loro idee sarebbero rimaste nei secoli Come parole iperbole, intatte e reali come piccoli miracoli Idee di uguaglianza, idee di educazione Contro ogni uomo che eserciti oppressione Contro ogni suo simile, contro chi è più debole Contro chi sotterra la coscienza nel cemento
Pensa, prima di sparare Pensa, prima di dire e di giudicare prova a pensare Pensa che puoi decidere tu Resta un attimo soltanto, un attimo di più Con la testa fra le mani
Ci sono stati uomini che hanno continuato Nonostante intorno fosse tutto bruciato Perché in fondo questa vita non ha significato Se hai paura di una bomba o di un fucile puntato Gli uomini passano e passa una canzone Ma nessuno potrà fermare mai la convinzione Che la giustizia no, non è solo un'illusione
Pensa, prima di sparare Pensa, prima di dire e di giudicare prova a pensare Pensa che puoi decidere tu Resta un attimo soltanto, un attimo di più Con la testa fra le mani Pensa Pensa che puoi decidere tu Resta un attimo soltanto, un attimo di più Con la testa fra le mani
- Fabrizio Moro, Pensa
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C'è uno spettro che si aggira per l’Europa: è l’Europa stessa, con il suo terrore dell’irrilevanza.
Si agita nell'inconscio collettivo europeo una nostalgia malcelata per quella che Jünger chiamava esperienza estatica del conflitto, per la guerra come esperienza trasformativa che, sola, innalza l'individuo al di sopra della sterile quotidianità borghese e lo pone al cospetto delle questioni fondamentali dell'esistenza.
Quando gli Scurati lamentano "la mancanza di guerrieri" e invocano "lo spirito combattivo", raccontano una cultura che ha una paura radicale della propria insignificanza. Quando i Galimberti affermano che "la pace intorpidisce" mentre "la deterrenza" ci salverà, stanno dando voce a un'inquietudine profonda: quella di una civiltà che è terrorizzata all’idea di aver perso la propria passione. Questi e altri intellettuali non stanno semplicemente facendo analisi politiche; stanno rivelando una ferita narcisistica collettiva, che si incarna con maggior facilità in uomini di mezza età dal passato più o meno glorioso e dal futuro senz’altro ridotto.
L'Europa, che si sentì centro del mondo per secoli, oggi non è più l'epicentro della produzione economica mondiale, non è più l'avanguardia tecnologica, non è più l'autoritratto dell'umanità. Non è mai stata fino in fondo nulla di tutto questo, intendiamoci, ma aveva quantomeno delle buoni ragioni per raccontarsi delle storie. Oggi l’Europa guarda a quel che chiama Oriente e vede il futuro che si costruisce senza chiedere permesso. Guarda al mitico Occidente e scopre di non farne più parte, con gli USA che si chiudono in sogni (o incubi, a seconda dei punti di vista) isolazionisti. E così come un vecchio imperatore che sente sfuggire il potere assieme alla lucidità, si aggrappa all'ultimo gesto rimasto: la forza.
Questa è la verità occulta che spinge intellettuali di valore a pronunciare parole che dovrebbero far rabbrividire. Non è la ragione a guidare queste dichiarazioni, ma una passione segreta per l’estrazione dell’ultima goccia di significato dal conflitto, un bisogno di senso che si nutre della contrapposizione con l'altro - bisogno che, pur elaborato culturalmente, affonda le radici nelle strutture fondamentali dell'esperienza umana, nel modo stesso in cui l'identità si costituisce attraverso la differenza. E oggi la guerra promette di strappare la civiltà europea dalla sua condizione di torpore, e di restituirle quel che più le manca: un protagonismo storico, una missione, un'identità. A partire da un nemico comune che, dopo aver fatto l’Europa, faccia finalmente gli Europei.
La paura che agita il nostro inconscio collettivo è l’essere usciti dalla storia, condannati a un eterno presente senza sfide, senza antagonismi e quindi senza grandezza. La guerra è l'ultimo rifugio contro l'insignificanza, quella “festa negativa” che per Caillois sospende le regole ordinarie della civiltà e libera le energie represse. In un'Europa annoiata da se stessa, dove ogni giorno è la replica più stanca del precedente, la seduzione del conflitto sta nella promessa di un'interruzione della fine, o quantomeno di una sua posticipazione.
Ma la sfida per il pensiero europeo non è rianimare fantasmi guerrieri per compensare l'ansia della propria irrilevanza. È, piuttosto, reinventare forme di intensità esistenziale che non passino attraverso la distruzione, che riconoscano le ragioni del terribile amore per la guerra cantato da Hillman e sappiano quindi elaborare un modello di convivenza globale che non necessiti di una minaccia per generare significato. È costruire un'identità fondata sulla creazione anziché sulla paura, e sull’abitare serenamente il margine anziché ansiosamente il centro. È convivere serenamente con la vecchiaia e con la morte. È superare la tentazione di trascinare tutto e tutti nel proprio declino. Se l'Europa non riuscirà in questa impresa di immaginazione politica, resterà prigioniera della nostalgia. Questa via non porterà affatto alla grandezza sognata, ma solo a una nuova, devastante messa in scena di quell'antica violenza fondatrice che è il mito stesso di Europa, stavolta sotto forma di farsa.
Andrea Colamedici, Facebook
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I tempi sono maturi.
Velocissimo che oggi si lavora. Dopo più di un anno e mezzo ho aperto le notizie, volevo vedere chi ha vinto Sanremo visto che quest'anno come l'anno scorso non l'ho visto, ma mi ha catturato questa notizia (anche se la prima volta mi ha fatto leggere tutto l'articolo). In parole povere il vice presidente degl'USA ha dichiarato che l'Europa dovrebbe tornare al nazi-fascismo per via degli immigrati. Grazie ai loro finanziamenti ai partiti di estrema destra il nostro continente è una succursale di quel becero mondo a stelle e strisce, ma il vecchio continente è già passato per quelle paludi ed è finita come tutti sappiamo, baffetto-pelatone-guerra mondiale vi dicono qualcosa? Direi che è arrivato il momento di mandarli a casa sti yankee, che ne dite?
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Un anno dopo la falsa libertà dell’indifferenza | il manifesto

Pubblicato circa 12 ore fa
Edizione del 6 ottobre 2024
# Mario Ricciardi
«La storia conosce molti periodi di tempi bui in cui lo spazio pubblico è stato oscurato e il mondo è diventato così esposto al dubbio che le persone hanno cessato di chiedere alla politica niente altro se non che presti la dovuta attenzione ai loro interessi vitali e alla loro libertà personale. "
Sono parole di Hannah Arendt, scritte nel settembre del 1959, in occasione del conferimento del premio Lessing, ma rimangono attuali ancora oggi.
Le riflessioni di Arendt erano in parte ispirate dalla sua esperienza di ebrea apolide, sfuggita alla persecuzione nazista e alla Shoah, ma non avevano un carattere esclusivamente retrospettivo, e neppure riferito soltanto allo sterminio degli ebrei. L’oscuramento dello spazio pubblico cui allude Arendt è una condizione che deriva dall’impoverimento del tessuto connettivo da cui dipende la politica nel suo senso più nobile, che non la riduce al nudo uso della forza, ma si alimenta invece nel dialogo e nel confronto tra i cittadini di una repubblica.
Nei tempi bui il conflitto sociale, che è un fattore essenziale di una democrazia sana, perde il proprio carattere positivo, di espressione della pluralità delle opinioni e della parzialità delle verità che esse esprimono, e lascia il posto a contrapposizioni identitarie, e alla fuga dalla politica di ampi settori della popolazione, che si rifugiano nel culto esclusivo dei propri interessi e della propria libertà personale, priva di alcun collegamento con l’azione collettiva.
Chi si sente minacciato – i perseguitati, gli oppressi – cerca soltanto la compagnia di chi condivide lo stesso destino, e chi si trova invece in una condizione di relativa sicurezza vive sovente come un esiliato in patria, coltivando una visione individualista della vita e degli scopi che essa si prefigge. In una situazione del genere è inevitabile che si perda la sensibilità nei confronti delle ingiustizie che colpiscono gli altri, quelli che non appartengono alla nostra cerchia, e che si finisca per accettare come un fatto la prevalenza del forte sul debole.
In gioventù Arendt aveva conosciuto questo atteggiamento di acquiescenza nel modo in cui tanti tedeschi, persone in molti casi colte e ben educate, scelsero semplicemente di ignorare «la chiacchiera intollerabilmente stupida dei nazisti». Noi lo vediamo oggi nel modo in cui molti voltano lo sguardo dall’altra parte mentre c’è chi ripropone una visione suprematista e violenta dei “valori” della società occidentale, negando l’umanità delle vittime innocenti dei bombardamenti a Gaza e in Libano.
Un anno di guerra
A un anno dal 7 ottobre questa forma di cecità morale si manifesta nel ricordare la vittime dell’attacco di Hamas solo per tentare di giustificare la reazione, sproporzionata e illegale, del governo Netanyahu, e nel disinteresse nella sorte degli ostaggi israeliani, molti dei quali sono morti o rischiano di morire come “danni collaterali” di una guerra che potrebbe estendersi a tutto il Medio Oriente a servizio di un disegno politico di pura potenza.
Chi potrebbe permettersi di coltivare l’altruismo e l’apertura verso il prossimo rinuncia a farlo, lasciando il campo aperto a una guerra in cui tutti si considerano aggrediti, nessuno è in grado di riconoscere le ragioni altrui, ma una parte può mettere in campo una forza militare di gran lunga superiore, e non si fa alcuno scrupolo di usarla in modo indiscriminato, non per colpire il nemico, ma per punire un intero popolo. All’orizzonte c’è la concreta possibilità che si compia un genocidio, perpetrato dalle vittime di ieri che hanno scelto di farsi carnefici.
Dopo un anno persino chi ha criticato in modo più convinto le scelte del governo Netanyahu corre il rischio di soccombere al senso di impotenza, alla difficoltà che si incontra nel far sentire la propria voce di dissenso superando gli ostacoli e le intimidazioni provenienti da chi è convinto che lasciare mano libera all’uso indiscriminato della forza da parte di Israele soddisfi un “superiore” interesse strategico, e sia utile per puntellare una sempre più fragile egemonia.
Lasciare sole le vittime – i palestinesi, i libanesi, gli israeliani che hanno ancora il coraggio di opporsi alle scelte del proprio governo – è una tentazione ricorrente, per rifugiarsi nello spazio ristretto, ma per alcuni soddisfacente, del proprio interesse e della propria libertà. La lezione che ci trasmette Hannah Arendt e che, così facendo, ci stiamo incamminando sulla stessa strada percorsa nel secolo scorso dai tedeschi che scelsero di ignorare la «volgarità» nazista.
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IL PRIVILEGIO DI ESSERE LIBERI


Come ogni anno, la settimana scorsa sono andato al cimitero di Forlì per ricordare i partigiani della Banda Corbari, uccisi dai fascisti e poi appesi in piazza Saffi. Il vicesindaco ha fatto un discorso su quanto fosse brutta la guerra, ricordando le bombe Alleate su Forlì e senza mai pronunciare le parole Resistenza, fascismo o antifascismo. Ciò non sorprende, fa parte di un partito erede di Alleanza Nazionale, che fu erede del Movimento Sociale Italiano, che fu erede del Partito Nazionale Fascista. Mi sono chiesto cosa avrebbero fatto Corbari, Versari, Casadei e i fratelli Spazzoli, sepolti li fianco, ascoltando i discorsi pacificatori di certa FECCIA (cit). Forse, sentendosi ricordare da un uomo che appartiene a un partito evoluzione di quello a cui appartenevano le persone che li uccisero, avrebbero fatto un po' di "scompiglio" a modo loro, poi sarebbero tornati in montagna, coi fucili fumanti sulle le spalle, seguendo la linea del tramonto e in attesa della prossima alba. E noi? Restiamo immobili mentre i testimoni diretti di quel tempo svaniscono uno dopo l'altro. Chi ha sepolto le armi dando a noi il privilegio di essere liberi, ci ha anche chiesto di ricordarli per fare in modo che tutto non accada mai più. O, in caso contrario, farsi trovare pronti.
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Della serie, i post impopolazzari sono il mio pane: piatto ricco mi ci ficco volentierissimo. Si parla di GENOCIDI.
Il post si basa su un principio fondamentale generale: se vogliamo far propaganda vale tutto, ma se invece vogliamo continuare a capirci, le parole che usiamo sono importanti.
[Inciso/disclaimer: tutte le guerre sono merda e tutte le vittime sono da piangere, buoni e kattivi (chi lo sia lo decide il vincitore, anche se da un po' di tempo il mainstream media fa di tutto per far casino e imputtanare una regola odiosa ma almeno chiara e certa, oltre che antica più di Ramses).]
Stabiliamo la baseline di raffronto: andiamo a dare un'occhiata al campionato mondiale del GENOCIDIO, quello degli ebrei in Europa tra 1936 e 1945. Ecco i freddi numeri ( dati via Holocaust Encyclopedia: Jewish Losses during the Holocaust by Country, su encyclopedia.ushmm.org):
Se ne ricava che in totale il 63% degli ebrei residenti nell'Europa continentale sparì: 6.192.507 mal contati su una popolazione preesistente stimata in 9.780.000. Come? De fame e de fredo, come càpita in tempi cupi un po' a tutti, sostiene il nazicommie d'ordinanza. Si ma non solo (sarcasmo): fu GENOCIDIO non casuale ma spintaneo, organizzato e gestito. Ecco la fredda contabilità:
Questa è Storia. Oggi si usa molto la parola GENOCIDIO riguardo ai palestinesi, in particolare per Gaza. Anche qui, andiamo in par condicio ai freddi numeri senza pietismi:
Popolazione di Gaza nel 2012: 2,142 milioni; vittime di guerra SECONDO HAMAS&SOCI (unwra, mainstream media europide): 50.000 circa. Pari al 2% della popolazione.
Un numero enorme, anche se include i terroristi uccisi mescolati alla popolazione. Teniamolo pure per buono, fingiamo di crederci, così la feccia laida alla Albanese dell'Onu/Unwra complici e correi si acquieta e non inizia a menarla.
Fingiamo ulteriormente che la feccia laida abbia ragione nel sostenere che si tratta di reazione esagerata israeliana a chi, la notte del 7 ottobre, soffriva d'insonnia e non se n'è rimasto a casa sua. Comunque sia, 'sti esagerati giudei avrebbero eliminato, secondo i provocatori del disastro, il 2% della popolazione, fatto esecrabile fin che si vuole ma altra cosa dal 63%, dai sei milioni e fischia dissolti dai nazi. Le dimensioni contano: giratela come volete ma resta fatto evidente incontrovertibile che un GENOCIDIO sia un altro tipo di sport da questa pur esecrabile cosa in atto a Gaza. Spiaze.
Quindi, sciacquarsi abbondantemente la bocca prima di usar termini inappropriati e fuorvianti. Again, un solo morto è sempre troppo ma per capire e capirsi bisogna usare il neurone, le parole=logos=pensiero che si usano sono importanti.
L'effetto peggiore non è tanto che l'uso delle parole ad cazzum avveleni i pozzi come fa, quanto che causa dipendenza assuefatta instupidita parossistica autoconvincente in chi le usa, solo fastidio per i sapiens nel senso etimologico che s'imbattano in codesti tossici.
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Stella si era appena accomodata sul suo sedile in business class quando un uomo lì vicino iniziò a fare una scenata.
“Non voglio sedermi accanto a… quella donna!”
Franklin Delaney quasi urlava verso l’assistente di volo, indicando Stella, un’anziana signora vestita in modo semplice, appena seduta accanto a lui.
“Signore, questo è il posto assegnato a lei e non possiamo cambiarlo,” rispose con calma la hostess, mentre Franklin continuava a guardare con disprezzo l’abbigliamento modesto di Stella.
“Questi posti costano troppo. Non può certo permetterselo!” aggiunse, ad alta voce.
Imbarazzata, Stella restò in silenzio. Aveva indossato il suo vestito migliore, semplice ma dignitoso, l’unico che potesse permettersi. I passeggeri intorno iniziarono a osservare la scena, e alcuni sembravano persino dar ragione a Franklin. La tensione aumentava, e Stella, sentendosi sempre più a disagio, trovò il coraggio di parlare:
“Va bene così,” disse con dolcezza, appoggiando una mano sul braccio della hostess. “Se c’è un posto in economica, posso spostarmi. Ho risparmiato tutto per questo biglietto, ma non voglio creare problemi.”
Stella aveva 85 anni e non aveva mai viaggiato prima. L’aeroporto di Seattle-Tacoma era stato un’esperienza travolgente per lei, ma il personale della compagnia l’aveva aiutata ad orientarsi. Ora era finalmente in volo verso New York.
Nonostante il clima teso, la hostess fu irremovibile:
“No, signora, lei ha pagato per questo posto e ha tutto il diritto di rimanere qui, qualunque cosa dicano gli altri,” le assicurò. Poi si rivolse severamente a Franklin: “Se insiste, chiamo la sicurezza aeroportuale.”
A malincuore, Franklin abbassò lo sguardo e si arrese. Stella rimase al suo posto.
Dopo il decollo, Stella, emozionata e un po’ nervosa, fece cadere accidentalmente la borsetta. Con sua sorpresa, fu proprio Franklin ad aiutarla a raccogliere gli oggetti. Tra questi, notò un medaglione con rubini e fischiò piano:
“È bellissimo,” disse incuriosito. “Sono un gioielliere d’antiquariato. Questi rubini sono autentici… vale una fortuna.”
Stella sorrise con malinconia:
“Non saprei. Era di mia madre. Mio padre glielo regalò prima di partire per la guerra. Lei me lo lasciò dopo che lui non tornò più.”
Franklin si fece più attento. “Mi dispiace per prima. Mi chiamo Franklin Delaney. Ho avuto dei problemi e me la sono presa con lei. Posso chiederle cosa accadde a suo padre?”
Stella sospirò:
“Era un pilota da caccia durante la Seconda Guerra Mondiale. Prima di partire, diede questo medaglione a mia madre come promessa di ritorno, ma non tornò mai. Avevo solo quattro anni quando scomparve. Mia madre non si è mai ripresa del tutto. Mi diede il medaglione quando compii dieci anni. Non lo avrebbe venduto per nulla al mondo, neanche nei momenti più difficili. È senza prezzo per i ricordi che porta con sé.”
Aprì il medaglione, mostrando due piccole foto: una dei suoi genitori e l’altra di un bambino.
“Questi sono i miei genitori,” disse commossa. “E questo è mio figlio.”
“Sta andando a trovarlo?” chiese Franklin.
“No,” rispose Stella a bassa voce. “L’ho dato in adozione quando era neonato. Ero sola e non potevo offrirgli una vita dignitosa. Di recente ho cercato di rintracciarlo con un test del DNA, ma mi ha fatto sapere che non ha bisogno di me nella sua vita. Oggi è il suo compleanno. Voglio solo essergli vicina, anche se da lontano.”
Franklin rimase perplesso:
“Ma se non vuole vederti, perché sei su questo volo?”
Stella sorrise dolcemente:
“Lui è il pilota. Questo è l’unico modo che ho per essergli accanto, almeno oggi.”
Franklin restò senza parole. Alcuni assistenti di volo e passeggeri che avevano ascoltato la conversazione erano visibilmente commossi.
Una hostess entrò nella cabina di pilotaggio e poco dopo la voce del comandante risuonò dagli altoparlanti:
“Oltre a comunicarvi l’orario di arrivo previsto al JFK, vorrei dedicare un saluto speciale a mia madre biologica, che oggi vola per la prima volta con noi. Mamma, ti prego, aspettami quando atterriamo.”
Le lacrime riempirono gli occhi di Stella. Franklin, vergognandosi del suo comportamento iniziale, le sorrise con ammirazione.
All’atterraggio, il pilota uscì dalla cabina rompendo il protocollo e corse ad abbracciare Stella in un’emozionante stretta. Passeggeri e personale applaudirono mentre madre e figlio si riunivano dopo una vita intera.
Sussurrando, il figlio, John, le disse:
“Grazie per aver fatto ciò che era meglio per me, allora.”
Sopraffatta dall’emozione, Stella rispose:
“Non c’è niente da perdonare, figlio mio. Ho sempre capito il tuo silenzio.”
A distanza, Franklin osservava quella scena, grato di aver assistito a un momento tanto toccante, e pieno di rimorso per il suo giudizio affrettato.
Quel volo non era stato solo un viaggio: era stato l’inizio di qualcosa di meraviglioso per Stella e suo figlio.
Credit: Elizabeth Hatline (Con rispetto ♥️
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