#Pëtr Jakovlevič Čaadaev
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gregor-samsung · 6 days ago
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“ Può uno Stato russo sopravvivere senza un credo, una fede, un’identità superiore a quella delle sue numerose componenti etniche e religiose? La Russia si è sempre identificata con un’ideologia. È stata «santa», erede di Bisanzio, «terza Roma», apostolo del Cristianesimo sino al cuore dell'Asia, protettrice dei cristiani di Oriente, unificatrice delle popolazioni slave. E quando la rivoluzione bolscevica ha cercato di eliminare il Cristianesimo dai suoi geni, la Russia è diventata l’apostolo di un altro culto messianico: l’avvento del comunismo nel mondo. Uno dei suoi intellettuali più geniali, Pëtr Jakovlevič Čaadaev, cercò di smentire la prima di queste due autorappresentazioni e sostenne che la Russia, a differenza degli altri Paesi europei, non aveva una storia. Aveva lottato, conquistato nuove terre, vinto e perduto numerose battaglie; ma senza avere coscienza di sé, delle proprie origini e del proprio futuro. Mentre l’Europa occidentale agiva sotto l’influenza di alcuni grandi princìpi e traeva dagli eventi conclusioni morali e intellettuali che avrebbero guidato le fasi successive della sua storia, la Russia si era comportata come una rozza, inconsapevole forza elementare. Il grande mito politico-religioso che gli slavofili attribuivano al popolo russo era soltanto un artificio, una manipolazione retorica, una bugia. La storia della Russia, secondo Čaadaev, era iniziata soltanto nel momento in cui Pietro il Grande le aveva imposto di essere europea. Di studiare e apprendere l’Europa come un bambino sui banchi della scuola, di indossare i suoi abiti, parlare delle sue idee, abbracciare le sue tradizioni e il suo passato. Pietro «ci liberò (…) di tutti quegli antecedenti che ingombrano le società storiche e ostacolano il loro cammino; aprì la nostra intelligenza a tutto ciò che esiste, fra gli uomini, di idee grandi e belle; ci consegnò all'Occidente intero, quale i secoli lo avevano fatto, e ci diede come storia tutta la sua storia, come avvenire tutto il suo avvenire».
Scritta in una rivista di Mosca il 1º dicembre 1829, la prima (e unica) lettera filosofica fece di Čaadaev il bersaglio preferito degli slavofili. Fu criticato, attaccato, insultato e, alla fine, con una punizione che anticipa lo stile del regime comunista contro i suoi nemici, venne considerato ufficialmente pazzo. Rispose alla fine della sua vita con una difesa intitolata per l’appunto, ironicamente, Apologia di un pazzo, da cui è tratto il passaggio che ho citato, ma non poté completarla. All'inizio di un secondo capitolo, cominciato poco prima della morte nell'aprile del 1856 e conservato da un amico, scrisse tuttavia: «C’è un fattore che domina in modo sovrano la nostra marcia attraverso i secoli, percorre la nostra storia intera, ne comprende in qualche modo tutta la sua filosofia, si produce in tutte le epoche della nostra vita sociale e determina il loro carattere; esso è, a volta a volta, l’elemento essenziale della nostra grandezza politica e la vera causa della nostra impotenza intellettuale: il fattore geografico». Quando Čaadaev scrisse queste parole, la Russia dominava l’Ucraina, una parte della Polonia, il Baltico, il mar Nero, il Caucaso, il Caspio, la Steppa kirghisa, il Turkestan. Si era battuta contro la Svezia, la Polonia, l’Impero Ottomano, la Persia, la Cina, la Francia. Era stata appena sconfitta in Crimea dalla Turchia e dai suoi alleati europei, ma negli anni seguenti avrebbe ripreso la sua inarrestabile marcia verso sud e verso est. In un libro intitolato Il Grande Gioco, Peter Hopkirk ha calcolato che l’Impero Russo, nel corso di quattro secoli, si è ampliato «al ritmo di circa 150 chilometri quadrati al giorno, più di 50.000 all'anno». Dall'enormità del suo spazio, quindi, occorre muovere per cercare di comprendere la natura della Russia. “
Sergio Romano, Putin e la ricostruzione della grande Russia, Longanesi, 2016¹. [Libro elettronico]
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