#Marta (o il grande boh)
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[Siamo rimaste nude nello specchio][Emilia Testa]
Il fil rouge delle cinque storie che compongono la silloge Siamo rimaste nude nello specchio è ascrivibile a un cammino, diradato e faticoso, nel mondo femminile, nei sentimenti, nella scoperta dell'amore.
Il fil rouge delle cinque storie che compongono la silloge Siamo rimaste nude nello specchio è ascrivibile a un cammino, diradato e faticoso, nel mondo femminile, nei sentimenti, nella scoperta dell’amore. In ognuna delle cinque protagoniste, il cui nome dà il titolo ai rispettivi racconti, domina la solitudine, a volte evidente, altre volte camuffata in un controcanto cinico fatto di disincanto.…
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#2023#Emilia Testa#Giovane Holden Edizioni#Il caso Valeria M.#Il sogno di Laura#Italian poetry#La rabbia di Ester#LGBTQ#Marta (o il grande boh)#poesia#Poesie#Siamo rimaste nude nello specchio
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martina è probabilmente uno dei nomi italiani più comuni in assoluto ma è il mio nome, l'unica cosa di me che so per certa e che mi pare intrinseca alla mia persona, paradossalmente. dico paradossalmente perché il nome è la nostra qualità più facilmente modificabile: possiamo decidere di tenercelo o di cambiarlo, di farci chiamare con un nomignolo o un soprannome, di utilizzare abbreviazioni o storpiature, aggettivi che non c'entrano niente o parole a caso. eppure io sono martina, e questo è un dato di fatto, il mio, l'unico. sono femmina, sì, alcune volte un po' troppo, altre decisamente meno, altre ancora forzatamente e innaturalmente; sono infermiera, ma non lo sono sempre stata; la mia sessualità cambia in base alla fase del ciclo, all'umore, al tempo, alla musica che ascolto, ai traumi che decido di elaborare in quel dato momento, alle persone che incontro; ho degli hobby, forse; anzi, no, non credo di averne; so cosa penso ma poi penso al suo opposto e non lo so più; chi sono? cosa voglio? cosa mi piace fare? cosa non mi piace fare?, me lo chiedo tutti i giorni; ieri estroversa, oggi introversa, poi rancorosa, poi compassionevole, verso la stessa persona, tutte e due le cose contemporaneamente; se ti odio o se ti amo: ma che ne so; se la mia libido è alle stelle o se una libido non ce l'ho: aspetta, controllo che ore sono; boh, non so niente. l'unica cosa che so è che mi chiamo martina, questo sì. mi va bene essere chiamata marti. odio essere chiamata tina, ché sembra il nome di una zia piuttosto avanti con l'età e con i capelli crespi. digrigno i denti e dico che marta è simile, ma è un nome che odio: da bambina se qualcuno mi chiamava marta io cominciavo ad urlare, piangere e sbattere i piedi. lo farei ancora, ma ora sono grande e quindi mi limito ad occhiatacce e ammonizioni (martina! non marta, martina. per carità, non chiamarmi marta. che schifo. sul serio, non farlo. martina, ricorda, martina!). da quando vivo qui a venezia non ho ancora conosciuto qualcun altro con il mio stesso nome, il che è strano perché martina è appunto un nome terribilmente comune, tipo chiara, federica, ilaria, francesca. io sono martina. spero di essere anche l'unica martina nella vita delle persone che incontro. o comunque quella che è un po' più martina delle altre. non ho nient'altro di mio, a parte il nome
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ero in camera, camminavo avanti e indietro di tentando di mettere un po’ in ordine, e poi così, d’ un tratto mi balena in testa un ricordo che credevo dimenticato. avevo all’ incirca 10 anni, si, andavo per gli 11 credo. era l’ estate tra la fine delle elementari e l’ inizio della prima media. eravamo in gruppo, non ricordo né le facce né i nomi. forse qualcuno del mio quartiere. una certa giulia mi pare e sicuramente doveva esserci alice perché quell’ estate ricordo vagamente fossi entrata in confidenza con lei e sua sorella, ed era molto amica della giulia. poi c’erano i fratelli di giulia e qualcun’ altro ancora. ricordo che andavamo a prendere il latte appena munto dai contadini. imboccavamo una piccola stradina di ghiaia, andando verso santa marta. proprio quel giorno, mentre tornavamo a casa, qualcuno aveva trovato una scatola piena di gattini. i dettagli non li ricordo molto. eravamo tutti in cerchio e ricordo bene ci fosse anche pietro. corro da lui e gli racconto tutto, ma dice di non averne proprio memoria. eccetto per un singolo dettaglio: ricorda la giulia con in mano gli stessi gattini. un frammento, un’immagine priva di significato. eppure forse era la prova che eravamo insieme, quello stesso giorno d’estate. vedete, ogni volta che sono insieme pietro succede sempre la stessa cosa: casualmente mi torna alla mente un dettaglio, qualcosa al quale non avevo prestato attenzione per più di boh, 10 o 15 anni. e poi mi torna in mente tutto. da quanto tempo non gioco alla guerra? da quanto non vado a sdraiarmi sulle balle di fieno? da quanto non succhio più lo zucchero dai fiori di campo? e poi il frammento di uno sguardo, uno solo, per una frazione di secondo. in piedi, mentre giocavamo nel boschetto dietro la scuola. era stato solo un attimo, eppure me n’ero accorta all’istante e ciò era bastato per farlo arrossire. al tempo non ci avevo dato peso, ma adesso guardo il tutto con una consapevolezza diversa. di me e pietro restano solo istanti, pochi piccoli gesti, e quasi nessuna parola. lui era troppo timido per dirmi qualcosa. forse era ancora più in soggezione dal fatto che fossi più grande di lui. tra di noi sono di più le cose non dette. e ciò me lo fa amare ancora di più.
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Cronache dalla fine (quarta puntata). “Quanti possono dire di aver conosciuto l’amore? Per morire c’è sempre tempo. Per la vita no”
Claudia potrebbe essere mia madre. L’anno di nascita è lo stesso. E, in parte, anche il loro percorso di vita: sono state colleghe, nel periodo della scuola infermieristica, per un anno. Poi, Claudia è rimasta incinta e ha lasciato. Adesso, ha cinque figlie. La prima partorita a diciannove anni – ora madre anche lei – e l’ultima nemmeno dieci anni fa.
Tutte insieme vivono a Fiumicino, in una casa molto grande. Le pareti, come in certi sogni, sono pitturate di un rosa in alcuni punti così sfumato da sembrare bianco. Il marito di Claudia è morto nel 2013.
Claudia: Dopo la nascita di Nadia (l’ultima figlia, ndr.) mio marito si è distaccato completamente, non si trovava più insieme a noi. Glielo leggevamo in faccia in ogni cosa che diceva. Era sempre meno presente. Rimaneva a lavorare fino a tardi, nonostante non fosse necessario. Desiderava almeno un figlio maschio – e così, alla quinta femmina, qualcosa dentro di lui si è rotto. Sembrava non avesse più nulla da dirci, da condividere. La mattina usciva senza salutarci e la sera tornava dopo che avevamo cenato.
GG: Voi come avete reagito al suo distacco? Come vi siete comportate nei suoi confronti?
Claudia: Come si comporterebbe qualunque famiglia: standogli vicino. Ma più vicino gli stavamo, più lui si scansava. Non c’era verso di instaurare un dialogo che andasse oltre le necessità elementari. Lo avessi mai visto fare un gesto di tenerezza nei confronti di Nadia. Sì, chiaro, le preparava la pappa quando c’era da farlo. Poteva cambiarle il pannolino o farle il bagno. Ma… hai presente un automa? Uguale. Alla fine è stato inevitabile: lui si è isolato e noi ci siamo unite. Non contro di lui, sia chiaro. Ma, se c’è una perdita, si cerca sempre di compensarla in qualche modo, di riempirla, no? È umano.
GG: Com’è morto, tuo marito?
Claudia: Una stupidaggine. È caduto dalla scala, mentre puliva la grondaia, e si è rotto l’osso del collo. È stata Nadia a correre dentro casa e ad avvisarmi, pensa. Quando tu dici il destino… Posso dire una cosa, senza che mi giudichi?
GG: Certo, vai.
Claudia: Lo so che è brutto da dire. Però è stata quasi…
GG: …una liberazione?
Claudia: Ecco. Non volevo dirlo. Però sì, una liberazione.
GG: Una liberazione per lui, dici?
Claudia: (ride) Sì, immagino soprattutto per lui. Mai visto qualcuno di così infelice come mio marito negli ultimi anni.
GG: Non avete mai pensato di separarvi?
Claudia: Lui sì, molto probabilmente.
GG: Tu?
Claudia: Io no. Ero già ammalata, quando lui ha iniziato ad alienarsi. Non avrei avuto le forze per una separazione.
GG: Come l’ha presa la tua malattia, lui?
Claudia: Se possibile, si è allontanato ancora di più. Comprava i farmaci. Mi accompagnava dal medico, quando non doveva lavorare. Si era anche trasferito dal letto al divano, dicendo che ognuno sarebbe stato più comodo con i propri spazi. Diceva che tanto ci saremmo visti di giorno. Tutto qui. Però, nessuna dimostrazione di amore o di vicinanza. Mi guardava in silenzio e col silenzio quasi mi faceva… come posso dire… mi faceva pesare la malattia come una colpa, un ulteriore fastidio per lui. Un pomeriggio l’ho trovato in bagno che piangeva. Ma piangeva per se stesso, che ti credi, mica per me. Magari, a chiederglielo, nemmeno avrebbe saputo dire agli altri del mio cancro: “Mia moglie? Sì, ha qualcosa dentro. Dove? Boh. Dentro. Che cambia il dove?”.
GG: Va beh, alla fine tutto il corpo è paese.
Claudia scoppia a ridere. E guardarla ridere è bello, perché ridendo si copre sempre la bocca, timida, e a me ricorda una bambina. E quasi la abbraccerei. Solo per ricordare tutta la vita in queste pareti rosa e l’odore del suo pigiama appena lavato. Lavanda, credo.
GG: Porti molto rancore a tuo marito, almeno sembra.
Claudia: No, proprio rancore no. Guarda: lì tengo pure la foto del nostro matrimonio. Se ripenso al suo comportamento degli ultimi anni, mi viene rabbia. Perché ti dici: “Ma possibile che, con tutta questa vita, un uomo debba chiudersi così tanto da rovinare qualcosa di bellissimo?”.
Claudia non vuole continuare a parlare della sua malattia. “Sono piena di metastasi”, mi dice. “Adesso ho l’impressione di avere il cancro ovunque. La notte mi sveglio di soprassalto e sento qualcosa pulsarmi dentro, un secondo, un terzo cuore. Non è così, non sta pulsando niente. Ma la notte…”
Claudia: Non è bello sbandierare ai quattro venti la propria condizione di malati. La malattia ti marchia, inevitabilmente. Lo capisci da come ti trattano gli altri, da come cercano di aiutarti anche quando di un aiuto non c’è bisogno. Inizi a fare pena, sei un diverso. Me ne accorgo con le mie figlie. Loro si sforzano di comportarsi come nulla fosse. Però certe gentilezze non posso non notarle, certe attenzioni. Le mie figlie fanno i turni per accompagnarmi all’ospedale. Marta e Giulia si prendono due giorni a settimana dal lavoro. E pensa che le assenze non gliele pagano. Nemmeno per malattia. Un giorno di lavoro mancato sono trenta euro in meno. Adesso che Marta si è pure separata…
GG: Nessun altro può accompagnarti?
Claudia: E chi? Te l’ho detto. I problemi non si devono raccontare troppo in giro. Agli altri parenti non ho detto nulla. Le uniche persone a sapere della malattia sono i medici, le mie figlie e i ragazzi dell’Associazione che mi aiutano. Infatti ti chiedo di non mettere nemmeno il mio nome nell’intervista. Sostituiscilo con uno di fantasia. Non devo essere io, questa.
GG: Va bene, ma se posso chiedertelo, di cosa ti vergogni?
Claudia: Io? Di niente.
GG: E allora? Che ti importa.
Claudia: Non voglio che si sappia in giro della mia malattia. Sapere che a Claudia resta uno sputo da vivere non serve a nessuno. Nemmeno a me serviva saperlo. I medici non avrebbero dovuto dirmelo. Perché poi, una volta che lo sai, vivi di conseguenza. Per esempio, ti piace un vestito e vorresti comprartelo. Però poi pensi che non riusciresti a godertelo abbastanza, per cui a che ti serve? Dovremmo parlare soltanto del bene. C’è già abbastanza male in giro, già abbastanza tristezza. La mia che cosa aggiunge?
GG: Magari nulla. Ma è una testimonianza importante.
Claudia: Bah. Raccontare la fine di una vita è perdere tempo, per come la vedo io. Piuttosto, sarebbe bello intervistare delle ragazze incinte o dei giovani padri. O intervistare dei bambini, ti immagini che bello? Chiedere a coppie di ragazzi cos’è l’amore per loro, cos’è la vita. Ci manca solo che uno si metta a scrivere della morte. La morte la conosceremo tutti, non serve raccontarla o farla vedere. Quanti possono dire di aver conosciuto l’amore? Per morire c’è sempre tempo. Per la vita no. E lo realizzi quando arrivi a contare persino i respiri che fai.
GG: Se la vedi così perché hai accettato di farti intervistare da me?
Claudia non mi risponde, mugugna qualcosa sottovoce. “Ho male qui,” mi dice indicando un punto sotto lo stomaco. Le consiglio di sdraiarsi a pancia in giù, poi realizzo la flebo.
Le sto per proporre un massaggio, ma lei mi anticipa. Al tatto, è più soda di quanto pensassi.
“Non sono cicciona. Solo gonfia. Stringi, pizzica. Vedi? Non è grasso.”
Claudia: La verità è che noi malati ingombriamo soltanto. Non serviamo a noi stessi e non serviamo a chi ci sta intorno. Sai che dovrebbero fare, i potenti? Costruire dei palazzi fuori città soltanto per noi malati senza recupero. Lontani dai familiari, dagli amici. Come se fossimo già morti. Ognuno di noi avrebbe la sua stanza con ogni comodità, luminosa e confortevole. Però, niente visite di parenti o amici, proibito. Nessuno. Solo qualche medico per gli antidolorifici, quando il dolore diventa proprio insopportabile. Per il resto si sta tra di noi, ci si tiene compagnia secondo le possibilità di ciascuno. I nostri parenti continuerebbero a vivere la loro vita e noi smetteremmo di essere a carico loro.
GG: Una specie di ghetto.
Claudia: Io lo vedo più come un centro di aggregazione.
GG: Se fossi un malato all’ultimo stadio, non accetterei mai di stare rinchiuso in un posto simile.
Claudia: Arriva alla mia condizione e poi ne riparliamo, Gabri.
GG: Perché, tu accetteresti di stare lontana dalle tue figlie? Accetteresti la condizione di non vederle più?
Claudia: Sì. Le mie figlie sono tutto per me e io, senza essere presuntuosa, sono tutto per le mie figlie. Ma in questo stato non ha senso continuare a stare loro vicina. Non posso aiutarle, non posso dar loro conforto in nulla. E una mamma che non aiuta e non conforta le sue figlie che mamma è?
GG: Una mamma che ha bisogno di sostegno. La stessa mamma che le ha aiutate e confortate in periodi più felici.
Claudia: Le mamme non hanno bisogno di alcun sostegno. Ecco perché non tutte le donne possono essere o dirsi mamme. Quando una mamma non può più aiutare i suoi cuccioli, muore. Ha terminato il suo compito. E a me sembra giusto. Solo che non capisco tutta questa attesa.
GG: E per i papà vale la stessa cosa?
Claudia: Identica. Pensa a mio marito.
Gabriele Galloni
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