#Lotte Coltura
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«E' innegabile che la gioventù proletaria ha bisogno di educarsi alle lotte sociali e che lo scopo del nostro movimento è appunto tale preparazione. Ma è il metodo tutto speciale che noi seguiamo quello che gli adulti si ostinano a non comprendere.»
«Pur non trascurando la coltura teorica dei giovani, noi crediamo che la loro coscienza debba svilupparsi nel cimentarli alla lotta di classe che non ha bisogno di preparazioni filosofiche ma scaturisce viva e irresistibile dalle loro condizioni materiali.»
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21 marzo 1950 – Lentella (Chieti)
Lentella fu teatro, nel marzo del 1950, di uno degli episodi più drammatici delle lotte contadine per la terra e il lavoro, che interessarono il comprensorio del Vastese, organizzate e dirette dai giovani partiti di sinistra, dalle rinate Camere del Lavoro e dalla Federterra provinciale. Le lotte iniziarono nella primavera del 1950, dopo la messa a punto, nell’autunno del 1949, del “Piano del Lavoro” da parte della CGIL diretta da Giuseppe Di Vittorio. Erano finalizzate a conseguire precisi obiettivi: lo svincolo forestale,l’appoderamento e la messa a coltura di terreni ex boschivi; l’apertura di cantieri scuola e la realizzazione di opere pubbliche per la ricostruzione dei paesi; l’applicazione dei Decreti Gullo e del Lodo De Gasperi, che modificavano i patti mezzadrili, garantendo ai coloni una più equa ripartizione dei raccolti, e del Decreto sulla massima occupazione dei lavoratori agricoli, che obbligava le aziende ad assumere mano d’opera per lavori di manutenzione ordinaria e straordinaria dei fondi. I contadini scelsero la nuova forma di lotta proposta dalla Federterra – lo sciopero a rovescio – sperimentata con successo nel 1946 in Puglia, nel 1947 in altre province del Sud e del Centro-Nord, nel febbraio del 1950 nel Fucino, contro i Torlonia. Il 12 marzo, contemporaneamente, gli scioperi iniziarono a Vasto e Casalbordino (per la sistemazione delle strade di alcune contrade), a San Salvo e Torino di Sangro (per l’occupazione e l’appoderamento del bosco Motticce e dei terreni incolti ex boschivi in contrada Saletti); il 13 a Cupello (per lavori sulle terre della duchessa Pacelli). Il Comune di Lentella, che contava allora poco più di mille anime, era uno dei più poveri del comprensorio. In un articolo inviato al Giornale del Mezzogiorno qualche mese prima dell’eccidio, intitolato Bestie da soma, il sindaco democristiano, che poi sarà aspramente contestato dai concittadini, aveva descritto il suo paese in questi termini: “Lentella non ha acqua: le fu matrigna la natura. […] Lentella non ha pane. L’agricoltura non è affatto progredita, dato l’alto costo dei concimi”. E aveva aggiunto che non vi erano farmacie, né fognature, né latrine; non erano stati pagati i danni di guerra; le case erano anguste (in media vivevano tre persone a vano); mancavano locali adeguati per le scuole e sei cittadini su dieci non sapevano né leggere né scrivere. I contadini, guidati da Cosmo Moro, Nicola Di Iorio e Pierino Sciascia, dirigenti locali della Camera del Lavoro, della Federterra e del PCI, si organizzarono per rivendicare i loro diritti. Chiedevano ai quattro grandi proprietari dela zona – Carile, Catalano, Cosmo e Giovannelli – l’applicazione del Lodo De Gasperi per una diversa ripartizione delle olive (il 53 per cento del prodotto ai coloni, a fronte della precedente misera quota di un quinto) e del Decreto sulla massima occupazione; al sindaco e al prefetto il sollecito disbrigo delle pratiche per i lavori, progettati da tempo, al cimitero e in una strada campestre che collegava il paese al fondovalle del Trigno, dove i lentellesi avevano terreni in affitto, e per la costruzione dell’acquedotto Lentella – Fresagrandinaria (il Ministero dei Lavori Pubblici aveva già stanziato 50 milioni). Viste le resistenze e le inadempienze delle controparti, nonostante le notizie sugli arresti che arrivavano dagli altri comuni, decisero di iniziare la lotta. Il 15 marzo 1950 una folta squadra andò a lavorare nella strada campestre. Al ritorno in paese i carabinieri fermarono quattro contadini e il segretario della Camera del Lavoro di Vasto, Rinaldo Zanterino, e li portarono a forza in caserma, vincendo la resistenza dei paesani con il lancio di gas lacrimogeni (alcune donne si sdraiarono davanti alla camionetta per impedirne la partenza). Il provvedimento poliziesco eccitò ancor più i contadini alla lotta: ripeterono lo sciopero fino al 20 marzo, con crescente partecipazione di popolo, senza incidenti, ma in un clima sempre più teso; ogni sera andavano in corteo con le proprie famiglie a riporre gli attrezzi nella sede della Camera del Lavoro, ubicata al piano terra del municipio, gridando “Vogliamo pane e lavoro!”, “Abbasso il sindaco della miseria!” e altri slogans, e reclamando invano il pagamento delle prestazioni. Lo sciopero del 21 marzo si concluse tragicamente. Con animo esasperato, i contadini tornarono a manifestare e a reclamare davanti al municipio, il cui ingresso era presidiato dal vicebrigadiere Michele Moscariello e da cinque carabinieri, armati di moschetto. Al culmine della tensione, questi aprirono il fuoco sulla folla, uccidendo sul colpo Nicola Mattia, di anni 41, e Cosmo Mangiocco, di anni 26, e ferendo dieci persone. Il giorno dopo gli abitanti si strinsero attorno alle bare dei due sventurati (ai funerali -foto parteciparono anche i parlamentari abruzzesi Bruno Corbi, Giulio Spallone e Silvio Paolucci) e i lavoratori della CGIL incrociarono le braccia in tutta Italia, in segno di solidarietà. “I carabinieri spararono per legittima difesa contro dimostranti che li minacciavano di morte con gli attrezzi da lavoro”, sostenne Bubbio, sottosegretario al Ministero dell’Interno, nell’agitato dibattito parlamentare che si svolse il 28 marzo, facendo propria la versione del comandante la legione dei carabinieri di Chieti. Il deputato democristiano Ercole Rocchetti gli diede manforte, parlando di una montatura di ordine politico in un paese pacifico che contava solo sei disoccupati. “L’atto degli agenti fu premeditato e ingiustificato, perché i dimostranti si limitarono a minacce verbali”, replicarono gli interroganti parlamentari abruzzesi, che avevano condotto un’indagine a tappeto sull’eccidio e inoltrato denuncia contro i militi dell’Arma al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Vasto (del seguito giudiziario di tale denuncia si sono perse le tracce). L’autorità giudiziaria diede loro ragione in merito al comportamento dei 90 imputati (erano contadini e dirigenti sindacali e politici: l’elenco di questi ultimi comprendeva, oltre ai citati, Tonino Rapposelli, Vincenzo Terpolilli, Giuseppe Zimarino, Dino Colarossi): la Sezione Istruttoria presso la Corte d’appello di Aquila, ne rinviò a giudizio innanzi al pretore di Vasto solo 32, per partecipazione a manifestazione sediziosa e non per resistenza a pubblico ufficiale (di questo reato non erano emerse prove). Più della parziale vittoria giudiziaria contò, per i lentellesi e per tutti i contadini del Vastese, il raggiungimento di buona parte degli obiettivi prefissati. Tali obiettivi rappresentavano conquiste di civiltà, pagate, ancora una volta, con il sangue.
Intervento di Pierino Sciascia 80°anniversario della costituzione delle CdLT nella provincia di Chieti.
Sindaco a Lentella (CH) dal ’78 al ’97, Pierino Sciascia, detto lo ‘zar’ per il suo piglio combattivo, e’ stato uno degli esponenti di punta del Pci prima e del Pds poi, non facendo mai mancare la sua voce e il suo sostegno in tutte le battaglie per il territorio e la moralizzazione della vita pubblica. E’ deceduto il 20 marzo 2009 all’età di 81 anni. Molti di noi erano costretti a fare il politico e il sindacalista, perché non si trovavano persone disponibili. Anche perché il comunista era spesso perseguitato (fa parte della storia d’Italia la persecuzione dei comunisti, Gaspari lo chiamavano il mangiacomunisti). Allora la miseria era terrificante, solo chi non l’ha vissuta non può capire, era veramente qualcosa di spaventoso. Ebbene, la Federterra dell’epoca ha cercato di organizzare delle lotte per creare lavoro, per creare più dignità, anche la scuola, cioè un cambio della società, tutto veniva messo in discussione perché non ci stava niente. A Lentella si cominciò con le lotte per la ripartizione dei prodotti al 53% .I mezzadri, i coloni, i braccianti, i fittavoli che tenevano i terreni, addirittura non avevano diritto a niente, in qualche caso si dava loro “la quinta”. In quell’occasione lo scontro è stato duro, anche in quell’occasione abbiamo avuto degli arrestati, ricordo Mangiocco Cosmo, Mangiocco Romualdo… qualcuno mi sfugge. Furono arrestati per le lotte portate avanti per la ripartizione dei prodotti al 53%. Nello stesso tempo questa lotta fu positiva perché si riuscì ad avere quel che si chiedeva. Si arriva ai primi del ’50, si è un po’ euforici anche per quel risultato, però non è che fosse cambiato qualcosa, non era cambiato proprio niente. Si continuò con l’organizzazione, all’epoca con la Federterra. Non so se Tonino [Rapposelli] se lo ricorda quando siamo andati al Comune, poi non si è prodotto niente. Noi volevamo che si applicassero le migliorie fondiarie, il 4%. Purtroppo quell’incontro non ha prodotto niente e noi dicevamo già nel documento che, in caso di mancato accordo, saremmo ricorsi allo sciopero.Ho con me le carte, chi vuole, è liberissimo di visionarle. Quindi è iniziata la battaglia ed è iniziato lo sciopero, tranquilli. Sciopero alla rovescia, si andava a lavorare, si tornava la sera e si rientrava alla sede – adesso è sede del Consiglio comunale – con tutti gli attrezzi che si depositavano in quel locale . La sera del 21 marzo, la sera dell’eccidio, tutti i lavoratori erano arrivati alla sede come sempre, era un fatto normalissimo, tutte le sere tornavano con i loro attrezzi da lavoro. Quando “Il Messaggero” scrive che c’era già in programma di volere assaltare il Comune, beh! chiedo a voi, non ci sta niente adesso nel comune, figuriamoci all’epoca! Che motivo c’era di assaltare il Comune, dovevamo mangiare la carta? Allora nemmeno ci stava la carta! Si è inventato tutto e solo per metterci in cattiva luce, venivamo considerati delinquenti, gente che non voleva lavorare. Devo ricordare che i fatti di Lentella si sono susseguiti dopo i fatti di Modena, di Montescaglioso e di Torremaggiore. Per i fatti di Lentella, la CGIL dell’epoca proclamò uno sciopero generale di 48 ore in tutta Italia e ci scappò un altro morto, uno a S. Benedetto dei Marsi e due a Celano. Mi ricordo benissimo, la mattina del 21 marzo del ’50, io abitavo sotto la chiesa, dietro il comune, a tre passi della sede del Partito. Per non indebolire quello che era la coscienza della lotta, bastava un niente per far crollare tutto; compito mio quale era? Prima di tutto di aprire la sezione del Partito Comunista, dove stava pure la CGIL. Io quella mattina sono sceso e ci stava un muretto, adesso c’è una panchina, io saltai il muretto e in mezzo alla piazza ci stava una pattuglia di carabinieri. In quel momento è arrivata la corriera delle 7, così la chiamavamo noi, e sono scesi un appuntato e un altro carabiniere, proprio quelli che la sera spararono. Era in atto una premeditazione per uccidere…
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A settant’anni dalle lotte dell’Arneo, una riflessione sulla riforma agraria nel Salento (1950-1960) (seconda parte)
di Salvatore Coppola
A partire dai primi giorni di dicembre 1949, migliaia di contadini provenienti dai paesi confinanti con il vasto latifondo dell’Arneo si portarono con gli attrezzi di lavoro su quelle terre; l’occupazione si protrasse per più di un mese, mentre contemporaneamente venivano occupate altre terre nelle zone di Otranto e Ugento, nell’area del Magliese, a Surbo, Trepuzzi e Squinzano. La posta in palio sembrava molto alta e decisiva. La CGIL nazionale aveva posto con forza l’obiettivo dell’attacco al sistema del latifondo e l’avvio di una politica di concessione delle terre a favore, non solo delle cooperative, ma anche delle singole aziende familiari; le terre, inoltre, non dovevano essere concesse per un periodo limitato di quattro o nove anni, come previsto dalle precedenti leggi Gullo e Segni, ma occorreva prevedere per i braccianti e i contadini poveri il diritto di riscatto dopo 15 o 29 anni. La CGIL sollecitava, inoltre, l’adozione di strumenti idonei a favorire una politica di incentivazione e di agevolazioni creditizie per una razionale messa a coltura delle terre concesse. Nel corso delle riunioni che si tennero presso la Prefettura di Lecce nei primi giorni di dicembre 1949, la Confederterra provinciale, sostenuta dall’ampiezza del movimento di occupazione delle terre, chiese alle autorità e ai rappresentanti della controparte padronale di non limitare la discussione alla sola zona del latifondo d’Arneo (dove gli agrari erano disposti a concedere poco più di 1.000 ettari), ma di prevedere la concessione delle terre anche delle zone ricadenti nella fascia adriatica, nella fascia ionica e nell’area del Magliese, nella prospettiva di una limitazione della proprietà terriera. La CGIL (e con essa i dirigente della Federazione leccese del Partito comunista) non intendevano promuovere e dirigere una lotta solo difensiva, tendente cioè all’applicazione delle leggi in vigore, bensì miravano a sviluppare una strategia che modificasse i secolari rapporti di classe nelle campagne attraverso l’espropriazione e la successiva concessione delle terre ai braccianti e ai contadini poveri allo scopo di assicurare una più razionale e produttiva coltivazione delle stesse e di garantire un reddito che favorisse il radicamento delle famiglie contadine, nell’ottica di un miglioramento dell’economia nazionale. L’occupazione dell’Arneo (a cui parteciparono lavoratori provenienti da Nardò, Veglie, Carmiano, Copertino, Guagnano, Leveranno, Monteroni, Salice e Campi Salentina) si protrasse per più di un mese. In quegli stessi giorni di dicembre 1949 e gennaio 1950, il movimento si diffuse a macchia d’olio e interessò molte altre zone. Solo per ricordare i momenti più significativi di quella lotta, ricorderemo che nei primi giorni di dicembre 1949 oltre duemila braccianti e contadini poveri di Maglie, Scorrano, Cutrofiano, Muro, Collepasso, Sogliano, Nociglia, Poggiardo occuparono le terre in località Fornelli, Monaci, Canne, Francavilla, Lucagiovanni di proprietà Guarini, De Marco e De Donno; i contadini di Surbo, Squinzano e Trepuzzi occuparono le masserie Li Gelsi, La Solicara e altre terre di proprietà del commendatore Bianco, del barone Personè, della principessa Ruffo e del commendatore Francesco Guerrieri; i lavoratori di Galatina, Cutrofiano e Sogliano occuparono le terre di proprietà Bardoscia, Mongiò e Vergine; un migliaio di lavoratori di Ugento, Felline, Alliste, Presicce, Salve, Melissano, Morciano, Casarano, Racale e Taviano occuparono in località Rottacapozza, Bovi, Torre Pizzo e le proprietà del fratelli Serafini; i braccianti di Melendugno, Borgagne, Corigliano, Carpignano e Martano occuparono le terre ricadenti nelle contrade Appidè, Padolicchie, Gianmarino, Frassanito e Pozzelle. A differenza di quanto era avvenuto nel novembre 1947 (quando due lavoratori, Nino Maci e Antonio Tramacere erano stati uccisi nel corso di una manifestazione sindacale a Campi Salentina), non si verificarono incidenti gravi, come quelli che negli stessi mesi dell’autunno 1949 e inverno 1950 provocarono le stragi di Melissa in Calabria, Montescaglioso in Lucania, Torremaggiore in Puglia e Celano in Abruzzo. La repressione fu comunque molto dura, centinaia di lavoratori e molti dirigenti sindacali furono arrestati e rinviati a giudizio[1].
Negli ultimi giorni di dicembre e nei primi di gennaio furono emanati i primi decreti prefettizi di concessione delle terre di proprietà Tamborino e Bozzi Colonna (300 ettari delle masserie Colarizzo, Fattizze, Case Arse e Bonocore ricadenti in agro d’Arneo) a favore di lavoratori di Veglie, Carmiano, Magliano e Copertino; 50 ettari della masseria Monacelli (di proprietà di Francesco Guerrieri) e 60 della masseria La Solicara (di proprietà barone Personè) furono concessi a lavoratori di Surbo e Trepuzzi. Altri 250 ettari furono concessi a lavoratori di Maglie, Muro, Scorrano, Surbo, Vernole e Lizzanello; altre concessioni seguirono nei mesi successivi. Nel complesso le lotte del 1949/50 portarono all’assegnazione di poco più di mille ettari con contratti di enfiteusi che prevedevano il pagamento, da parte dei lavoratori concessionari, di un canone in natura con il diritto di riscatto dopo 15 anni. I risultati raggiunti erano però ritenuti insufficienti rispetto alle reali necessità dei lavoratori agricoli. È per questo (oltre che per chiedere che si ponesse fine alle pratiche discriminatorie attuate nella fase della concessione a danno dei lavoratori che maggiormente si erano impegnati nel movimento di lotta), che la Confederterra provinciale decise di riprendere le agitazioni per chiedere, oltre all’assegnazione delle terre incolte, anche la concessione degli oliveti con contratti di compartecipazione[2].
In una relazione sulle lotte per le terre incolte che si erano sviluppate nel Salento negli ultimi mesi del 1949, il segretario della Federazione provinciale del PCI Giovanni Leucci notava che, nonostante al movimento avessero partecipato più di 15.000 contadini, il partito era stato colto impreparato dal punto di vista organizzativo e i contadini si erano mossi soprattutto sull’esempio di quelli calabresi. Lo spirito di lotta degli occupanti – a parere di Leucci – era stato “meraviglioso” soprattutto sull’Arneo, dove la zona era stata occupata per più di trenta giorni e trenta notti, nonostante i centri da cui provenivano i lavoratori distassero molti chilometri. Gli occupanti avevano dissodato il terreno, raccolto la legna ed effettuato altri lavori; non si erano avuti scontri violenti con la polizia perché i contadini avevano adottato «forme di mobilitazione tali da impressionare la forza pubblica» che aveva, dopo il primo giorno, «rinunziato ad ogni tentativo di disperdere le masse»; un centinaio di lavoratori erano stati fermati, 10 erano stati arrestati, qualcuno era stato preso, picchiato e quindi arrestato. Grazie a quelle lotte i lavoratori avevano ottenuto in concessione alcune centinaia di ettari anche se si trattava di una conquista certamente insufficiente, per cui si rendeva necessario riprendere al più presto la lotta, che però – così concludeva Leucci – sarebbe stata preparata «sulla base dei suggerimenti della Commissione Agraria del Partito». Da più parti e a vari livelli si lamentava un certo ritardo programmatico degli organi dirigenti del partito e del sindacato sulle prospettive politiche ed economiche della lotta per la terra. Antonio Ventura, segretario della Confederterra, uno dei maggiori protagonisti del movimento di lotta di quegli ricorda:
[…] nel sindacato e nel partito si delineò un forte schieramento che – con i sacri testi alla mano – si sforzò di dimostrare la pericolosità e l’avventurismo insito nella occupazione e ripartizione della terra laddove, come nel Salento: a) mancavano le cooperative di conduzione; b) non erano state fatte domande di concessione delle terre incolte, come da legge; c) le zone da occupare erano distanti dalle zone abitate e quindi non desiderate dai contadini. Fu necessario sconfiggere queste posizioni sul piano teorico (in numerose e accanite discussioni) e su quello pratico (alla fine fu convocata una riunione allargata della Confederterra che pose in minoranza i contrari all’occupazione) prima di giungere all’alba del 3 dicembre 1949 […][3].
Antonio Ventura, e insieme con lui altri dirigenti del sindacato e del partito (soprattutto Giuseppe Calasso e Giovanni Giannoccolo) sostenevano la necessità di prestare maggiore attenzione ai problemi dei coltivatori diretti attraverso la costituzione di una loro associazione autonoma che limitasse l’influenza che sulla categoria esercitava l’organizzazione della Coldiretti (fondata da Paolo Bonomi) che, a loro parere, mirava a contrapporre i coltivatori diretti ai braccianti agricoli[4].
Note
[1] S. Coppola, Quegli uomini coperti di stracci, cit.; sulla vicenda di Campi Salentina del novembre 1947, IDEM, Quelle innocenti vittime del riscatto sociale, Giorgiani, Castiglione 2018.
[2] G. Gramegna, Braccianti e Popolo in Puglia, De Donato, Bari 1976.
[3] A. Ventura, Le lotte per la terra nel Salento. Per una riflessione, in Togliatti e il Mezzogiorno, Editori Riuniti, Roma 1977, p. 329. La relazione di Leucci del 13/2/1950 e i successivo dibattito in Archivio Fondazione Gramsci (Fg), Archivio PCI, Micro Film (MF) 0328.
[4] Per le lotte del biennio 1949/50, Archivio di Stato di Lecce (Asle), Prefettura, Gabinetto, b. 345, fascicoli 4208 e 4211.
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Premessa inevitabile
La realtà, letta da qui sul confine (che l’Italia è questo culturalmente e geograficamente), è come il caffè turco. La devi bere lentamente, sorseggiandola, per non rischiare di trovarti la bocca piena dei fondi. La realtà si nasconde dietro mille maschere, proclami, parole di convenienza. Ora quelle maschere sono state calate e la ferocia si è fatta linguaggio di governo e programma per trasformare la nostra società in altro da quello disegnato dalla Costituzione del 1948. In questo Paese che ha perso la memoria con una velocità inimmaginabile, ribaltare il processo di minamento delle strutture istituzionale e delle regole della convivenza democratica di giorno in giorno subiscono attacchi a colpi di slogan sempre più reazionari e violenti, feroci e razzisti, che nulla hanno a che fare con una cultura democratica faticosamente portata avanti in Italia in questi ultimi 70 anni.
Quello a cui vorremmo dare voce è il racconto di una società che comunque va avanti a elaborare progetti e a metterli in atto. Rifiutando la disumanizzazione della cosa pubblica che ci sta trascinando nella negazione dei diritti più elementari a colpi di insulti, criminalizzazioni e intimidazioni. Da parte del mercato, delle mafie e del potere con il chiaro e dichiarato intento di smantellare le tutele sociali e politiche che sono alla base della Cosituzione e delle lotte di liberazione da nazi fascismo. I fatti sono indiscutibili e sono ben più allarmanti di quanto si dica. Nei soli primi cento giorni di governo giallo-verde ci siamo trasformati da nazione fondatrice dell’Europa unita e che ripudia non solo la guerra ma ogni forma di discriminazione basata su sesso, religione, razza e nazionalità, in un luogo dove inviare ispettori dell’Onu per i ripetuti casi violenti (aggressioni anche armate) di razzismo e base della nuova internazionale populista sovranista che sta destabilizzando gli equilibri internazionali. Da mediatori nei conflitti siamo diventati ricattatori che prendono in ostaggio profughi per forzare deroghe e violazioni sia di trattati internazionali sia delle norme che tutelano i diritti dell’uomo. Contemporaneamente ci stiamo trasformando in un Paese che fa carta straccia delle regole sulla trasparenza degli affidamenti e sugli appalti di opere pubbliche come nel caso dell’Ilva di Taranto e della ricostruzione del ponte crollato a Genova. Dove la coltura è un accessorio e l’informazione un fastidio. C’è una logica in questo trasformazione che non è improvvisazione ma sempre più evidentemente progetto. La conquista del potere e la riduzione al silenzio della democrazia parlamentare virando a una forma di governo sempre più arbitrario e autoritario. Quindi lo stravolgimento de facto della Costituzione in una formula perfino più pericolosa di quella immaginata dal gran maestro Licio Gelli. Ed è a questa necessità di raccontare invece un paese diverso, quello che comunque lavora, si rimbocca le maniche, si oppone all’autoritarismo e alle mafie, che vogliamo rispondere. Ripartendo dalla base del processo di diffusione di cultura e di formazione. Dai libri.
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Editoriale del n. 69 di "Alternativa di Classe"
L'articolo 603-bis del Codice penale, rubricato ”Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, è stato introdotto nel 2011, in relazione a gravi episodi di sfruttamento del lavoro agricolo verificatisi nel Sud Italia e modificato dalla Legge n. 199 del 29 Ottobre 2016, rubricato ”Disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento del settore agricolo”.
Lo scopo era quello di contrastare il fenomeno del caporalato nel settore agricolo. Un problema, quello del caporalato in agricoltura, molto sentito prima di tutto in Puglia, dove negli ultimi anni sono morte decine di braccianti agricoli.
Lavoro nero e caporalato sono un business da 4,8 miliardi di Euro, con 1,8 miliardi provenienti dall'evasione fiscale. Delle quarantasei (46) inchieste oggetto di monitoraggio da parte delle autorità giudiziarie, diciannove (19) procedimenti concernono fatti verificatisi nel Centro-Nord, e ben dodici (12) appartengono a comparti produttivi diversi da quello agricolo.
Recentemente è stato scoperto a Pavia un sistema illecito di cooperative. Quaranta (40) cooperative operanti nella logistica facevano capo, attraverso una serie di schermi societari ed a prestanomi, ad un unico gruppo di persone, ognuno con un proprio incarico e ruolo all'interno del sodalizio criminale, il cui obiettivo era il frodare l'erario, ma soprattutto sfruttare lo stato di bisogno dei lavoratori. Che, infatti, pur di lavorare e avere comunque una retribuzione, erano disposti a fare turni di lavoro anche di 12 ore giornaliere, senza pianificare riposi settimanali e ferie retribuite.
Molto spesso nei settori diversi da quello agricolo, l'abuso perpetrato in danno del lavoratore si cela dietro un velo di legalità. E l'articolo 603-bis del Codice penale protegge di fatto i datori di lavoro dalle imputazioni più gravi. Colpiti dalla crisi capitalistica e dalle politiche borghesi, privi di rappresentanza di classe, con un sindacato inadeguato, i lavoratori sono tragicamente soli.
Per quanto riguarda la vertenza ILVA, di stretta attualità, deve continuare la lotta contro il piano Arcelor-Mittal di divisione dei lavoratori, taglio di salari e di diritti. Il governo Cinque stelle-Lega non è amico dei lavoratori, come non lo erano i governi di centro-sinistra; niente di nuovo e di buono nell'accordo raggiunto Mercoledì 5 durante l'incontro, promosso dal Vice premier L. Di Maio, tra sindacati confederali, Usb e azienda al tavolo del Ministero dello Sviluppo economico.
Con l'Ilva il governo Lega-Cinque stelle è divenuto di fatto l'esecutore della volontà dei governi precedenti. Il Governo ha portato avanti una politica orientata a vendere l'Ilva al colosso Arcelor-Mittal “nelle migliori condizioni”. In nessun modo si è parlato di fermo degli impianti pericolosi, già messi sotto sequestro dalla magistratura.
La guerra mondiale dell'acciaio è quanto mai acuta, e Arcelor-Mittal ha grande bisogno degli stabilimenti di Taranto e Cornigliano (GE). Bisogna lottare per fermare la spirale di infortuni e di morti, per bonificare radicalmente il sito pugliese, nonché per salvaguardare dappertutto i diritti acquisiti, che sono costati anni di dure lotte. Bisogna ricostruire l'unità tra operai e ceti popolari dei quartieri inquinati, a tutela della salute. Serve autonomia di classe per portare la lotta sino in fondo.
Il compito, per noi comunisti, oggi è quello di organizzare la classe dentro la crisi odierna del capitalismo. L'Assemblea antirazzista e internazionalista di Domenica 23 Settembre a Bologna, promossa dal sindacalismo conflittuale, ha individuato il razzismo al centro dello scontro di classe, chiarendo che non è un problema nato dalla "malvagità" di SALVINI e DEL SUO GOVERNO, che peraltro potrebbe anche cadere per volontà di altre fazioni borghesi. Importante è avere acquisito la consapevolezza della crisi del sindacalismo di base, incapace, come tale, di interpretare la realtà che stiamo vivendo. Si è parlato della necessità di lavorare con più determinazione per l'unità della classe in tutti i luoghi di lavoro e nei territori. Il prossimo Ottobre ci saranno due importanti iniziative di lotta. Il 26 OTTOBRE lo SCIOPERO GENERALE nelle principali città. Il 27 Ottobre una manifestazione nazionale a Roma.
I padroni cercano incessantemente la divisione tra lavoratori autoctoni e immigrati. E' un momento decisivo, nel quale occorre schierarsi al di là delle sigle sindacali e delle bandiere, per l'unità dei proletari, su scala nazionale e internazionale, contro il razzismo e il nazionalismo. Oggi viviamo una dura realtà, fatta di fabbriche in crisi o addirittura chiuse, dove stanno finendo anche gli ammortizzatori sociali per lavoratori che si ritrovano troppo giovani per potere accedere alla pensione (che la Riforma Fornero ha trasformato in chimera), ma al tempo stesso troppo anziani per trovare un altro lavoro.
Ci sono aziende, come ad esempio la Fca (Fiat Chrysler Automobiles), che fanno gola ai nuovi competitors (cinesi) in un mercato capitalistico globale, caratterizzato da scontri feroci senza esclusione di colpi.
Sono giorni di grande agitazione in casa Fca. Da una parte vi sono i lavoratori sempre più preoccupati, dall'altra la società con i suoi azionisti, orfani di Marchionne, ma con le tasche gonfie di profitti. L'Exor, la ”cassaforte” della famiglia Agnelli, ha infatti chiuso il 2017 con un utile netto di 1,39 miliardi di Euro (+136% rispetto al 2016).
La lista delle promesse non mantenute è lunga: quella di arrivare a produrre sino a 7 milioni di vetture, mentre oggi siamo sui 4,7 milioni, di grandi investimenti nel nostro Paese, che non si sono poi visti, di una produzione in Italia di 1.400.000 vetture all'anno, mentre siamo a 750.000, ed infine, ma non certo meno importante, del reintegro di tutti i cassaintegrati, cosa che non si è affatto verificata!...
Intanto oggi in Italia l'azienda occupa 29mila persone,mentre solo nel 2010 se ne contavano ancora 190mila, ed è ormai chiara la volontà dei vertici Fca di smantellare Pomigliano con la Cassa integrazione per 4600 operai. I lavoratori si possono aspettare un futuro ancor più lacrime e sangue dell'ultimo decennio, tra esuberi e licenziamenti. E' sempre più urgente riprendere gli scioperi contro l'intensificazione dello sfruttamento, contro i licenziamenti di massa e politici.
Nei cantieri navali di Monfalcone si parla più slavo che americano, eppure tutti capiscono il significato di “dumping sociale”, brodo di coltura della guerra tra poveri, con operai pagati in nero, o a tre euro l'ora, senza diritti; e proprio questi ultimi diventano il bersaglio preferito della propaganda leghista. Operai ingaggiati da veri e propri caporali, come denuncia il libro-reportage di Loris Campetti, dal titolo “MA COME FANNO GLI OPERAI”, a pagina 53. Caporali che gestiscono l'intermediazione di mano d'opera, e che fanno pagare una tangente intorno ai 500 Euro a ciascun immigrato, per “autorizzarne” l'entrata in cantiere.
Non è una pratica esclusivamente monfalconese: gli operai della Fincantieri di Ancona raccontano la stessa storia. I caporali si fanno pagare in oro dai nuovi arruolati, come a Monfalcone provenienti soprattutto dal Bangladesh, per ridurre i rischi legati al passaggio diretto di denaro. La Fiom della città marchigiana nei mesi passati ha presentato esposti alla locale procura sull'attività dei caporali.
Nel 2017 Fincantieri ha registrato un utile in aumento del 13%, dopo aver chiuso un anno con record di produzione. Agli inizi del 2018 l'Amministratore delegato Bono esultava con queste parole: "la crisi è alle spalle, attraversiamo un momento epocale". Ma, per i lavoratori, maggior produzione significa maggior sfruttamento, aumento dei ritmi, tagli alla pausa mensa. La ricattabilità e la precarietà, che costantemente si vivono nel settore degli appalti e sub appalti, sono gli strumenti necessari agli azionisti per continuare ad arricchirsi.
La crisi capitalistica ha contribuito a modificare gli atteggiamenti dei lavoratori,e proprio là dove ha picchiato più duro, rischia di scatenarsi la guerra tra poveri, tra operai fissi e precari, tra diretti e interinali, tra “tempi pieni” e part-time, tra indigeni e immigrati, tra anziani professionali e giovani studenti, trasformati in operai nel weekend. Una guerra che conduce al peggiore degli abbagli: invece di incolpare la borghesia dominante e le sue ricette, si creano ulteriori ingiustizie, individuando il nemico in chi sta ancora più in basso,ed è più debole.
Il rapporto con gli immigrati diventa sempre più difficile, e il populismo parafascista prende campo ormai ovunque.Forze sedicenti progressiste inseguono il populismo sugli stessi terreni, al limite del razzismo, pensando così di raccogliere consensi. Pensiamo alle scelte becere e reazionarie del Ministro degli Interni del passato governo, Marco Minniti del PD, che hanno fatto dire al comico Maurizio Crozza nei suoi panni: ”NON SI PUO' LASCIARE IL FASCISMO AI FASCISTI!”.
I giovani operai hanno incontrato il Pd del Governo Renzi, del Jobs act e dell'eliminazione dell'art 18. Nel 2014, dopo i primi provvedimenti del Governo Renzi, Marchionne disse: "di sicuro è stato veramente qualcosa di nuovo, di dirompente, di cui il paese ha bisogno. Ha il mio totale appoggio".
Gli operai più anziani ricordano il dirigente del PD, Piero Fassino, per cinque anni sindaco di Torino, ma prima ancora, in passato, Responsabile della Commissione lavoro del PCI. Piero Fassino, in quel periodo, diceva apertamente che, se fosse stato un operaio, avrebbe votato SI al referendum-ricatto di Marchionne, in cui un ipotetico lavoro futuro veniva scambiato con la certa cancellazione di diritti conquistati in decenni di lotte operaie.
Negli ultimi anni, Marchionne, con l'assenso dei “progressisti” e delle burocrazie sindacali, ha trasformato i lavoratori in servi. Lavoratori, che ora guadagnano di meno rispetto ai loro colleghi francesi e tedeschi, ed HANNO MENO DIRITTI.
Molti militanti della cosiddetta sinistra radicale dicono che la frammentazione è il dato generale della fase attuale. Dobbiamo chiarire: ad essere frammentata è la nostra classe, attuale e potenziale. La frammentazione è infatti la forma attraverso cui il capitale compone tecnicamente il proletariato a suo vantaggio, combina la nostra classe per la propria valorizzazione, ed è impegnato in modi diversi a neutralizzarla come soggetto politico antagonista.
Oggi il precariato si dibatte in una duplice dimensione: da un lato, all'occupazione saltuaria corrisponde non meno, ma più lavoro, perché bisogna moltiplicare gli impieghi, formali, e soprattutto informali, attraverso cui procacciarsi i soldi per campare. Più lavoro e meno soldi, è la parola d'ordine del capitale. Dall'altro, le nuove generazioni subiscono e traducono il rifiuto come alienazione, non come conflitto dentro e contro i rapporti di sfruttamento capitalistico.
Nostro compito è fare ricerca sulle varie forme di rifiuto, potenziale o reale, del lavoro: rifiuto del lavoro gratuito, rifiuto del lavoro per pochi soldi, rifiuto del lavoro banalizzante. Fare del rifiuto un'arma politica contro il padrone, per l'affermazione di una indisponibilità alle sue esigenze, per la conquista di un terreno di attacco e non solo più resistenziale.
Una pseudo-sinistra, che pretende di difendere i lavoratori con la ricerca di compatibilità con la conservazione della società capitalistica, sperando di correggerla dai suoi “errori” e dai suoi “eccessi”, ci sta sottomettendo, passivi e disarmati, alle esigenze del capitale.
Contro le illusioni paralizzanti di un miglioramento del sistema capitalistico, bisogna muoversi in piena indipendenza e autonomia di classe, per costruire una base di intervento sul piano sociale e politico, nella presa di coscienza del fossato che il capitale sta costruendo a difesa della sua conservazione, attaccando i proletari, indigeni e immigrati, dentro e fuori le aziende. Il proletariato può difendersi soltanto con la lotta.
Il corso della lotta di classe in Italia, pur con i suoi tratti specifici, è inseparabile dal corso del capitalismo e della lotta di classe su scala mondiale. Ciò rende l'internazionalismo più che mai indispensabile e vitale nell'azione del movimento dei lavoratori.
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