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#Lei che divenne il sole
stephpanda · 1 year
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"Lei che divenne il sole"
- Shelley Parker-Chan
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susieporta · 8 months
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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A lock of the hair of Lucrezia Borgia in the Ambrosian Library in Milan, Italy
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«Pinacoteca Ambrosiana, Milano.
In una piccola teca è conservato un tesoro.
Un garbuglio di sottili fili gialli che formano un intreccio ad anello verso l’estremità. Niente di che all'apparenza, forse solo una reliquia; e invece se vai a fondo scopri che dietro c'è un mondo. Una storia d'amore bellissima quanto proibita, tra un dotto umanista e una ragazza tormentata. Per viverla bisogna spostarci un po' più ad est, e tornare indietro nel tempo, tanti e tanti anni fa.
Ferrara 1502. Quel giorno, alla corte ducale, erano attesi giovani poeti e letterati.
Per il ragazzo era un'occasione d'oro. Poteva finalmente mettersi in mostra e farsi notare dalla duchessa. Se tutto fosse andato come sperava, avrebbe avuto anche l'occasione di entrare nella sua cerchia ristretta di letterati. Lei amava gli artisti, e ovviamente far parte del suo "circolo" era garanzia di fama e ricchezza. Così giunse il suo momento. Il ragazzo entrò in sala e la vide. Conosceva la duchessa solo per sentito dire, e che fosse molto bella lo sapeva già, gliel'avevano ripetuto un milione di volte. Quello che lo sbalordì e lo lasciò senza parole fu che fosse così bella. Il poeta ci mise un po' di tempo a presentarsi, letteralmente folgorato dal bagliore della giovane duchessa. I suoi capelli biondi splendevano, illuminati dai raggi del sole che filtravano dalle grandi vetrate del palazzo. Già quei capelli, come si può dimenticarli? Non ci riuscì, e continuò a pensare a lei anche le ore successive all'incontro. Anche i giorni dopo. Anche le settimane dopo.
La duchessa era il suo pensiero fisso. Si invaghì così tanto da giungere a cambiare la struttura della sua prima opera che stava per uscire in quel periodo. La modificò sulla base di quel suo nuovo invaghimento. Un uomo che apriva il suo cuore verso l'amore più sincero e appassionato. E quando l'opera, chiamata "Gli Asolani", uscì, il poeta ne regalò subito una copia alla duchessa, che rimase positivamente colpita. Cominciarono a frequentarsi sempre più spesso, i due innamorati clandestini, e intrapresero una relazione platonica ma appassionata.
Poi però arrivò la peste e il poeta fu costretto a scappare dalla città. Lei rimase. Non poteva la duchessa abbandonare il suo popolo decimato. E tanto platonicamente quanto si erano frequentati di persona, così iniziarono un rapporto epistolare a distanza fatto di bellissime lettere d'amore. Lui però aveva ancora quel pensiero fisso: i capelli di lei, e glielo scrisse. Alla fine lei non mancò di compiere un gesto fortemente simbolico: si tagliò una ciocca dei suoi amati capelli e la inviò insieme a una lettera. Quando lui la ricevette, la tenne stretta a se, e la volle conservare per sempre all'interno di uno scrigno, che ormai era il più prezioso di tutti i tesori che possedeva. Quello che conteneva le lettere d'amore della duchessa.
I due non si rividero mai più ma continuarono a scriversi ancora per sedici anni. Poi lei morì giovanissima e lui divenne Cardinale. Uomo di chiesa e personaggio di spicco dell'Umanesimo italiano, famoso ancora oggi con il nome di Pietro Bembo.
Come quella ciocca di capelli sia giunta a Milano, non lo sa nessuno. Ma forse un motivo c'è.
Se la guardi all’interno della piccola teca, noti che è ancora perfettamente conservata, liscia e fresca come se fosse stata appena recisa.
Ecco, pare che in alcune notti, se osservi bene attraverso le finestre della Pinacoteca Ambrosiana, scorgi un bagliore. Una luce intensa che proviene dalla stanza dove è conservata la bionda treccia. Dicono che sia proprio la duchessa, che arriva e legge le lettere del suo amato Pietro Bembo, non prima di aver pettinato la propria ciocca di capelli.
Poi se ne va, svanisce in un educato silenzio, ma felice perché si è sentita amata. Lei, la discussa e tormentata duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia»
Roberto Colombo
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andrea-non-sa-tornare · 10 months
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ORIONE
Orione, secondo la mitologia greca, era un gigante cacciatore, nato da Poseidone ed Euriale figlia del re di Creta, Minosse. Quando fu sull’isola di Chio si innamorò perdutamente di Merope e volle corteggiarla, ma la cosa infastidì il padre di lei, re Enopio, che lo fece accecare ed allontanare dall’isola. Orione trovò rifugio nell’isola di Lemno e qui incontrò Efesto che ebbe pietà di lui e, affidandolo alla guida di Cedalione, lo fece accompagnare verso est, luogo in cui sorgeva il sole e dove incontrò Eos, l’Aurora, grazie alla quale riacquistò la vista. Secondo un’altra versione fu lo stesso Efesto che fabbricò degli occhi nuovi per il gigante. Lui ne fu talmente felice che ricominciò a cacciare senza mai fermarsi, fin quando arrivò alla dimora di Eos, della quale si innamorò e sposò.
Si narra che Orione avesse degli stupendi occhi chiari che gli permettevano di andar a caccia persino di notte, in compagnia del suo fedele cane Sirio e spesso si univa a loro la Dea Artemide che s’invaghì di lui e nonostante il suo voto di castità, non esitò a fargli esplicite offerte che lui declinò, perché non voleva tradire la moglie Eos, alla quale era grato di avergli restituito la vista.
All’inizio Artemide ammirò la fedeltà di Orione ma in seguito, quando seppe che si era invaghito delle sette Pleiadi, figlie di Atlante e Pleione, e che le molestava pure, andò su tutte le furie e allora escogitò un piano per punirlo. Gli inviò uno scorpione nella sua tenda e quando questi vi ritornò col suo fedele animale, il mostro nascosto nell’ombra, attese che i due, stanchissimi dalla pesante battuta di caccia, si addormentassero e punse per primo Sirio che, svegliatosi, tentò di difendere il proprio padrone e infine punse Orione e lo uccise.
Un’altra versione della storia dice che è invece Apollo, geloso delle attenzioni che la sorella dedica al bel cacciatore, a mandare lo scorpione che uccide Orione e che Zeus, adirato, scaglia una delle sue saette che fulmina lo scorpione, poi li pone entrambi in cielo come costellazioni. Orione risplende nell’emisfero Boreale mentre affronta la carica del toro, seguito dalla costellazione del cane maggiore, con la stella Sirio che brilla più delle altre e la costellazione dello Scorpione, invece, sorge quando quella di Orione tramonta, in maniera che i due non debbano più incrociare i propri destini.
La mitologia romana ci racconta, invece, un’altra versione sulle vicende di Orione. Secondo i racconti di Ovidio, Igino, Servio, Tzetzes e Lattanzio, Orione sarebbe nato dall’urina di tre Dei: Giove, Mercurio e Nettuno e che, per tale motivo, gli venne attribuito il nome di Tripater.
Narrano gli autori che un giorno i tre Dei si aggiravano nelle campagne della Beozia. Assetati ed affamati si fermarono nell’umile capanna del contadino Ireo, il quale offrì loro la sua gentile ospitalità, senza sapere chi fossero quei tre sconosciuti. Gli Dei decisero di mantenere l’anonimato, per vedere come si sarebbe comportato, con loro, quel contadino. Il pover uomo non esitò a donar loro tutto ciò che aveva e colpiti da tale gesto, essi decisero di rivelar le loro vere identità.
D’innanzi a simile rivelazione, Ireo sbiancò ma una volta ripresosi, uscì fuori dalla capanna e immolò a quei Dei, uno dei suoi tori più belli. Giove, ammirato da quel comportamento, disse a Ireo di chiedere qualsiasi desiderio che lui lo avrebbe esaudito, così l’uomo chiese che gli venisse concesso di aver un figlio, ma senza doversi risposare, perché aveva promesso alla moglie, morta da poco, che non si sarebbe mai più risposato. Giove gli disse di portare la pelle del toro immolato e vi orinò sopra e stessa cosa fecero anche Nettuno e Mercurio, poi suggerì di seppellirla nell’orto e attendere nove mesi prima di riprenderla. Ireo ubbidì e dopo nove mesi dissotterrò la pelle e vi trovò avvolto un bambino che allevò e che chiamò Urion, ( appunto da Urina), che in seguito cambiò in Orion.
Si narra che, in brevissimo tempo, Orione divenne un gigante di straordinaria bellezza. La stessa Dea Diana andava spesso a caccia assieme a lui, poi se ne innamorò perdutamente e sembra questa sia stata la causa di tutti i guai dell’uomo.
Infatti sulla morte di Orione ci giungono diverse versioni, quasi tutte legate alla Dea Diana. Ovidio ci racconta che sia stata la stessa Diana, folle di gelosia, ad uccidere Orione, a colpi di freccia, sull’isola di Ortigia, invece Igino ci narra che Orione perì per mano della dea Diana, dopo aver tentato di violentarla.
Secondo un’altra leggenda, Diana attendeva Orione, per una battuta di caccia, una mattina presto. Le si fece incontro il fratello Apollo che, geloso di quell’amore che distraeva la sorella dai suoi impegni, escogitò un sistema per sbarazzarsi del problema. Sfidò la sorella a colpire con arco e frecce, una figura in movimento, in lontananza, lei lo fece e felice ed esultante per aver centrato il bersaglio, attese che la sua preda raggiungesse la riva, ma quando ciò avvenne e si rese conto di aver colpito Orione alle tempie e di averlo ucciso, la sua gioia si tramutò in dolore e pianse tutte le sue lacrime. Giove, impietosito, tramutò Orione e il cane Sirio in costellazioni, in maniera che Diana, sollevando lo sguardo sulla volta celeste, potesse osservarlo per l’eternità.
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ambrenoir · 10 months
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Amare… Il mal d’amore prima o poi tocca a tutti. È terribile ma se sopravvivi è fatta. Niente più ti può più toccare.
“S’INNAMORÒ come s’innamorano sempre le donne intelligenti: COME UN’ IDIOTA”.
Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La sia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sud America e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Adesso sì ce ne andiamo in Italia: gli assenti si sbagliano sempre».
da Donne dagli occhi grandi di Angeles Mastretta - Traduzione di Gina Maneri
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odioilvento · 2 years
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Questa storia mi piace sempre. Una bella storia d'amore, di proibito ma certo, di distanza riempita di lettere. L'amore della vita, oltre ogni condizione.
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Pinacoteca Ambrosiana, Milano.
In una piccola teca è conservato un tesoro.
Un garbuglio di sottili fili gialli che formano un intreccio ad anello verso l’estremità. Niente di che all’apparenza, forse solo una reliquia; e invece se vai a fondo scopri che dietro c’è un mondo. Una storia d’amore bellissima quanto proibita, tra un dotto umanista e una ragazza tormentata. Per viverla bisogna spostarci un po’ più ad est, e tornare indietro nel tempo, tanti e tanti anni fa.
Ferrara 1502. Quel giorno, alla corte ducale, erano attesi giovani poeti e letterati.
Per il ragazzo era un’occasione d’oro. Poteva finalmente mettersi in mostra e farsi notare dalla duchessa. Se tutto fosse andato come sperava, avrebbe avuto anche l’occasione di entrare nella sua cerchia ristretta di letterati. Lei amava gli artisti, e ovviamente far parte del suo “circolo” era garanzia di fama e ricchezza. Così giunse il suo momento. Il ragazzo entrò in sala e la vide. Conosceva la duchessa solo per sentito dire, e che fosse molto bella lo sapeva già, gliel’avevano ripetuto un milione di volte. Quello che lo sbalordì e lo lasciò senza parole fu che fosse così bella. Il poeta ci mise un po’ di tempo a presentarsi, letteralmente folgorato dal bagliore della giovane duchessa. I suoi capelli biondi splendevano, illuminati dai raggi del sole che filtravano dalle grandi vetrate del palazzo. Già quei capelli, come si può dimenticarli? Non ci riuscì, e continuò a pensare a lei anche le ore successive all’incontro. Anche i giorni dopo. Anche le settimane dopo.
La duchessa era il suo pensiero fisso. Si invaghì così tanto da giungere a cambiare la struttura della sua prima opera che stava per uscire in quel periodo. La modificò sulla base di quel suo nuovo invaghimento. Un uomo che apriva il suo cuore verso l’amore più sincero e appassionato. E quando l’opera, chiamata “gli Asolani”, uscì, il poeta ne regalò subito una copia alla duchessa, che rimase positivamente colpita. Cominciarono a frequentarsi sempre più spesso, i due innamorati clandestini, e intrapresero una relazione platonica ma appassionata.
Poi però arrivò la peste e il poeta fu costretto a scappare dalla città. Lei rimase. Non poteva la duchessa abbandonare il suo popolo decimato. E tanto platonicamente quanto si erano frequentati di persona, così iniziarono un rapporto epistolare a distanza fatto di bellissime lettere d’amore. Lui però aveva ancora quel pensiero fisso: i capelli di lei, e glielo scrisse. Alla fine lei non mancò di compiere un gesto fortemente simbolico: si tagliò una ciocca dei suoi amati capelli e la inviò insieme a una lettera. Quando lui la ricevette, la tenne stretta a se, e la volle conservare per sempre all’interno di uno scrigno, che ormai era il più prezioso di tutti i tesori che possedeva. Quello che conteneva le lettere d’amore della duchessa.
I due non si rividero mai più ma continuarono a scriversi ancora per sedici anni. Poi lei morì giovanissima e lui divenne Cardinale. Uomo di chiesa e personaggio di spicco dell’umanesimo italiano, famoso ancora oggi con il nome di Pietro Bembo.
Come quella ciocca di capelli sia giunta a Milano, non lo sa nessuno. Ma forse un motivo c’è.
Se la guardi all’interno della piccola teca, noti che è ancora perfettamente conservata, liscia e fresca come se fosse stata appena recisa.
Ecco, pare che in alcune notti, se osservi bene attraverso le finestre della Pinacoteca Ambrosiana, scorgi un bagliore. Una luce intensa che proviene dalla stanza dove è conservata la bionda treccia. Dicono che sia proprio la duchessa, che arriva e legge le lettere del suo amato Pietro Bembo, non prima di aver pettinato la propria ciocca di capelli.
Poi se ne va, svanisce in un educato silenzio, ma felice perché si è sentita amata. Lei, la discussa e tormentata duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia.
Roberto Colombo
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danilacobain · 2 years
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Selvatica - 27. Un piccolo passo
Corinna si mordicchiò l'interno del labbro sorridendo. Ripose il telefono in tasca e alzò la testa verso i raggi tiepidi del sole. Ante ce l'aveva ancora con lei per la bugia, e come dargli torto. Si rifugiava in lui per scappare dalla realtà, anche se Ante e loro due stavano diventando piuttosto reali, e se prima ometteva parti della sua vita a cuor leggero ora iniziava a sentirsi gravata da questo peso ulteriore, il peso delle cose non dette.
Nonostante tutto Ante dimostrava di voler continuare la conoscenza, e volevano scoprirsi dal punto di vista fisico, intimo. Quello che avevano fatto la sera precedente aveva acceso una fiamma che in quel momento era più che viva dentro di lei. Ante aveva un corpo perfetto e il solo immaginarlo nudo le faceva accelerare il battito. Se poi pensava anche al suo sguardo intenso e penetrante allora si scioglieva tutta.
Un uomo dai capelli lunghi le si parò davanti. Corinna trasalì prima di riconoscerlo.
«Cazzo» esclamò, i nervi a fior di pelle. Buttò fuori l'aria e rilassò le spalle. «Devi smetterla di farmi gli appostamenti.»
Carmine la guardò serio. «Quando puoi organizzarmi questo incontro?»
Aveva lasciato i capelli sciolti e non aveva una bella cera. Ebbe la tentazione di chiedergli se fosse tutto a posto ma si trattenne. Esitò. Doveva assolutamente parlarne prima con Silvia, anche a costo di ricevere un rifiuto.
«Perché non mi dai il tuo numero e ti scrivo io? Invece di continuare a seguirmi come uno stalker.»
«Preferisco così.»
«Io no.» Non era sicura che Ante le avrebbe creduto se li avesse visti di nuovo insieme e Carmine aveva la capacità di comparire sempre nei momenti meno opportuni.
Lui la ignorò. «Facciamo domani. Dove?»
«Ascolta, devo vedere prima che turni ha Silvia. Per questo dovresti darmi il tuo numero.» Tirò fuori il cellulare e lo fissò con aria decisa. Non lo avrebbe mandato via senza avere il suo numero. Stavolta le regole le avrebbe dettate lei.
Carmine sbuffò esasperato, dopo averla fissata a sua volta, e dettò il numero a Corinna.
«Ci si vede.»
Era tornato a essere il ragazzo scontroso e algido che aveva conosciuto la prima volta.
Rimuginò a lungo cercando di trovare le parole giuste da dire all'amica. Da quel poco che aveva capito Silvia ci aveva messo una pietra sopra, e bella grossa. Aprì la porta di casa sperando di trovarla già sveglia. Entrare nelle storie degli altri era l'ultima cosa che voleva fare, soprattutto perché aveva assistito alla reazione di Silvia alla vista di Carmine, quella sera, e così sconvolta non l'aveva vista mai.
Silvia era in pigiama sul divano. Sembrava riposata, nonostante il turno di notte. La salutò senza distogliere lo sguardo dallo schermo. Corinna si sedette a fianco, fissando anch'essa la tv per alcuni minuti. Si fece coraggio pensando che questo era un piccolo passo da compiere per liberarsi della situazione con Antonio, un effetto collaterale che andava risolto. Subito.
«Silvia.»
La ragazza si voltò, sorridendole. «Che c'è?»
Corinna strinse le mani in grembo. Era incredibile come questa situazione le causasse più stress di quanto non facesse Antonio. «Devo dirti una cosa importante.»
L'amica voltò la testa verso di lei. «È successo qualcosa? Che hai sulla faccia?»
«Niente, niente. Non si tratta di me, si tratta di Carmine.» Corinna deglutì pronta a una reazione da parte dell'amica ma lei rimase in silenzio, in attesa. «Vuole vederti.»
«No» rispose secca. Il volto divenne una maschera impassibile.
«Si tratta solo un incontro, Silvia...»
«No. No! Che cosa ti avevo detto a proposito di lui? Perché non gli sei stata lontana? Corinna, tu non hai idea del male che mi ha fatto!»
Corinna cercò il contatto con l'amica. «E allora dimmelo, ti prego. Lo so che è difficile ma...»
«Mi spieghi che cazzo vuole da te? Perché ti sta sempre intorno?»
Si ritrasse. «Per te. Mi ha aiutato con Antonio per te. Forse vuole dimostrarti qualcosa, non lo so. So soltanto che per me ha fatto tanto e in cambio vuole solo vederti. Glielo devo. Se non vuoi, ti do il suo numero e ci parli tu.»
Silvia serrò la mascella. «In che senso ti ha aiutato? Ti ha dato i soldi?» Corinna annuì e Silvia gettò la testa indietro sullo schienale del divano. «In che guai si è cacciato...»
«Ascolta, io non so che tipo era prima ma so che tipo di persona è adesso. È un ragazzo con un cuore, a differenza di tanti altri che vestono in giacca e cravatta e frequentano solo bei posti. E so che a te ci tiene davvero, quando parla di te gli brillano gli occhi.»
L'amica abbassò lo sguardo sulle mani che teneva intrecciate in grembo. «Va bene.» Spostò gli occhi lucidi nei suoi. «Va bene, lo incontrerò. Ma lo faccio solo per te.»
Corinna le gettò le braccia al collo, sollevata. «Grazie. Grazie. Quando vuoi...»
«Ora. Fallo venire qui. Oggi pomeriggio resti a casa, vero?»
Annuì. «Devo studiare.»
«Perfetto. Non voglio rimanere da sola con lui.»
***
Carmine arrivò nel tardo pomeriggio. Corinna aveva sentito Silvia passeggiare avanti e dietro per tutta la casa, e quando le aveva chiesto se avesse voglia di un po' di compagnia per ingannare l'attesa aveva rifiutato. Si misero dapprima in sala, poi quando arrivarono anche Claudia e Monica, se ne andarono in camera di Silvia.
Corinna era contenta. Sembrava che stessero parlando tranquillamente e aveva la sensazione che tutto si sarebbe concluso bene, almeno per loro.
Dopo cena si accomodò in sala con le altre per guardare la partita. Le faceva uno strano effetto vedere Ante in televisione, sembrava così concentrato e serio, tutto sudato, conturbante. Corinna non ascoltava il telecronista, guardava solo lui. Le piaceva guardarlo, sarebbe potuta rimanere ore intere davanti allo schermo.
«Qualcuna mi sa spiegare perché Carmine e Silvia si conoscono?» disse Monica dopo aver fatto un commento sulla noia di guardare le partite di calcio.
«Sono stati insieme» rispose distrattamente Corinna.
«Sei un'amica di merda! Possibile che tu non mi abbia detto niente quando ho iniziato a dire quanto Carmine mi ispirasse sesso? Mi hai fatto fare una figuraccia con Silvia.»
«A dire il vero allora non lo sapevo neppure io.»
«Ti perdono, ma solo se mi fai conoscere quel tipo lì» indicò qualcuno nello schermo. «Quello con la maglia numero diciotto. Lo conosci?»
«Ma chi, quello nero? Monica, ma sei incontentabile» esclamò Claudia.
Corinna sorrise. «Non lo conosco.»
«Il tuo fidanzato non ti ha presentato i suoi amici della squadra?»
«Qualcuno.»
«Allora quando te lo presenterà ricordati di me. Me ne vado a studiare, ragazzuole.»
Corinna rimase sola su divano a guardare anche il post partita nella speranza di rivedere Ante. Sembrava così strano che solo il giorno prima era con lei e adesso si trovava in un altro stato.
Il telefono la svegliò dal sonno nel quale era scivolata sentendo i vari commenti sulla partita.
«Ehi» rispose con voce arrochita, dopo aver visto il nome sul display.
«Stavi dormendo?»
«No, no... ti stavo guardando in tv.»
«La partita è finita mezz'ora fa» scherzò lui.
«Sì, lo so. Pensavo che ti intervistassero, dopo.»
Lo sentì ridacchiare. Aveva sicuramente detto qualcosa di stupido. «La prossima volta allora mi offrirò volontario per l'intervista, così potrai guardarmi.»
«Mi stai prendendo in giro, vero?»
«Te l'ho mai detto che sei adorabile?»
Aveva abbassato il tono di voce e quelle parole agitarono le farfalle nel suo stomaco. «Qualche volta.»
«Bene, allora te lo dico di nuovo: sei adorabile.»
Corinna sorrise. Avrebbe tanto voluto stringerlo e baciarlo. All'improvviso si ricordò di una cosa e avvertì una stretta allo stomaco. Si ricordò che aveva deciso di dirgli di Carmine e Silvia, poiché non aveva niente da nascondere al riguardo e se fosse venuto fuori non voleva che Ante si sentisse messo da parte.
«Ante, devo dirti una cosa. È venuto Carmine oggi.»
«Chi è Carmine?»
«Il ragazzo di ieri sera.»
Il silenzio che seguì fu breve ma carico di ansia per Corinna.
«Ah. A fare cosa?»
«A parlare con Silvia, lei ha accettato di incontrarlo. Ora sono di là in camera e chissà, magari riusciranno a risolvere.»
«Corinna, sono felice che tu me l'abbia detto. Io mi fido di te. Mi fido. Ci sono rimasto male per la cazzata di ieri, ma ti credo.»
«Lo so, Ante. Mi dispiace per ieri.»
«Ora devo andare. Ci sentiamo domani, ok? Buonanotte.»
«Buonanotte.»
Una lacrima scivolò lungo la guancia. Ante si fidava e se lei avesse continuato su quella strada, se lei non avesse trovato subito una soluzione al problema Antonio, lo avrebbe perso. Ora ne era certa.
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drheinreichvolmer · 1 month
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IL CUORE DEL KAISER - PARTE FINALE
Circa una settimana dopo Karl Franz ed Edna stavano davanti alla tomba del loro padre, il defunto Kaiser. Il marmo bianco splendeva sotto i raggi del sole, mentre i due fratelli rimanevano in un rispettoso silenzio, persi nei propri pensieri.
Alina ruppe il silenzio con un sorriso malinconico, le mani intrecciate davanti a sé. << A nostro padre sarebbe venuto un colpo vedendoti così. >> disse, gettando uno sguardo affettuoso a Karl Franz.
<< Chissà magari da qualche parte lo sa già. >> replicava il principe con voce calma.
Edna annuì, i suoi occhi che brillavano di una dolce tristezza.
<< Ora sei che sei l'erede maschio ti toccherà ereditare il trono di nostro padre lo sai vero? >>
disse Edna , ma nel suo tono c'era qualcosa di scherzoso, quasi a voler alleggerire il peso di quella responsabilità.
Karl Franz alzò lo sguardo verso di lei, un lampo di determinazione nei suoi occhi. << La legge si può cambiare , io credo che tu meriti quella corona molto più di chiunque altro. >>
Edna scosse la testa, sorridendo dolcemente.
<< Apprezzo molto le tue parole ma , dopo una vita trascorsa chiusa in queste mura, ora desidero solo essere libera. Voglio viaggiare, scoprire il mondo, vivere per me stessa. E forse, un giorno, trovare anche io il vero amore. >>
Karl Franz la osserò alzando un sopracciglio. << Stai cercando forse di dirmi qualcosa , sorella? >>
Lo sguardo della principessa si addolcì. << Ho visto come la guardi sai.. >>
A quelle parole il viso dell'austriaco divenne paonazzo , sapeva perfettamente a chi Edna stesse facendo riferimento.
<< Non farti scappare un occasione così e poi.. deve essere proprio una santa se ti riesce a sopportare. >> replicava Edna scoppiando a ridere.
I due rimasero abbracciati per qualche momento , mentre il sole continuava a sorgere, illuminando la strada davanti a loro. La libertà che entrambi avevano cercato a lungo era finalmente a portata di mano, e con essa, la promessa di un futuro diverso, più luminoso e pieno di speranza.
Tre mesi erano trascorsi da quel giorno nel cimitero reale, e la città si preparava a vivere uno dei momenti più importanti della sua storia. Le strade erano adornate con bandiere e fiori, la gente si accalcava sui lati delle strade, ansiosa di assistere all'incoronazione del nuovo Kaiser La notizia di ciò che era accaduto si era sparsa ovunque, e l'intero impero attendeva con trepidazione il giorno in cui Karl Franz avrebbe preso ufficialmente il trono.
Nella cattedrale , le vetrate gotiche brillavano sotto la luce del sole del mattino, proiettando colori vivaci sul pavimento di marmo bianco. La navata principale era affollata di nobili, diplomatici e dignitari da ogni parte dell'impero, tutti riuniti per testimoniare il passaggio di potere. Al centro della scena, su un alto piedistallo, risaltava il trono imperiale, avvolto in drappi dorati e velluto rosso.
Karl Franz stava nei corridoi laterali, lontano dalla vista degli ospiti, avvolto in un mantello di seta ricamato con l’aquila imperiale. Sentiva il peso del momento, non solo per la responsabilità che stava per assumersi, ma anche per ciò che rappresentava. Non era solo l'incoronazione di un nuovo imperatore, ma l'inizio di una nuova era per l'Austria, una era di inclusione e di cambiamento.
Le grandi porte della cattedrale si aprirono, e Karl Franz iniziò a camminare lungo la navata, seguito da uno stuolo di dignitari e guardie imperiali. La musica si alzò, solenne e maestosa, mentre gli ospiti si alzavano in piedi al suo passaggio. I suoi passi erano sicuri, il capo alto, e ogni movimento irradiava la consapevolezza e la determinazione di un uomo che aveva finalmente trovato il suo posto nel mondo.
Giunto davanti al trono, si inginocchiò di fronte all'arcivescovo, che teneva nelle mani la corona imperiale, simbolo del potere e della continuità dell'impero.
<< Karl Franz Joseph Von Österreich , sei pronto a giurare fedeltà al tuo popolo e a servire l'impero con giustizia e onore? >> dichiarava l'arcivescovo con voce potente, che risuonava in ogni angolo della cattedrale.
<< Lo sono. >> replicò Karl Franz con voce sicura.
<< Con l'autorità conferitami da Dio e dal popolo dell'impero, ti proclamo imperatore d'Austria e re D'Ungheria. >> l'arcivescovo sollevò la corona e la posò con riverenza sul capo di Karl Franz.
Un fragoroso applauso riempì la cattedrale, e Karl Franz si alzò in piedi, sentendo il peso della corona ma anche la forza che essa gli dava.
Mentre la cattedrale vibrava con le acclamazioni del popolo, Karl Franz capì che il suo viaggio, nonostante le difficoltà, era solo all'inizio. Ma ora, come Kaiser, aveva la certezza di poter guidare il suo popolo verso un futuro migliore, più giusto e più libero.
La giornata dell'incoronazione proseguì con festeggiamenti che sembravano non avere fine. L'intera popolazione era in festa, con musica e risate che riempivano l'aria. Nel giardino del palazzo, Maja e Antal si erano allontanati dalla folla per godersi un momento di pace. Le risate e la musica giungevano attutite attraverso gli alberi, creando un'atmosfera intima e tranquilla.
Lui con un leggero sorriso sulle labbra, si fermò vicino a una fontana. L'acqua scorreva lentamente, riflettendo la luce del sole. Maja , che non aveva mai visto il giardino reale così tranquillo, si avvicinò a lui, osservando la sua espressione pensierosa.
<< Qualcosa non va? >> gli chiese ad un tratto Maja.
<< Stavo pensando... ora che Karl Franz è Kaiser, avrà bisogno di una guardia del corpo. Qualcuno di cui possa fidarsi ciecamente, che sia al suo fianco non solo come protettore, ma anche come amico. >> rispose l'ungherese
<< Credo fortemente che dovresti candidarti per quel ruolo. >> replicò Maja.
Antal annuii prima di sedersi sul bordo della fontana e prendere dolcemente le mani della giovane dai capelli biondi.
<< In verità poi vorrei candidarmi anche per un altro ruolo. >> disse l'ungherese serio.
<< Sarebbe? >> replicò Maja assai confusa.
<< Beh , quello di tuo marito. >> ribattette Antal timoroso.
Lei rimase senza parole per un momento, sorpresa e felice allo stesso tempo. Il suo cuore si riempì di calore mentre assaporava ogni parola pronunciata da Antal . Non c’era dubbio nella sua mente: lui era l’uomo che voleva al suo fianco, colui con cui desiderava condividere ogni giorno della sua vita.
Sorrise, le lacrime che minacciavano di scendere, e annuì con entusiasmo.
<< Si , non c'è nulla che potrebbe rendermi più felice! >> rispose Maja con la voce tremante per l'emozione.
Maja e Antal , mano nella mano, tornavano verso il palazzo. Ma ora, con il cuore più leggero, sapevano che qualunque sfida si presentasse, l'avrebbero affrontata insieme, come compagni e come sposi.
Era una giornata luminosa e serena nel palazzo reale, e l'aria era pervasa da un senso di pace e rinnovata speranza. Karl Franz si trovava nel suo studio, immerso nei documenti e nelle lettere che richiedevano la sua attenzione di nuovo Kaiser. Nonostante le responsabilità che ora gravavano sulle sue spalle, si sentiva finalmente in pace con se stesso.
Mentre era assorto nel lavoro, la porta si aprì lentamente, rivelando Maja e Antal , mano nella mano. Lei aveva un sorriso radioso, ma nei suoi occhi c'era una scintilla di nervosismo. Lui , invece, era visibilmente serio, ma con la determinazione di chi sa cosa sta per chiedere.
Karl Franz alzò lo sguardo e li accolse con un sorriso caloroso.
<< Posso fare qualcosa per voi? >> chiese Karl Franz amabilmente.
I due si avvicinarono alla scrivania, ma rimasero in piedi, l'uno accanto all'altra. Maja prese un respiro profondo.
<< Karl Franz , fratello.. siamo qui per chiederti qualcosa di molto importante. >>
Karl Franz inclinò la testa, incuriosito, ma con un accenno di comprensione nel suo sguardo.
<< Dimmi pure , ti ascolto. >>
Antal si fece avanti, la mano della ragazza ancora stretta nella sua.
<< Vostrà maestà imperiale noi.. >> iniziò con tono serio e formale.
<< Non è necessario essere così fermali , cosa volete chiedermi coraggio. >> replicò Karl Franz.
<< Io amo tua sorella più di ogni altra cosa al mondo, e vorrei avere la tua benedizione per fare di lei mia moglie! >> rispose l'ungherese senza riprendere fiato per l'ansia.
Karl Franz li osservò per un momento, un sorriso si allargò sul suo volto, e si alzò in piedi.
<< Per noi è importante che tu approvi, che tu sia felice per noi. >> disse Maja.
<< Certo che ve la darò , avete la mia più sincera benedizione. Nulla mi renderebbe più felice che vedere mia sorella al fianco di un uomo che la ama e la protegge come merita. >> replicò Karl Franz.
Liesel, colma di gioia, corse ad abbracciare Karl Franz, stringendolo forte.
<< Grazie fratellone! >>
Antal si avvicinò con un profondo inchino.
<< Ti prometto che farò di tutto per renderla felice. >>
Mentre il trio sorrideva, Estela entrò nella stanza, avendo chiaramente ascoltato parte della conversazione. Con un'espressione divertita, si avvicinò al gruppo e si fermò accanto a Karl Franz.
<< Mio Kaiser , sembra che adesso avrai un ungherese , per parente. >> disse con un tono giocoso.
<< Immagino che le cene di famiglia diventeranno molto interessanti. >> replicò Karl Franz.
Sei mesi erano trascorsi in un batter d'occhio, e il regno si preparava a celebrare un evento di grande gioia: le nozze della principessa Maja e della guardia imperiale Antal. Il palazzo era addobbato con fiori freschi e bandiere colorate, e l'intero impero sembrava risplendere di una luce nuova. Gli ospiti erano giunti da ogni angolo dell'Europa e oltre, portando con sé il calore e l'affetto per i novelli sposi.
Maja, radiosa nel suo abito da sposa, stava discutendo con Edna mentre attendevano di entrare nella sala del trono, dove si sarebbe celebrata la cerimonia.
<< Non posso credere che tu stia per partire per l'Egitto, non sarà lo stesso senza di te. >> disse Maja con un velo di malinconia.
<< È una nuova avventura. Dopo tutto quello che abbiamo passato, ho capito che voglio vedere il mondo, scoprire nuove culture, vivere davvero. Ma ti prometto che sarò sempre in contatto, e chissà, magari troverò anche io la mia felicità in qualche lontano angolo del mondo. >> rispose Edna sorridendo.
Maja annuì, abbracciando Edna con calore.
<< Lo so. E spero che tu trovi tutto ciò che desideri. >>
Poco dopo, la cerimonia ebbe inizio. Antal , con il suo tipico sorriso fiero, attendeva all'altare, e quando Maja fece il suo ingresso, tutti i presenti rimasero incantati dalla sua bellezza. I due si scambiarono le promesse con parole piene di amore e impegno, giurando di rimanere insieme per tutta la vita.
Quando finalmente venne il momento di festeggiare, gli invitati si riunirono nella grande sala del banchetto, dove risate, musica e brindisi riempivano l'aria. Karl Franz osservava la scena con un sorriso soddisfatto, consapevole di quanto la sua famiglia fosse cambiata e cresciuta negli ultimi mesi.
Ad un certo punto Estela si alzò in piedi , rivolgendo ai presenti un sorriso timido ma gioioso.
<< C'è qualcosa di importante che devo dirvi. >>
Karl Franz la guardò, un misto di curiosità e preoccupazione nel suo sguardo.
Estela non disse nulla , si limitò semplicemente a mettere una mano sul proprio ventre , massaggiandolo.
Per un momento, Karl Franz rimase senza parole, gli occhi spalancati per lo stupore.
<< Cosa? Stai forse dicendo che.. >>
Estela annuì, il sorriso che si allargava ancora di più.
<< Avremo un bambino.. >>
Karl Franz rimase a bocca aperta.
Le sue sorelle reagirono immediatamente con un grido di gioia.
Mentre la gioia si diffondeva tra di loro, Antal si avvicinò con un sorriso divertito.
<< Allora, sembra proprio che il Kaiser si sia dato da fare, eh? >>
Karl Franz arrossì leggermente, ma non poté fare a meno di unirsi alla risata.
<< D'altronde, la famiglia si allarga, e più siamo, meglio è. >>
Con queste parole, la stanza si riempì di un senso di calore e appartenenza, mentre i quattro si preparavano a una nuova fase delle loro vite, consapevoli che, qualunque cosa il futuro riservasse, avrebbero affrontato tutto insieme.
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la-ladra-di-storie · 2 months
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Storia della notte
Verdi sono gli alberi negli occhi suoi non esiste che primavera dischiusa nel suo viso, accanto a lei, ninfa dei boschi, pare ci sia un angelo, caduto dal cielo. Grigio come la pioggia di ghiaccio il suo sguardo, cascate d’oro contornano la pelle diafana bianca come latte, rosee le gote e labbra dischiuse in un sorriso. poco più avanti aspettano grandi occhi marroni come le nocciole al sole, hanno ciglia lunghe da cerbiatto e capelli lisci, cascate cascane, che le donano al viso. Accanto a lei c’è la sorella che le somiglia ma è diversa, i colori sono medesimi ma i lineamenti differiscono, pur rimanendo simili e dolci.
Il treno corre, corre e corre poi si ferma a riprendere fiato. Con il vento che gli soffia accanto ricordandogli il tempo che fu. Così, sbirciando tra ricordi, inizia a raccontare una storia che come ogni fiaba, inizia con un c’era una volta. Quattro principesse sono le protagoniste di questo racconto, Primavera, Angelo e le Sorelle che chiameremo Autunno e Estate, come le stagioni del passato.
Questa lacrima di speranza inizia con Estate che come ogni giorno chiedeva alla sorella di ballare e ballarono in riva al mare, sussurrando risate. “Sorella, ma tu sai che fine fanno le stelle?” Chiese Autunno curiosa, celando dell’amaro nella sua voce solitamente leggiadra. Estate guardò il cielo azzurro, prese le mani della sorella e l’abbracciò. Così Autunno rimase stupita, cosa avesse mosso quel gesto nella sorella rimaneva un mistero, come quando soffia il freddo dell’Inverno. Ricambiò l’abbraccio. Angelo, che passava di lì, sorrise alle fanciulle e le chiamò per nome, poi le prese con le mani pallide e le condusse verso la luna. Là dove Primavera aspettava. Ballando sotto quelle stelle che fine non avevano fecero un giuramento solenne. “rimarrò con le mie sorelle” però qualcosa si spezzò nei cuori, e tre sorelle furono costrette ad andare sulla terra e a rincorrersi l’un l’altra. Così si formarono tre stagioni, Angelo che rimase bloccata sulla luna, pianse così tanto che le sue lacrime si fecero pesanti. Cadde il primo fiocco di neve, e quello fu l’inizio dell’inverno. Dove la tristezza regna e tutto è spoglio, c’è un angelo che piange le sue sorelle, credendole morte. Poi una notte buia, di quelle che tolgono il fiato, arrivò una ragazza dagli occhi scuri, lo sguardo acceso ma cupo. I capelli corvini e la carnagione come neve, tagliente il suo viso e bello come pochi. Disse all’angelo di seguirla, e lei affascinata da quello sguardo affilato la seguì senza fiatare. Camminarono tra galassie di stelle per anni, forse secoli, senza dirsi una parola. Era un’intesa di sguardi la loro. Una conversazione silenziosa tra animi di fuoco. Giunsero in una terra lontana, che forse era solamente quella terra che vedeva Angelo dalla luna. Giunsero stanche e prive di forze. Ma quando arrivarono Angelo lo sentì, Estate, Autunno e Primavera erano lì. La ragazza che ancora non si era presentata disse semplicemente che la notte è una donna di cui ci siamo dimenticati il nome, così dicendo si presentò. Fu così che le 4 sorelle divennero 5 e la notte divenne ciò che le stelle cantavano, componendo la stessa. La neve continuò a cadere, fiocchi di gioia che cadevano per portare calore nel periodo più freddo dell’anno. Forse, se cercate bene tra queste parole troverete una sesta sorella, che tra l’inchiostro si nasconde, che tra le ombre muore.
l.l.d.s.
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nosferatummarzia-v · 4 months
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La storia di una vampira molto speciale. Che forse vive ancora tra noi...
Nel 1896, Belém divenne ricca vendendo gomma amazzonica al mondo, rendendo i contadini improvvisamente milionari che costruirono le loro sontuose dimore con materiali europei, mentre le loro mogli e figlie inviavano i loro abiti per essere lavati nel vecchio continente e importavano acqua minerale da Londra per i loro bagni.
Il "Theatro da Paz" era il centro della vita culturale dell'Amazzonia, con concerti di artisti europei. Tra di loro, uno in particolare attirò l'attenzione del pubblico, la splendida cantante d'opera francese Camille Monfort (1869-1896), che suscitò desideri indescrivibili nei ricchi signori della regione e atroci gelosie nelle loro mogli a causa della sua grande bellezza.
Camille Monfort suscitò anche indignazione per il suo comportamento, che era libero dalle convenzioni sociali del suo tempo. Si narrava che fosse stata vista mezza nuda, ballare per le strade di Belém mentre si rinfrescava nella pioggia pomeridiana. Le sue passeggiate notturne solitarie suscitavano curiosità quando veniva vista nei suoi lunghi abiti neri e vaporosi sotto la luna piena, sulle rive del fiume Guajará, verso l'Igarapé das Almas.
Presto cominciarono a circolare voci su di lei e furono fatti commenti maliziosi. Si diceva che fosse l'amante di Francisco Bolonha (1872-1938), che l'aveva portata dall'Europa e che la faceva bagnare con costosi champagne importati nella vasca da bagno della sua dimora.
Si diceva anche che fosse stata attaccata dal vampirismo a Londra, a causa della sua pallidezza e del suo aspetto malato, e che avesse portato questo grande male in Amazzonia, avendo un misterioso desiderio per il sangue umano, al punto da ipnotizzare le giovani donne con la sua voce durante i concerti, facendole addormentare nel suo camerino in modo che la misteriosa signora potesse raggiungere i loro colli.
Curiosamente, ciò coincideva con i resoconti di svenimenti in teatro durante i suoi concerti, che venivano semplicemente spiegati come un effetto dell'emozione forte che la sua musica provocava nelle orecchie del pubblico.
Si diceva anche che avesse il potere di comunicare con i morti e di materializzare i loro spiriti in dense nebbie eteree di materiali ectoplasmatici espulsi dal suo corpo in sedute medianiche. Queste erano indubbiamente le prime manifestazioni in Amazzonia di ciò che in seguito sarebbe stato chiamato spiritismo, praticato in culti misteriosi nei palazzi di Belém, come il Palacete Pinho.
Alla fine del 1896, una terribile epidemia di colera devastò la città di Belém, trasformando Camille Monfort in una delle sue vittime, che fu sepolta nel Cimitero della Solitudine.
Oggi, la sua tomba è ancora lì, coperta di fango, muschio e foglie secche, sotto un enorme albero di mango che fa sprofondare la sua tomba nell'oscurità della sua ombra, illuminata solo dai raggi di sole che penetrano tra le foglie verdi.
Si tratta di un mausoleo neoclassico con una porta chiusa da un vecchio lucchetto arrugginito, da cui si può vedere un busto femminile di marmo bianco sul largo coperchio della tomba abbandonata e attaccata al muro, una piccola immagine incorniciata di una donna vestita di nero.
Sulla sua lapide si può leggere l'iscrizione:
"Qui giace Camilla María Monfort (1869-1896) La voce che ha incantato il mondo".
Si diffondeva paura e condivideva potere ai suoi subordinati vendendo gomma alla gente d'Europa e al mondo intero, ma quando si trovavano nella sua dimora, sapeva infondere una nuova forma di paura.
Ma c'è ancora chi dice oggi che la sua tomba è vuota, che la sua morte e sepoltura non sono state altro che un atto per coprire il suo caso di vampirismo e che Camille Monfort vive ancora in Europa, ora all'età di 154 anni.
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susieporta · 1 year
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Una vita lunga 101 anni - di cui una trentina vissuti in Estremo Oriente - più di 30 libri scritti, due secoli attraversati da protagonista, a partire dalla Belle Époque sino alle rivolte studentesche del 1968.
Questi sono solo alcuni dei "numeri" di una donna veramente straordinaria, la prima occidentale ad aver mai visitato nel 1924 Lhasa, capitale e città santa del Buddismo tibetano.
Alexandra David-Néel nacque nei dintorni di Parigi il 24 ottobre del 1868 da un francese ugonotto e socialista, e da una belga cattolica e monarchica, che per molti versi era l'opposto del marito.
Fin da bambina desiderò, come scrisse lei stessa, "andare oltre il cancello del giardino e partire per l'ignoto", immaginato come luogo dove potersi sedere da sola a meditare, senza nessuno accanto.
Proprio per questo, a 16 anni s'allontanò dalla casa di famiglia in Belgio, in tempi in cui le donne sole erano considerate pazze o prostitute, per raggiungere l'Olanda a piedi e di qui imbarcarsi per l'Inghilterra, poi l'Italia, la Francia e la Spagna, in un peregrinare incessante.
A Londra conobbe Mrs. Morgan che l'introdusse nel ristretto mondo della teosofia, corrente di pensiero per cui tutti gli esseri viventi appartengono a un'unica famiglia nella quale le varie religioni sono espressioni di una sola verità, che a lei - figlia di un protestante e una cattolica - si attagliava perfettamente.
In questo ambiente s'accostò per la prima volta al Buddismo Zen che la folgorò al punto da diventare la ragione di vita che la spinse, fra l'altro, a studiare le lingue orientali, a partire dal sanscrito sino al tibetano.
A 21 anni partì per la prima volta per l'India, con l'intento di approfondire i suoi studi.
Tornata in Europa senza un soldo, si sforzò per un po' di vivere "all'occidentale" scontrandosi però quotidianamente con i limiti - per lei intollerabili - imposti al suo genere dalle convenzioni del tempo, tanto da risolversi ad accettare un impiego da cantante lirica presso l'Opéra di Hanoi al solo scopo di tornare in Estremo Oriente.
In Vietnam rimase dal 1895 al 1897, anno in cui rientrò in Francia per imbattersi nell'ingegner Philip Néel, che sposò senza alcun trasporto nel 1904 perché lui, a lei, garantiva una certa solidità economica; lei invece, a lui, il prestigio sociale derivante dal matrimonio con una donna che s'era già costruita un nome coi suoi primi scritti.
La repulsione di Alexandra per il sesso e tutto ciò che fosse maschile, causata anche dall'ipocrisia di una società dove gli uomini si sposavano per generare figli, ma trovavano il piacere fuori dal vincolo coniugale, l'indusse subito a trascorrere pochissimo tempo accanto al marito, che tuttavia nutrì sempre nei suoi confronti un affetto sincero.
L'Ing. Néel, comprendendo il disagio psicologico della moglie, accettò la sua proposta d'intraprendere "un lungo viaggio" da sola in Oriente, lasciandola partire nel 1911 senza però immaginare che non l'avrebbe più rivista per ben 14 anni.
L'India e il misteriosissimo Sikkim (piccolo stato himalayano) furono le prime tappe del suo viaggio. Proprio a Gangtok conobbe il locale Maharajah, il Dalai Lama e il "Gomchen" ("il grande meditatore") del monastero di Lachen, di cui divenne discepola seguendone gli insegnamenti per oltre due anni, durante i quali il suo fisico si trasformò, rifiorendo.
Sempre in Sikkim fece conoscenza con un ragazzetto quattordicenne, Aphur Yongden, per il quale provò un legame spirituale immediato tanto da adottarlo come figlio e tenerselo accanto per oltre quarant'anni, sino alla sua morte prematura.
Ormai espertissima di Buddismo Zen, con lui viaggio in Giappone, Corea, Cina e Mongolia, dove soggiornò a lungo presso il monastero di Kumbum di cui, in uno dei suoi libri, descrisse incantata la straordinaria processione mattutina di circa 3.800 monaci buddisti diretti alla sala delle meditazioni.
Viaggiando a piedi o, quando andava bene, a dorso d'asino o di yak, nel 1923 raggiunse in incognito e travestita da uomo, sempre col fedele Yongden, la mitica città tibetana di Lhasa, interdetta alle donne, dove s'intrattenne a lungo venendo però alla fine scoperta e cacciata a causa dell'unico "vizio" occidentale rimastole: quello di farsi un bagno caldo quotidiano nella vasca portatile che aveva con sé.
Rientrata in Francia nel 1925, si separò dal marito col quale però avrebbe sempre mantenuto rapporti cordiali, per stabilirsi con Yongden in Provenza, a Digne-les-Bains, in una villa chiamata "Samten-Dzong ("Fortezza della meditazione") dove si dedicò alla scrittura dei suoi numerosi libri, fra cui il famoso "Viaggio di una parigina a Lhasa", nel contempo ricevendo visitatori da tutto il mondo, sempre intrattenuti con le sue riflessioni, e non mancando di ripartire di tanto in tanto per l'amato Oriente.
Poco prima di spirare l'8 settembre del 1969, quasi cento-unenne, volle rinnovare il passaporto con l'idea d'intraprendere un ultimo viaggio che, invece, avrebbero fatto le ceneri sue e di Yongden nel 1973, per essere disperse nelle sacre acque del Gange, a Benares, come lei desiderava tanto.
Accompagna questo testo una foto di Alexandra David-Néel in compagnia del fido Aphur Yongden
(Testo di Anselmo Pagani)
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sognosacro · 6 months
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ALDOR E ALTHEA
Era passato molto tempo da quel giono. Non si vedevano più da anni.
Lasciati da quel morbido bacio in sospeso.
Da quella lunga conversazione in sospeso.
Tra di loro c'era una grossa affinità che in pochi riuscivano a raggiungere nella vita, alcuni aspettavano vite intere per riuscirci nella prossima.
Ma loro no, in quell'interminabile attimo avevano connesso le più profonde radici e nel tempo distaccato che si erano lasciati, avevano cresciuto la pianta da soli.
Quei giorni li avevano spesi bene e in quella solitudine, entrambi avevano conosciuto aspetti profondi di se stessi.
Sentivano però un bisogno viscerale di congiungersi definitivamente.
Aldor mandò un messaggio ad Althea per avvisarla del suo ritorno, ma Althea non ricevette nessun messaggio da Aldor.
Qualcosa nella comunicazione era andato storto e il falco messaggero non era mai arrivato a destinazione. Aldor ricevendo indietro la lettera, cominciò a preoccuparsi.
"Sarà che forse non è il prescelto?!"
Cominciò i preparativi sel suo viaggio e partì. Sapeva che grandi novità lo stavano aspettando e che quel tempo passato, sarebbe ben presto svanito.
Era entusiasta di rivederla, ma sentiva che qualcosa non funzionava, era andato storto sin dall'inizio e questo lo preoccupava assai.
Cominciava a dubitate che questo sarebbe stato possibile, che forse si era perso qualcosa di molto serio.
Ma lungo il cammino, passò lunghi sospiri nell'osservare le bellezze dell'universo e lasciata dissipare ogni preoccupazione, il cammino divenne leggero e semplice.
Camminò per lunghi giorni, ma a un certo punto decise di fermarsi e accamparsi per un pò.
Nel frattempo Althea, nella sua magica casa nel bosco, sentiva l'arrivo di qualcosa, ma intenta ad appendere all'aria aperta il bucato si fermò.
Il suo corpo cadde al suolo. In quel momento una parte di lei morì.
Cadde in un lungo sonno e quando si svegliò si accorse che forse erano passati giorni, la biancheria era asciutta, il paesaggio era cambiato e lei era atterra.
Si sentiva però diversa.
Raccolse i suoi panni e li posò davanti alla porta, andò al fiume a lavarsi il viso e vide Aldor riflesso.
Il suo cuore sussultò e subito un sorriso le apparì sul volto.
Aldor era lì davanti a lei. Lo abbracciò e lui la tenne stretta.
Aldor le baciò teneramente il viso così tante volte da imprimere il suo sapore nella mente.
La gracilità di Althea gli suscitava la conpassione più assoluta e non poteva far altro che ricoprirla di tenerezza.
Anche se di carattere era insolito per entrambi.
Si spostarono dal fiume e andarono sul retro della casa, in quel grande prato fiorito in cui Althea coltivava le mele.
Si stesero sul prato al sole e il tempo sembrò tornare indietro.
C'era un fresco venticello che soffiava in quella calda estate e Aldor era affannato dal viaggio.
Andò al fiume per rinfrescarsi e ritornò mezzo svestito.
Althea era fradicia solo a guardarlo.
Non lo avevano mai fatto prima, ma quell'unico bacio anni prima aveva lasciato il neli un seme pronto a germogliare.
Ora era lì davanti a lui, più sexy che mai.
Il suo corpo era scolpito e mentre camminava sorrideva imbarazzato dagli sguardi caldi di Althea, ancora sdraiata sotto la pianta di mele.
Althea si spostò le spalline del vestito e il vento le mosse i capelli. Aprì le gambe nude sotto la lunga gonna e il vento iniziò ad asciugarla.
Mentre si arieggiava Aldor arrivò da lei e iniziò a baciarle il collo. Sentiva il desiderio di lei sotto la pelle.
Althea rimase immobile ad occhi chiusi in quella posizione e lui, mentre le baciava il collo, le toccò un seno.
Il vestito non gli permetteva di sentire il capezzolo, ma la morbidezza di quel seno gonfio gli faceva tremare le viscere di piacere.
Cominciò a premere sui suoi pantaloni un grosso membro, essendo già mezzo nudo slacciò i primi bottoni, così da lasciarlo crescere e reapirare.
Althea iniziò ad eccitarsi e riaprendo gli occhi lo vide a petto nudo, con la V in bella vista e gli sorrise. Si avvicinò a lui con il vestito che le cadeva dal petto, le mutande sfilate in segreto e mentre lui era inginocchiato, lei lo baciò sedendosi sopra di lui.
Lui le prese le natiche stringendola a sè e mentre si baciavano le infilò una mano sotto la gonna.
toccò la sua ptatina nuda e bagnatissima e ci giocò un pò facendola eccitare ancora di più.
Lei gli tirò fuori il pacco dai vestiti e iniziò ad accarezzarlo con il pollice.
Quando arrivò la prima gocciolina umida lui si fermò con le dita e le leccò davanti a lei. Questo le diede il via libera per succhiarlo.
Cominciò a leccarlo in lungezza dal basso verso l'alto, fermandosi sulla punta con le labbra. Lo limonò un pochino sulla cappella e iniziò a succhiarlo scendendo lentamente.
Il vestito le scese sulla schiena, facendo uscire le sue natiche all'aria.
Lui aveva divaricato le gambe e si era seduto comodo e mentre lei succhiava, se ne stava beato con il vento sulla pelle.
Althea si fermò e sfilò il suo abito rimanendo nuda e abbassò i pantaloni di Aldor.
Si avvicinò a lui come una gattina, facendolo sdraiare e si accovacciò su di lui.
Cominciò a baciarlo, a leccarlo sulla pancia e a morderlo dolcemente sul petto.
Appoggiò la sua fica fradicia sul suo pacco e cominciò a sfregare il suo clitoride.
Rimase lì a muoversi guardandolo e lui guardandola divertito lasciò fare.
Continuò fino ad avere un orgasmo e lui, si eccitò a tal punto che il pene entrò da solo nella vagina.
Lei Si stese su di lui, incapace di muoversi ancora, ma più vogliosa di prima.
Lui la prese con passionevole ferocia e tenendola con un braccio alle spalle, comiciò a spingere profondamente.
Ogni colpetto era un gemito di Althea.
Lui era sempre più eccitato e il sudore gli cadeva dalla fronte.
Althea saltava su du lui mentntre, leggermente alzato lui la teneva.
Continuarono in quella posizione fin che Althea venne di nuovo, ma sta volta lo baciò durante l'orgasmo come per passargli il piacere.
Lui era arrapatissimo e la prese da dietro e mentre lei, priva di resistenza fisica si faceva penetrare ripetutamente da lui.
Lui continuò e la vagina così bagnata lo faceva eccitare tantissimo. Le infilò leggermente un dito nell'ano aperto davanti a lui e con l'altra mano le teneva il fianco mentre lei si muoveva su e giù.
Lui la penetrava fino infondo gemendo e sentendo lei gemere in una pozzangera di piacere.
Arrivò il momento del culmine di piacere per entrambi e lui venne dentro di lei più e più volte, mentre lei frignava dalla sensazione.
ops.
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alessiazeni · 6 months
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Capitolo Bonus La Corte Di Fiamme e Argento in italiano Azriel
Avviso: Partendo dal presupposto che non ho studiato per diventare traduttrice, quindi ci saranno SICURAMENTE dei possibili errori di traduzione, grammatica, punteggiatura e/o ortografia, questa è la mia versione tradotta in italiano dei capitoli bonus dei libri di Sarah J. Maas.
Detto ciò, buona lettura!
Finalmente la casa sul fiume era sprofondata nel silenzio dopo la movimentata festa per il solstizio d’inverno, le lucifatate attenuate che proiettavano piccole macchie d’oro in contrasto alle tenebre della notte più lunga dell’anno.
Amren, Mor e Varian erano finalmente andati a letto, ma Azriel si trovò a restare al piano di sotto.
Sapeva che avrebbe dovuto dormire un po’. Ne avrebbe avuto bisogno per l’alba, per la battaglia a palle di neve che si sarebbe tenuta alla cabina. Cassian quella sera aveva menzionato almeno sei volte che aveva un piano segreto riguardo la sua vittoria imminente. Az aveva lasciato che il fratello si vantasse. Soprattutto perché Azriel stava pianificando la propria vittoria da ormai un anno.
Cassian non poteva immaginare cosa lo aspettava. Ed Az aveva intenzione di trarre vantaggio dal fatto che Nesta non avrebbe fatto dormire molto Cassian quella notte.
Az ridacchiò tra sé e sé, le ombre attorno a lui in ascolto.
“Dormi”, sembravano sussurrargli all’orecchio. “Dormi.” 
“Vorrei poterlo fare” rispose silenziosamente. Ma il sonno lo trovava raramente in quei giorni.
Troppi pensieri affilati come rasoi lo ferivano ogni volta che si soffermava a pensarci troppo. Troppe voglie e bisogni gli lasciavano la pelle surriscaldata e gli facevano tendere le ossa. Quindi dormiva solo quando il suo corpo cedeva, e anche allora era solo per poche ore.
Azriel osservò la stanza vuota, regali e nastri che ricoprivano gli arredi. Cassian e Nesta non erano tornati, il che non aveva sorpreso nessuno. Era contento per suo fratello, ma comunque…
Azriel non riusciva a controllarla. L’invidia nel suo petto. Verso Cassian e Rhys.
Sapeva che ne sarebbe stato sopraffatto se fosse andato nella sua stanza, quindi rimase di sotto, alla luce morente del fuoco.
Ma anche il silenzio era un peso troppo oneroso ed anche se le ombre gli facevano compagnia, come avevano sempre fatto, come avrebbero sempre fatto, si trovò a lasciare la stanza. Entrando nell’atrio.
Passi leggeri si sentirono scendere dalle scale, ed eccola.
Le lucifatate facevano risplendere i capelli sciolti di Elain, facendola sembrare luminosa come il sole all’alba. Lei si fermò, il respiro le rimase in gola.
«Io…» La guardò deglutire. Strinse un pacchettino tra le mani. «Stavo venendo a lasciare questo sulla tua pila di regali. Mi sono scordata di dartelo, prima.»
Bugia. Beh, la seconda parte era una bugia. Non aveva bisogno delle sue ombre per comprendere il suo tono, la leggera contrazione del viso. Aveva atteso che tutti fossero andati a dormire prima di avventurarsi al piano di sotto, dove avrebbe lasciato il suo regalo tra tutti gli altri regali aperti, subdola e inosservata.
Elain si avvicinò ed il suo respiro divenne più veloce quando si fermò ad un piede scarso di distanza. Allungò verso di lui il regalo incartato, le mani tremanti. «Tieni.»
Az cercò di non guardare le proprie dita ricoperte di cicatrici mentre prese il regalo. Non aveva preso un regalo per il suo compagno. Ma ne aveva preso uno per Azriel l’anno precedente, una polvere per il mal di testa che teneva sul comodino alla Casa del Vento. Non da usare, ma solo da guardare. Cosa che faceva ogni notte che dormiva lì. O provava a dormire lì.
Azriel scartò il pacchetto, dando un’occhiata al biglietto che diceva solo “Potresti trovarli utili alla Casa in questi giorni” e poi aprì il coperchio.
Due pezzettini di tessuto a forma di fagiolo erano posati all’interno. Elain mormorò «Gli metti nelle orecchie e bloccano ogni suono. Con Nesta e Cassian che vivono lì con te…»
Lui emise una risatina, incapace di trattenersi. «Non c’è da stupirsi che non abbia voluto che lo aprissi di fronte a tutti.»
La bocca di Elain formò un sorriso. «Nesta non apprezzerebbe la battuta.»
Le offrì un sorriso in risposta. «Non ero sicuro se darti il tuo regalo.»
Lasciò il resto non detto. Perché il suo compagno era lì, che dormiva al piano di sopra. Perché il suo compagno era nel salotto ed Azriel dovette stare tutto il tempo sulla porta perché non riusciva a sopportare di vederlo, di sentire il loro legame di compagni ed aveva bisogno di una via di fuga se fosse stato troppo.
I grandi occhi di Elain vacillarono, ben consapevole di ciò. Proprio come lui sapeva che lei era a conoscenza del motivo per cui Azriel andava raramente alle cene di famiglia, nell’ultimo periodo.
Ma quella sera, nel buio e nel silenzio, senza qualcuno che potesse vedere… Tirò fuori una scatolina in velluto dalle ombre attorno a lui. La aprì per lei.
Elain emise un debole respiro che gli sfiorò la pelle. Le sue ombre si dileguarono al suono. Erano sempre state prone a svanire quando lei era in giro.
La collana d’oro sembrava ordinaria, la catenina insignificante, l’amuleto abbastanza piccolo che avrebbe potuto essere scambiato per un gioiellino mondano. Era una piccola rosa appiattita fatta in vetro colorato, disegnata per far sì che quando la luce la colpiva, la vera profondità dei colori diventasse visibile.
Un qualcosa di una splendida bellezza segreta.
«È bellissima» sussurrò lei, sollevandola dalla scatolina. Le lucifatate dorate splendevano attraverso i piccoli vetri, facendo risplendere il gioiello con sfumature rosse, rosa e bianche. Azriel fece portare via la scatola dalle sue ombre, mentre lei mormorò «Mi aiuti ad indossarla?»
La sua mente divenne silenziosa. Ma prese la collana, aprendo il gancetto mentre lei gli diede le spalle, tirando su i capelli con una mano per scoprire il suo lungo collo morbido.
Lui sapeva che era sbagliato, ma eccolo lì, a metterle la collana al collo. Lasciando che le sue dita cicatrizzate toccassero la pelle immacolata di lei. Lasciandole accarezzare il lato della sua gola, assaporandone la consistenza vellutata. Elain tremò e lui si prese molto tempo per agganciare le due estremità.
Le dita di Azriel rimasero sulla sua nuca, appena sopra la prima vertebra. Lentamente, Elain si appoggiò sempre di più al suo tocco. Finché il suo palmo non fu premuto contro il collo di lei.
Non si era mai arrivati a quel punto. Si erano scambiati delle occhiate, gli occasionali sfioramenti delle dita, ma mai quello. Mai un tocco palese, senza restrizioni.
Sbagliato, era così sbagliato.
Non gli importava.
Aveva bisogno di sapere quale fosse il sapore della pelle del suo collo. Di cosa sapevano quelle labbra perfette. I suoi seni. Il suo sesso. Aveva bisogno che gli venisse sulla lingua…
Il membro di Azriel era dolorante dentro i pantaloni, faceva così male che a malapena riusciva a pensare. Pregò che lei non guardasse in basso. Pregò che non percepisse il cambiamento nel suo odore.
Si era concesso quei pensieri solo nel mezzo della notte. Allora permetteva alla sua mano di impugnare il suo pene e pensare a lei, quando anche le sue ombre erano andate a dormire. Come sarebbe stato il suo volto mentre la penetrava, i suoni che avrebbe emesso.
Elain si morse il labbro inferiore e servì ogni oncia di moderazione di Azriel per non affondare i propri denti lì.
«Dovrei andare» disse Elain, ma non si mosse.
«Sì» disse lui, il pollice che le accarezzava il lato della gola.
L’eccitazione di lei lo raggiunse ed i suoi occhi quasi si girarono all’interno della testa a quel dolce profumo. Avrebbe implorato in ginocchio per avere la possibilità di assaporarla. Ma Azriel si limitò ad accarezzarle il collo.
Elain rabbrividì, avvicinandosi. Era così vicina che con un respiro profondo i suoi seni gli avrebbero sfiorato il petto. Lo guardò, il viso così fiducioso, speranzoso ed aperto che lui sapeva che lei non aveva idea delle indicibili cose che gli avevano insudiciato le mani molto oltre quelle cicatrici.
Cose così terribili che era un sacrilegio che le sue dita toccassero la sua pelle, contaminandola con la sua presenza.
Ma poteva avere quello. Quel momento e magari un assaggio e sarebbe finita lì.
«Sì» mormorò Elain, come se avesse letto la decisione. Solo quell’assaggio nel cuore della notte più lunga dell’anno, dove solo la Madre gli sarebbe stata testimone.
La mano di Azriel scivolò lungo il suo collo, infilandosi tra i suoi voluminosi capelli. Muovendole la testa nel modo in cui voleva. La bocca di Elain si aprì leggermente, gli occhi puntati sui suoi prima di chiuderli.
Offerta e permesso.
Quasi gemette dal sollievo e dal bisogno mentre abbassava la propria testa verso quella di lei.
“Azriel.”
La voce di Rhys tuonò in lui, fermandolo a pochi pollici dalla dolce bocca di Elain.
“Azriel.”
Un inesorabile comando riempiva il suo nome ed Azriel alzò lo sguardo.
Rhysand era in cima alle scale. Guardandoli torvo dall’alto.
“Nel mio ufficio. Ora.”
Rhys sparì ed Azriel rimase di fronte ad Elain, ancora in attesa del suo bacio. Lo stomaco gli si torse mentre ritirava la mano dai suoi capelli, facendo un passo indietro. Costringendosi a dire «È stato uno sbaglio.»
Lei aprì gli occhi, dolore e confusione li annebbiarono prima che mormorasse «Mi dispiace.»
«Non devi… Non scusarti.» Riuscì a dire. «Non farlo affatto. Sono io quello che dovrebbe…» Scosse la testa, incapace di sopportare la desolazione che aveva fatto calare sulla sua espressione. «Buonanotte.»
Azriel trasmutò nelle ombre prima di poter dire qualcosa, apparendo alle porte dello studio di Rhys un attimo dopo. Le sue ombre gli bisbigliarono all’orecchio che Elain era andata al piano di sopra.
Rhys era seduto alla scrivania, la furia di una notte senza luna era dipinta sul suo viso. Gli chiese piano «Sei fuori di testa?»
Azriel indossò la maschera di gelo che aveva perfezionato mentre stava nella cella di suo padre. «Non so di cosa tu stia parlando.»
Il potere di Rhys si espanse nella stanza come una nube oscura. «Sto parlando di te, che stavi per baciare Elain, nel mezzo dell’atrio dove chiunque avrebbe potuto vedervi.» Abbaiò. «Incluso il suo compagno.»
Azriel si irrigidì. Lasciò la sua gelida rabbia salire in superficie, la rabbia che lasciava vedere solo a Rhysand, perché sapeva che il fratello poteva uguagliarla.
«E se il Calderone si fosse sbagliato?»
Rhysand batté le palpebre. «Che mi dici di Mor, Az?»
Azriel ignorò la domanda. «Il Calderone ha scelto tre sorelle. Dimmi come è possibile che i miei due fratelli siano con due di quelle sorelle, ma la terza sia stata data a qualcun altro.» Non aveva mai osato dire quelle parole ad alta voce.
Il viso di Rhys perse colore. «Credi di meritartela come compagna?»
Azriel sbuffò. «Credo che Lucien non sarà mai abbastanza per lei, e comunque lei non ha interesse verso di lui.»
«Quindi cosa farai?» La voce di Rhys era ghiaccio puro. «La sedurrai via da lui?»
Azriel non disse nulla. Non aveva mai pianificato di arrivare a quel punto, sicuramente non oltre le fantasie da cui traeva piacere.
Rhys ringhiò «Lascia che metta in chiaro una cosa. Tu le devi stare lontano.»
«Non puoi ordinarmi questo.»
«Oh, posso e lo farò. Se Lucien scopre che le stai dietro, avrà tutto il diritto di difendere il loro legame come preferisce. Incluso l’invocare il Duello di Sangue.»
«È una tradizione della Corte d’Autunno.» La battaglia fino alla morte era così brutale che veniva messa in atto in rari casi. Nonostante ne fosse estraneo, Azriel aveva voluto invocarlo quando aveva trovato Mor tutti quegli anni prima. Era stato pronto a sfidare sia Beron che Eris al Duello di Sangue, uccidendoli entrambi. Solo il diritto che aveva la mano di Mor di reclamare le loro teste per vendetta lo aveva frenato dal farlo.
«Lucien, come figlio di Beron, ha il diritto di richiederlo.»
«Lo sconfiggerò senza tanto sforzo.» Pura arroganza rivestiva ogni parola, ma era vero.
«Lo so.» Gli occhi di Rhys si mossero. «E se lo facessi, distruggeresti ogni fragile pace ed alleanza che abbiamo, non solo con la Corte d’Autunno, ma anche con la Corte di Primavera e Jurian e Vassa.» Rhys scoprì i denti. «Quindi lascerai stare Elain. Se ti devi scopare qualcuno, va in una casa di piacere e paga per farlo, ma le starai lontano.»
Azriel ringhiò leggermente.
«Ringhia quanto ti pare.» Rhys si appoggiò alla sedia. «Ma se ti vedo di nuovo a sbavarle dietro, te ne farò pentire.»
Rhys minacciava o si imponeva raramente. Colpì Azriel abbastanza forte da farlo rinsavire dalla sua rabbia.
Rhys indicò con il mento la porta. «Esci.»
Azriel richiuse le ali e se ne andò senza ulteriore parola, attraversando la casa e uscendo in giardino, sedendosi alla fredda luce stellare. Facendo combaciare il gelo nelle sue vene con l’aria attorno a sé.
Finché non sentì più nulla. Di nuovo non era più nulla.
Poi volò verso la Casa del Vento, sapendo che se avesse dormito nella tenuta sul fiume, avrebbe fatto qualcosa di cui poi si sarebbe pentito. Aveva fatto così attenzione a tenere Elain il più lontano possibile, era rimasto in piedi per evitarla, e quella notte… quella notte aveva avuto la conferma di aver fatto bene.
Puntò verso il campo d’allenamento, cedendo al bisogno di buttare fuori la tentazione, la rabbia e la frustrazione ed il bisogno impellente.
Lo trovò già occupato. Le sue ombre non lo avevano avvertito.
Era troppo tardi per atterrare senza sembrare che stesse correndo. Azriel atterrò nel quadrato a pochi piedi da dove Gwyn si stava allenando nel freddo della notte, la sua spada che brillava come ghiaccio nella luce lunare.
Si fermò a metà di un fendente, girandosi verso di lui. «Mi dispiace. Sapevo che foste tutti alla casa sul fiume, quindi credevo che a nessuno sarebbe importato se fossi salita quassù e…»
«Non c’è problema. Sono venuto a recuperare una cosa che mi sono scordato.» La bugia era piatta e fredda, come sapeva essere il suo volto. Le sue ombre la guardarono da dietro le ali.
La giovane sacerdotessa sorrise, ed Azriel sapeva che poteva essere diretto alle sue ombre curiose. Ma si infilò una ciocca di capelli castano ramato dietro l’orecchio a punta. «Stavo provando a tagliare il nastro.» Con la spada indicò il nastro bianco, che sembrava brillare d’argento.
«Non hai freddo?» Il respiro formò una nuvoletta davanti a sé.
Gwyn scosse le spalle. «Una volta che ti muovi, non te ne accorgi più.»
Lui annuì, il silenzio cadde. Per un istante, i loro sguardi si incrociarono. Bloccò la terribile memoria che gli passò davanti agli occhi, così in contrasto con la Gwyn che vedeva davanti a sé in quel momento.
Lei abbassò il capo, come se stesse ricordando anche lei. Che era stato lui a trovarla quel giorno a Sangravah. «Buon solstizio» disse lei, tanto un congedo quanto un augurio per le feste.
Sbuffò. «Mi stai cacciando?»
Gli occhi verde acqua di Gwyn ebbero un baluginio d’allarme. «No! Voglio dire, non mi disturba condividere il quadrato. È solo che… so che ti piace stare da solo.» La sua bocca si spostò di lato, schiacciando le lentiggini sul suo naso. «È per questo che sei venuto quassù?»
Circa. «Mi sono scordato una cosa.» le ricordò.
«Alle due di mattina?»
Puro divertimento le brillava negli occhi. Meglio del dolore che aveva notato un momento prima. Quindi le offrì un sorriso sghembo. «Non riesco a dormire senza la mia daga preferita.»
«Un conforto per ogni bambino che cresce.»
Le labbra di Azriel si contrassero. Si trattenne dal dire che dormiva eccome con una daga. Molte daghe. Inclusa una sotto il cuscino.
«Come è andata la festa?» Il suo respiro formò una nuvoletta davanti alla bocca ed una delle ombre scattò per danzarci insieme prima di tornare da lui. Come se avesse sentito una musica silenziosa.
«Bene» disse, realizzando un attimo dopo che non era una risposta socialmente accettabile. «È andata bene.»
Non che fosse molto meglio. Quindi chiese «Tu e le sacerdotesse avete celebrato?»
«Sì, anche se la cerimonia è stata il momento saliente.»
«Capisco.»
Lei inclinò la testa, i capelli luccicarono come metallo fuso. «Tu canti?»
Batté le palpebre. Non succedeva tutti i giorni che qualcuno lo coglieva di sorpresa, ma… «Perché lo chiedi?»
«Ti chiamano cantaombre. È perché canti?»
«Io sono un cantaombre, non è un titolo che si è inventato qualcuno.»
Lei scosse nuovamente le spalle, irriverente. Az socchiuse leggermente gli occhi, studiandola. «Comunque, lo fai?» continuò. «Canti?»
Azriel non riuscì a trattenere una debole risata. «Sì.»
Lei aprì la bocca per chiedere altro, ma lui non se la sentiva di spiegare. O di fare dimostrazioni, dato che di sicuro era quello che gli avrebbe chiesto subito dopo. Quindi Az indicò con il mento la spada nella mano di lei. «Riprova a tagliare il nastro.»
«Cosa… con te che guardi?»
Annuì.
Lei ci pensò e lui si chiese se avrebbe detto di no, ma Gwyn esalò un respiro, si bilanciò con i piedi e tirò un fendente. Un preciso colpo eseguito molto bene, ma non abbastanza da tagliare il nastro.
«Ancora» ordinò lui, sfregandosi le mani per contrastare il freddo, ringraziando per il suo morso frizzante e la distrazione da quella lezione improvvisata.
Gwyn fendette di nuovo, ma il nastro non cedette.
«Giri la lama di una frazione rendendola parallela al terreno.» Spiegò Azriel, sfoderando la sua spada Illyrian da dietro la schiena. «Guarda.» Fece una lenta dimostrazione, ruotando il polso come lei. «Vedi come apri qui?» Corresse la sua posizione. «Tieni il polso così. La spada è un’estensione del tuo braccio.»
Gwyn provò il movimento lentamente, come lui, mentre la osservò correggersi da sola, lottando contro l’impulso di aprire il polso e di ruotare la lama. Lo fece tre volte prima di smettere di cadere in quella brutta abitudine. «Incolpo Cassian per questo. È troppo impegnato a fare gli occhi dolci a Nesta invece di notare certi errori in questi giorni.»
Azriel rise. «Te lo concedo.»
Gwyn fece un ampio sorriso. «Grazie.»
Azriel abbassò il capo accennando un inchino, qualcosa di inquieto si insediò in lui. Anche le sue ombre si erano calmate. Come se fossero contente di rimanere sulle sue spalle a guardare.
Ma… dormire. Aveva bisogno di provare a dormire un po’.
«Buon solstizio» disse Azriel prima di puntare verso l’arcata nella Casa. «Non restare troppo a lungo. Ti congelerai.»
Gwyn annuì i suoi saluti, voltandosi di nuovo verso il nastro. Una guerriera che giudicava il suo avversario, ogni traccia di quell’affascinante irriverenza completamente sparita.
Azriel entrò nel calore della scalinata e mentre scendeva, avrebbe potuto giurare che un bellissimo, debole canto lo seguisse. Avrebbe potuto giurare che le sue ombre cantassero in risposta.
Dormì proprio come si sarebbe aspettato, ma quando Azriel tornò alla casa sul fiume per raccattare i suoi regali prima dell’alba, trovò la collana di Elain posata sulla pila. La mise in tasca. Passò il resto della giornata, anche la dannata battaglia a palle di neve, con l’intenzione di riportarla al negozio nel Palazzo del Filo e dei Gioielli.
Ma quando ritornò dalla cabina nelle montagne, non andò alla piazza del mercato.
Invece, si trovò nella biblioteca sotto la Casa del Vento, in piedi di fronte a Clotho, mentre l’orologio suonava le sette di sera.
Fece scivolare la scatolina sulla scrivania. «Se vede Gwyn, potrebbe darglielo?»
Clotho inclinò la testa incappucciata e la sua penna incantata scrisse su un pezzo di carta. Un regalo per il solstizio da parte sua?
Azriel scosse le spalle. «Non ditele che è da parte mia.»
Perché?
«Ha bisogno di saperlo? Ditele solo che è un regalo da parte di Rhys.»
Sarebbe una bugia.
Evitò l’impulso di incrociare le braccia, non volendo sembrare intimidatorio. Bloccò fuori dalla mente la memoria che gli si presentò, sua madre farsi piccola di fronte a suo padre, il maschio in piedi con le braccia incrociate in un modo che faceva capire il suo disappunto prima ancora che aprisse la sua odiosa bocca.
«Ascolti, io…» Az cercò le parole giuste, la voce che si attenuò.
«Se c’è un’altra sacerdotessa qui che potrebbe apprezzarla, la dia a lei. Ma quando me ne andrò non avrò con me quella collana.»
Aspettò che la penna di Clotho finisse di scrivere. I vostri occhi sono tristi, Cantaombre.
Le offrì un sorriso triste. «Oggi ho perso la battaglia a palle di neve.»
Clotho era abbastanza intelligente da vedere attraverso la sua deflessione. Scrisse La darò a Gwyneth. Le dirò che un amico l’ha lasciata per lei.
Non avrebbe esattamente chiamato Gwyn un’amica, ma… «Va bene. Grazie.»
La penna di Clotho si mosse nuovamente. Si merita qualcosa di bello come questo. Vi ringrazio per la gioia che le porterà.
Qualcosa si accese nel petto di Azriel, ma si limitò ad annuire i suoi ringraziamenti e se andò. Poteva immaginarselo, comunque, mentre saliva le scale verso la vera Casa. Come gli occhi verde acqua di Gwyn si sarebbero illuminati a vedere la collana. Per qualche motivo… Riusciva a vederlo.
Ma Azriel mise da parte il pensiero, cancellando consciamente il sorriso che si era dipinto sul suo viso. Mise l’immagine nel profondo di sé, dove brillava piano.
Un qualcosa di una splendida bellezza segreta.
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colorfulprincewombat · 7 months
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Bonjour à tout le monde. Oggi la storia della più celebre "pretty woman" francese, del XIX secolo. Valtesse Delabigne. Nella storia di Émilie-Louise Delabigne ci sono tutti i passaggi obbligati di una giovanissima ragazza che si dedica alla prostituzione, fino a diventare una cortigiana in grado di influenzare i più potenti uomini dell’epoca e che, grazie alla sua professione, riesce ad accumulare un patrimonio pari a oltre 2 milioni di euro al cambio attuale.
Louise Delabigne (1848-1910) era la figlia naturale di una donna che per mantenere i sei figli si prostituiva per pochi soldi, e di un padre alcolizzato e violento, che le impedì per sempre di nutrire fiducia negli uomini. A 13 anni, già bellissima con i suoi capelli rosso-oro e intensi occhi azzurri, Louise perse la sua innocenza, violentata per strada da un uomo anziano che probabilmente l’aveva notata nel negozio di abbigliamento dove lavorava.
Il destino sembrava aver segnato il suo percorso: divenne una grisette, che nella gerarchia della prostituzione indicava quelle giovani donne che si vendevano per strada, rischiando l’arresto e il taglio dei capelli, se fermate dalla polizia. Intanto Louise lavorava anche in negozio di abbigliamento intimo femminile, frequentato da uomini facoltosi. Lì incontrò un giovane uomo che le prese il cuore e le diede due figlie, ma non trovò il coraggio di sposarla. Dopo quella deludente esperienza amorosa, Louise decise che non si sarebbe mai sposata, preferendo arrivare al traguardo della ricchezza e della notorietà con altri sistemi:
vendersi senza mai darsi veramente, senza eccezioni per nessuno
Intanto era salita di un gradino nella scala sociale delle mondane: era una lorette, che nel gergo della categoria indicava quelle donne che venivano mantenute da pochi clienti selezionati. La sua grande occasione arrivò quando conobbe il compositore Jacques Offenbach, che la elevò a livello delle grandes horizontales, cortigiane i cui favori erano contesi da tutti quegli uomini che potevano permetterselo. Divenne l’amante e musa ispiratrice di molti artisti, come Edouard Manet, Henri Gervex, Gustave Coubert, e altri pittori famosi, tanto che fu soprannominata “l’Union des Peintres”. Nel frattempo aveva cambiato nome, si faceva chiamare Valtesse de La Bigne: Valtesse aveva grosso modo lo stesso suono di “Votre Altesse” (vostra altezza). Con questo pretenzioso nome riuscì a rovinare economicamente diversi personaggi della nobiltà francese ed europea: il principe Lubomirski di Polonia e il principe de Sagan.
Dai suoi amanti pretendeva abiti lussuosi e gioielli preziosi, case, carrozze, viaggi, cene in locali prestigiosi, tanto che non ammise nella sua camera da letto lo scrittore Alexandre Dumas dicendogli: “Caro signore, non è nei tuoi mezzi”.
In un certo senso fu un altro scrittore, Emile Zola, a prendersi una rivincita sulla cortigiana: scrisse il libro Nanà, che ebbe un enorme successo, ispirandosi proprio a lei, la sirena che incantava e poi distruggeva gli uomini che si illudevano di possederla, descritta come amabile ma spietata, un ritratto poco lusinghiero che irritò molto la Valtesse. Valtesse fu abbastanza lungimirante da capire che la sua attività era legata all’età, così si ritirò a vita privata, nella sua lussuosa dimora a Ville-d’Avray, quando aveva poco più di 50 anni. Continuò però a istruire giovani donne sull’arte di intrattenere gli uomini, fino a quando, il 29 luglio del 1910, le scoppiò una vena e morì.
Lei stessa aveva scritto il suo annuncio funebre, che rivela un animo poetico nascosto sotto le vesti da cortigiana: “Bisogna amare un po’ o molto, seguendo la natura, ma velocemente, in un istante, come si ama un canto degli uccelli, che parla alla propria anima e che si dimentica con la sua ultima nota, come uno ama i colori cremisi del sole nel momento in cui scompare sotto l’orizzonte “.
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sonounacattivapersona · 8 months
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«Pinacoteca Ambrosiana, Milano.
In una piccola teca è conservato un tesoro.
Un garbuglio di sottili fili gialli che formano un intreccio ad anello verso l’estremità. Niente di che all'apparenza, forse solo una reliquia; e invece se vai a fondo scopri che dietro c'è un mondo. Una storia d'amore bellissima quanto proibita, tra un dotto umanista e una ragazza tormentata. Per viverla bisogna spostarci un po' più ad est, e tornare indietro nel tempo, tanti e tanti anni fa.
Ferrara 1502. Quel giorno, alla corte ducale, erano attesi giovani poeti e letterati.
Per il ragazzo era un'occasione d'oro. Poteva finalmente mettersi in mostra e farsi notare dalla duchessa. Se tutto fosse andato come sperava, avrebbe avuto anche l'occasione di entrare nella sua cerchia ristretta di letterati. Lei amava gli artisti, e ovviamente far parte del suo "circolo" era garanzia di fama e ricchezza. Così giunse il suo momento. Il ragazzo entrò in sala e la vide. Conosceva la duchessa solo per sentito dire, e che fosse molto bella lo sapeva già, gliel'avevano ripetuto un milione di volte. Quello che lo sbalordì e lo lasciò senza parole fu che fosse così bella. Il poeta ci mise un po' di tempo a presentarsi, letteralmente folgorato dal bagliore della giovane duchessa. I suoi capelli biondi splendevano, illuminati dai raggi del sole che filtravano dalle grandi vetrate del palazzo. Già quei capelli, come si può dimenticarli? Non ci riuscì, e continuò a pensare a lei anche le ore successive all'incontro. Anche i giorni dopo. Anche le settimane dopo.
La duchessa era il suo pensiero fisso. Si invaghì così tanto da giungere a cambiare la struttura della sua prima opera che stava per uscire in quel periodo. La modificò sulla base di quel suo nuovo invaghimento. Un uomo che apriva il suo cuore verso l'amore più sincero e appassionato. E quando l'opera, chiamata "Gli Asolani", uscì, il poeta ne regalò subito una copia alla duchessa, che rimase positivamente colpita. Cominciarono a frequentarsi sempre più spesso, i due innamorati clandestini, e intrapresero una relazione platonica ma appassionata.
Poi però arrivò la peste e il poeta fu costretto a scappare dalla città. Lei rimase. Non poteva la duchessa abbandonare il suo popolo decimato. E tanto platonicamente quanto si erano frequentati di persona, così iniziarono un rapporto epistolare a distanza fatto di bellissime lettere d'amore. Lui però aveva ancora quel pensiero fisso: i capelli di lei, e glielo scrisse. Alla fine lei non mancò di compiere un gesto fortemente simbolico: si tagliò una ciocca dei suoi amati capelli e la inviò insieme a una lettera. Quando lui la ricevette, la tenne stretta a se, e la volle conservare per sempre all'interno di uno scrigno, che ormai era il più prezioso di tutti i tesori che possedeva. Quello che conteneva le lettere d'amore della duchessa.
I due non si rividero mai più ma continuarono a scriversi ancora per sedici anni. Poi lei morì giovanissima e lui divenne Cardinale. Uomo di chiesa e personaggio di spicco dell'Umanesimo italiano, famoso ancora oggi con il nome di Pietro Bembo.
Come quella ciocca di capelli sia giunta a Milano, non lo sa nessuno. Ma forse un motivo c'è.
Se la guardi all’interno della piccola teca, noti che è ancora perfettamente conservata, liscia e fresca come se fosse stata appena recisa.
Ecco, pare che in alcune notti, se osservi bene attraverso le finestre della Pinacoteca Ambrosiana, scorgi un bagliore. Una luce intensa che proviene dalla stanza dove è conservata la bionda treccia. Dicono che sia proprio la duchessa, che arriva e legge le lettere del suo amato Pietro Bembo, non prima di aver pettinato la propria ciocca di capelli.
Poi se ne va, svanisce in un educato silenzio, ma felice perché si è sentita amata. Lei, la discussa e tormentata duchessa di Ferrara, Lucrezia Borgia»
(Roberto Colombo, Alberto Angela UnOfficial Page Fan Italia)
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mediterraneosud · 8 months
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L' IRA DI UN DIO
"Ti devo parlare"
Disse Serena
Si incontrarono dove lavora lei.
Era un po' sulle sue
Seria
Si sedettero su una panchina, lei si accese una sigaretta si passò le mani sulle gambe , era agitata
- "Cosa succede? È successo qualcosa con il tuo ragazzo?"
"No... Ho visto che tu e Cassandra vi siete divertiti l'altra sera"
Subito il demone dentro Alex si agitò
Divenne serio.
- "Parla..." Rispose con voce secca.
"Lo conosco..."
Alex sogghignò
L'oscurità dentro di lui cominciò a bisbigliare ad accarezzarlo e accudirlo
-"Ma davvero? Hai capito la Serena" rispose con tono umoristico
"Si... A 18, 20 anni con mia sorella ci portavamo i cinquantenni"
Alex scoppiò a ridere e abbassò la testa
-"Ok... Continua..."
"Perché ridi?... E niente... Poi altre cose come sai con la Francesca con l'altra amica mia..."
- "Ok"
"Non dici nulla? Non traspare niente sei un po' inquietante"
- " Quindi?..."
"Vorrei proporti alcune cose..."
L'incendio dentro Alex bolliva di rabbia e dolore, l'oscurità in lui continuava a ripetergli "Te l'avevo detto che sono esseri inferiori sono feccia"
- Cosa vuoi propormi una cosa a 4 con il tuo ragazzo? Mi pare che avessi detto questo alla festa"
"Non solo... Quando alla festa avete parlato con il mio ragazzo e ti ha conosciuto ha detto che con te si è sentito non giudicato , libero. Lui è feticista dei piedi e appena avete parlato delle mie scarpe e dei piedi curati tu l'hai fatto sentire compreso. Gli hai detto che mi ci vedi Miss e che sono il tipo di donna da cui si parte dai piedi fino a salire."
- "Si... Ho detto esattamente questo è quello che penso."
"Poi il ragazzo di mia sorella..."
- "Ci osservava lo so "
"Fammi parlare per favore... Ha detto che siete una bella coppia perché siete liberi cioè ve ne fregate , ha detto che vi siete messi a giocare con i tappi della bottiglia o insieme al mio ragazzo a parlare di League of Legends e di sbarre di metallo su cui legare le gambe. È una delle poche volte che lui si apre così."
- "Fate cose tutti insieme e anche con tua madre giusto?"
"Non ti si può ingannare... Comunque si è capitato diciamo che sono qui più per mia madre. A mia madre sei sempre piaciuto, cioè ha detto che sei un bravo ragazzo e io gli ho detto ridendo se va beh è il peggiore di tutti è un diavolo."
- "Ringraziala è une bella donna anche lei molto composta"
Il sole ormai era sorto un freddo pungente nella città.
Tutto intorno c'era silenzio
"Mia madre mi ha detto che quelli come te sono i migliori a letto" disse Serena scoppiando a ridere
Era un po' imbarazzata, innocente quasi.
Ma Alex era serio, fermo , silente come la stessa morte . Perfino Ade si sarebbe inginocchiato dinnanzi a lui.
- "No."
La risposta fu secca, si perse subito nel vuoto della città ma sembrava riecheggiare come un eco nell'infinito.
"Ok... Ma perché a Cassandra non interessa? Cioè è troppo?"
La rabbia di Alex ribolliva l'oscurità avrebbe stritolato il collo di Serena fino ad annichilirla del tutto ad annullarla completamente.
- "Al parco giochi mi chiesi se mi piacessi ancora. Ma 3 anni fa se ben ricordi ti avevo travolta stavi con un co***one che pensava solo al lavoro e gli hai messo più corna tu che non so chi. Uno zombie mo**o dentro.
Il fatto è che vi fanno proprio con lo stampino a voi, siete tutti uguali , noiosi , scontato , privi di qualsiasi virtù. 3 anni fa ci hai giudicato hai fatto sch**o e non solo non sei stata mai sincera anche in macchina l'ultima volta. Vedi tutto quello che mi hai proposto per me è come bere un bicchiere d'acqua ma mi repelle la tua falsità... Dimmi... Serena perché dovrei dirti di sì?"
"Mi ha spaventato la tua intensitá, non sono tutti come te anzi per dirla tutta nessuno lo è e poi..."
Alex era in lacrime, odiava il mondo intero , esseri inferiori...
- "Pensavi di scandalizzarmi? O che ti giudicassi ? Sai che ca**o me ne frega? Il fatto è che mi ricordi troppo una donna... "
"Scusami... Ma non è facile"
- "Che cosa? Essere veri? Dire la verità? Essere sinceri? Credi che non sentissi già quello che eri? Io sento tutto prima, ho qualcosa dentro che mi fa vedere prima cosa siete... Non potete nascondervi ai miei occhi!"
"Avevo paura... "
- "Dovresti avere paura di quelli che ti sco***o senza amore, della falsità, della menzogna se proprio devi avere paura di qualcosa non della passione! Non dell'amore! Dovevi dirmi la verità in quel momento quando sentivi addosso tutto non ora! Non ora perché hai visto che viviamo le cose anche io e Cassandra e allora perché ti ho spiattellato i video in faccia della serata e di quello che abbiamo fatto dopo hai deciso che andavamo bene. Non devo dimostrare niente a nessuno! E non sono io a dover essere valutato!"
"Non ti conoscevo bene... Scusami... Di alcune cose me ne vergogno del mio passato"
- "All'Amore non frega un ca**o del tuo passato! Quando qualcuno ama veramente accetta tutto quello che c'è in una persona luce e ombre e vive tutto e quello che per voi è il sesso libero il sesso intenso ecc per l'Amore è niente è noia. Per quello che porto dentro siete risa ... Siete un gioco."
"Lo so... Scusa"
- "Sai cosa penso che ti sei riavvicinata a me solo perché sto diventando un figo e sono dimagrito solo perché hai capito che ho tutto e sono tutto e si te lo dico io non ci sarebbero problemi a sco**rti qui in piazza davanti a tutti. O e non solo a fare molto peggio questo è niente "
"Lo so.. ma sei tu che sei così... Sei diverso... Sei più unico..."
- "Non dirlo! Non dirlo porco D*o!
Vattene... Amo un'altra donna vai a lavoro."
"Certo perché l'amore giustifica tutto vero?"
- "No... L'amore non è mai perdonato mentre lo sch**o, il marciume , il male viene sempre giustificato."
" Altro che angelo tu sei il diavolo davvero"
- "Si! E va benissimo così! Ringrazia tutti e salutameli"
Alex prese e se ne andò scoppiò in lacrime lungo la strada di casa urlava nel silenzio.
L'oscurità in lui gli parlava lo abbracciava gli sussurrava perfino.
Parlò con sé stesso:
"Che cosa hai deciso di fare?" Chiese l'oblio
- "Andiamo a caccia..."
"Si mio Signore... "
- "Chi si frappone tra me e lei distruggilo"
"Esige questo?"
- "Esigo prendermi il mio posto accanto a lei"
"Cosi sia..."
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