#Lee!fantoccio
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Requests? Say no more! 😉
I would LOVE to see a tickle fight between Fanto and Barnaby~ 😁 (maybe with Barnaby's ghost minions joining and cheatinghelping him?)
OH YEAH I SEE THEM DOING THAT OFTEN-
Welp, its true, calling the Barnaboos for help it's CHEATING-
But Big question is..
WHO WON?
Anyways here is more food.
#billie bust up#bbu tickles#billie bust up tickles#barnaby the ghost owl#bbu fantoccio#bbu barnaby#lee!fantoccio#lee!barnaby#ler!fantoccio#ler!barnaby#Tickle fight#sfw tickling community#My art#Bee#Make sure to send more!#come get your food
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I gotta be honest guys… Fanto is a Ler…. I know I know, I love my faves being Lees so much, they’re adorable, but Fanto is such a specific case. He canonically doesn’t like being touched much- unless he initiates it- and I don’t think he’d enjoy being overwhelmed or out of control. I do think he’d love being a ler and being the one making others smile- and also enjoy the power trip tbh! He’d just have a lot of fun as a ler, but I definitely don’t think he’d like being a lee unless he was in a very specific and rare mood for it. It would have to be with someone close to him that he trusts alot, and also be very light and gentle tkls, probably just stuff like tracing the palms of his hands or little scratches at his chin.
I do think he’d be fairly tklish, but I don’t think he’d enjoy it unless under those very specific conditions because of his sensory issues, and it would overstimulate him too much. Like, I think he’d be genuinely upset at a surprise attack, and probably not trust the person again for a while, if at all. It would have to be with his specific consent, and with very strict rules about where is okay to touch and what sensations are okay to apply. And if he says to stop, the ler better stop immediately.
But he’ll tkl others freely, as long as he’s in control of it, he enjoys it! He’ll do a lot of silly antics and creative little things too, even putting effort into little acting bits or gimmicks. He loves entertaining as well as seeing others at his mercy just from so little effort on his end. Hell, he doesn’t have to touch his lee if he doesn’t want to- which sometimes, yeah, he doesn’t- he’s got plenty of creative tools and even his magic to get them squealing for him. If he’s not making them laugh from the tkling (for some impossible reason), his antics and theatrics will have his lee laughing regardless.
#tickle rambles#static talks#Ler!fantoccio#lee!fantoccio#he just doesn’t strike me as much of a lee! I’m all here for Lee headcanons tho!#this is just my interpretation#i think his sensory issues would make it hard#but I do think he would love tkls in general!#it’s probably something very personal and almost intimate to him tho#and it’s part of why he really only likes light tkls#it’s just something gentle and soft that gets him all giggly and feelin all fuzzy#anything intense just wouldn’t be very enjoyable for him#too much touching and overstimulation :(#and don’t even think about restraining him#i really think he would hate it#tickle hcs#yehhh :)#by all means tho#lee Fanto content is really cute!! i just like to project haha#he definitely does have rare moods where he wants some good Tkling tho!#its just gotta be with his very specific consent and rules to follow#and with someone very close to him#which is very few people…
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#billie bust up tickling#billie bust up tickle#ler billie#lee billie#lee fantoccio#ler fantoccio#my art#tickle art
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Trentacinque anni vissuti con un corpo estraneo
trentacinque anni
con i capelli tinti
trentacinque anni
con un fantoccio.
Ma io non sono Marylin
io sono Norma Jean Baker
perché la mia anima
vi fa orrore
come gli occhi delle rane
sull'orlo dei fossi?
*
Di tanto in tanto
faccio delle rime
ma non prendetevela
con me.
All’inferno, so benissimo
che non si vende;
quel che voglio dire
è quel che ho in testa.
Dipingere i piatti
dipingere i desideri
con i pensieri
che volano via
prima che muoia
e pensare
con l’inchiostro.
*
Quel che ho dentro nessuno lo vede
ho pensieri bellissimi che pesano
come una lapide.
Vi prego fatemi parlare.
[E in privato, lontano da occhi indiscreti, Marilyn Monroe scriveva. E scriveva poesie. Poesie e frammenti, scarabocchi su notebook e quadernetti, su fogli sparsi, su menù e fazzoletti di carta. Sono raccolti in Fragments, i suoi scritti tra il 1943 e il 1962. Vennero scoperti dopo la sua morte dalla vedova Strasberg, moglie del maestro di Marilyn, Lee, a cui lei aveva destinato tutti i suoi effetti personali. Erano in un paio di scatole.
La donna più desiderata del mondo aveva una sensibilità accesa. Le sue note rivelano le molte letture, e le sue parole riflettono un’intelligenza brillante e non comune, quella di una donna che cercava sempre le parole per raccontarsi. E ciò che svelano, soprattutto, è il tragico scollamento tra il personaggio pubblico e quello privato, così vulnerabile, così incompreso, desiderato ma non visto per quello che era...
Fragments.
Poesie, appunti, lettere di Marilyn Monroe. Feltrinelli ]
a Marilyn
collage fotografico Dina Carruozzo Nazzaro AtelierD
(Cecil Beaton & Milton H. Greene)
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Cinque domande al cuore della tempesta. Parte 2: Black Anarchy in the USA. Intervista ad @AfroVitalist
1. Negli Stati Uniti è stato calcolato che la polizia uccide una persona nera ogni 28 ore, un dato drammatico. Come mai ora, come mai questa volta, l'assassinio di George Floyd ha innescato un processo insurrezionale?
La sollevazione di massa in relazione all'assassinio di George Floyd ha determinato un processo insurrezionale. Ma ad essere onesti penso che il Covid abbia fornito un contesto nel quale le motivazioni per agire erano già presenti.
Negli Stati Uniti fino ad aprile, anzi direi prima del Covid, eravamo in una specie di periodo buio. Gentrificazione di massa, la classe lavoratrice nera cacciata via dalle città, spinta fuori, verso le periferie o come le chiamiamo qui le hinterland. Credo che il contesto dell'insurrezione di George Floyd e tutto il processo abbiano devastato certe legittimazioni, come quella del Partito Democratico, o come quella del mito della Black leadership in America. Siamo su un terreno libero. Ma è veramente il Covid che ha fornito il contesto per la ribellione di George Floyd, per la sua diffusione in tutti gli Stati Uniti. Ma se torniamo indietro e la osserviamo come una continuità con Ferguson, vediamo che la risposta dei fratelli e delle sorelle fu piuttosto simile: i modi in cui si sollevarono, diedero vita spazi comuni, come la gente si coordinava, come venivano usate le auto... Sono le stesse cose che vediamo oggi ad Atlanta e a Chicago, fino agli espropri di massa.
Non credo che ciò sia venuto dal nulla, credo che la ribellione era già qui: questa società bianca negli USA è veramente repressiva.
C'è una sofferenza generalizzata causata dal Covid, non solo nella comunità nera ma per tutti, in tutto il mondo, e per quanto riguarda gli USA ha colpito davvero tutti: neri, bianchi, ricchi e poveri. Una spoliazione generale, un divenire nera (blackening) dell'America.
2. Parliamo delle manovre repressive. Sembra che la controinsurrezione abbia lavorato sulla narrazione degli “anarchici bianchi” e dei “provocatori venuti da fuori” e messo in atto teatrini quali i poliziotti che si inginocchiavano, attori pagati vestiti da Black Panther, ecc. Quale di queste tecniche ha funzionato maggiormente e quale ha fallito?
Per quanto riguarda la controinsurrezione credo che la tecnica più forte usata, a parte fisicamente il dispiegamento delle truppe, sia stata quella di agitare il fantoccio dei “provocatori venuti da fuori”. Si tratta della narrazione più efficace per lo stato, motherfuckers che vengono da chissà dove per fare casino, senza il “permesso della comunità”, ossia di quelli che si sono autoproclamati leader della piazza. Ma stiamo vivendo una nuova era, un tempo nuovo, questo è il tempo della black anarchy. Nessuno può controllare questa cosa, non c'è alcuna leadership nera. La leadership nera è un mito controinsurrezionale, sta solo nell'immaginazione dei liberal bianchi.
In alcune città ha funzionato in altre no, in alcune il livello della controinsurrezione coincideva essenzialmente con una ipermilitarizzazione del territorio e basta.
Se qualcuno prova a mettersi nella posizione di portavoce o leader del movimento, in quell'esatto momento viene delegittimato nella pratica, nel contesto della rivolta. Perché la rivolta non vede leader, non patrocina personalismi o individualità di sorta. Si tratta letteralmente di un'onda, un'onda nera, di rabbia e amore. I motherfuckers espropriano e cercano di capire come organizzare un mondo diverso. Perché hanno molto più tempo a disposizione adesso. Il sussidio di disoccupazione dovrebbe terminare il mese prossimo ma la gente ha ricevuto più di quello che avrebbe guadagnato con un lavoro. Queste contraddizioni sono difficili da sanare: puoi stare a casa e prendere 600 dollari a settimana, a fronte dei 400 che guadagneresti con un lavoro di merda che odi ed è sottopagato. Gli standard sono cambiati. Questa cosa va contestualizzata perché pare che Trump stia cercando di comprarsele queste elezioni.
3. Decolonizzare gli Stati Uniti. Le statue cadono. Un Paese fondato sulla guerra civile, sul genocidio e sulla schiavitù sta tremando. Nelle strade riecheggia il coro: “five hundread years” [cinquecento anni]. Questo discorso è diffuso ampiamente nella comunità nera e fuori di essa?
A un qualche livello, forse non allo stesso per tutti... Bisogna considerare che sul campo, nei primi giorni e nelle prime notti, diciamo dal 30 maggio al 5 giugno, i motherfuckers a migliaia espropriavano e non c'erano attivisti.
Da un punto di vista storico è chiaro che l'America è stata fondata sulla schiavitù e la polizia è direttamente connessa alle pattuglie schiaviste e alla colonizzazione da parte dei capitalisti europei, ai conquistadores. Tutto ciò è nella coscienza e nella memoria degli afrodiscendenti nelle strade. L'America non è una nazione, è un impero. Ed è giusto che i motherfuckers buttino tutto giù, simbolicamente il gesto di buttare giù una statua, un monumento razzista, è un modo con cui dicono: “L'America è la prossima”. Il sistema carcerario è un monumento: Mount Rushmore, o Stone Mountain ad Atlanta, Georgia [un monadnock, un rilievo montagnoso isolato, di adamellite di quarzo con il bassorilievo più grande del mondo situato sulla facciata nord, completato nel 1972, che rappresenta alcuni dei personaggi di spicco dei Confederati: Stonewall Jackson, Robert E. Lee e Jefferson Davis]. L'idolatria dell'America è il suprematismo bianco. La decolonizzazione dell'America sarà l'abolizione dei “bianchi”, delle relazioni sociali capitaliste. Penso che ad un certo livello questi discorsi, l'America come colonia, come impero, buttare giù le statue razziste, siano diffusi nella comunità nera.
4. Definanziare la polizia. Vedi in atto una nuova ondata di abolizionismo? Possiamo dire: “non si può abolire la polizia senza abolire il capitalismo” non solo come slogan ma anche come indicazione?
Abolizionismo come desiderio, un tentativo di desiderare di abolire lo stato di cose presente negli Stati Uniti. Alcuni vedono il de-finanziamento della polizia come un processo molto pacifico nei confronti delle guardie, togliere loro i soldi per le operazioni di controinsurrezione nella comunità nera volte a reprimere la rivolta. Un convergenza di vari gruppi, in cui i discendenti razzializzati si uniscano ad altri gruppi di persone per creare un mondo nuovo, per stabilire un nuovo tipo di ordine, ritmo e forma di vita.
Credo però che il definanziamento della polizia non possa accadere senza la demolizione del mantenimento dell'ordine pubblico (policing) in generale: ma credo che per cominciare il definianziamento sia una buona cosa, perché buca lo schermo immediatamente. L'abolizione cambia le carte in tavola, alcune amministrazioni cittadine hanno effettivamente tagliato i fondi. Cosa succederà dopo ciò? Questo è tutto da vedere, non credo che potrà andare peggio, per esempio sul terreno della sorveglianza... ma la polizia è in rivolta, stanno protestando, alcuni di loro hanno fatto delle dichiarazioni. La polizia in America è una forza politica a sé, con i suoi sindacati. Sarà una sfida togliere i soldi ai dipartimenti di polizia, non sarà abbastanza, non senza un movimento che la circondi.
L'abolizione del mantenimento dell'ordine pubblico, la sua demolizione, le relazioni sociali senza la mediazione degli sbirri, come succede altrove fuori dagli Stati Uniti... Penso che ci sia effettivamente un terreno fertile per l'abolizione, per il desiderio di un nuovo mondo. Questo non ha niente a che fare con la sinistra istituzionale o con l'attivismo: è un “tiriamo giù tutto” (let's tear the shit down) generale.
5. Prospettive. Un'insurrezione può durare settimane o mesi, può finire a causa della repressione, della stanchezza, della mancanza di obiettivi pratici o con delle elezioni. Cosa vedi all'orizzonte? Cos'è irreversibile?
L'economia continua a vacillare. Nel contesto del Covid e del cambiamento climatico, l'America è finita. Quella che chiamiamo America da un punto di vista territoriale subirà un processo di balcanizzazione. All'orizzonte vedo queste milizie bianche attive nella West Coast che cercano di guadagnare terreno e di prendere possesso di riserve o territori sotto tutela dello stato... Speriamo non proprio una guerra civile – ciò dipenderà anche da come andranno le elezioni e da cosa farà Donald Trump – ma senz'altro questo è solo l'inizio di una tempesta. Ciò che verrà dopo sarà addirittura più folle di quello che abbiamo visto. Perché non c'è modo in cui queste contraddizioni possano sostenersi tutte insieme. La ricerca di profitto, di ordine e di “benessere” è a discapito della vita umana, del benessere umano, della pienezza umana.
La gente ha provato con mano la propria potenza, il fatto che il denaro è un mito e che “i bianchi” sono dei demoni; e la delegittimazione del processo elettorale. Che Trump vinca o meno il Partito Democratico non ha alcuna risposta alla crisi. I giovani non cercano leadership in nessuno se non in loro stessi. Non la cercano nella Black Left o in chiunque arrivi in piazza con un cazzo di megafono.
Questo è quello che riesco a vedere all'orizzonte: la balcanizzazione dell'America, diversi gruppi e fazioni che controlleranno diversi territori. E probabilmente una sorta di secessione.
https://twitter.com/AfroVitalist?s=20
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L’ASSASSINIO DIEM: IL LATO OSCURO DI KENNEDY
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L’ASSASSINIO DIEM: IL LATO OSCURO DI KENNEDY
John Fitzgerald Kennedy è un’icona molto amata del novecento. Giovane, bello, sorridente, ispirato, segnato da un tragico destino rappresenta nell’immaginario collettivo il volto positivo e progressista dell’America che un indecifrabile attentato ha spento per sempre.
Certo Kennedy fu una vittima, ma non per questo rifiutò, quando ne ebbe l’occasione, il ruolo di carnefice. Non seppe sfuggire alle spire della ragion di stato, si inoltrò nel lato oscuro del potere.
La sua breve presidenza fu una delle più complesse e travagliate della storia degli Stati Uniti. Dovette assumere decisioni difficilissime soprattutto in politica estera: dalla Baia dei Porci, alla crisi dei missili russi a Cuba, sino alla delicatissima questione del Viet-Nam corse il rischio di trasformare la guerra “fredda” in guerra “calda”. Nell’affrontare queste emergenze si sforzò, con alterne fortune, di essere “presidenziale”, cioè ostentò fermezza, determinazione, abilità diplomatica, senza tuttavia disdegnare i metodi poco ortodossi imposti dallo scontro tra i blocchi, ma difficilmente conciliabili con il mito democratico kennediano. A spingerlo su questo terreno non furono soltanto le trappole tesegli dalla CIA, ma anche, e forse più, l’ossessione di poter essere accusato di debolezza, di attendismo verso la minaccia comunista su scala planetaria.
Se l’episodio della Baia dei Porci fu più che altro un inganno della CIA a cui Kennedy si sottrasse all’ultimo momento sacrificando volontari cubani e se la crisi dei missili dell’ottobre 1962 non fu che un corollario della precedente leggerezza, corollario che divenne il suo capolavoro politico, offrendogli la possibilità di mostrare le sue qualità migliori come capo di stato, la risposta kennediana alla crisi vietnamita si configurò invece come una aperta e deliberata concessione alla ragion di stato. Tre settimane prima di cadere vittima di Lee Harvey Oswald, Kennedy, ansioso di allontanare da sé la ricorrente accusa di essere “soft on communism”, fu quanto meno complice del feroce assassinio del dittatore vietnamita Ngo Dinh Diem.
L’impegno degli Stati Uniti in Vietnam fu inaugurato dal presidente Eisenhower. Dopo la sanguinosa sconfitta inflitta alla Francia, nel maggio 1954, a Dien Bien Phu, dal movimento nazionalista Viet Minh, egemonizzato dai comunisti guidati da Ho Chi Minh, il congresso di Ginevra sancì la divisione del Vietnam intorno al 17° parallelo. In base agli accordi, mai formalmente sottoscritti dagli Stati Uniti, la divisione avrebbe dovuto preludere ad una riunificazione entro due anni attraverso libere elezioni, ma il governo americano, memore della recente vittoria dei comunisti di Mao in Cina, si guardò bene dall’appoggiare concretamente tale prospettiva. Si affrettò invece a manifestare, con un fiume di dollari, via via più imponente, il proprio appoggio all’ex imperatore vietnamita Bao Dai, riconosciuto dalla Francia come capo di stato del Vietnam indipendente.
Mentre Ho Chi Minh ricercava affannosamente aiuti militari, economici e tecnologici presso la Cina comunista e l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti impegarono ogni mezzo propagandistico per allargare la spaccatura tra la componente comunista e quella anticomunista del movimento nazionalista vietnamita. Facendo leva sulle atrocità vere o presunte commesse dai comunisti incoraggiarono l’esodo di 900.000 persone, per lo più cattolici, dal nord verso il sud, rendendo irreversibile la divisione del Vietnam e costituendo una solida base di consenso ad una politica tenacemente anticomunista. Particolarmente attive in questa operazione furono le cellule della CIA coordinate dal colonnello Lansdale, esperto di guerra psicologica. La Saigon Military Mission, l’efficiente struttura segreta creata da Lansdale, ricorse alla falsificazione di documenti vietminh ed alla corruzione degli indovini dei villaggi per terrorizzare i contadini diffondendo false profezie di disastro imminente sotto il regime comunista. Il compito di organizzare nel nord una vasta rete di resistenza e di sabotaggio fu invece affidato al maggiore Lucien Conein, un ufficiale di nascita francese, ma naturalizzato americano, destinato ad avere un ruolo di primo piano nel colpo di stato contro Diem nel 1963.
Alle attività di controinformazione e di infiltrazione nel territorio avversario l’amministrazione Eisenhower affiancò iniziative sul terreno politico e diplomatico. Nel settembre del 1954 il segretario di Stato Dulles promosse la costituzione della SEATO, cioè una frettolosa ed approssimativa imitazione della NATO per il sud est asiatico a cui aderirono, senza troppa convinzione, oltre agli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito, l’Australia, la Nuova Zelanda, le Filippine ed il Pakistan. Tale organizzazione, pur dimostrandosi sin dagli esordi debole ed eccessivamente eterogenea, contribuì a manifestare la volontà americana di non cedere neppure un palmo di terreno ai comunisti in quell’area. La costituzione dello scudo della SEATO fu la premessa al diretto coinvolgimento degli Stati Uniti nel sud est asiatico, andando a colmare il vuoto lasciato dai francesi, ormai inaffidabili come argine all’espansionismo comunista.
L’insofferenza americana per le conclusioni incerte e pasticciate di Ginevra, che avevano stabilito poco più di una tregua senza pacificare definitivamente la regione, trovò nel leader nazionalista cattolico Ngo Dinh Diem un interprete all’apparenza docile, autorevole ed affidabile. Alla luce dei fatti Diem si sarebbe rivelato agli occhi di Washington un alleato inefficiente, difficile da gestire, addirittura imbarazzante a causa del suo ottuso autoritarismo fondato sul nepotismo, ma nel 1954 l’amministrazione Eisenhower lo considerò l’unico leader politico su cui puntare per scalzare definitivamente i francesi senza fare concessioni ai comunisti.
Ngo Dinh Diem nacque nel 1901 nel Vietnam centrale da una famiglia di ferventi cattolici. Suo fratello Thuc intraprese la carriera ecclesiastica; lo stesso Diem in gioventù accarezzò l’ipotesi di prendere i voti, ma la disciplina del seminario lo spaventò, spingendolo verso la carriera burocratica al servizio dei colonizzatori francesi. A soli venticinque anni ottenne l’incarico di governatore provinciale distinguendosi per il suo impegno contro la propaganda comunista. Nel 1933 ottenne dall’Imperatore Bao Dai la nomina a ministro degli Interni, manifestando un zelo riformatore che fu male accolto dalle sospettose autorità francesi che lo allontanarono ben presto dalla carica.
Durante l’occupazione giapponese Diem non collaborò, ma ciò non gli fu sufficiente ad allontanare da sé i sospetti del movimento nazionalista Viet Minh che lo confinò in un primitivo villaggio al confine con la Cina. Suo fratello Khoi e suo nipote furono invece assassinati. La loro morte creò un fossato incolmabile con il Viet Minh ed in particolare con la frazione comunista. In un primo tempo Ho Chi Minh, sottovalutando le implicazioni dell’assassinio di Khoi e di suo figlio, cercò di coinvolgere Diem nella guerra di resistenza ai francesi, poi, dopo aver incassato un netto rifiuto, lo condannò a morte in contumacia. Tra il 1950 ed il 1954 Diem si rifugiò negli Stati Uniti dove riuscì ad intessere relazioni con personaggi influenti come il cardinale Spellman di New York che gli aprì la strada verso proficui contatti politici. Ai suoi interlocutori, tra cui vi furono il leader democratico Hubert Humphrey ed il giovane senatore del Massachusetts John Kennedy, Diem si presentò come una valida alternativa tra l’esausto colonialismo francese ed l’incombente pericolo comunista. Questa sua immagine di autentico nazionalista, mite, coraggioso e determinato, lo favorì nel 1954 quando Bao Dai, chiamato ancora una volta dai francesi a rivestire il ruolo di capo di stato fantoccio del Vietnam indipendente, dovette scegliersi un primo ministro che fosse gradito agli Stati Uniti.
L’esordio di Diem come capo del governo fu contrassegnato dalla precarietà. Il fragile stato sud vietnamita oltre a non essere in grado di contrastare, per carenza di mezzi, l’infiltrazione delle cellule comuniste che andavano radicandosi nelle aree rurali, non possedeva neppure il monopolio della forza. Sette religiose ed organizzazioni criminali disponevano infatti di milizie di migliaia di uomini che rappresvano una costante minaccia sul governo, intralciando quelle risoluta crociata anticomunista che gli americani ansiosamente si attendevano.
Il più antico dei gruppi religiosi era il Cao Dai, che sviluppando a partire dagli anni ’20 un culto basato sul sincretismo tra elementi cristiani e buddisti, aveva conquistato il cuore e la mente di circa due milioni di fedeli nella regione nord ovest di Saigon. Meno numerosi dei Cao Dai, ma più agguerriti, erano gli aderenti alla setta Hoa Hao, una tribù scismatica buddista concentrata alle foci del Mekong. Durante il dominio francese gli Hoa Hao si erano schierati contro il Viet Minh, mettendo a punto sul loro territorio una solida struttura militare capace di contrastare la guerriglia nazionalista e comunista. A Cholon, il quartiere cinese di Saigon, imperversava invece l’organizzazione Bin Xuyen che controllava il gioco d’azzardo, la prostituzione, lo spaccio di droga ed altri traffici illegali realizzando lauti profitti che le conferivano una enorme influenza sul fitto sottobosco criminale della capitale e sulle forze di polizia, in cui la moralità ed il senso del dovere erano merci rarissime. Anche i Bin Xuyen come gli Hoa Hao non nutrivano simpatie verso il Viet Minh, ma non per questo potevano essere considerati degli alleati affidabili né da Diem, né dagli americani.
Nella delicata fase di assestamento al potere di Diem la CIA, attraverso il colonnello Lansdale, fu prodiga di dollari e di consigli politici volti a favorire la nascita di un regime che avesse qualche probabilità di raccogliere il consenso e la fiducia dei vietnamiti. Diem accettò ben volentieri i primi ma ignorò i secondi.
Con il viatico di oltre dodici milioni di dollari americani il governo Diem non incontrò difficoltà a stringere una alleanza apparentemente solida con le sette religiose. Solo alcuni leader si mostrarono insensibili alla seduzione del denaro. In questi casi Diem non esitò ad usare platealmente la forza. Nel 1956 la decapitazione sulla pubblica piazza del fanatico comandante militare della setta degli Hoa Hao fu sufficiente a convincere tutti gli incerti.
Del tutto inutili si rivelarono invece i dollari per ammorbidire la posizione della ricchissima organizzazione Bin Xuyen. Diem, in aperto contrasto con Lansdale, considerò la forza come l’unica opzione possibile. Nella primavera del 1955 fu dispiegato l’esercito per attaccare le roccaforti della banda Bin Xuyen a Cholon. Saigon fu trasformata in un campo di battaglia. Persino il palazzo presidenziale fu bombardato. Lo stesso Diem fu sul punto di cadere difronte alla forza del crimine organizzato che contava sull’appoggio francese e sulle simpatie del capo di stato Bao Dai. La superiorità dell’addestramento e dell’armamento delle truppe fedeli a Diem, entrambi generosamente dispensati dagli Stati Uniti, determinò la sconfitta degli aderenti a Bin Xuyen, molti dei quali per sfuggire all’arresto ed alla rappresaglia ripararono nella giungla andando ad infoltire le file della guerriglia comunista.
Corollario della vittoria sul crimine organizzato fu la deposizione del capo di stato Bao Dai che si era avventatamente esposto a sostegno delle forze Bin Xuyen. Dalla Costa Azzurra in cui viveva nel lusso sperperando quattrini alla roulette di Monte Carlo e rinnovando la sua ventennale amicizia verso la Francia, Bao Dai non rappresentava un avversario temibile per Diem che, nell’ottobre del 1955, poté indire, senza incontrare resistenze, un referendum per deporlo e proclamarsi capo di stato.
L’amministrazione Eisenhower accolse con favore tale iniziativa che eliminava dalla scena politica l’ultimo legame tra la Francia ed il Vietnam e non ebbe nulla da eccepire neppure rispetto alla goffa manipolazione dei risultati elettorali che assegnarono in molte province al capo del governo in carica un numero di suffragi ben superiore rispetto al totale degli aventi diritto al voto. Anche in questa occasione, come ulteriore precauzione in una consultazione elettorale dall’esito predeterminato, l’esperienza della CIA nel campo della psicologia di massa fu messa al servizio di Diem. Su consiglio dell’onnipresente colonnello Lansdale il simbolo elettorale di Diem fu disegnato in rosso, il colore della buona fortuna nella cultura asiatica, al verde, colore della sventura, furono invece affidate le sorti di Bao Dai nell’urna.
Al referendum del 1955 non seguì la consultazione elettorale prevista dagli accordi di Ginevra per la riunificazione del paese, dal momento che né il governo sud vietnamita né gli americani erano in grado di predeterminare un risultato a loro gradito.
L’amnesia americana rispetto agli impegni di Ginevra fu prontamente rilevata dall’Unione Sovietica che nel gennaio 1957 propose che nord e sud Vietnam fossero ammessi alla Nazioni Unite come due stati separati e sovrani. Eisenhower respinse sdegnosamente l’ipotesi sovietica dichiarandosi indisponibile a riconoscere come legittimo un regime comunista. In questa scelta gravida di conseguenze pesarono sia la cosiddetta “teoria del domino”, per cui una vittoria o una legittimazione di un regime comunista avrebbe innescato in tutta l’area geopolitica meccanismi imitativi incontrollabili, sia la convinzione che il regime Diem potesse, grazie ai generosi aiuti che affluivano senza sosta da Washington, sconfiggere la minaccia comunista sul piano militare e su quello politico.
L’ottimismo americano del 1957 iniziò ad incrinarsi non appena risultò evidente che Diem, nonostante i ripetuti inviti dei consiglieri americani, non intendeva rinunciare né al più sfacciato nepotismo, né alla stretta alleanza con la grande proprietà terriera come puntelli del suo regime. Alle concessioni puramente formali ai desiderata americani, come l’adozione di una costituzione democratica, che rimase lettera morta, e la convocazione di farsesche elezioni politiche, non corrispose alcun concreto progresso del regime sud vietnamita verso la conquista di un effettivo consenso popolare. Tanto la ristretta cerchia degli intellettuali, frustrati dall’autoritarismo malamente mascherato di Diem, quanto la gran massa dei contadini rimasero estranei rispetto al regime.
Diem come Ho Chi Minh al nord, dovette confrontarsi con l’atavica fame di terra dei contadini, aggravata dall’arrivo di circa un milione di profughi, per lo più cattolici. Mentre il regime comunista operando la requisizione delle terre e la brutale eliminazione dei proprietari riuscì, nonostante i sanguinosi eccessi denunciati dallo stesso Ho Chi Minh, a conquistarsi un vasto seguito tra i contadini, Diem si mostrò al contrario restio a realizzare una coerente riforma agraria capace di generare una classe di piccoli e medi proprietari che potesse riconoscersi nei valori sbandierati dalla propaganda americana. La piccola proprietà operosa ed istintivamente anticomunista invocata dagli esperti americani come il vaccino contro le seduzioni collettiviste del modello comunista rimase un miraggio. A dispetto della crescita del numero dei proprietari il latifondo non fu intaccato. Il 45% dei terreni assegnati, dietro pagamento e non gratuitamente come dal regime comunista, ai profughi del nord finì nelle mani di circa il 2% di essi. Immutate rimasero anche le fortune e l’influenza dei grandi proprietari del delta del Mekong.
Il fasullo riformismo di Diem commise un altro grave errore politico con la creazione, sul finire degli anni ’50, delle agrovilles. Questi villaggi strategici fortificati avevano lo scopo dichiarato di difendere le popolazioni rurali dalle infiltrazioni e dalle incursioni comuniste, ma finirono per essere uno strumento di sfruttamento e di oppressione dei contadini, distruggendo tradizioni millenarie e fragilissimi equilibri sociali.
Il riformismo di facciata e la tutela americana non riuscirono neppure a contenere le esplosioni di violenza cieca nelle campagne. Lo sforzo del regime Diem teso ad annientare le cellule Viet Minh nelle zone rurali si tradusse spesso nella arbitraria e brutale eliminazione dei contadini vagamente in odore di comunismo. Con il risultato di ingrossare le fila degli oppositori anziché ridurle.
Ancor più spietati e dispotici di Diem si rivelarono i suoi fratelli, posti nelle principali posizioni di potere del regime, in una condizione di perenne rivalità tra loro. Il più potente ed intrigante era Nhu, a capo della polizia segreta e leader del “partito laburista personalista” che dichiarava di ispirarsi ad una confusa e concettosa filosofia politica, basata sulla valorizzazione della dignità umana contro il materialismo occidentale. Dietro questa astrusa ed improvvisata cortina ideologica si celava una organizzazione ramificata in tutti i centri di potere che aveva come unico scopo la repressione di ogni forma di dissenso.
La tracotanza di Nhu era esaltata dalla vulcanica personalità di sua moglie, Le Xuan, detta Madame Nhu, che si atteggiava a first lady del sud Vietnam ed a moralizzatrice dei costumi. L’altro fratello di Diem, Can, governava con pugno di ferro il Vietnam centrale, controllando la produzione e la commercializzazione del riso. Al fratello maggiore Thuc, arcivescovo di Hué, spettava invece il compito di assicurare al regime l’appoggio pieno e convinto della Chiesa cattolica e dei suoi fedeli.
L’ostinato immobilismo politico e sociale del regime e l’estrema cautela di Diem nel dispiegare l’esercito in una risoluta attività di contrasto all’infiltrazione comunista non tardarono ad alimentare tra gli ufficiali più dinamici ed ambiziosi tentazioni golpiste. L’amministrazione Eisenhower, ancora saldamente convinta dell’insostituibilità di Diem, pur rilevandone i vistosi limiti, non ebbe parte nel complotto.
Nel novembre del 1960 il tenente colonnello Vuong Van Dong alla testa di tre battaglioni di paracadutisti pose l’assedio al palazzo presidenziale, intimando a Diem di impegnarsi ad inaugurare una politica di riforme. Questi asserragliato nei sotterranei aprì una lunga trattativa con i ribelli, si spinse sino ad accettare le loro richieste pur di guadagnare il tempo necessario a far convergere nella capitale truppe a lui fedeli e scatenare così la repressione.
Lo sfortunato tentativo di colpo di stato dei paracadutisti di Dong, pur non intaccando gli ottimi rapporti tra il regime sud vietnamita e l’amministrazione Eisenhower ormai in scadenza, fu interpretato dalla dirigenza comunista di Hanoi come un evidente segnale della debolezza di Diem ed incoraggiò una intensificazione dell’attività di guerriglia. All’infiltrazione di cellule comuniste, capaci di mettere a segno attentati terroristici ed incursioni notturne nei villaggi, si affiancò la costituzione di più consistenti unità combattenti, dotate del potenziale bellico necessario per impegnare interi battaglioni dell’esercito sud vietnamita. Anche il cruciale problema di assicurare un flusso adeguato e costante di rifornimenti ai guerriglieri fu affrontato con determinazione da Hanoi, predisponendo, attraverso il Laos, il cosiddetto sentiero di Ho Chi Minh, destinato a diventare una spina nel fianco del regime di Saigon.
La cornice politica dell’intensificarsi della guerriglia fu garantita dalla creazione, nel dicembre del 1960, del Fronte di Liberazione Nazionale. Nelle intenzioni di Ho Chi Minh tale struttura politica doveva coagulare tutte le forze ostili a Diem, a cominciare dai tronconi ancora attivi delle sette religiose e delle organizzazioni criminali, sfumando, almeno in apparenza, l’egemonia comunista per porre invece l’accento sul carattere nazionale e di popolo del movimento di resistenza.
Alla rinnovata aggressività dei Viet Cong, termine dispregiativo entrato da allora in poi nell’uso comune per indicare i comunisti del nord Vietnam, Diem rispose con un rafforzamento della polizia segreta al comando di suo fratello Nhu che accentuò il carattere autoritario ed oppressivo del regime. In un clima di crescente paranoia anticomunista anche la più innocua manifestazione di dissenso finì per essere tacciata di connivenza con i Viet Cong e quindi repressa, frustrando le richieste americane di allargare le basi politiche del regime.
Al moltiplicarsi dei controlli polizieschi non corrispose invece una energica azione militare, nonostante l’esercito, addestrato e rifornito senza badare a spese dagli americani, arrivasse a sfiorare le 150.000 unità. Memore del colpo di stato di Dong, Diem riteneva che la vittoria sul campo dei generali avrebbe potuto minacciare il suo potere personale. Incurante degli ingenti investimento americani, che tra il 1954 ed il 1962 raggiunsero la cifra di due miliardi di dollari, era convinto che il principale compito dell’esercito fosse proteggere la sua persona e la sua famiglia; e non perdeva occasione per ribadire questa convinzione promuovendo gli ufficiali che, oltre a manifestargli una incondizionata devozione, riportavano le minori perdite negli scontri con la guerriglia. Tale assurdo sistema premiale favorì la paralisi delle azioni militari, destando irritazione presso i consiglieri americani.
Pertanto, l’amministrazione Kennedy, insediatasi nel gennaio 1961, ereditò una situazione profondamente deteriorata nel sud Vietnam. I segnali di una offensiva comunista in grande stile in tutto il sud est asiatico erano inoltre confermati dal dilagare nel Laos della guerra civile.
Nel maggio del 1961, Kennedy, reduce dal disastro della Baia dei Porci, affrontò sul piano strettamente diplomatico l’emergenza laotiana, convocando a Ginevra una nuova conferenza in cui le grandi potenze si accordarono per dar vita ad un Laos neutrale ed indipendente. Kennedy fu spinto su questo terreno da considerazioni di ordine pratico dettate dalla valutazione negativa delle capacità militari delle forze anticomuniste laotiane e dall’impossibilità di dispiegare una forza di intervento americana in quell’accidentato territorio.
Il rapido disimpegno dal Laos, oltre a rinfocolare le accuse repubblicane al gruppo dirigente kennediano di essere arrendevole verso i comunisti, determinò un crollo del morale dell’esercito sud vietnamita, angosciato dalla prospettiva di poter essere repentinamente abbandonato a sé stesso dagli Stati Uniti.
Nel tentativo di rincuorare Diem ed i suoi generali, il vicepresidente Lyndon B. Johnson, voltato in tutta fretta a Saigon nel maggio 1961, si spinse sino ad offrire l’invio di un contingente americano. Diem rifiutò cortesemente il dispiegamento di truppe americane sul suo territorio, accettò invece con entusiasmo ulteriori aiuti economici e militari.
I timori dell’amministrazione Kennedy per un cedimento del fronte anticomunista sud vietnamita, ormai irrinunciabile dopo la sconfitta a Cuba ed il ripiegamento nel Laos, divennero concreti nel settembre del 1961, quando i Viet Cong conquistarono il capoluogo di provincia Phuoc Vinh, a soli 90 chilometri da Saigon. L’occupazione durò soltanto poche ore ma fu interpretata a Washington come una avvisaglia di un disastro imminente. Kennedy giudicò che le valutazioni puramente politiche fossero ormai superflue ed inviò a Saigon, nell’ottobre del 1961, il suo consigliere militare, il generale Maxwell Taylor, per una ponderata analisi tecnica della situazione sud vietnamita.
Il memorandum Taylor, dopo aver riaffermato la dogmatica “teoria del domino”, raccomandò, accogliendo gli orientamenti prevalenti nello stato maggiore, il dispiegamento di almeno 8000 unità combattenti dell’esercito americano appoggiate da tre squadroni di elicotteri per garantire una piena mobilità sul territorio. Il segretario alla Difesa Robert Mc Namara accolse con scetticismo tale valutazione ritenendo troppo contenuto, e perciò irrilevante per le sorti della guerra, un contingente di soli 8000 uomini. A suo avviso non meno di sei divisioni, pari a 200.000 uomini, avrebbero potuto imprimere una svolta netta alle operazioni.
In questo gioco al rialzo Kennedy si trovò in grave imbarazzo ed optò per la cautela, limitandosi ad approvare nuovi finanziamenti, ma accantonando il dispiegamento di unità americane dichiaratamente combattenti. Tale scelta dilatoria non arrestò tuttavia l’incremento del numero dei consiglieri militari che da circa 700 durante l’amministrazione Eisenhower divennero nel 1963 oltre 16.000.
Sotto la prudente e rassicurante finzione dell’invio di istruttori e consiglieri andava profilandosi un massiccio coinvolgimento americano.
Nel corso del 1962, l’introduzione di elicotteri, pilotati da personale americano, conferì alle forze armate di Diem un significativo vantaggio tattico che contribuì ad alimentare l’ingenuo ottimismo dello staff kennediano che ebbe l’erronea sensazione di essere ad un passo dalla vittoria definitiva in Vietnam. Questa illusione in cui caddero i più autorevoli esponenti del governo, a cominciare da Robert Kennedy e da Mc Namara, rese ancora più impetuoso il flusso di dollari e di personale militare verso Saigon. Persino le remore a rendere discreta la presenza dei militari americani durante le operazioni antiguerriglia si allentarono.
Dopo l’iniziale sbalordimento i Viet Cong impararono ben presto a contrastare l’azione degli elicotteri. Dal nord, attraverso il sentiero di Ho Chi Minh, giunsero armi più efficaci che unite ad un addestramento specifico ridimensionarlo il divario tra le forze in campo. Per contro, le truppe sud vietnamite, a dispetto del loro equipaggiamento e del loro addestramento, non fecero significativi progressi sul piano dello spirito combattivo, né Diem modificò il suo atteggiamento sospettoso verso gli ufficiali troppo intraprendenti. Senza una guida politica risoluta e con soldati sempre più riluttanti a rischiare la vita per una guerra che soltanto gli americani parevano seriamente intenzionati a combattere neppure gli elicotteri poterono rovesciare le sorti del conflitto.
La fragilità dell’esercito di Diem divenne drammaticamente evidente nel gennaio del 1963 quando presso il villaggio di Ap Bac, nel delta del Mekong, una piccola unità Viet Cong mise in scacco una intera divisione sud vietnamita. Nello scontro andarono perduti anche cinque elicotteri americani, creando un certo imbarazzo all’amministrazione Kennedy che a più riprese aveva negato difronte alla stampa il coinvolgimento di personale americano in operazioni di combattimento.
La sconfitta di Ap Bac, seppur mascherata dall’ottimismo ostentato dai vertici militari, convinse Kennedy a rinnovare, attraverso l’ambasciatore Nolting, le pressioni su Diem affinché inaugurasse una politica di riforme capace di ridare slancio alla volontà del sud Vietnam di non cedere alla minaccia comunista. Nolting, come i suoi predecessori, non riuscì ad ottenere nulla da Diem se non vaghe rassicurazioni che rinviavano sine die la soluzione dei nodi politici e militari che assillavano Washington.
Nel maggio 1963 la situazione politica interna del sud Vietnam precipitò mostrando il volto più ottusamente autoritario di Diem e del suo clan. La scintilla che appiccò il fuoco della rivolta, a cui seguì inesorabile la repressione, fu il divieto intimato ai buddisti dal governatore della provincia di Hué di esporre il loro vessillo multicolore in occasione della celebrazione per 2527° anniversario della nascita di Buddha. Questa assurda restrizione risultò particolarmente odiosa alla comunità buddista poiché non più tardi di una settimana prima le autorità avevano incoraggiato i cattolici ad esporre nella città di Hué il vessillo papale per commemorare il 25° anniversario dell’ordinazione sacerdotale dell’arcivescovo Thuc, fratello maggiore di Diem.
Le pacifiche proteste delle organizzazioni buddiste furono represse brutalmente. I morti lasciati sul terreno dalle forze di polizia furono goffamente attribuiti ai Viet Cong, esasperando così gli animi e ponendo gli Stati Uniti in una posizione insostenibile sia a livello internazionale, sia rispetto alla propria opinione pubblica.
Lo sdegno per l’aggressione subita spinse i buddisti a ricorrere a gesti estremi e clamorosi che conquistarono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. L’11 giugno 1963 nel pieno centro di Saigon, Quang Duc, un anziano ed autorevole monaco buddista, si cosparse di benzina e si diede alle fiamme. Successivamente furono distribuite alla stampa internazionale le sue ultime volontà che contenevano un rispettoso appello a Diem affinché manifestasse carità e compassione verso tutte le religioni.
La risposta del regime fu affidata alla cattolicissima Madame Nhu che definì il sacrificio del monaco un barbecue, aggiungendo difronte alla stampa attonita: “Si brucino pure noi batteremo le mani!”. Queste sconsiderate parole ebbero l’effetto di moltiplicare i roghi dei monaci in tutto il paese.
Il dispotismo di Diem, che incautamente Johnson, nel corso della sua visita a Saigon nel 1961, aveva definito un “Churchill del sud est asiatico”, rese improvvisamente grottesca la patina democratica a cui prima l’amministrazione Eisenhower e poi quella Kennedy avevano finto di dar credito per mobilitare la crociata anticomunista. Nel luglio del 1963, incalzata dalla stampa e dagli allarmanti rapporti che giungevano da Saigon, la Casa Bianca prese per la prima volta in considerazione l’ipotesi di rovesciare Diem con un colpo di stato. Kennedy accompagnò l’analisi di tale scenario con due iniziative: la nomina di Henry Cabot Lodge, esponente di spicco del partito repubblicano, ad ambasciatore a Saigon con il compito di porre Diem difronte ad un aut aut ed il conferimento, in via riservatissima, a Lucien Conein, un veterano della CIA, del mandato di sondare gli umori dei vertici militari sud vietnamiti.
Conein, ben introdotto negli ambienti militari, non tardò a riferire a Washington la disponibilità del comandante dell’esercito Tran Van Don e di alcuni altri ufficiali, tra cui il popolarissimo generale Duong Van Minh, detto “Big Minh”, a spodestare Diem e la sua cricca. Nonostante la presa di contatto con i generali golpisti, Kennedy non avallò subito l’opzione di rovesciare Diem, preferì tenere ancora aperta la via politica alla soluzione della crisi vietnamita, rinnovando le pressioni per una radicale riforma del regime.
Le residue illusioni di poter manovrare Diem crollarono nel mese di agosto, quando, a dispetto degli inviti americani alla moderazione ed alla conciliazione con la comunità buddista, la polizia segreta di Nhu seminò il terrore nelle pagode di tutto il paese. Uccisioni, devastazioni, saccheggi e centinaia di arresti, tra cui quello dell’ottuagenario patriarca buddista del Vietnam, furono il bilancio del colpo di coda di un regime che orami aveva perso ogni contatto con la realtà politica.
Appena giunto a Saigon, alla fine di agosto, Lodge, dopo un inconcludente colloquio con Diem a proposito degli eccessi di Nhu, invitò la Casa Bianca a dare il via libera ai generali, senza ulteriori indugi che avrebbero potuto compromettere l’intera operazione.
La linea suggerita dall’ambasciatore non fu accolta con unanimità di consensi dal governo di Washington in cui alcuni autorevoli esponenti, come il segretario alla Difesa Mc Namara, il vicepresidente Johnson ed il consigliere militare Taylor, mossi dal pragmatismo e non certo da scrupoli etici, si ostinavano a considerare Diem come l’unico, per quanto inaffidabile, interlocutore possibile.
Il rischio di perdere il controllo del Vietnam qualora Diem, ormai universalmente odiato dalla popolazione, fosse stato spodestato da una classe politica neutralista o peggio ancora filocomunista finì per convincere Kennedy ad assumere l’iniziativa e accogliere le raccomandazioni di Lodge.
Tra l’avallo politico del complotto e la sua messa in atto intercorsero due mesi in cui i generali con grande circospezione misero a punto il loro piano d’azione senza perdere di vista né i vaticini degli indovini, né le mosse dell’ambasciatore Lodge che avrebbero potuto tradire un repentino ripensamento della Casa Bianca. In questi mesi Kennedy, dubbioso sulle concrete possibilità di successo del colpo di stato, fu infatti più volte sul punto di ritornare sui suoi passi, ma Lodge non lasciò trapelare nulla ai congiurati.
Mentre gli incontri segreti tra Conein ed il generale Don in uno studio dentistico di Saigon si facevano sempre più frequenti, Diem e suo fratello Nhu, consci del deterioramento del rapporto con gli Stati Uniti, escogitarono un cervellotico e fantasioso piano per mantenere saldamente il potere nelle loro mani. Il loro obiettivo era dimostrare a Kennedy di essere ancora un insostituibile baluardo simulando un finto colpo di stato di matrice comunista per poi reprimerlo prontamente. La realizzazione delle due operazioni, denominate in codice Bravo I e Bravo II, si basava sull’ingenuo presupposto che l’esercito fosse fedele al regime.
Don non appena ebbe notizia della complessa macchinazione accelerò i preparativi per entrare in azione contro Diem. Il 1° novembre 1963 i generali golpisti ordinarono alle loro truppe di accerchiare il palazzo presidenziale di Saigon. Diem e Nhu si rifugiarono nelle cantine aprendo una trattativa con gli insorti nella speranza di poter guadagnare tempo come avevano fatto durante il colpo di stato dei paracadutisti tre anni prima. Questa volta però le chiacchiere di Diem non incantarono nessuno. Don non si spinse oltre l’offerta di un salvacondotto per abbandonare il paese. Lodge si offrì come garante.
Posti con le spalle al muro i due fratelli fecero un estremo tentativo per riprendere in mano le redini della situazione. Abbandonarono di soppiatto il palazzo assediato per rifugiarsi nel quartiere di Cholon in una villa da cui, grazie ad un collegamento telefonico installato in precedenza dalla polizia segreta, ripresero le trattative lasciando intendere agli insorti di essere ancora all’interno della residenza presidenziale.
Solo il tradimento di un assistente di Diem rivelò a Don l’inganno. All’alba del 2 novembre difronte alla chiesa di San Francesco Saverio Diem e Nhu furono arrestati. In base agli accordi, avallati da Lodge e da Conein, entrambi avrebbero dovuto essere risparmiati, tuttavia un piano preciso per definire la loro sorte una volta deposti non era stato predisposto. Il generale Don ed i suoi complici risolsero drasticamente il problema. Dopo essere stati caricati su di un mezzo blindato con l’assicurazione di essere trasportati in un luogo sicuro Diem e Nhu furono trucidati.
A Washington Kennedy accolse con profonda costernazione la notizia della morte del burattino che si era ostinato a voler muovere i propri fili.
BIBLIOGRAFIA
S. KARNOW, Storia della guerra del Vietnam, Milano, Rizzoli, 1985.
M. K. HALL, La guerra del Vietnam, Bologna, Il Mulino, 2003.
A. V., Vietnam apocalisse inutile, Roma, Ciarrapico Editore, 1984.
J. L. GADDIS, La guerra fredda. Cinquant’anni di paura e di speranza, Milano, Mondadori, 2007.
G. MAMMARELLA, Storia degli Stati Uniti dal 1945 ad oggi, Bari, Laterza, 1993.
#CIA#Diem#Eisenhower#governo Diem#John Fitzgerald Kennedy#Ngô Đình Diệm#Stati Uniti in Vietnam#Viet Minh
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LEE Il progetto si sviluppa attraverso l’utilizzo del linguaggio performativo e fotografico, nonostante il background pittorico. Le apparizioni in vari luoghi descrivono il carattere itinerante del lavoro, un viaggio costante verso posti densi di memoria storica, antropologica e personale per sfuggire ai non-luoghi livellanti tipici della globalizzazione (vedi foto). Ciò è ben esplicitato nell’azione di catturare luoghi densi di memoria e altamente connotati. Più di una semplice migrazione, lo spostamento include in sé la ricerca di un nuovo luogo da creare già a partire dai precedenti, dove la memoria, l’identità collettiva e individuale cercano una nuova dimensione in cui esistere contemporaneamente. Lee, il fantoccio che mi accompagna e mi accompagnerà in vari luoghi, è il surrogato di una presenza, è utopico. Non ha sesso (non a caso il suo nome è utilizzato sia al maschile che femminile), nasce da alcuni algoritmi informatici per creare le figure umane. Nasce dalla virtualità, realtà parallela senza tempo, sospesa e dilatata, caratterizzata dallo spazio immateriale. Ho deciso di dargli forma, rendendolo materiale e facendolo uscire dalla virtualità. Attraversando questa soglia, Lee crea un’estensione corporea che si spoglia da qualsiasi significato culturale e si apre verso una nuova ritualità. Nel progetto si legge un certo sarcasmo verso la nostra società liquida, nel reinterpretare i rapporti effimeri fra le persone e le cose, nell’impossibilità di costruire qualcosa di stabile per il futuro. Lee è il surrogato di una presenza che cancella la nostra solitudine, un momento di tenerezza contro la realtà disumana e alienante. Lee agisce come un oggetto/fenomeno transizionale (vedi Donald Woods Winnicott ) creando uno spazio buono, in cui ci tiene compagnia, proprio come farebbe un orsacchiotto con il suo bambino. Lee è un rimando al passato, come il giocattolo dell’infanzia attualizzato nel presente, crea uno “spazio comfortevole”. Uno spazio utopico, ubiquo, inesistente materialmente, ma presente nei legami che si creano tra le persone: il passato, le esperienze, la memoria e i ricordi. Un luogo ideale, poco importa se reale o virtuale, in cui si crea una nuova dimensione etica ed estetica. Nei luoghi dove ho cominciato le performance ho avuto un buon feedback dalle persone, che volevano uno scatto con Lee, di cui erano incuriositi e interessati, scettici o sorpresi, impauriti o affascinati, increduli e sospettosi, inteneriti e partecipativi. Lee è il tramite con cui possiamo proiettare nel futuro la performance e l’azione condivisa, dove il pubblico interagisce attivamente, catturando questo momento per sempre con il mezzo fotografico, realizzato anche da un semplice cellulare, uno dei nuovi oggetti transizionali del mondo post moderno e post industriale che abitiamo.
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Hi there! LOVE your HCs for Barnaby & Aristotle~♡
I was wondering if you had any for Fantoccio next? I'm very interested if you do! : )
I know one other person stated their claims on why (they think) Fanto would be more of Ler than anything, which is fine. Me personally tho, I think he'd definitely be a feisty playful Switch! X3 If not 50/50, than I guess more 60/40.
He's definitely a lil gremlin that loves to dish it (especially onto his rivals/enemies) but cannot take it! X3
Idk, I just think the adorable little thespian should laugh more~ 😊
(And needs to be taken down a peg once in a while.)
It is time for the puppet goober to have Tickle HCS
Oh yah, he is most definately a switch (mostly Ler.)
Lee:
Goofy smile, goofy chuckles-
Cannot handle teases, verbally or pshysically
If You tease him enough, he'll yell "SHUT UP!!" and cover his face with his hat
He is sliiiiightly ticklish, so You Will only hear loud chuckles, and if You are lucky enough, G I G G L E S
If You ask him if he is ticklish, he Will just Say "no i'm not ticklish! What? Are You PLANNING to do something about it? Then TRY IT!!" This gremling is doomed after that.
Ler:
This dude is an EVIL LER-
Can and Will absolutely wreck You (if he is not feeling Nice)
His Wooden fingers are somehow REALLY effective
He often uses the feather/s of his hat.
Sometimes uses his strings to restrain you.
WILL TEASE THE LIVING HECK OUT OF YOU-
"aww, does it Tickle that much? Well too bad i'm gonna keep going!"
Has a huge evil grin while tickling you.
Even if he is not tickling You, he Will tease You about your ticklishness just for fun and to get You flustered.
After literally wrecking You, he Will act like he doesnt care about You, BUT HE DOES-
That's al i have for now! IM DOING BILLIE NEXT DONT WORRY-
#bbu tickles#billie bust up#bbu fantoccio#fantoccio#Lee!fantoccio#Ler!fantoccio#billie bust up tickles#bbu#I'm getting a Lot of asks now#I might take art request too!#WHO DO YOU WANT WHEN I FINISH WITH BILLIE?!
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Can you do Lee Fantoccio and ler Barnaby?
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Hey so imagine if uh,, lee Barnaby and ler Fantoccio,,, (he is using the big hands he built)
order up!
Hehe he is such a meanie >:3
Poor owl too ticklish for his own good
#bee#queen bee talks#sfw tickling community#sfw tickle community#billie bust up#sfw tickle blog#my art#sfw interaction only#bbu tickles#billie bust up tickles#queen bee post#queen bee art#Queen bee tk talks#Queen bee tk art#Queen bee search#lee!barnaby#ler!fantoccio
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Aristotle (also known as Rad Magic dad) Tickle Headcanons! (New)
he is pretty much a lee-leaning Switch yall cannot change My mind.
70% Lee 30% Ler
LEE:
his worst spot are his gills, sides, and tail.
SWEET BUBBLY LAUGHTER OMG-
Him and Billie have Tickle fights often
Tickle hugs are his FAVOURITE!
He squirms a Lot
Doesnt really tell You to stop! He likes Tickles
But it's Best to do it gently since he is more comfortable with that.
He also likes raspberries. No questions asked >:]
His melt spot is his belly! Tickle it and he is a mess of giggles.
He tries his Best to hide his laughter, but always fails lol
he loves aftercare after a good tickling!
LER:
HE IS SO SWEET I SWEAR TO GOD-
he makes sure to not overwhelm You, and if you're having a good time
Cheer up Tickles and comfort Tickles are his specialty!
He would also blow raspberries, but only sometimes.
He loves to compliment You! Especially your reactions and laughter
He always goes gentle in order to not harm You
He also used his Magic or his tail to help up with the tickling!
This dude gives AMAZING aftercare! Like, he Will give You a comfy blanket and some water, or a hug!
Aight, that's all! Next is Fantoccio.
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Fantoccio Tickle Headcanons! (New)
He is literally a Ler. Since he is confirmed not ticklish, i Will not do Lee hcs.
LER:
Evily little gremlin
Run for your lifes
Well.. You exactly cant, he is too fast-
His Wooden fingers are SOMEHOW SO DAMN EFECTIIVEE
he likes to tease a Lot, both verbally and physically
Sometimes his teases literally rhymes, and it makes it worse-
He could also use those Big hands we see during the battle against him, or his strings too!
He Will also use that feather on his hat. You can't chance My mind.
He could also hum a melody when absolutely wrecking You
He Will most definately Target your worst spots.
He does good aftercare, he cares if you're okay :>
That's all i have for now Folks! Next is Billie.
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IM DOIN A VOTE.
(i'm Doin mostly My favs or something, i ain't Doin some, like Elaine, Dutch etc etc sorry) also i'm adding my oc in here
If You want me to add more, or You chose a character and You wanna choose another one, leave it in the comments or the REBLOGS!
#bee#queen bee talks#sfw tickling community#sfw tickle community#billie bust up#sfw tickle blog#sfw interaction only#bbu tickles#billie bust up tickles#BBU#Billie bust up#bbu berry#ghost/spirit village au#bbu oc#oc berry#berry the ghost#Berry the Gardener#Queen bee tk talks#Queen bee tk art#Queen bee search
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lee Barnaby won yall, now WHO'S THE LER?!
one day too!
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L’ASSASSINIO DIEM: IL LATO OSCURO DI KENNEDY
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L’ASSASSINIO DIEM: IL LATO OSCURO DI KENNEDY
John Fitzgerald Kennedy è un’icona molto amata del novecento. Giovane, bello, sorridente, ispirato, segnato da un tragico destino rappresenta nell’immaginario collettivo il volto positivo e progressista dell’America che un indecifrabile attentato ha spento per sempre.
Certo Kennedy fu una vittima, ma non per questo rifiutò, quando ne ebbe l’occasione, il ruolo di carnefice. Non seppe sfuggire alle spire della ragion di stato, si inoltrò nel lato oscuro del potere.
La sua breve presidenza fu una delle più complesse e travagliate della storia degli Stati Uniti. Dovette assumere decisioni difficilissime soprattutto in politica estera: dalla Baia dei Porci, alla crisi dei missili russi a Cuba, sino alla delicatissima questione del Viet-Nam corse il rischio di trasformare la guerra “fredda” in guerra “calda”. Nell’affrontare queste emergenze si sforzò, con alterne fortune, di essere “presidenziale”, cioè ostentò fermezza, determinazione, abilità diplomatica, senza tuttavia disdegnare i metodi poco ortodossi imposti dallo scontro tra i blocchi, ma difficilmente conciliabili con il mito democratico kennediano. A spingerlo su questo terreno non furono soltanto le trappole tesegli dalla CIA, ma anche, e forse più, l’ossessione di poter essere accusato di debolezza, di attendismo verso la minaccia comunista su scala planetaria.
Se l’episodio della Baia dei Porci fu più che altro un inganno della CIA a cui Kennedy si sottrasse all’ultimo momento sacrificando volontari cubani e se la crisi dei missili dell’ottobre 1962 non fu che un corollario della precedente leggerezza, corollario che divenne il suo capolavoro politico, offrendogli la possibilità di mostrare le sue qualità migliori come capo di stato, la risposta kennediana alla crisi vietnamita si configurò invece come una aperta e deliberata concessione alla ragion di stato. Tre settimane prima di cadere vittima di Lee Harvey Oswald, Kennedy, ansioso di allontanare da sé la ricorrente accusa di essere “soft on communism”, fu quanto meno complice del feroce assassinio del dittatore vietnamita Ngo Dinh Diem.
L’impegno degli Stati Uniti in Vietnam fu inaugurato dal presidente Eisenhower. Dopo la sanguinosa sconfitta inflitta alla Francia, nel maggio 1954, a Dien Bien Phu, dal movimento nazionalista Viet Minh, egemonizzato dai comunisti guidati da Ho Chi Minh, il congresso di Ginevra sancì la divisione del Vietnam intorno al 17° parallelo. In base agli accordi, mai formalmente sottoscritti dagli Stati Uniti, la divisione avrebbe dovuto preludere ad una riunificazione entro due anni attraverso libere elezioni, ma il governo americano, memore della recente vittoria dei comunisti di Mao in Cina, si guardò bene dall’appoggiare concretamente tale prospettiva. Si affrettò invece a manifestare, con un fiume di dollari, via via più imponente, il proprio appoggio all’ex imperatore vietnamita Bao Dai, riconosciuto dalla Francia come capo di stato del Vietnam indipendente.
Mentre Ho Chi Minh ricercava affannosamente aiuti militari, economici e tecnologici presso la Cina comunista e l’Unione Sovietica, gli Stati Uniti impegarono ogni mezzo propagandistico per allargare la spaccatura tra la componente comunista e quella anticomunista del movimento nazionalista vietnamita. Facendo leva sulle atrocità vere o presunte commesse dai comunisti incoraggiarono l’esodo di 900.000 persone, per lo più cattolici, dal nord verso il sud, rendendo irreversibile la divisione del Vietnam e costituendo una solida base di consenso ad una politica tenacemente anticomunista. Particolarmente attive in questa operazione furono le cellule della CIA coordinate dal colonnello Lansdale, esperto di guerra psicologica. La Saigon Military Mission, l’efficiente struttura segreta creata da Lansdale, ricorse alla falsificazione di documenti vietminh ed alla corruzione degli indovini dei villaggi per terrorizzare i contadini diffondendo false profezie di disastro imminente sotto il regime comunista. Il compito di organizzare nel nord una vasta rete di resistenza e di sabotaggio fu invece affidato al maggiore Lucien Conein, un ufficiale di nascita francese, ma naturalizzato americano, destinato ad avere un ruolo di primo piano nel colpo di stato contro Diem nel 1963.
Alle attività di controinformazione e di infiltrazione nel territorio avversario l’amministrazione Eisenhower affiancò iniziative sul terreno politico e diplomatico. Nel settembre del 1954 il segretario di Stato Dulles promosse la costituzione della SEATO, cioè una frettolosa ed approssimativa imitazione della NATO per il sud est asiatico a cui aderirono, senza troppa convinzione, oltre agli Stati Uniti, la Francia, il Regno Unito, l’Australia, la Nuova Zelanda, le Filippine ed il Pakistan. Tale organizzazione, pur dimostrandosi sin dagli esordi debole ed eccessivamente eterogenea, contribuì a manifestare la volontà americana di non cedere neppure un palmo di terreno ai comunisti in quell’area. La costituzione dello scudo della SEATO fu la premessa al diretto coinvolgimento degli Stati Uniti nel sud est asiatico, andando a colmare il vuoto lasciato dai francesi, ormai inaffidabili come argine all’espansionismo comunista.
L’insofferenza americana per le conclusioni incerte e pasticciate di Ginevra, che avevano stabilito poco più di una tregua senza pacificare definitivamente la regione, trovò nel leader nazionalista cattolico Ngo Dinh Diem un interprete all’apparenza docile, autorevole ed affidabile. Alla luce dei fatti Diem si sarebbe rivelato agli occhi di Washington un alleato inefficiente, difficile da gestire, addirittura imbarazzante a causa del suo ottuso autoritarismo fondato sul nepotismo, ma nel 1954 l’amministrazione Eisenhower lo considerò l’unico leader politico su cui puntare per scalzare definitivamente i francesi senza fare concessioni ai comunisti.
Ngo Dinh Diem nacque nel 1901 nel Vietnam centrale da una famiglia di ferventi cattolici. Suo fratello Thuc intraprese la carriera ecclesiastica; lo stesso Diem in gioventù accarezzò l’ipotesi di prendere i voti, ma la disciplina del seminario lo spaventò, spingendolo verso la carriera burocratica al servizio dei colonizzatori francesi. A soli venticinque anni ottenne l’incarico di governatore provinciale distinguendosi per il suo impegno contro la propaganda comunista. Nel 1933 ottenne dall’Imperatore Bao Dai la nomina a ministro degli Interni, manifestando un zelo riformatore che fu male accolto dalle sospettose autorità francesi che lo allontanarono ben presto dalla carica.
Durante l’occupazione giapponese Diem non collaborò, ma ciò non gli fu sufficiente ad allontanare da sé i sospetti del movimento nazionalista Viet Minh che lo confinò in un primitivo villaggio al confine con la Cina. Suo fratello Khoi e suo nipote furono invece assassinati. La loro morte creò un fossato incolmabile con il Viet Minh ed in particolare con la frazione comunista. In un primo tempo Ho Chi Minh, sottovalutando le implicazioni dell’assassinio di Khoi e di suo figlio, cercò di coinvolgere Diem nella guerra di resistenza ai francesi, poi, dopo aver incassato un netto rifiuto, lo condannò a morte in contumacia. Tra il 1950 ed il 1954 Diem si rifugiò negli Stati Uniti dove riuscì ad intessere relazioni con personaggi influenti come il cardinale Spellman di New York che gli aprì la strada verso proficui contatti politici. Ai suoi interlocutori, tra cui vi furono il leader democratico Hubert Humphrey ed il giovane senatore del Massachusetts John Kennedy, Diem si presentò come una valida alternativa tra l’esausto colonialismo francese ed l’incombente pericolo comunista. Questa sua immagine di autentico nazionalista, mite, coraggioso e determinato, lo favorì nel 1954 quando Bao Dai, chiamato ancora una volta dai francesi a rivestire il ruolo di capo di stato fantoccio del Vietnam indipendente, dovette scegliersi un primo ministro che fosse gradito agli Stati Uniti.
L’esordio di Diem come capo del governo fu contrassegnato dalla precarietà. Il fragile stato sud vietnamita oltre a non essere in grado di contrastare, per carenza di mezzi, l’infiltrazione delle cellule comuniste che andavano radicandosi nelle aree rurali, non possedeva neppure il monopolio della forza. Sette religiose ed organizzazioni criminali disponevano infatti di milizie di migliaia di uomini che rappresvano una costante minaccia sul governo, intralciando quelle risoluta crociata anticomunista che gli americani ansiosamente si attendevano.
Il più antico dei gruppi religiosi era il Cao Dai, che sviluppando a partire dagli anni ’20 un culto basato sul sincretismo tra elementi cristiani e buddisti, aveva conquistato il cuore e la mente di circa due milioni di fedeli nella regione nord ovest di Saigon. Meno numerosi dei Cao Dai, ma più agguerriti, erano gli aderenti alla setta Hoa Hao, una tribù scismatica buddista concentrata alle foci del Mekong. Durante il dominio francese gli Hoa Hao si erano schierati contro il Viet Minh, mettendo a punto sul loro territorio una solida struttura militare capace di contrastare la guerriglia nazionalista e comunista. A Cholon, il quartiere cinese di Saigon, imperversava invece l’organizzazione Bin Xuyen che controllava il gioco d’azzardo, la prostituzione, lo spaccio di droga ed altri traffici illegali realizzando lauti profitti che le conferivano una enorme influenza sul fitto sottobosco criminale della capitale e sulle forze di polizia, in cui la moralità ed il senso del dovere erano merci rarissime. Anche i Bin Xuyen come gli Hoa Hao non nutrivano simpatie verso il Viet Minh, ma non per questo potevano essere considerati degli alleati affidabili né da Diem, né dagli americani.
Nella delicata fase di assestamento al potere di Diem la CIA, attraverso il colonnello Lansdale, fu prodiga di dollari e di consigli politici volti a favorire la nascita di un regime che avesse qualche probabilità di raccogliere il consenso e la fiducia dei vietnamiti. Diem accettò ben volentieri i primi ma ignorò i secondi.
Con il viatico di oltre dodici milioni di dollari americani il governo Diem non incontrò difficoltà a stringere una alleanza apparentemente solida con le sette religiose. Solo alcuni leader si mostrarono insensibili alla seduzione del denaro. In questi casi Diem non esitò ad usare platealmente la forza. Nel 1956 la decapitazione sulla pubblica piazza del fanatico comandante militare della setta degli Hoa Hao fu sufficiente a convincere tutti gli incerti.
Del tutto inutili si rivelarono invece i dollari per ammorbidire la posizione della ricchissima organizzazione Bin Xuyen. Diem, in aperto contrasto con Lansdale, considerò la forza come l’unica opzione possibile. Nella primavera del 1955 fu dispiegato l’esercito per attaccare le roccaforti della banda Bin Xuyen a Cholon. Saigon fu trasformata in un campo di battaglia. Persino il palazzo presidenziale fu bombardato. Lo stesso Diem fu sul punto di cadere difronte alla forza del crimine organizzato che contava sull’appoggio francese e sulle simpatie del capo di stato Bao Dai. La superiorità dell’addestramento e dell’armamento delle truppe fedeli a Diem, entrambi generosamente dispensati dagli Stati Uniti, determinò la sconfitta degli aderenti a Bin Xuyen, molti dei quali per sfuggire all’arresto ed alla rappresaglia ripararono nella giungla andando ad infoltire le file della guerriglia comunista.
Corollario della vittoria sul crimine organizzato fu la deposizione del capo di stato Bao Dai che si era avventatamente esposto a sostegno delle forze Bin Xuyen. Dalla Costa Azzurra in cui viveva nel lusso sperperando quattrini alla roulette di Monte Carlo e rinnovando la sua ventennale amicizia verso la Francia, Bao Dai non rappresentava un avversario temibile per Diem che, nell’ottobre del 1955, poté indire, senza incontrare resistenze, un referendum per deporlo e proclamarsi capo di stato.
L’amministrazione Eisenhower accolse con favore tale iniziativa che eliminava dalla scena politica l’ultimo legame tra la Francia ed il Vietnam e non ebbe nulla da eccepire neppure rispetto alla goffa manipolazione dei risultati elettorali che assegnarono in molte province al capo del governo in carica un numero di suffragi ben superiore rispetto al totale degli aventi diritto al voto. Anche in questa occasione, come ulteriore precauzione in una consultazione elettorale dall’esito predeterminato, l’esperienza della CIA nel campo della psicologia di massa fu messa al servizio di Diem. Su consiglio dell’onnipresente colonnello Lansdale il simbolo elettorale di Diem fu disegnato in rosso, il colore della buona fortuna nella cultura asiatica, al verde, colore della sventura, furono invece affidate le sorti di Bao Dai nell’urna.
Al referendum del 1955 non seguì la consultazione elettorale prevista dagli accordi di Ginevra per la riunificazione del paese, dal momento che né il governo sud vietnamita né gli americani erano in grado di predeterminare un risultato a loro gradito.
L’amnesia americana rispetto agli impegni di Ginevra fu prontamente rilevata dall’Unione Sovietica che nel gennaio 1957 propose che nord e sud Vietnam fossero ammessi alla Nazioni Unite come due stati separati e sovrani. Eisenhower respinse sdegnosamente l’ipotesi sovietica dichiarandosi indisponibile a riconoscere come legittimo un regime comunista. In questa scelta gravida di conseguenze pesarono sia la cosiddetta “teoria del domino”, per cui una vittoria o una legittimazione di un regime comunista avrebbe innescato in tutta l’area geopolitica meccanismi imitativi incontrollabili, sia la convinzione che il regime Diem potesse, grazie ai generosi aiuti che affluivano senza sosta da Washington, sconfiggere la minaccia comunista sul piano militare e su quello politico.
L’ottimismo americano del 1957 iniziò ad incrinarsi non appena risultò evidente che Diem, nonostante i ripetuti inviti dei consiglieri americani, non intendeva rinunciare né al più sfacciato nepotismo, né alla stretta alleanza con la grande proprietà terriera come puntelli del suo regime. Alle concessioni puramente formali ai desiderata americani, come l’adozione di una costituzione democratica, che rimase lettera morta, e la convocazione di farsesche elezioni politiche, non corrispose alcun concreto progresso del regime sud vietnamita verso la conquista di un effettivo consenso popolare. Tanto la ristretta cerchia degli intellettuali, frustrati dall’autoritarismo malamente mascherato di Diem, quanto la gran massa dei contadini rimasero estranei rispetto al regime.
Diem come Ho Chi Minh al nord, dovette confrontarsi con l’atavica fame di terra dei contadini, aggravata dall’arrivo di circa un milione di profughi, per lo più cattolici. Mentre il regime comunista operando la requisizione delle terre e la brutale eliminazione dei proprietari riuscì, nonostante i sanguinosi eccessi denunciati dallo stesso Ho Chi Minh, a conquistarsi un vasto seguito tra i contadini, Diem si mostrò al contrario restio a realizzare una coerente riforma agraria capace di generare una classe di piccoli e medi proprietari che potesse riconoscersi nei valori sbandierati dalla propaganda americana. La piccola proprietà operosa ed istintivamente anticomunista invocata dagli esperti americani come il vaccino contro le seduzioni collettiviste del modello comunista rimase un miraggio. A dispetto della crescita del numero dei proprietari il latifondo non fu intaccato. Il 45% dei terreni assegnati, dietro pagamento e non gratuitamente come dal regime comunista, ai profughi del nord finì nelle mani di circa il 2% di essi. Immutate rimasero anche le fortune e l’influenza dei grandi proprietari del delta del Mekong.
Il fasullo riformismo di Diem commise un altro grave errore politico con la creazione, sul finire degli anni ’50, delle agrovilles. Questi villaggi strategici fortificati avevano lo scopo dichiarato di difendere le popolazioni rurali dalle infiltrazioni e dalle incursioni comuniste, ma finirono per essere uno strumento di sfruttamento e di oppressione dei contadini, distruggendo tradizioni millenarie e fragilissimi equilibri sociali.
Il riformismo di facciata e la tutela americana non riuscirono neppure a contenere le esplosioni di violenza cieca nelle campagne. Lo sforzo del regime Diem teso ad annientare le cellule Viet Minh nelle zone rurali si tradusse spesso nella arbitraria e brutale eliminazione dei contadini vagamente in odore di comunismo. Con il risultato di ingrossare le fila degli oppositori anziché ridurle.
Ancor più spietati e dispotici di Diem si rivelarono i suoi fratelli, posti nelle principali posizioni di potere del regime, in una condizione di perenne rivalità tra loro. Il più potente ed intrigante era Nhu, a capo della polizia segreta e leader del “partito laburista personalista” che dichiarava di ispirarsi ad una confusa e concettosa filosofia politica, basata sulla valorizzazione della dignità umana contro il materialismo occidentale. Dietro questa astrusa ed improvvisata cortina ideologica si celava una organizzazione ramificata in tutti i centri di potere che aveva come unico scopo la repressione di ogni forma di dissenso.
La tracotanza di Nhu era esaltata dalla vulcanica personalità di sua moglie, Le Xuan, detta Madame Nhu, che si atteggiava a first lady del sud Vietnam ed a moralizzatrice dei costumi. L’altro fratello di Diem, Can, governava con pugno di ferro il Vietnam centrale, controllando la produzione e la commercializzazione del riso. Al fratello maggiore Thuc, arcivescovo di Hué, spettava invece il compito di assicurare al regime l’appoggio pieno e convinto della Chiesa cattolica e dei suoi fedeli.
L’ostinato immobilismo politico e sociale del regime e l’estrema cautela di Diem nel dispiegare l’esercito in una risoluta attività di contrasto all’infiltrazione comunista non tardarono ad alimentare tra gli ufficiali più dinamici ed ambiziosi tentazioni golpiste. L’amministrazione Eisenhower, ancora saldamente convinta dell’insostituibilità di Diem, pur rilevandone i vistosi limiti, non ebbe parte nel complotto.
Nel novembre del 1960 il tenente colonnello Vuong Van Dong alla testa di tre battaglioni di paracadutisti pose l’assedio al palazzo presidenziale, intimando a Diem di impegnarsi ad inaugurare una politica di riforme. Questi asserragliato nei sotterranei aprì una lunga trattativa con i ribelli, si spinse sino ad accettare le loro richieste pur di guadagnare il tempo necessario a far convergere nella capitale truppe a lui fedeli e scatenare così la repressione.
Lo sfortunato tentativo di colpo di stato dei paracadutisti di Dong, pur non intaccando gli ottimi rapporti tra il regime sud vietnamita e l’amministrazione Eisenhower ormai in scadenza, fu interpretato dalla dirigenza comunista di Hanoi come un evidente segnale della debolezza di Diem ed incoraggiò una intensificazione dell’attività di guerriglia. All’infiltrazione di cellule comuniste, capaci di mettere a segno attentati terroristici ed incursioni notturne nei villaggi, si affiancò la costituzione di più consistenti unità combattenti, dotate del potenziale bellico necessario per impegnare interi battaglioni dell’esercito sud vietnamita. Anche il cruciale problema di assicurare un flusso adeguato e costante di rifornimenti ai guerriglieri fu affrontato con determinazione da Hanoi, predisponendo, attraverso il Laos, il cosiddetto sentiero di Ho Chi Minh, destinato a diventare una spina nel fianco del regime di Saigon.
La cornice politica dell’intensificarsi della guerriglia fu garantita dalla creazione, nel dicembre del 1960, del Fronte di Liberazione Nazionale. Nelle intenzioni di Ho Chi Minh tale struttura politica doveva coagulare tutte le forze ostili a Diem, a cominciare dai tronconi ancora attivi delle sette religiose e delle organizzazioni criminali, sfumando, almeno in apparenza, l’egemonia comunista per porre invece l’accento sul carattere nazionale e di popolo del movimento di resistenza.
Alla rinnovata aggressività dei Viet Cong, termine dispregiativo entrato da allora in poi nell’uso comune per indicare i comunisti del nord Vietnam, Diem rispose con un rafforzamento della polizia segreta al comando di suo fratello Nhu che accentuò il carattere autoritario ed oppressivo del regime. In un clima di crescente paranoia anticomunista anche la più innocua manifestazione di dissenso finì per essere tacciata di connivenza con i Viet Cong e quindi repressa, frustrando le richieste americane di allargare le basi politiche del regime.
Al moltiplicarsi dei controlli polizieschi non corrispose invece una energica azione militare, nonostante l’esercito, addestrato e rifornito senza badare a spese dagli americani, arrivasse a sfiorare le 150.000 unità. Memore del colpo di stato di Dong, Diem riteneva che la vittoria sul campo dei generali avrebbe potuto minacciare il suo potere personale. Incurante degli ingenti investimento americani, che tra il 1954 ed il 1962 raggiunsero la cifra di due miliardi di dollari, era convinto che il principale compito dell’esercito fosse proteggere la sua persona e la sua famiglia; e non perdeva occasione per ribadire questa convinzione promuovendo gli ufficiali che, oltre a manifestargli una incondizionata devozione, riportavano le minori perdite negli scontri con la guerriglia. Tale assurdo sistema premiale favorì la paralisi delle azioni militari, destando irritazione presso i consiglieri americani.
Pertanto, l’amministrazione Kennedy, insediatasi nel gennaio 1961, ereditò una situazione profondamente deteriorata nel sud Vietnam. I segnali di una offensiva comunista in grande stile in tutto il sud est asiatico erano inoltre confermati dal dilagare nel Laos della guerra civile.
Nel maggio del 1961, Kennedy, reduce dal disastro della Baia dei Porci, affrontò sul piano strettamente diplomatico l’emergenza laotiana, convocando a Ginevra una nuova conferenza in cui le grandi potenze si accordarono per dar vita ad un Laos neutrale ed indipendente. Kennedy fu spinto su questo terreno da considerazioni di ordine pratico dettate dalla valutazione negativa delle capacità militari delle forze anticomuniste laotiane e dall’impossibilità di dispiegare una forza di intervento americana in quell’accidentato territorio.
Il rapido disimpegno dal Laos, oltre a rinfocolare le accuse repubblicane al gruppo dirigente kennediano di essere arrendevole verso i comunisti, determinò un crollo del morale dell’esercito sud vietnamita, angosciato dalla prospettiva di poter essere repentinamente abbandonato a sé stesso dagli Stati Uniti.
Nel tentativo di rincuorare Diem ed i suoi generali, il vicepresidente Lyndon B. Johnson, voltato in tutta fretta a Saigon nel maggio 1961, si spinse sino ad offrire l’invio di un contingente americano. Diem rifiutò cortesemente il dispiegamento di truppe americane sul suo territorio, accettò invece con entusiasmo ulteriori aiuti economici e militari.
I timori dell’amministrazione Kennedy per un cedimento del fronte anticomunista sud vietnamita, ormai irrinunciabile dopo la sconfitta a Cuba ed il ripiegamento nel Laos, divennero concreti nel settembre del 1961, quando i Viet Cong conquistarono il capoluogo di provincia Phuoc Vinh, a soli 90 chilometri da Saigon. L’occupazione durò soltanto poche ore ma fu interpretata a Washington come una avvisaglia di un disastro imminente. Kennedy giudicò che le valutazioni puramente politiche fossero ormai superflue ed inviò a Saigon, nell’ottobre del 1961, il suo consigliere militare, il generale Maxwell Taylor, per una ponderata analisi tecnica della situazione sud vietnamita.
Il memorandum Taylor, dopo aver riaffermato la dogmatica “teoria del domino”, raccomandò, accogliendo gli orientamenti prevalenti nello stato maggiore, il dispiegamento di almeno 8000 unità combattenti dell’esercito americano appoggiate da tre squadroni di elicotteri per garantire una piena mobilità sul territorio. Il segretario alla Difesa Robert Mc Namara accolse con scetticismo tale valutazione ritenendo troppo contenuto, e perciò irrilevante per le sorti della guerra, un contingente di soli 8000 uomini. A suo avviso non meno di sei divisioni, pari a 200.000 uomini, avrebbero potuto imprimere una svolta netta alle operazioni.
In questo gioco al rialzo Kennedy si trovò in grave imbarazzo ed optò per la cautela, limitandosi ad approvare nuovi finanziamenti, ma accantonando il dispiegamento di unità americane dichiaratamente combattenti. Tale scelta dilatoria non arrestò tuttavia l’incremento del numero dei consiglieri militari che da circa 700 durante l’amministrazione Eisenhower divennero nel 1963 oltre 16.000.
Sotto la prudente e rassicurante finzione dell’invio di istruttori e consiglieri andava profilandosi un massiccio coinvolgimento americano.
Nel corso del 1962, l’introduzione di elicotteri, pilotati da personale americano, conferì alle forze armate di Diem un significativo vantaggio tattico che contribuì ad alimentare l’ingenuo ottimismo dello staff kennediano che ebbe l’erronea sensazione di essere ad un passo dalla vittoria definitiva in Vietnam. Questa illusione in cui caddero i più autorevoli esponenti del governo, a cominciare da Robert Kennedy e da Mc Namara, rese ancora più impetuoso il flusso di dollari e di personale militare verso Saigon. Persino le remore a rendere discreta la presenza dei militari americani durante le operazioni antiguerriglia si allentarono.
Dopo l’iniziale sbalordimento i Viet Cong impararono ben presto a contrastare l’azione degli elicotteri. Dal nord, attraverso il sentiero di Ho Chi Minh, giunsero armi più efficaci che unite ad un addestramento specifico ridimensionarlo il divario tra le forze in campo. Per contro, le truppe sud vietnamite, a dispetto del loro equipaggiamento e del loro addestramento, non fecero significativi progressi sul piano dello spirito combattivo, né Diem modificò il suo atteggiamento sospettoso verso gli ufficiali troppo intraprendenti. Senza una guida politica risoluta e con soldati sempre più riluttanti a rischiare la vita per una guerra che soltanto gli americani parevano seriamente intenzionati a combattere neppure gli elicotteri poterono rovesciare le sorti del conflitto.
La fragilità dell’esercito di Diem divenne drammaticamente evidente nel gennaio del 1963 quando presso il villaggio di Ap Bac, nel delta del Mekong, una piccola unità Viet Cong mise in scacco una intera divisione sud vietnamita. Nello scontro andarono perduti anche cinque elicotteri americani, creando un certo imbarazzo all’amministrazione Kennedy che a più riprese aveva negato difronte alla stampa il coinvolgimento di personale americano in operazioni di combattimento.
La sconfitta di Ap Bac, seppur mascherata dall’ottimismo ostentato dai vertici militari, convinse Kennedy a rinnovare, attraverso l’ambasciatore Nolting, le pressioni su Diem affinché inaugurasse una politica di riforme capace di ridare slancio alla volontà del sud Vietnam di non cedere alla minaccia comunista. Nolting, come i suoi predecessori, non riuscì ad ottenere nulla da Diem se non vaghe rassicurazioni che rinviavano sine die la soluzione dei nodi politici e militari che assillavano Washington.
Nel maggio 1963 la situazione politica interna del sud Vietnam precipitò mostrando il volto più ottusamente autoritario di Diem e del suo clan. La scintilla che appiccò il fuoco della rivolta, a cui seguì inesorabile la repressione, fu il divieto intimato ai buddisti dal governatore della provincia di Hué di esporre il loro vessillo multicolore in occasione della celebrazione per 2527° anniversario della nascita di Buddha. Questa assurda restrizione risultò particolarmente odiosa alla comunità buddista poiché non più tardi di una settimana prima le autorità avevano incoraggiato i cattolici ad esporre nella città di Hué il vessillo papale per commemorare il 25° anniversario dell’ordinazione sacerdotale dell’arcivescovo Thuc, fratello maggiore di Diem.
Le pacifiche proteste delle organizzazioni buddiste furono represse brutalmente. I morti lasciati sul terreno dalle forze di polizia furono goffamente attribuiti ai Viet Cong, esasperando così gli animi e ponendo gli Stati Uniti in una posizione insostenibile sia a livello internazionale, sia rispetto alla propria opinione pubblica.
Lo sdegno per l’aggressione subita spinse i buddisti a ricorrere a gesti estremi e clamorosi che conquistarono l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale. L’11 giugno 1963 nel pieno centro di Saigon, Quang Duc, un anziano ed autorevole monaco buddista, si cosparse di benzina e si diede alle fiamme. Successivamente furono distribuite alla stampa internazionale le sue ultime volontà che contenevano un rispettoso appello a Diem affinché manifestasse carità e compassione verso tutte le religioni.
La risposta del regime fu affidata alla cattolicissima Madame Nhu che definì il sacrificio del monaco un barbecue, aggiungendo difronte alla stampa attonita: “Si brucino pure noi batteremo le mani!”. Queste sconsiderate parole ebbero l’effetto di moltiplicare i roghi dei monaci in tutto il paese.
Il dispotismo di Diem, che incautamente Johnson, nel corso della sua visita a Saigon nel 1961, aveva definito un “Churchill del sud est asiatico”, rese improvvisamente grottesca la patina democratica a cui prima l’amministrazione Eisenhower e poi quella Kennedy avevano finto di dar credito per mobilitare la crociata anticomunista. Nel luglio del 1963, incalzata dalla stampa e dagli allarmanti rapporti che giungevano da Saigon, la Casa Bianca prese per la prima volta in considerazione l’ipotesi di rovesciare Diem con un colpo di stato. Kennedy accompagnò l’analisi di tale scenario con due iniziative: la nomina di Henry Cabot Lodge, esponente di spicco del partito repubblicano, ad ambasciatore a Saigon con il compito di porre Diem difronte ad un aut aut ed il conferimento, in via riservatissima, a Lucien Conein, un veterano della CIA, del mandato di sondare gli umori dei vertici militari sud vietnamiti.
Conein, ben introdotto negli ambienti militari, non tardò a riferire a Washington la disponibilità del comandante dell’esercito Tran Van Don e di alcuni altri ufficiali, tra cui il popolarissimo generale Duong Van Minh, detto “Big Minh”, a spodestare Diem e la sua cricca. Nonostante la presa di contatto con i generali golpisti, Kennedy non avallò subito l’opzione di rovesciare Diem, preferì tenere ancora aperta la via politica alla soluzione della crisi vietnamita, rinnovando le pressioni per una radicale riforma del regime.
Le residue illusioni di poter manovrare Diem crollarono nel mese di agosto, quando, a dispetto degli inviti americani alla moderazione ed alla conciliazione con la comunità buddista, la polizia segreta di Nhu seminò il terrore nelle pagode di tutto il paese. Uccisioni, devastazioni, saccheggi e centinaia di arresti, tra cui quello dell’ottuagenario patriarca buddista del Vietnam, furono il bilancio del colpo di coda di un regime che orami aveva perso ogni contatto con la realtà politica.
Appena giunto a Saigon, alla fine di agosto, Lodge, dopo un inconcludente colloquio con Diem a proposito degli eccessi di Nhu, invitò la Casa Bianca a dare il via libera ai generali, senza ulteriori indugi che avrebbero potuto compromettere l’intera operazione.
La linea suggerita dall’ambasciatore non fu accolta con unanimità di consensi dal governo di Washington in cui alcuni autorevoli esponenti, come il segretario alla Difesa Mc Namara, il vicepresidente Johnson ed il consigliere militare Taylor, mossi dal pragmatismo e non certo da scrupoli etici, si ostinavano a considerare Diem come l’unico, per quanto inaffidabile, interlocutore possibile.
Il rischio di perdere il controllo del Vietnam qualora Diem, ormai universalmente odiato dalla popolazione, fosse stato spodestato da una classe politica neutralista o peggio ancora filocomunista finì per convincere Kennedy ad assumere l’iniziativa e accogliere le raccomandazioni di Lodge.
Tra l’avallo politico del complotto e la sua messa in atto intercorsero due mesi in cui i generali con grande circospezione misero a punto il loro piano d’azione senza perdere di vista né i vaticini degli indovini, né le mosse dell’ambasciatore Lodge che avrebbero potuto tradire un repentino ripensamento della Casa Bianca. In questi mesi Kennedy, dubbioso sulle concrete possibilità di successo del colpo di stato, fu infatti più volte sul punto di ritornare sui suoi passi, ma Lodge non lasciò trapelare nulla ai congiurati.
Mentre gli incontri segreti tra Conein ed il generale Don in uno studio dentistico di Saigon si facevano sempre più frequenti, Diem e suo fratello Nhu, consci del deterioramento del rapporto con gli Stati Uniti, escogitarono un cervellotico e fantasioso piano per mantenere saldamente il potere nelle loro mani. Il loro obiettivo era dimostrare a Kennedy di essere ancora un insostituibile baluardo simulando un finto colpo di stato di matrice comunista per poi reprimerlo prontamente. La realizzazione delle due operazioni, denominate in codice Bravo I e Bravo II, si basava sull’ingenuo presupposto che l’esercito fosse fedele al regime.
Don non appena ebbe notizia della complessa macchinazione accelerò i preparativi per entrare in azione contro Diem. Il 1° novembre 1963 i generali golpisti ordinarono alle loro truppe di accerchiare il palazzo presidenziale di Saigon. Diem e Nhu si rifugiarono nelle cantine aprendo una trattativa con gli insorti nella speranza di poter guadagnare tempo come avevano fatto durante il colpo di stato dei paracadutisti tre anni prima. Questa volta però le chiacchiere di Diem non incantarono nessuno. Don non si spinse oltre l’offerta di un salvacondotto per abbandonare il paese. Lodge si offrì come garante.
Posti con le spalle al muro i due fratelli fecero un estremo tentativo per riprendere in mano le redini della situazione. Abbandonarono di soppiatto il palazzo assediato per rifugiarsi nel quartiere di Cholon in una villa da cui, grazie ad un collegamento telefonico installato in precedenza dalla polizia segreta, ripresero le trattative lasciando intendere agli insorti di essere ancora all’interno della residenza presidenziale.
Solo il tradimento di un assistente di Diem rivelò a Don l’inganno. All’alba del 2 novembre difronte alla chiesa di San Francesco Saverio Diem e Nhu furono arrestati. In base agli accordi, avallati da Lodge e da Conein, entrambi avrebbero dovuto essere risparmiati, tuttavia un piano preciso per definire la loro sorte una volta deposti non era stato predisposto. Il generale Don ed i suoi complici risolsero drasticamente il problema. Dopo essere stati caricati su di un mezzo blindato con l’assicurazione di essere trasportati in un luogo sicuro Diem e Nhu furono trucidati.
A Washington Kennedy accolse con profonda costernazione la notizia della morte del burattino che si era ostinato a voler muovere i propri fili.
BIBLIOGRAFIA
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