#Le risorse dell’incertezza
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lospeakerscorner · 6 months ago
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Inaugurata la SSM
134 studenti da tutta Italia a San Marcellino per la settimana di orientamento della SSM | Scuola Superiore Meridionale CITTÀ METROPOLITANA DI NAPOLI – Ha preso il via la settimana di orientamento della SSM | Scuola Superiore Meridionale.  Nella cinquecentesca chiesa del complesso dei Santi Marcellino e Festo sono iniziate le giornate tematiche di studio e vita comunitaria per 134 studenti…
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purpleavenuecupcake · 5 years ago
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Alessandro Decio interviene al “Convegno dei Giovani Imprenditori”
Ottimistiche le parole pronunciate da Alessandro Decio, Amministratore delegato di SACE, intervenuto nel corso del Convegno organizzato per i giovani imprenditori a Capri nella sede del Grand Hotel Quisisana. Decio, dopo aver parlato di export italiano e della competitività è passato a descrivere il ruolo di SACE ed indicare le nuove iniziative di “accompagnamento” per le PMI. Export italiano: trend e sfide Viviamo in un contesto estremamente complesso, in cui ogni giorno assistiamo a un aggravarsi dell’incertezza e a un intensificarsi dell’escalation protezionista (es. ultima tornata di sanzioni che vede come contendenti Europa e USA; tensioni con la Turchia etc.) Questo ha inevitabili impatti sul commercio internazionale che nel primo semestre ha fatto segnare crescita zero Eppure, mentre il commercio internazionale è in frenata, l’export italiano continua a crescere: anche quest’anno ha fatto registrare un +2,7% nel primo semestre e si prepara a chiudere l’anno con un +3,4% secondo le previsioni SACE SIMEST A fronte di una crescita piatta del commercio internazionale, l’export italiano sta dunque guadagnando quote di mercato, con una perfomance che è superiore anche a quella dei nostri competitor più “temibili”, come la Germania o Questo grazie a una molteplicità di fattori, che includono: i) doti imprenditoriali italiane; ii) diversità, flessibilità e versatilità della manifattura nazionale; iii) collaborazione e grande sforzo di lavoro comune: negli ultimi anni, si è davvero fatto un grande lavoro di Sistema, con Ministeri/Confindustria/SACE SIMEST che hanno lavorato insieme e hanno fatto la differenza. Nel 2015 il nostro export rappresentava il 28% del PIL, oggi questa quota è salita al 33% circa. Ma dobbiamo puntare a una crescita ulteriore, dotandoci di obiettivi di medio-termine: Far crescere la quota di mercato dell’export italiano a livello mondiale dall’attuale 2,8% al 3% Far crescere il peso dell’export italiano sul PIL dall’attuale 33% al 37% Far crescere la quota extra Ue del nostro export nel mondo fino al 49% Far crescere il valore medio dell’export dagli attuali 3,3 mln di euro ai 4,5 mln di euro Competitività: punti di forza e gap su cui lavorare Verso quest’obiettivi, i punti di forza/gap su cui lavorare sono molteplici Serve innanzitutto mantenere un elevato sforzo promozionale, come è avvenuto nelle legislature 2016 e 2017. Serve inoltre riportare una forte enfasi non solo sull’export, ma soprattutto sull’internazionalizzazione attiva, nella consapevolezza che le delocalizzazioni nella concezione più limitativa del termine sono ormai superate, in un contesto in cui si combatte per il Made in Italy ed i Paesi combattono per creare posti di lavoro Serve puntare su rafforzamento manageriale: abbiamo ottimi imprenditori che il mondo ci invidia, ma le aziende che crescono all’estero e sfruttano le opportunità hanno bisogno di team manageriali che affianchino a spirito d’impresa e intuito anche una forte specializzazione tecnica (es. CFOs, Direttori marketing) Laddove le ridotte dimensioni delle aziende italiane (che implicano un numero limitato di addetti su cui contare) non consentano lo sviluppo di team strutturati, vanno promosse e incoraggiate soluzioni nuove quali l’inserimento di Temporary Export Manager, o le aggregazioni di impresa, che consentono di fare “economie di scala” e mettere a fattor comune competenze specialistiche Va ricordato infine che per un Paese come l’Italia rendere le medie e piccole aziende più forti ed innovative dovrebbe essere una priorità: eppure le nostre imprese possono contare su strumenti di sostegno all’innovazione ed equity inferiori rispetto ad altri peers in Europa. L’Italia è il paese con più alto numero di aziende ed il più basso numero di interventi in equity di finanza e la minore efficacia nel supporto all’innovazione. A titolo di esempio, mentre sul supporto all’export Italia batte Francia 3 a 0 nel supporto istituzionale ad equity e innovazione Francia batte Italia 3 a 0 questa deve essere la sfida. Il ruolo di SACE SIMEST e nuove iniziative di “accompagnamento” per le PMI Come Polo dell’export e dell’internazionalizzazione possiamo dire di essere soddisfatti di come negli ultimi tre anni abbiamo aumentato il nostro supporto alle imprese italiane, nonostante le avversità congiunturali Nel 2016-2018 abbiamo mobilitato risorse per 72 miliardi di euro e siamo oggi il secondo principale assuntore di rischi a livello nazionale, offrendo un contributo al PIL pari all’1% circa o La nostra principale sfida oggi - una sfida che crediamo di vincere - è quella di aumentare il numero di PMI che serviamo, portandole a esportare di più e meglio, su un numero di mercati ampio e diversificato Abbiamo dimostrato di essere leader in grandi operazioni e già oggi lavoriamo con 21mila aziende italiane, prevalentemente medie e piccole, rispetto alle poche decine dei nostri omologhi francesi e centinaia dei nostri omologhi tedeschi Ma vogliamo fare molto di più e lo stiamo facendo con un set di nuove iniziative con cui intendiamo accreditarci come partner anche per le PMI, così come lo siamo già per le medie e grandi aziende: it: abbiamo digitalizzato 6 prodotti chiave per le PMI (valutazione controparti, assicurazione dei crediti, finanziamenti, cauzioni, factoring, recupero crediti) e rendendoli accessibili all’interno di sacesimest.it, ecosistema digitale molto innovativo nel mondo dell’export credit Education to Export: abbiamo lanciato un programma formativo ad alto contenuto digitale con cui abbiamo affiancato 700 PMI nei loro piani di crescita sui mercati esteri (si può lanciare invito a esplorare il programma all’interno di sacesimest.it) Push Strategy/Business Matching: abbiamo identificato primari Buyers esteri per rafforzare relazioni commerciali e facilitare forniture italiane, facendo da apripista soprattutto per le PMI che difficilmente da sole potrebbero entrare in contatto con grandi controparti esteri (in due anni, garantiti 1,7 miliardi di euro finanziamenti e coinvolte 650 imprese in business matching) Export Coach: abbiamo introdotto in affiancamento alla nostra rete commerciale diffusa su tutto il territorio un team pilota di 12 esperti di export e con ottima propensione agli strumenti digitali, pronti a prestare assistenza door-to-door agli imprenditori È proprio nella proposta ben integrata/ragionata di soluzioni assicurative e finanziarie, di strumenti formativi e iniziative complementari (on e off line) che stiamo trovando la nostra formula vincente per avvicinare, affiancare e “ingaggiare” quante più imprese all’interno del mondo SACE SIMEST Read the full article
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diana-mars22 · 8 years ago
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Intervista
Intervista con l’autrice
A proposito de Il Cammino della Fenice.
E ora passiamo a parlare dell’altra opera della serata, Il cammino della Fenice della giovanissima Diana Mars. Se l’autrice è d’accordo leggerei la sinossi: (la scrittrice fa un cenno affermativo con la testa).
“Pisa, 2200. il progresso tecnologico ha subito una battuta d’arresto. Qualcuno ha ancora voglia di sognare. Tre giovani universitari si ritrovano ogni mercoledì in un circolo letterario a discutere di arte e a scrivere poesie. Una sera un editore decide di sfidarli: dovranno scrivere un romanzo che ha come tema il mito della Fenice, il migliore riceverà in premio la pubblicazione dell’opera.
Il romanzo d’esordio della giovanissima Diana Mars è un viaggio nella memoria e nell’inconscio. Protagonista è un vecchio scrittore di successo che decide di raccontare una delle esperienze più incredibili della sua vita ovvero il tentativo non riuscito di scrivere un romanzo sulla Fenice.
La rievocazione del passato è il pretesto per aprire un varco verso un mondo suggestivo, sospeso, nel quale le coordinate spazio-temporali perdono consistenza e aprono all’ignoto.
Tra anime speciali che si impossessano dei corpi di persone comuni, tra sedute d’ipnosi regressiva e visioni improvvise che mischiano realtà, sogni e allucinazioni, IL cammino della Fenice si muove al confine del tangibile e smaschera la labilità dell’ordinario, la relatività delle nostre sensazioni e il mistero che alberga nell’intimo umano. C’è un filo che lega passato e presente, epoche storiche lontane e irraggiungibili: il viaggio di un’anima all’interno di corpi diversi, alla ricerca dell’amore e della purezza.”      
Ci parli un po’ del libro: questo è il suo romanzo d’esordio, cosa l’ha spinta a gettarsi in questa avventura?
Io ho molte passioni, tra le quali la letteratura, soprattutto i fantasy. Perché Il cammino della Fenice è, prima di ogni altra cosa, un fantasy. Ammetto, ahimè, di essermi avvicinata alla letteratura un po’tardi, all’incirca verso i quattordici, quindici anni per sconfiggere la noia. E sono rimasta folgorata da come un libro potesse trasmettermi così tanto e trascinarmi in posti così vivi, nonostante fossero solo parole di carta stampata. Mi spiego? Rimasta affascinata da ciò cominciai a fare il giro delle librerie della mia città, sfogliando libri e leggendoli direttamente sul posto, a pezzi e bocconi, alle volte, perché non sempre mi potevo permettere di comprarli. Anche se sono sicura che ai miei avrebbe fatto molto più piacere sapere che spendevo i miei soldi in libri piuttosto che in sigarette, per fare un esempio.
Inoltre io adoro il profumo della carta stampata. E poi mi resi conto che leggere non mi bastava più. Perciò cominciai a buttare su carta qualche storiella che stava nascendo nella mente. Con tutte le sgrammaticature e strafalcioni del caso di ogni principiante, certo. Ma questo non mi scoraggiò. All’inizio scrivevo solo per me stessa e poi mano a mano che miglioravo, che crescevo, mi accorsi che me stessa non bastava più. Era come se scrivere mi desse una voce ed io, che allora stavo passando un brutto periodo, volevo essere ascoltata. Alle volte le mie amiche e professoresse del liceo leggevano quello che scrivevo e spesso mi facevano i complimenti o s’immergevano immediatamente nella lettura, come se la prima parola li avesse catturati immediatamente. E poi quando mi restituivano lo scritto mi dicevano: me ne fai leggere un altro?
Questo romanzo in particolare nasce dalla necessità di fare quel famoso salto. Sapete, dopo che avete raccolto tutte le forze e il coraggio per attuare un sogno? Quel salto lì.
 Ma perché il tema della Fenice?
Anche se questo romanzo è un fantasy è diverso perché parla di un tema molto delicato quanto intricato, la reincarnazione. La quale si manifesta con la Fenice del titolo. La Fenice è un simbolo. Io parlo per simboli in questo libro, bisogna vedere se il messaggio arriva a destinazione. O se qualcuno riesce a decodificarlo. Inoltre ho scelto questo tema perché di leggende sulla Fenice non ce ne sono molte e quelle che conosciamo sono piuttosto ripetitive. Questa è la mia versione e, come il protagonista, ho voluto pormi una domanda: e se la fenice non fosse solo un uccello di fuoco? Se non fosse soltanto un simbolo? Cosa succederebbe se fosse in realtà, un’anima? Un’anima che si reincarna attraverso i secoli per guidare, unire e perseguire valori che si stanno perdendo. Ma non è solo questo. E’anche un modo per ricordare che chi ci ha lasciato non se ne è andato davvero. Che un giorno, magari in futuro, rincontreremo i nostri cari. Non importa l’aspetto fisico, o quanto ci metteremo, fatto sta che ci rincontreremo, e forse ci saluteremo e staremo di nuovo insieme. Ce ne accorgeremo perché ci sarà qualcosa che magari, come il protagonista del romanzo, ci farà dire: > oppure ci sembrerà di conoscerci da sempre. O magari di riconoscere luoghi che non abbiamo mai visto.
Al tempo stesso è anche un modo per dire che non sono d’accordo con le tesi supportate dall’immortalità dell’anima.
 Ci spieghi.
D’accordo, ma dovrò fare un giro lungo prima di arrivare al nocciolo della questione. Questo libro affonda le radici in un tema in cui mi sono documentata a fondo. Secondo le filosofie antiche, orientali e le dottrine pagane, la reincarnazione è la trasmigrazione dell’anima da un corpo a un altro. Succede perché la Natura effettua un riciclo continuo e completo. Ma lo fa per raggiungere la perfezione, altrimenti non mi spiego la proporzione che possiamo trovare nel creato. La sua matematica, segreta perfezione. Le anime si reincarnano per perfezionarsi e incarnarsi nel Tutto per contribuire a questa perfezione. Ma l’anima non nasce perfetta. Cresce, sbaglia, impara delle lezioni. Ma poiché la Vita è una ruota che gira ti mette davanti delle situazioni ripetitive, una specie di loop, finché non si imparano delle determinate lezioni e si va avanti. Non sempre lo si capisce al volo perché nessuno ti spiega le regole del gioco. Se così fosse allora la vita si potrebbe vedere come un sogno intervallato da momenti di buio, incoscienza. Potrebbe persino essere la spiegazione alla confusione che alberga nella testa degli esseri umani, ma anche l’eccezionale maturità o immaturità, di certi individui.
 Per la serie non si smette mai di imparare.
Esattamente. Ciò non penso abbia a che fare con le varie anomalie cerebrali riscontrate nella storia della medicina. E poi io sono una scrittrice, non una scienziata; non vorrei mettere troppa carne al fuoco. Cioè, un momento prima sei una persona, con determinate abitudini, pensieri e quando credi di averci capito qualcosa sei un’altra persona e devi ricominciare daccapo. Finché non sarai andato avanti e non ci sarà più bisogno di te. La sfida consiste nel ricordarselo nonostante l’amnesia di rinascita.
Certo, non diminuisce la paura della morte ma da già un grande conforto.
 Però nel libro fa vedere che anche la reincarnazione, quasi al pari della morte, fa paura.
Non è che fa paura, è destabilizzante. È solo che il protagonista, Innocenzo, è scettico perché affrontare questi ricordi significa perdere le proprie certezze e trovarsi di fronte a qualcosa di molto più grande. Nel suo caso affrontare vecchi dolori e un antico rimpianto che non sapeva nemmeno di avere. È qualcosa che non si percepisce solo col corpo e i numeri non possono spiegarlo. Questo è il regno dell’incertezza. Cioè, puoi essere stato Martin Luther King, Napoleone, Stalin, o, nel caso del mio protagonista, un ex professore di simbologia, anche se tu ricordassi non puoi dirlo a nessuno, perché nessuno ti crederebbe.
 Ma non è già troppo per una persona, con tutti i problemi che ha già nella vita?
Dipende dai punti di vista, io personalmente la vedrei più come una ricchezza. E poi anche se non si riuscisse a ricordare per un motivo o per un altro, siamo comunque tutti delle Fenici, perché tutti moriamo e rinasciamo ogni giorno.
 La sua visione del futuro è molto cupa. Perché?
Perché la Fenice rappresenta anche quella parte di noi che non si arrende mai. È la nostra umanità. Quanto di migliore abbiamo. Ma con la crisi sembra che stiano facendo di tutto per farcelo dimenticare. E non mi sembra che stiamo facendo grandissimi progressi. Questo romanzo è anche una fotografia dell’incoerenza della società umana. Di come sembra che ci stiamo togliendo la nostra umanità con il mito della fama, il mito del denaro, il potere. Che spesso dimentichiamo che siamo esseri umani, da una parte. E dall’altra gli Analogici che rifiutano i mass media. Due estremi senza metà.
Il suo libro però non parla solo di questo. Anche dal punto di vista ecologico non siamo messi molto bene. Ci stiamo avvelenando, secondo lei.
Diciamo che la reincarnazione e la Fenice sono un pretesto per affrontare sotto una luce diversa determinati argomenti. In nome del profitto, per mantenere viva la società, stiamo dissipando le risorse naturali. E noi siamo un prodotto della Natura, per quanto ci modifichiamo, ci separiamo da essa, il fatto che torniamo implica anche il nostro auto avvelenarci con l’inquinamento. Tanto ci sono le nuove generazioni cui scaricare il problema, che se ne occupino loro, pensiamo. Invece no, perché dal momento che torniamo, il problema resta nostro e si aggrava sempre più.  
 Qual è il personaggio che le piace di più?
Non ce ne è uno in particolare.
Diciamo che ho voluto sperimentare qualcosa di diverso, dal momento che la storia è raccontata dal punto di vista di un uomo con i suoi pregi e i suoi difetti, che si avvicini il più possibile alla realtà senza cadere in stereotipi.  
Dove possiamo trovare il suo libro?
Sul catalogo on line della casa editrice Giovane Holden e su Amazon.
Progetti per il futuro? Ci saranno nuove uscite?
Sicuramente continuerò a scrivere. Il cammino della Fenice non è l’unica storia che ho scritto, è solo la prima che ho deciso di pubblicare.
Sempre sullo stesso argomento?
No.        
Qui di seguito presentiamo alcune parti tratte da alcuni capitoli del romanzo.
Tratto dal capitolo Il suono del castigo
Improvvisamente, così, dal niente, la mia emicrania peggiorò e il dolore dietro gli occhi si spostò negli occhi. Mi fecero male i bulbi oculari, sembrava che dovessero scoppiarmi. Sibilai di dolore, sigillandoli forte anche con le mani ma non successe niente. E il dolore scomparve di nuovo. Sospirai di sollievo. Decisi di dimenticare l’episodio e tornai ai miei appunti. Quando ebbi una vaga idea di come strutturare una bozza accesi il pc ultimo modello e vi scaricai la roba che avevo preso da Giancarlo. Mi fermai soltanto per cucinare, mangiare un toast e due mele essiccate accompagnati da un bicchiere d’aranciata, e pulire la cucina. Davide mi schernì bonario: “Non stare troppo appiccicato a quel computer, o un giorno lo accenderò e ti ci troverò dentro a mo’ di file da scaricare.” Ma in realtà sapeva quanto desiderassi che il mio hobby diventasse il mio lavoro.
Risi sarcastico e mi chiusi in camera mentre lui si spaparanzava sul divano.
La mia stanza non era molto grande, non aveva nemmeno le mensole. Però aveva una finestra che dava sull’Arno che ad ogni tramonto si tingeva dei suoi magnifici colori. Nei mesi caldi si potevano vedere i canoisti che vogavano, mentre in qualunque stagione vedevo i gabbiani e i cormorani nuotare o sorvolare le sue acque. A volte i miei amici del liceo mi chiedevano per quanto tempo avrei scritto, se mai sarei diventato uno scrittore. Allora non sapevo che rispondere, adesso lo so: scriverò finché voleranno i gabbiani. In questo senso l’Arno era la mia musa ispiratrice.
Invece se alzavo gli occhi incontravo ciò che restava del passato attraverso i palazzi del centro storico.
Ma quella sera era già tardi e non si vedeva più niente oltre i lampioni così mi staccai dalla finestra e ripresi a scrivere. Alla trecentesima lettera, dopo l’ennesima astrusa lettura di pessima qualità su ufo, possessioni, schizofrenia e compagnia bella, mi dissi ok, adesso lasciamo fare al caso. Chiusi gli occhi stanchi e affaticati e, dopo aver mulinato la mano a caso, la posai sul primo scritto che mi capitò e l’aprii. In seguito feci una copia digitale delle lettere e dei documenti e li caricai sul computer per sfogliarli in seguito. Negli istanti dopo aver preso questa decisione, ebbi un altro attacco d’emicrania e un’immagine mi esplose negli occhi: un paio di seducenti e luminosi occhi femminili contornati da lunghe ciglia ammiccò nel buio e la scena di fronte a me cambiò di colpo.
Mi trovavo in una discoteca. La folla somigliava ad un mare burrascoso e le cubiste sembravano delle naufraghe danzanti. Il Laser e luci varie illuminavano le onde oscillanti che lambivano le isole più o meno immobili dei divanetti.
Mi allontanai dal bancone dello tsunami umano con i cocktail per i miei amici. Il primo dei quali a vedermi fu Dom. Mi fece cenno di sbrigarmi e quando li raggiunsi mi strappò di mano quello centrale rischiando di far cadere gli altri due, già in precario equilibrio: “Ehi, fa attenzione!” Lo rimproverai divertito in contemporanea del suo: “Grazie, amico!”
E mi resi conto di avere una voce dai toni tenorili.  
Eddy mi sfilò di mano anche il proprio, ridendo di gusto. Lo guardai ma non mi meravigliai del suo grasso che amava nascondere in tute da rappettaro. Credevano tutti che nascondesse una pistola, e anche noi lo pensammo, ma l’unica arma che avrebbe potuto estrarre da quei tasconi, erano le barrette energetiche. La cosa ancora più buffa era che portava i capelli nella stessa allegra pettinatura in voga tra i nazisti del ‘45. Ma lui non lo sapeva e noi non avemmo mai il coraggio di dirglielo. Bevvi il mio cocktail e lasciai che Eddy andasse a prendere il secondo giro.
La musica faceva talmente schifo che mi venne da vomitare. Già quella di adesso era tremenda ma quella di allora era pure peggio. Tuttavia decisi di non guastargli la serata e mi costrinsi a ondeggiare la testa a tempo e annegare le mie lamentele nei successivi cocktail alla frutta.
La visione evaporò e prima che me ne rendessi conto stavo già guardandone un’altra.
Ero uscito sulla terrazza per fumare e rinfrescarmi un po’ quando la vidi: Abigail. Era la ragazza più bella del college e tutti le sbavavamo dietro. In biblioteca e a lezione mi mettevo  sempre vicino a lei. Eppure non avrei saputo dire quale fosse l’esatta natura dei miei sentimenti per lei.
Rimasi paralizzato sull’uscio con l’accendino acceso, la sigaretta pendente tra le labbra e la gente che mi passava accanto da ambo i lati come fossi l’isola spartitraffico, spintonandomi lievemente.
E lei era a pochi metri da me, infilata in un bell’abito nero che evidenziava le sue forme e il suo corpo atletico. Mi vide, mi sorrise e mi venne incontro: “Heath!”  
“Ciao, Abigail.” La salutai impacciato, rianimandomi e accorgendomi dell’accendino spento. Lo riaccesi e riuscii finalmente a fumare.
Lei si chinò dai suoi tacchi e mi baciò sulle guance, lasciando che inalassi il suo profumo e dessi una sbirciata al suo generoso decollette. Poi si raddrizzò e mi sorrise, ignara dell’effetto che mi aveva fatto.
“Non ti facevo un festaiolo!” Esclamò tutta contenta.
Buttai fuori il primo tiro: “Ogni tanto piace uscire anche a me.” Sorrisi poi ne inspirai un altro che per sbaglio le espirai in faccia. Lei socchiuse gli occhi e fece un piccolo scatto indietro con la testa. Tossicchiò e si sventolò la mano di fronte al naso. Avvampai completamente e, in preda alla vergogna, borbottai qualche scusa. Ma lei non fece in tempo a rispondermi che un’amica ci raggiunse, la prese per un braccio, disse qualcosa che non capii e la trascinò via.
Abigail si girò un’ultima volta a salutarmi. “Alla prossima.” Le dissi di rimando ma lei era già stata inglobata nella folla. Volevo sprofondare.  
Era sempre stato così con lei. Fin dalla prima volta che la vidi quando andammo a visitare i college. Era salita sul mio stesso pullman. E, sollevati gli occhi dal mio arcaico videogame, la vidi e rimasi incantato. Improvvisamente non mi fregava più nulla del videogame. Poi la rividi il mio primo giorno di college.
All’improvviso mi sentii cingere il collo con una presa di judo e un paio di nocche frizionarmi i capelli. Due voci mi risero nelle orecchie e riconobbi Dom ed Eddy. Mi liberai ancora spaventato e con la cute dolente: “Ehi, bello, che fai qui impalato?”
“E’ mezz’ora che sei qui fuori.” Aggiunse Eddy.
Strascicavano un poco le parole, ma erano ancora ben lontani dall’essere brilli.
“Davvero è passato così tanto tempo?” Domandai con ostentata nonchalance. E loro capirono subito: “Ah…Hai visto Abigail, non è così?”  
E Dom rise: “Ecco perché sei rimasto qui tutto il tempo!” Ed Eddy mi si parò davanti, oscurandomi la faccia di Dom col suo faccione flaccido pieno di eccitazione: “Com’era vestita? E’ la strafiga delle foto che ci hai fatto vedere?” E cominciarono a cantare una filastrocca in voga tra i ragazzini delle medie di trent’anni fa. Sorprendentemente non me la presi, anzi mi unii allo sgraziato coro, poi, prendendoci vicendevolmente sottobraccio rientrammo nel forno. Il flash scomparve e mi ritrovai immerso nella penombra rischiarata dalla luce bianca tendente al giallo di una stella. Mi rialzai un po’ dolorante e mi guardai intorno mentre riprendevo confidenza con la realtà. Come diavolo ero finito sul pavimento? Poi notai la sedia ribaltata e capii. Mi massaggiai la testa e il lato sinistro del corpo sul quale ero atterrato. Mi ci volle un momento per riconoscere la mia stanza; ma che cosa mi era successo?
“Innocenzo? Stai bene?” Domandò Davide dall’altra parte della porta. Mi rialzai, indolenzito e mi sedetti sul letto. Sibilai tra i denti mentre il dolore cominciava a scemare via. “Innocenzo?” Lo sentii chiamare stavolta più preoccupato.
“Sto bene, non è niente.” Bofonchiai abbastanza forte perché mi udisse. Per quanto tempo ero rimasto svenuto? Mi spolverai i pantaloni e decisi che avevo lavorato troppo e che avevo bisogno di una pausa. Così uscii dalla stanza e mi diressi in cucina a bere un bicchier d’acqua e rassicurare Davide, il quale si fece da parte e mi seguì domandandomi: “Che è successo? Stavo per accendere la TV quando ho sentito il colpo e poi tu non rispondevi”.
Gli gettai un’occhiata e capii che doveva essere passato molto tempo, così mi scusai dicendo che mi ero appisolato ed ero caduto dalla sedia. Questo parve tranquillizzarlo, così mi lanciò un accidente e tornò in salotto, dal quale continuò a maledirmi per avergli fatto perdere l’inizio del programma.
Ridacchiai e bevvi un po’ d’acqua prima di tornare in camera. Però sembrava che l’incidente mi avesse tolto la voglia di rimettermi al lavoro, che temevo sarebbe potuto accadere di nuovo. Schioccai la lingua contro il palato mentre scuotevo il capo. Poi sbuffai, salvai la bozza, spensi il computer e raddrizzai la sedia. Mi cambiai e, una volta disteso sul letto, mi resi conto che gli occhi non mi facevano più male. Cosa cavolo mi era successo? Chi erano quelle persone? Erano un sogno? Non mi era mai successo di sognare ad occhi aperti, prima di quel giorno.
Ripensai ai nomi e ai visi semi sconosciuti. Dominic? Eddy? Abigail? Erano questi i nomi? Non ero sicuro al cento per cento ma chiunque fossero dovevano essere stati importanti per me. Ammesso e non concesso che fosse stato un sogno.
Tratto dal capitolo Lo studio delle meraviglie
Stando alla biografia su Wikipedia, Kaine aveva scritto anche due libri di poesie.
Il lunedì seguente l’incubo mi recai alla biblioteca del Dipartimento di lettere e li cercai.
Appena ne varcai la soglia automatizzata e fui investito dall’aria fresca del condizionatore, pensai che forse avevo sbagliato Dipartimento. Forse avrei dovuto cercarli in quelli di storia o di civiltà delle forme del sapere. Kaine era stato un professore universitario ed era molto famoso visto che le sue scoperte erano alla base dell’archeologia e del simbolismo moderni, sicuramente delle copie dei suoi scritti dovevano essere anche qui da qualche parte, no? Invece ebbi fortuna: appena lo dissi alla bibliotecaria lei controllò e dichiarò che c’erano ancora. Così mi accompagnò alla sezione dove erano riposte le ristampe del 2086. Erano un po’ ingiallite ed emanavano un odore più polveroso e muffito di quello che pensavo ma erano in buono stato. Una volta uscito mi spostai in un luogo più comodo, per la precisione al mio tavolo preferito del Totò. Il vento soffiava leggero, e mentre le foglie secche cadevano sul selciato, mi ero imbattuto ne La corte dei Miracoli. Stando alla critica di Cardini, un poeta del 2040 e maggiore critico di Kaine, il professore l’aveva scritta dopo una notte passata a divertirsi sulla spiaggia, ai tempi della sua giovinezza, forse il 2015 o il 2016. C’erano dozzine di monografie, articoli, saggi posteriori sulle sue opere, ma nessuna era attendibile come quelle del poeta.
Della vita privata del professor Kaine non si sapeva quasi niente, era un tipo molto riservato e criptico. Non aveva lasciato niente, nemmeno un’autobiografia, sebbene gliel’avessero proposto in tanti. Ciò che si sapeva di lui si poteva ipotizzare dalle sue poesie e molti avevano avallato numerose teorie, anche se quelle di Cardini erano le più famose. Ma appena finii di leggere la critica strinsi le labbra e scossi la testa pensando: In verità la scrisse in un momento molto diverso. Ma non ne ebbi la certezza delle mie conoscenze finché non lo pensai. Bevvi un sorso di wiskey che, quando raggiunse lo stomaco, il dolore agli occhi mi annunciò che presto avrei avuto le prove per smontare quella critica.  Camminavo sulla sabbia della spiaggia, lasciando che si infilasse nelle scarpe di tela ogni volta che sollevavo il piede, con una bottiglia di cognac che avevo comprato questo stesso pomeriggio, con l’intenzione di scolarmela da solo sulla battigia.
Il cielo era coperto di nubi e le uniche, lontane luci che c’erano venivano dalle mie spalle.
E così dal niente, mentre giocavo a fare il poeta maledetto, mi tornò in mente la mia prima vera conversazione con Maya, i suoi occhi e la sua profezia. Che lei sapesse? Che stesse cercando di mettermi in guardia? Come faceva a saperlo? Non le avevo mai raccontato dei miei nonni.
Il fascio di luce del custode mi colpì dritto in faccia e cominciai a pensare ad una scusa ma una voce femminile esclamò “Heath” e dopo pochi secondi si accoccolò goffamente accanto a me sulla sabbia. E anche se i suoi capelli  profumavano di un lieve sentore di essenza alle violette, avrei riconosciuto dovunque quegli occhi che scomparvero nel buio quando spense la torcia del suo telefono: “Maya”.
“Che ti è successo? Puzzi di cognac.” L’annusai a mia volta: “E tu di violette”. “Melissa.” Mi corresse intanto che gli occhi si riabituavano al buio. Sbuffai: “Melissa, quel che è”.
“Che cosa ti è successo?” Mi domandò apprensiva.
“Mio nonno se n’è andato”. Lei trasalì: “Mi dispiace”.
Anche senza guardarla riuscii sentire la sua sincerità, la sua compassione e la sua voglia di consolarmi. La sentii girarsi per abbracciarmi, ma scossi la testa come dire: “Non pensarci neanche.” Così si abbracciò le ginocchia e guardò il mare di fronte a noi e il cielo nuvoloso sopra le nostre teste. Sembrava che stesse aspettando che parlassi. Alla fine fu lei a rompere il pesante silenzio in cui eravamo precipitati: “Io…” Ma io la interruppi subito, sbottando, anzi no, aggredendola: “Chi te l’aveva detto che mio nonno sarebbe morto?”
Lei mi guardò contrita ma non spaventata: “Speravo di avvertirti…”
“Potevi essere un po’ più specifica allora!” Continuai e lei non riaprì più bocca. Feci un lungo respiro profondo per evitare di cominciare a prenderla a calci. Poi chiesi, sforzandomi di controllare l’ira: “Chi te l’ha detto?” E iniziai a concentrarmi sui miei respiri.
“Nessuno. L’ho Visto”.
E io lo sapevo, ma avevo deciso di ignorare il dolore e di lasciarmi assorbire dalla vita quotidiana.
Non gli avevo nemmeno detto addio, maledizione.
“Impossibile.” Ribattei, discrezione era la mia parola d’ordine. E lei se ne uscì con un sottilissimo: “No. È possibile”. “Se così fosse, allora saresti una veggente.” Ribattei sarcastico, ma non più irato. Si accese una sigaretta e io misi da parte la bottiglia. Alla luce del mozzicone riuscii a scorgere il suo profilo: “No, non sono questo, ma posso fare anche questo”.
“Vale a dire? Spiegati”. “Sarà perché sei ubriaco, però d’accordo. Voglio darti una mano”.
Una mano? Che genere di mano? Poi capii e, roteando gli occhi, cominciai ad armeggiare con i pantaloni, ma quando lei cominciò a parlare, mi fermai: “Sai, anch’io ho perso qualcuno molto tempo fa. Quindi so cosa si prova. Sono certa che tuo nonno ti amasse più della sua stessa vita. Chi ci lascia non lo fa per davvero, coloro che hai amato ritornano. Non lo dico per illuderti, ma perché sento il tuo dolore e anche il suo amore. Non so se lo senti anche tu ma se ci riesci puoi ritenerti fortunato. Perché il sentimento che ti lega a loro continua a esistere anche dopo e ti ricondurrà dai tuoi cari nella tua prossima vita. È proprio questo sentimento, questo legame che vi farà ritrovare. È  proprio questo che ci riporta in vita. Non come vorremmo e nemmeno quando vorremmo, ma torniamo tutti e ci cerchiamo finché non ci saremo trovati. Dante aveva ragione, l’amore è davvero il motore che muove il Sole e le altre stelle. E lo faremo tutti. Io, tu, loro. Persino tuo nonno”. “E tu che ne sai?” “La Ruota del Tempo, o Ruota del Fato, se preferisci. Ora tu credi che ti stia schiacciando, ma non è così, il dolore è solo momentaneo e tuo nonno tornerà. Anche se non si ricorderà di te, un giorno ti fermerà per la strada e ti saluterà di nuovo.” Mi garantì con un sorriso che le incurvò velocemente le labbra. Si rendeva conto che non capivo quasi nulla di quello che diceva? Distolse nuovamente gli occhi dalle piccole onde che lambivano la spiaggia e disse: “Se smetti di piangere, proverò a far uscire la Luna, va bene?” Seppellì il mozzicone nella sabbia e buttò fuori l’ultima boccata di fumo. Guardai le nubi nere scettico. Poi spostai lo sguardo su di lei e bevvi un altro sorso di cognac. “Tu fidati di me.” Mormorò, come se mi avesse letto nel pensiero.
“Io mi fido, ma non credo tu possa farlo”. “E’ proprio qui che ti sbagli. Io non dovrei farlo.” Sussurrò, con una voce molto diversa, antica e remota, eppure giovane e armoniosa. Accorciò le distanze tra noi e mi coprì gli occhi con una mano. Quando la tolse tutto era diventato più luminoso, le nubi e la luce sembravano scomparse e c’erano più stelle di quante avessi mai viste in vita mia. Non sembrava neanche più la stessa spiaggia. Era  un luogo completamente diverso. Non riuscii a trattenere lo stupore. Mi sembrò di vedere per la prima volta. Poi le stelle mi sembrarono sempre più vicine, erano talmente vicine da poterle toccare. Ed erano talmente belle che mi alzai in piedi e tesi le mani verso di loro. Vacillai ma non caddi perché qualcosa di luminoso alle mie spalle mi sostenne. Era come se qualcosa brillasse con me sulla battigia.
Mi girai e vidi Maya scintillare di un lieve chiarore turchino. Ma il chiarore non era esterno, bensì interno alla sua persona. Trasalii e mi scostai spaventato ma lei non se ne curò mentre il vento si trasformava in una melodia che avevo già sentito tantissimo tempo fa e dimenticato. Lei continuò a tenere gli occhi chiusi. Sembrava che stesse concentrandosi con tutta se stessa, quasi che stesse cadendo in una specie di trance. Poi il suo chiarore s’intensificò fino a diventare giallo dorato e la pervase tutta quanta, dalla testa ai piedi. Socchiusi gli occhi mentre mi domandavo se stavo sognando o se mi avessero messo qualcosa nel cognac. Ma non era possibile che me l’avessero corretto. Sentivo il suo calore dolce e corroborante sulla pelle. quando mi accorsi che anche la sabbia e le nubi erano vagamente illuminate dalla sua luce capii: “Non è un sogno”.
I suoi tratti divennero trasparenti come bolle di sapone, eppure non ne vedevo gli organi interni. I capelli divennero della stessa luminosa tonalità, si allungarono fin sotto i fianchi e si lisciarono.
Si alzò in piedi e anche il suo corpo crebbe fino a diventare più alto del mio. I suoi vestiti si fecero leggeri e quasi trasparenti come veli, offuscando un poco la luce del suo corpo nudo, ma era talmente sacra, trascendente e al tempo stesso autorevole e superba, che non ci feci caso. Sulla sua schiena spuntarono delle grandi ali piumate lunghe sei metri e una coda di pavone le fece da strascico sulla sabbia. Sulla sua fronte comparve un elaborato cerchietto d’oro bianco con una ametista incastonata al centro. Poi aprì i grandi occhi viola purpurei lasciandomi senza fiato per la loro magnificenza. Era come essere guardati da una creatura antica e remota. Arretrai spaventato e meravigliato e la guardai dare le spalle al mare, ricordandomi molto una sorta di Afrodite uscente dall’acqua. Qualunque cosa fosse non era umana. E tendeva una mano verso di me, le labbra dolcemente curvate in un sorriso speranzoso. Mi chiesi dove fossero finiti tutti, se qualcuno si fosse accorto di quello strano fenomeno, ma non accorse nessuno. Era come se la spiaggia si fosse svuotata di colpo. Mi fermai. Timoroso tesi una mano verso di lei, che incontrò le sue dita tese, calde e vere come le mie. E capii che non mi avrebbe mai fatto del male: “Non aver paura, non ti succederà niente.” Mi promise la creatura lucente con la voce melodiosa e armoniosa che le avevo sentito prima. Le credetti subito.
“Sei vera?” Le chiesi piano, affascinato. La bella bocca si aprì nuovamente e disse: “Sono più vera che mai.” Avanzò di un passo e la sua mano fresca mi carezzò la guancia come fossi un bambino piccolo.
“Non è un sogno.” Mormorai di nuovo, incantato.
“No”.
Poi mi abbracciò e la sua luce cancellò i miei sensi di colpa. Ricambiai la stretta con occhi colmi di
lacrime trattenute. Ma non erano più di solo dolore. Nel suo abbraccio mi sentii al sicuro come non mi ero mai sentito da nessun’altra parte. E ricambiai la stretta desiderando di sparirci, assorbito dalla sua magnifica, commovente essenza che scaldava, accendeva e rinvigoriva come una promessa. Portami con te, la supplicai mentalmente mentre il suo tocco alleviava il dolore di tutte le piccole ferite dell’anima accumulate in quei ventidue anni di vita. E mi sentii più forte, consolato e non più vergognoso di me stesso.  
Si discostò continuando a tenermi abbracciato, e, insieme, guardammo il cielo. Mi parve di volare mentre il vento si alzava di colpo, intrecciandosi alla melodia, e saliva verso l’alto, spingendo via le nuvole rimanenti, rivelando altri astri brillanti, talmente splendidi che non riuscivo a trovare un paragone.
Mi scostai da lei, meravigliato. Era come se fossi volato fuori dell’atmosfera, eppure sentivo ancora la sabbia sotto i piedi e lo sciabordio del mare sotto la musica. Era come se avessi potuto vedere l’universo con gli occhi di Dio. Poi lei mi affiancò, mi mise una mano sulle spalle e mi indicò un punto dove vidi quelle che a prima vista mi parvero altre stelle. Ma erano diverse, si muovevano come uno stormo di uccelli. Ad un suo cenno lo stormo in formazione a V volò alto sopra di noi e discese a spirale dal cielo per avvicinarsi. Arretrai di un passo provando le stesse sensazioni che accompagnano un bacio. E quando tutte quelle lucine furono a pochi metri di distanza attorno a noi, capii che non erano uccelli, tantomeno stelle. Erano anime. Eteree, leggere come i veli che rivestivano la splendida creatura al mio fianco. Vorticavano attorno a noi come un lucente turbine di vento e poi tornavano su. Le osservai tutte mentre distinguevo vecchi, giovani, donne, bambini, tutti felici e ridenti. Tra di esse, una in particolare catturò la mia attenzione. Ma non capii perché finché non si avvicinò e incatenò i suoi occhi sorridenti ai miei. Il mio cuore batté un colpo più profondo mentre mio nonno, di nuovo felice, gioioso e libero di muoversi, mi salutava allegro con la mano. “Nonno.” Riuscii solo a dire, paralizzato dalla gioia, e la gola intasata di fiumi e fiumi di parole. Forse lui capì e si mise a ridere. E la sua risata che non sentivo da tanto tempo, al punto che pensai di averla dimenticata, mi commosse fino alle lacrime. Sorrisi. Lui girò due volte attorno a noi e capii dal suo sguardo che un giorno ci saremmo rincontrati. O nella prossima vita, o quando mi sarei librato in volo assieme a lui. E il mio addio diventò un muto grido d’arrivederci. Il cuore colmo di gioia.
Mi salutò di nuovo e salì al cielo con il resto delle altre anime. Le seguii con lo sguardo e la mano alzata in segno di saluto finché non ripresero il loro volo nello spazio. La mia mano fu raggiunta e intrecciata da quella della creatura lucente che aveva permesso quel miracolo e l’abbassò dolcemente. Mi volsi verso di lei e incontrai il suo sorriso commosso e umido di lacrime riflesse delle mie. E mi scoprii riconoscente, meravigliato e ammaliato da lei. Mi aveva fatto il più bel dono che avessi mai potuto desiderare. Però mi sentivo anche stanco. Molto stanco, come se avessi prosciugato tutte le mie energie. Lei mi sostenne ancora un po’ prima di aiutarmi a mettermi seduto sulla sabbia. Intanto che la contemplavo quasi senza vederla, si sporse verso di me e mi baciò la fronte: “Adesso dormi, amico mio”.
E lasciai che mi chiudesse con dolcezza le palpebre mentre la Luna splendente sembrava una dolce aureola bianca e argentata.  Rimisi a fuoco la scena, sentendo quelle incredibili sensazioni dentro di me. E il confronto al ricordo, la realtà fu a dir poco deludente. Avrei voluto che quella realtà durasse per sempre. Ma ora che sapevo che era nei miei ricordi, che l’avevo già vissuta e che avrei potuto riviverla ogni volta che volevo, l’avrei fatto. Mi sarebbe bastato trovare quella melodia e concentrarmi su quel ricordo che sapevo già non essere parte di alcun film o romanzo. Sorrisi tra me e me, cancellando quelle lacrime che mi inumidivano gli occhi. Guardai il bicchiere col liquido ambrato e il libro che stavo leggendo. Poi finii di bere, risentendo dentro di me quel calore che avevo provato tempo fa. Dovetti farmi una discreta violenza per evitare di ordinarne un altro e un altro ancora. Sentivo il mio corpo, o meglio, la persona che a tratti prendeva il controllo del mio corpo, agognarne ancora e ancora.
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