Tumgik
#La fede alla luce della psicoanalisi
susieporta · 11 months
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L'amore se ne frega.
Ho accumulato ormai un bel mucchio di anni nello studio, tali e tanti da poter testimoniare alcune verità, conosciute ma tacitate, che attraversano il vivo dell'esperienza degli uomini, e delle donne.
L'amore, che vuole 'Ancora', è a scapito di ogni cosa. L'amore comporta una perdita delle relazioni umane, un calo nelle gerarchie sociali, una discesa nel potere di acquisto.
L'amore, e le sue conseguenze, se ne frega di ogni convenzione.
Dove vissuto intensamente, sino alla fine, quand'anche durasse un solo giorno, l'amore per una persona fa a meno degli orari di lavoro, dei tempi, del rispetto delle regole convenzionali.
L'amore prende treni andata e ritorno in giornata, sale su aerei senza poterli pagare se non a costo i sacrifici immani.
L'amore infrange tutta quella serie di asfittiche regole, normali, utili, normalizzanti, necessarie alla vita, al lavoro, al progresso.
Quando è vero, quando cioè diventa fine e tensione della vita stessa, vale sempre la pena.
'Valeva la pena uscire da quella riunione di lavoro e perdere la promozione'? ' Ah si, dottore. Lui era la sotto con i fiori, e mi ha portato via'
' Oggi il suo stipendio è assai basso'
'Si, ma quel momento valeva una vita intera.
Non potevo perderlo '
'Valeva la pena accettare l'invito di quella donna, pur sapendo dei precedenti, del carcere?
' Si dot, la mia famiglia mi ha cacciato via, quasi diseredato, ma non avrei ma potuto dirle di no.
Rinunciare all'amore per convenzione per morale, per costume, per tradizione familiare, perché 'non si deve', non è ' giusto'.
Perché questo ,quell'altro, priva la vita di quell'attimo incandescente che , da solo, rappresenta una luce che illumina l'universo.
Dopo il big bang, l'universo divenne freddo, tetro, gelato ed infinito.
Ma quel bagliore valeva tutto.
I casi suddetti, e altre mille ne potrei citare, conducono oggi vite non ricche, non visibili. Molti di essi hanno difficoltà economiche, a causa delle loro scelte.
Ma sono vite piene, colme.
Dire no all'amore per la convenzione, come accade nella maggior parte dei casi, conduce ad una vita mediocre, normale, normalizzata. Ricca, spesso agiata, confortevole. Rispettabile.
Nei canoni.
Ma quando giunge l'autunno della vita, il lungo e freddo periodo del rimpianto, questo viene quasi tutto speso nel rammarico, nella dannazione di aver lasciato per strada l'amore, vero. Il declino dell esistenza diviene un lungo prodomo alla morte, vissuta come una liberazione. Nessuno immagina quanti uomini e donne in questa deriva passano nello studio di un analista.
Questo è in nuce il discorso che stamattina, farò ad un emittente radiofonica che mi ha invitato , il link della quale metterò solo dopo essermi accertato che si apra, vista la mia nota dabbenaggine nel indicare link che poi si aprono in punto cieco.
Come sempre, psicoanalisi e desiderio.
Mentre tutta l'intellighenzia vi blatera, in tv, ' fate i bravi, siate monogami, siate fedeli anche quando tutto è morto. Obbedite, lasciatevi giudicare', la forza sovversiva del desiderio indica la strada opposta. Come diceva Freud ' noi portiamo la peste'
Molla tuto, alzati in piedi, corri giù dalle scale.
Vai incontro a chi ti sta aspettando, non corre il rischio di perderlo.
Insomma, vatti a prendere l'amore, ovunque esso sia.
Vi ricordate la ' Canzone di Carla' ?
George si innamora di Carla, e per lei compie azioni inconsulte, al punto di fermare un autobus per farle fare un giro. La ditta lo riprende e lo licenzia.
Ma quella scena, vale tutto il film.
Maurizio Montanari
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anniemilly182 · 5 years
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Gipsy
L’appartamento si trovava in una piazza davanti al mare, all’ultimo piano di un palazzo che l’umidità aveva scorticato.
Per fortuna, nonostante le cicatrici sulla facciata, il vento e la salsedine non lo rendevano meno attraente.
Mi colpì subito, con quella finestra a tre vetrate che ogni giorno si illumina dentro i primi squarci di sole.
È questo il punto della città dove nasce il giorno ed è qui che le cose si realizzano più in fretta.
Chi vede il mondo prima degli altri, si sente sempre a casa.
Una consapevolezza della durata di un attimo, il tempo di raggiungere il nucleo delle cose: accoglierlo e lasciarlo andare; restando con senso di pienezza in fondo all’anima.
Era esattamente ciò che provavo alla vista di quel palazzo, il casermone assolato che ospitava il mio appartamento: perché lo fosse e perché sentissi familiare quell’atmosfera, è impossibile a dirsi. Il mondo onirico ha logiche incomprensibili per l’occhio cieco della ragione. Decisi di proseguire il mio cammino, percorrendo la strada che costeggiava il mare. Sebbene quel mondo sembrasse deserto, mi imbatto in un ragazzo che forse conosco. Non mi dice nulla, si limita a guardarmi con i suoi occhi di un blu profondo: riesco a intravedere le increspature delle onde in quelle iridi assolute. Posso anche percepire la sua tristezza e senza che proferisca parola, avverto il fragore di uno scontro: una donna ha sbagliato il senso e un ragazzo giace sull’asfalto, morto. Credo che fosse un suo amico, vorrei abbracciarlo ma scompare tra le mie braccia ed io resto sola. Quanto è ostinato il bisogno di amare: ci rende schiavi di un altro mondo, creato dalla mente per il puro scopo di espiare le colpe della realtà. Cosa è reale in questo momento? Questo mare che richiama il pensiero di gente in fuga, questa città sempre uguale a sé stessa, questa immagine che vedo riflessa nello specchio e che non riconosco?
Altre forme di vita attirano la mia attenzione, sono frasi proferite con veemenza e il luogo dal quale provengono, si direbbe, essere un bar. Eccomi in un locale, poco più ampio di una stanza da letto. A renderlo tristemente angusto è soprattutto l’arredamento sciatto; unico elemento di modernità un televisore: un deus ex machina che si rivolge ai suoi fedeli, rimandando immagini e parole. Penso di non conoscere la lingua nella quale si esprimono, né loro né l’oggetto della loro venerazione. Però comprendo la rabbia che deforma i loro volti stanchi, i solchi delle rughe divengono più profondi ad ogni urlo emesso. Mi immagino un contadino lillipuziano intento ad arare quei campi emotivi e gli auguro di trarre frutti che sappiano di pietà. Qualcuno di questi anziani signori mi ricorda mio nonno, che come loro indossava un basco marrone, camminava con un giornale sotto il braccio e congiungeva le mani dietro le spalle mentre ascoltava. Inoltre, anche lui inveiva contro lo schermo parlante e professava una religione politica che mi faceva orrore, il cui alito mortifero avverto ancora oggi. Mi sforzo di riconoscerlo tra quella gente, ma non ci riesco: è il sogno sbagliato, mi starà aspettando altrove. Se potessi rincontrarlo avrei tante cose da chiedergli. “Sai, Nonno caro, mi chiedevo: ma l’Eterno, rende più saggi? Tra le braccia di Dio, hai per caso compreso, finalmente, quanto nuoce a un figlio non essere amato o peggio, pensare di non esserlo? Per caso c’è qualche Angelo dotto in psicoanalisi, che ti abbia saputo illustrare quanti e quali danni provoca un genitore incapace di pensare a qualcuno che non sia stesso e che faccia sentire tutti indegni del suo affetto? Temo che ti abbiano anche dovuto spiegare che la psicoanalisi ha una dignità scientifica tanto quanto l’ingegneria, ma non so se l’Eterno possa arrivare a tanto. In ogni caso, Nonno, ti mando il mio amore. Sai, ho imparato a perdonare gli altri e, forse, anche me stessa”.
Mentre sono tutta compresa in questi pensieri, avverto una mano che si è poggiata sulla mia spalla. Tento inutilmente di dissimulare lo spavento e capisco che qualcuno, tra gli anziani adepti, vorrebbe includermi nel dibattito: muove la sua mano, dalla direzione del televisore verso la mia, un andirivieni quasi comico, se non fosse che mi atterrisce l’essere incapace di decodificare il suo linguaggio. Anch’io mi esprimo a gesti, ma senza emettere suoni. Accenno un saluto e scappo via, seguita per qualche istante dal suo sguardo interrogativo. Una volta fuori dal bar, noto con dispiacere che non c’è più il sole a illuminare la strada vuota. Gli ultimi incontri mi hanno fatta sentire vulnerabile e sento il bisogno di tornare a quel palazzo, a quella finestra,a quella comprensione che è casa. Ma le strade, nella parvenza immutate, non mi portano dove desidero e ripercorrerle è un ‘azione senza significato. La paura che si fa spazio nel mio cuore, costringe un pensiero, prima accennato, a farsi concreto o per lo meno palese. Quella parola di tre lettere che poco fa avevo pronunciato, è diventata un bisogno, un confine necessario al mondo altrimenti troppo vasto. Dio. Ecco un’altra essenza che accende punti interrogativi, fiammelle in una cattedrale sconsacrata perché eccessivamente debole. Sono io quell’edificio illuminato a stento, fitto di ragnatele, ignorato dai fedeli e amato dai peccatori notturni. Sono io , che da bambina prima di addormentarmi pregavo ogni sera, recitando parole profonde: raccontavano di morte, vita, lacrime e sangue ed io , che ero solo una bambina, non sapevo fare altro che ripeterle. Erano commuoventi ma incomprensibili. Forse come le urla di quel bar. Adesso, invece, se uso la parola “peccato” piuttosto che “sbaglio”, le mie azioni appaiono diverse, è come se smettessero di esistere in un’uniformità grigiastra e una linea dritta iniziasse a creare delle forme. Per non parlare di come suoni meglio,” Dio ho molto peccato”. È un incipit decisamente più dignitoso rispetto al banale, “Dio ho molto sbagliato”. E pensare che ragazzi, miei coetanei, si uccidono e ammazzano in nome di Allah, mentre io rifletto sulla migliore scelta lessicale, da adottare, per quelle volte in cui mi decido a sussurrare al vuoto della mia camera, perché in preda ai sensi di colpa. Tutti ci rivolgiamo al Mistero per essere perdonati, o comunque quasi tutti. Persino io, che ho, più volte, considerato il problema morale del mio paese un’inevitabile conseguenza della sua religione, troppo indulgente. Sbagliamo per continuare a farlo e, nonostante questo, per continuare ad essere amati.
Persino nei sogni i miei interrogativi esistenziali non mi danno pace. La colpa è sempre di quei ragazzi, pazzi, che sacrificano tutto per un’idea e noi, invece, abbiamo sacrificato ogni idea pur di avere tutto. Certo che è un peccato essere qui sola, al buio, in una città senza nome, senza nessuno con cui condividere queste riflessioni. Chissà se al mio risveglio continuerò ad essere tanto introspettiva, chissà se sarò capace di custodire questi pensieri per convertirli in parole. Delle volte, è paragonabile all’abisso il foglio bianco che mi guarda e che io guardo con timore. Sembra volermi dire: “Dai, su. Volevi fare la scrittrice e allora sporcami”. Battuta degna di un soft porno per amanti della tipografia. Il punto, però, è che io resto a fissarlo. Magari abbozzo qualche riga, la rileggo e getto tutto. Ogni parola sembra incapace di esprimere quell’emozione o quella profondità di pensiero che vivo negli istanti epifanici. Momenti fugaci, troppo spesso coincidenti con la sindrome premestruale. A proposito della prosaica realtà biologica, dei crampi interrompono il vortice onirico filosofico nel quale mi trovavo e mi costringono alla realtà esterna. Vado in cucina e trovo mio padre che, come ogni mattina, ascolta il dibattito politico giornaliero. Gli do un bacio, sulla parte del cranio più colpita dal diradarsi dei capelli. Come ogni mattina. Sono nuovamente intraducibili le voci provenienti dal televisore, adesso però è giustificato dalla mia refrattarietà mattutina. Solo una battuta, esordendo nel bagliore della sua autoreferenzialità, resta sospesa, si distacca dal brusio generale e si fa ascoltare. “Bisogna ripartire dal Mediterraneo, è il futuro”. Tra i molteplici slogan ai quali siamo, nostro malgrado, avvezzi, questo mi suona diverso. Certamente, non per la sua novità intellettuale, piuttosto per l’embrione paradossale e contradditorio che custodisce. Insomma, una frase ossimorica. Se sapessi dipingere e dovessi dedicare un’immagine alla mia terra, realizzerei la piccola piazza di un centro storico. Le pietre dei suoi edifici di un giallo intenso, reso ancora più morbido dalla calura estiva. Affacciati alla finestra alcuni anziani, con le tipiche divise bianche, ennesima dimostrazione di purezza. Su un edificio, abbastanza centrale, forse il municipio, un orologio antico. È su di esso che deve indulgere lo sguardo dello spettatore. Lui, più di tutti, patisce l’aria pesante, gonfia. Le sue lancette a stento si muovono sotto il peso di quella luce così intensa. Sorge un dubbio in chi guarda: forse non è per la bidimensionalità della tela che sono immobili.
La dea pagana che emette oracoli in cambio di un canone, fa viaggiare un’altra parola, un’altra immagine. In questo caso la parola chiave è “Gipsy”: a differenza del suo corrispettivo italiano, la consonante velare è più dolce e inoltre non è sporcata dalle velleità politiche nostrane. Mi piace. In ogni anfratto che separa le sue cinque lettere, ritrovo una parte di me. Non indosso veli o cinture sonanti, la realtà fisica entro la quale mi muovo ha confini ben precisi e conosco quasi sempre l’orizzonte che osservo. Però i miei desideri, i miei istinti, tutto quello che non confido a chi mi conosce, cammina in bilico tra la forma e l’essenza, tra le linee dritte e confortevoli e gli orizzonti sconosciuti, gravidi di incognite. “Gipsy” è per me il travaglio quotidiano, che mi vede esaminare ogni centimetro della prigione di pensieri e desideri non miei. È lo sforzo di incarnare una rivoluzione pensante, capace di far emergere l’autenticità che cerco come una forsennata. È l’amore viscerale nei confronti della mia famiglia, il bisogno di proteggere chi amo da loro stessi e il desiderio di abbandonarli, per sempre, sfuggendo in maniera definitiva alle loro aspettative. È anche il senso di costrizione che provo davanti ai mille specchi che mi circondano: ognuno di essi riporta un’idea diversa che hanno gli altri di me. Nei confronti di ciascuna di quelle immagine provo rabbia ma anche frustrazione, perché non ci sono somiglianze, ma sarebbe tanto più comodo se fosse così. Sono le mani degli sconosciuti ai quali concedo il mio corpo, che mi frugano dentro e, mentre spero che mi ascoltino, mi svuotano. Nessuna di quelle mani è capace di una carezza, di trovare il mio volto. Nessuno dei loro sguardi mi fa venire voglia di restare. Eppure, per quello sterile carnevale di piacere, mi tuffo tra nuove braccia sconosciute, promettendomi che sia l’ultima volta: consapevole che non lo è mai per davvero. Anche le mie gambe, le mie braccia, i miei capelli, sono “gipsy”. Lo sono quando li odio e vorrei che non mi inchiodassero a qualcosa che non ho scelto; lo sono quando vorrei sapere contare solo sulla mia limitata e ben precisa fisicità, dimostrarmi autosufficiente come lo sono stati gli uomini che popolano il sogno di un’età dell’oro.È quel sogno ricorrente, che sopraggiunge puntuale, periodicamente. Dipinge per me un secondo Eden, un’isola meravigliosa circondata dal mare. Quel piccolo pianeta ha due soli abitanti: me e il mio bambino. Non ho altri oneri da svolgere, se non amarlo incondizionatamente. La vita in serbo per me è scandita dalla visione della sua crescita e dall’impegno nel garantire il suo libero svolgimento, assecondando la sua natura. Quando lo stringo tra le mie braccia e con un solo bacio riesco a conquistare la sua guancia, dimentico che il Mondo per il quale lo sto preparando, non esiste: perché quando c’è lui non ci siamo noi e viceversa. Segue un risveglio e la consapevolezza che quell’amore sognato ha un prezzo troppo alto e non sono sicura di volerlo pagare. Oltre quell’isola esistono città brulicanti di sconosciuti, nei cui volti mi vorrei perdere. Oltre quella cornice di pace, esiste un Mondo malato che vorrei contribuire a guarire, alle cui ingiustizie si può rimediare usando l’amore che quel bambino, mai nato, avrebbe ricevuto. La mia Gipsy è nel rifiuto di sé stessa e nella voglia di essere più simile alle altre donne, docilmente accomodate tra gli sguardi di uomini che le amano e le redini di una società che accettano per quella che è, perché loro stesse sono diventate ciò che la società domandava, garantendosi, in cambio, un tempio chiamato “Casa” e un Dio , detto anche “Futuro certo”.
Per me, solo un luogo è casa, solo lì riesco a vedere. Non so come sia fatto al suo interno, ma ricordo perfettamente la finestra a tre vetrate della mia stanza.
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rassegnaflp · 6 years
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Françoise Dolto mette il Vangelo sul lettino di Freud
Françoise Dolto mette il Vangelo sul lettino di Freud
di Cesare Cavalleri, avvenire.it 2 ottobre 2013
Di Françoise Dolto (1908-1988), in dialogo con Gérard Sévérin, et al./Edizioni ha pubblicato l’anno scorso I Vangeli alla luce della psicoanalisi, e adesso manda in libreria La fede alla luce della psicoanalisi (pp. 136, euro 16), che è un’altra costola dell’originale francese, apparso unitariamente nelle 416 pagine delle Éditions Gallimard, nel…
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