#La Fragilità che ci appartiene e fa di noi proprio Noi
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La Fragilità che fa di noi, proprio Noi: ciò che siamo nel profondo.
Sangiovanni dice stop all’album e al concerto previsto fra otto mesi. Giunto penultimo a Sanremo con Finiscimi dopo aver raggiunto le vette delle classifiche negli scorsi anni, il giovanissimo cantante ha deciso di prendersi una pausa: «A volte bisogna avere il coraggio di fermarsi. Non riesco più a fingere che vada tutto bene e che sia felice di quello che sto facendo»
IL MESSAGGIO - Al secolo Giovanni Damian, Sangiovanni era esploso sui banchi di Amici nel 2021, dove si era legato sentimentalmente alla ballerina Giulia Stabile, che lo aveva battuto in finale. I due sono stati insieme fino allo scorso anno. Ora il cantante manda un messaggio ai suoi fan con cui sospende l’uscita del nuovo album Privacy e il concerto previsto addirittura il prossimo ottobre, segno che vuol fermarsi per un bel pezzo: "Grazie al festival ho capito che essere se stessi e dire la verità è importante, bisogna accettare quello che si è."
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#La Fragilità che ci appartiene e fa di noi proprio Noi#introspezione#crescere attraverso le crisi#Youtube
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- Oggi ti spiegherò perché devi essere fragile come un cristallo.-
- Non rischierò così di andare in mille pezzi?-
- Sì. Ma tutto è un rischio. Anche incominciare a vivere.-
- Capisco. La alternativa sarebbe di rinunciarvi.-
- Sì. Chi non vive non rischia niente. Però è morto.-
- Ma perché proprio hai nominato il cristallo?-
- Perché è trasparente, lascia passare la luce, ne distilla i riflessi.-
- La trattiene pure, no?-
- Sì, la fa sua. Ed è bellissimo.-
- Non avviene lo stesso anche con il vetro più spesso, con il plexiglas infrangibile?-
- Sì, ma non è la stessa cosa. L'effetto della luce sul cristallo è unico.-
- Sembrerebbe proprio che tu mi imponga di diventare vulnerabile.-
- No. La vulnerabilità non è uno scopo, ma soltanto un effetto collaterale. Io ti impongo di diventare cristallo. Di filtrare la luce come un cristallo.-
- Si deve proprio diventare deboli?-
- No. Non ho detto questo. Confondi, come fanno molti, la fragilità con la debolezza, la vulnerabilità con l'inevitabile ferita. La delicatezza con uno stato di costante pericolo.-
- Potrebbe diventare un pericolo reale, però.-
- Torniamo al discorso iniziale: per paura di un possibile pericolo, si rinuncia a vivere. Cosa c'è di tanto terribile? Cosa può accaderti nella peggiore delle situazioni?-
- Morire.-
- Dunque, vorresti essere già morto per non rischiare di morire. Dobbiamo parlare un momento di questo. Io sono la tua morte. Come scrisse Pavese, verrà la morte e avrà i miei occhi. Ne parli sempre.-
- I tuoi occhi. Sì, screziati d'oro. È vero: ci sono annegato dentro.-
- Volevo dire una cosa diversa. Non intendevo far uso di metafore, di immagini figurate.-
- Vuoi dire che sei realmente la mia morte? La mia assassina?-
- Sì. Sono la tua assassina. Uccido quello di te che deve morire per lasciare spazio a una altra vita, a una diversa dimensione.-
- Non è quello che Accade ogni giorno? Muore sempre qualcosa perché si possa cambiare.-
- Sì. Baciami i piedi perché sono come quelli di Shiva: piedi delicatamente tinti di blu come la notte, che calpestano i fiori danzando, in modo da consentire alla nuova fioritura di crescere e maturare. Sempre si uccide qualcosa.-
- Per questo si dice: morire d' amore?-
- Sì. Chi ama perde ciò che era prima, diventa un altro. Chi appartiene non possiede. Chi si arrende vince. Chi muore può rinascere.-
- Ma un cristallo infranto non si può rimettere insieme.-
- No. Diventa migliaia di frammenti di luce. Moltiplica la luce tante volte quanti pezzi è diventato. Non svanisce nel nulla. Diventa semplicemente un tutto maggiore.-
Franco Coletti
Cit. e prima immagine (opera di Kevin Carden) da Poeti Viandanti
"A-mors" significa senza morte.
E anche se qualche volta ci si sente così vulnerabili amando, e fragili nell' incertezza in cui alcune prove, da affrontare per stare insieme, ma da soli, ci "catapultano"...
dobbiamo lasciare che alcune parti di noi, in cui non ci riconosciamo più, muoiano, solo così potremo rinascere insieme in una nuova luce. Con colori e riflessi completamente nuovi e sconosciuti anche per noi.
Senza paura.
Perché come diceva "Yogiji" "Dove c'è amore non c'è paura e dove c'è paura non c'è amore"
Buon venerdì anime, a volte anche fragili e vulnerabili, ma insieme, nell' energia del cuore, fortissime.
🙏💚💚🔥❤️🔥💚💚
... Gurpreet
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Ancona, "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo al teatro delle Muse
Ancona, "La coscienza di Zeno" di Italo Svevo al teatro delle Muse Fino a domenica 3 dicembre al Teatro delle Muse è in scena La coscienza di Zeno di Italo Svevo con protagonista Alessandro Haber e la regia di Paolo Valerio. In scena con Alessandro Haber vedremo: Alberto Onofrietti, Francesco Migliaccio e Valentina Violo, Ester Galazzi, Riccardo Maranzana, Emanuele Fortunati, Meredith Airò Farulla, Caterina Benevoli, Chiara Pellegrin, Giovanni Schiavo; adattamento di Monica Codena e Paolo Valerio, scene e costumi di Marta Crisolini Malatesta, luci di Gigi Saccomandi, musiche di Oragravity, video Alessandro Papa, movimenti di scena Monica Codena, la produzione è del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Goldenart Production. Capolavoro della letteratura del Novecento, romanzo antesignano di respiro potentemente europeo, ironico e di affascinante complessità, “La coscienza di Zeno” celebra nel 2023 i cent’anni dalla pubblicazione. La figura monumentale di Italo Svevo ed il suo straordinario romanzo psicanalitico “La coscienza di Zeno”, possiede anche una propria vivace teatralità, per la sperimentazione di una scrittura innovativa e per il suo essere dominata dalla coinvolgente, complessa e attualissima figura di Zeno Cosini. Il romanzo infatti sgorga dagli appunti del protagonista che si sottopone alle cure dello psicanalista Dottor S cercando, per quella via, di risolvere il suo mal di vivere, la sua nevrosi e incapacità di sentirsi “in sintonia” con il mondo e con la realtà. Il suo percepirsi inetto e malato, ed i suoi ostinati - ma mai del tutto convinti - tentativi di cambiare e guarire, portano Zeno ad attraversare l’esistenza intrecciando sorprendentemente quotidianità borghese ad episodi surreali ricchi di humour e di verità, e ad illuminazioni che possiedono una forza che ancora ci scuote. “La coscienza di Zeno” è stata sempre interpretata da grandi attori, come Renzo Montagnani, Giulio Bosetti, Alberto Lionello che fu anche protagonista dello sceneggiato Rai e, nella successiva edizione televisiva, Johnny Dorelli. Nel nuovo allestimento a firma di Paolo Valerio, Zeno avrà il volto di Alessandro Haber, un attore dal carisma potentissimo e dall’istinto scenico assolutamente personale, che fuori da ogni cliché sa coniugare ironia e profondità in ogni interpretazione. Dalle note di regia di Paolo Valerio: _(...) Ho affrontato questo lavoro privilegiando fortemente la narrazione di Svevo: ho voluto racchiudere in questa esperienza teatrale alcune pagine che trovo straordinarie, indimenticabili, costruendo un altro Zeno accanto all’Io narrante. Quindi Zeno - interpretato da Alessandro Haber - si racconta e si rivive attraverso il corpo di un altro attore. Zeno ci rivela l’inciampo, l’umanità… E anche il personaggio di Alessandro Haber s’intreccia a questa inettitudine e talvolta, durante lo spettacolo, si sovrappone l’uomo all’attore, per sottolineare “l’originalità della vita”. Zeno ci appartiene, racconta di noi, della nostra fragilità, della nostra ingannevole coscienza, della voce che ci parla e che nessuno sente e che ci suggerisce la vita. Attraverso l’occhio scrutatore del Dottor S. ho cercato di restituire la dimensione surreale, ironica e talvolta bugiarda di Zeno, immersa nell’atmosfera della sua Trieste e di tutti gli straordinari personaggi che la vivono. Un immaginario il cui respiro cerebrale dialoga con il mondo dell’arte, con la psicoanalisi e dove ho cercato di rendere con forza la dialettica fra “esterno e interno” nella spietata analisi che Zeno fa della propria esistenza, lasciando costantemente aperta una finestra sul proprio mondo interiore. Grazie a tutti gli attori, ai collaboratori e grazie alla passione di Alessandro Haber, il nostro spettacolo vorrebbe essere proprio così, come dice Zeno Cosini: «La vita non è né bella né brutta, ma è originale. La vita mi pareva tanto nuova come se l’avessi vista per la prima volta con i suoi corpi gassosi fluidi e solidi. Se la raccontassimo a qualcuno che non ci fosse abituato rimarrebbe senza fiato dinanzi all’enorme costruzione priva di scopo. Mi avrebbe domandato: ma come l’avete sopportata? E dopo essersi informato di ogni singolo dettaglio, da quei corpi celesti appesi lassù perché si vedano ma non si tocchino, fino al mistero che circonda la morte, avrebbe certamente esclamato: Molto originale!» biglietteria 071 52525 [email protected] e su questo link L’attività di MARCHE TEATRO_Teatro di Rilevante Interesse Culturale è sostenuta da Comune di Ancona/Assessorato alla Cultura, Regione Marche/Assessorato alla Cultura, Ministero della Cultura, Camera di Commercio delle Marche in collaborazione con gli sponsor: Frittelli Maritime Group e Banco Marchigiano. www.marcheteatro.it... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Guarigione
XXIV Domenica del T.O.
(Sir 27, 30-28, 9 / Sal 102 / Rm 14, 7-9 / Mt 18, 21-35)
La domanda posta dal Siracide è come una spada che attraversa il nostro cuore e chiede di mettere in chiaro quali siano gli orientamenti e le priorità fondamentali della nostra vita: <Un uomo che resta in collera verso un altro uomo come può chiedere la guarigione al Signore?> (Sir 27, 3). Sono quattro le domande poste dalla prima lettura di quest’oggi e potremmo lasciarci toccare e attraversa seriamente da quanto ci viene richiesto come onesto sguardo su noi stessi prima di lanciarci verso una valutazione, peraltro spesso veritiera, della vita e del comportamento dei nostri fratelli. Se la prima domanda ci fa intuire come il processo del perdono sia un vero e proprio cammino di guarigione, la seconda ci mette di fronte all’assurdità di alcune posizioni che pure difendiamo strenuamente ed appassionatamente: <Lui che non ha misericordia per l’uomo suo simile, come può supplicare per i propri peccati?> (27, 4). Mentre noi siamo abituati a confrontarci con gli altri per rimarcare la nostra onestà e giustizia ed evidenziare i difetti altrui siamo rimandati a un modo completamente diverso di vivere e di far vivere il confronto. Un altro passo ci viene chiesto di fare ed è quello di avere una considerazione più adeguata – a tratti spietata – di quella che è la nostra realtà per divenire capaci porre il nostro sguardo sul fratello a partire da un punto di vista di verità essenziale e fondamentale: <Se lui, che è soltanto carne, conserva rancore, come può ottenere il perdono di Dio?> (27, 5).
Giustamente la Scrittura ci ricorda che non abbiamo diritto al <rancore> perché questo non appartiene a coloro che hanno una giusta considerazione di se stessi e hanno talmente presente la propria fragilità da non poter che cogliere, persino nelle situazioni più difficili da accettare, la fragilità dell’altro. La violenza e la cattiveria non sono che rivelazione di povertà e fragilità interiori che vanno trattate come malattie e come tali bisogna anche stare molto attenti a non essere superficiali o stupidamente eroici facendo tutto il possibile per non esserne contaminati e così non poter più soccorrere. Un’ultima domanda viene posta dal Saggio: <Chi espierà per i suoi peccati?>. Potremmo riprendere questa espressione della prima lettura riformulandola in un altro modo: <Chi potrà guarire al tuo posto?>.
La risposta è scontata, ma l’apostolo Paolo, ci porta più lontano e ci rivela il segreto della nostra stessa vita da cui possiamo attingere la forza per vivere al meglio le nostre relazioni fraterne: <nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore> (Rm 14, 7). Lungi dall’essere una sorta di fuga dalla realtà, quest’espressione così dell’apostolo ci aiuta a non disperdere la nostra attenzione nei circuiti infernali del <rancore> per abitare le regioni interiori della pace. Del Vangelo possiamo ritenere come una punta di diamante una sola espressione da cui far tagliare ogni realtà inadeguata della nostra vita: <Il padrone ebbe compassione> (Mt 18, 27). E la compassione non conosce né addizione, né sottrazione, né tantomeno divisione ma si moltiplica infinitamente nella logica propria dell’amore.
http://www.lavisitation.it/index.php?option=com_content&view=article&id=2420:guarigione&catid=10:oggi-e-la-parola&Itemid=113&lang=it
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Sicuramente ti seguono diverse persone, ricordo che tempo fa molto ti scrivevano cose brutte per via del tuo url quando poi é più che fossero gelosi della tua creatività! La mia domanda é.. hai mai pensato di far diventare il tuo tumblr un blog vero e proprio? Si cioè dai, hai mai pensato di fare la blogger? Secondo me saresti brava e parli molto bene di te senza entrare troppo bei dettagli. Molto meglio di altre sicuramente!
Mi scatto una fotografia ogni sei mesi circa e porto la 42/44 di pantaloni, non la 38. Il mio primo ed unico concerto è stato un concerto di musica classica, ed ho viaggiato fino a Milano pur di andarci (giusto per farvi capire quanto per me contino le cose a cui tengo). Non fotografo il cibo perché “non faccio in tempo” ed uso ancora alcuni trucchi di mia madre, perché sono di ottima qualità, nonostante abbiano diversi anni, e perché per me è inconcepibile spendere 500€ ogni due mesi, come invece vedo fare a molte altre persone (che poi nemmeno si sanno truccare!!!). Mi piange il cuore a spendere oltre 50€ per una maglia, perché, per quanto bella possa essere, magari altrove la pagherei meno. Ho una camera così piena di cose, di qualsiasi tipo (libri, palloncini colorati, fotografie, acchiappa sogni, portagioie, profumi), che potrei finire in una di quelle puntate di ”sepolti in casa” senza neppure accorgermene. Non mangio sushi, non mi piace il cioccolato, nemmeno molto la nutella; non bevo caffè, per me non é indispensabile, e non sto lì a fotografare ogni piatto che mi arriva al ristorante, perché se ci sono andata avevo voglia di vivere il momento in compagnia, della mia migliore amica magari, dei miei genitori, o chi sia, senza il bisogno di condividerlo con altri. Mi piace costruire, non essere costruita. Dico sempre tutto quello che mi passa per la testa e, per quanto impulsiva io riesca ad essere, la razionalità mi appartiene come fosse una qualità innata. Nella mia vita non c'è ordine di nessun tipo, per quanto voglia farne. Non riesco a far durare qualcosa se non mi piace. Sebbene viva con il telefono sempre a portata di mano e magari una foto, ogni tanto, me la scatto pure io, non vivo per dei “mi piace”, anzi, sono di quelle che ti scrivono in privato, anziché mandare frecciatine e cose varie, perché dei pettegolezzi e degli inciuci si cibano le persone sole ed io, più che sola, mi definisco una “solitaria per necessità”. Per carità, anche a me piace il buon gusto, non posso dire di vivere in situazioni di difficoltà economica, anche perché i miei non mi fanno mancare nulla. E considerando che già di mio, per esperienze vissute e “per necessità”, come dicevo prima, ho imparato a fare selezione, mi concedo qualche “sgarro” solo quando so che non devo chiedere niente a nessuno. Ho anche io il telefono di ultima generazione, capi costosi e firmati nel mio guardaroba. Adoro le belle borse, mi piacciono molto le scarpe, gli anelli, le collane, i bracciali e ho veramente un casino di roba!, ma non mi son mai nemmeno sognata di chiedere dei soldi ai miei genitori per comprare cose che obiettivamente sono “superflue”. I miei già pensano a tante cose… ai libri scolastici, al dentista, ai miei vestiti (molti dei quali non mi entrano più, tanto che son piccini, ma proprio perché me li hanno comprati loro, faccio fatica a darli via!!)Non posso dire che sul mio profilo Instagram non pubblichi mai foto che mi ritraggono, anzi, né che non abbia mai pubblicato la foto di una bella fresella con il sugo di pomodoro… Non voglio fare l'ipocrita. Ma il punto è che NON sono una ragazza “conforme”, di quelle che le persone oggi definirebbero “da seguire”!A me non piacciono le cose artificiose, l'ostentazione, la cattiveria della gente! Preferisco la semplicità, nelle cose, delle persone. Preferisco i ricordi, i fiori, i colori, ritrarre dei bei momenti, piuttosto che il resto: per me conta pensare che “quando siamo stati in quel ristorante ero felice”, piuttosto che fotografare l'antipasto perché era impiattato bene! Tutto ciò di cui potrei parlarvi sono le mie fragilità, i miei limiti, il mio desiderio sempre più vivo di avere qualcuno accanto, la mia voglia di restare a letto tutto il giorno, in certi giorni. Potrei parlarvi solo delle paure che sento di avere, dei miei occhi tanto scuri che nessuno (più) sembra capire, dei libri che mi emozionano o delle playlist che sanno riconoscermi esattamente per come sono, come fossero dei cari amici a cantare di me. Potrei raccontarvi dei miei pensieri strani quando mi osservo intorno, delle forme che intravedo tra le nuvole, della tristezza che mi fa la gente o di quella che riscopro negli occhi di qualcuno. Non è poco, per carità, ma a chi interesserebbe tutto questo? …Come previsto. La gente vuol solo sentirsi parte di qualcosa, per questo segue “i famosi”. Con me non sono certa che accadrebbe: io non userei mai solo il bello, per far abbracciare un mio ideale, un mio obiettivo, o per far appoggiare e condividere un mio pensiero. Apprezzo molto questo tuo messaggio, davvero, anche per avermi ritenuta una “buona candidata”, ma io sono tutt'altro che una “buona candidata” per qualcosa di simile… Non rispecchio affatto i canoni che la società contemporanea, con forza, impone! Non esiste solo il bello, nella vita, ed io di me sento di poter mostrare soprattutto il negativo, dopo tutte le consapevolezze che ho acquisito nel tempo, perché di cose belle ne é pieno il mondo e sono certa che ne sia piena anch’io, ma queste cose sarebbero apprezzabili con facilità: si sa, le cose facili sembrano sempre molto appetibili! Ti dirò… anche se qui mi seguite davvero in tantissimi (e neppure io so come abbiate fatto a trovarmi!!), l'idea di dare in pasto me stessa, il mio privato, la mia vita, a persone che non sono certa riuscirebbero ad apprezzarlo, lo ammetto, mi inquieta. Non perché abbia pura di non piacere, anzi… mi basta guardare i profili di certa gente che riceve complimenti da mattina a sera (anche se è spesso idiota o per niente carina, sia dentro che fuori!), per accrescere, quanto basta, la mia autostima, ma… non so. Poi quando una persona diventa “blogger”? Solo quando qualcuno decide di seguirla o no? io ad esempio credo che, nell'epoca dei social media, siamo tutti blogger di noi stessi. Un blogger racconta, no? Ecco. Quello di cui non sono certa é che ci sia qualcuno a cui possa interessare, tra le tante cose, il tramonto della mia città, il mio mare, le mie particolari riflessioni o magari la mia perenne insoddisfazione, le critiche che smuovo pubblicamente a tutte quelle persone che si professano migliori delle altre. Non sono una che pretende, piuttosto esigente però, e se io davvero decidessi di “dare in pasto a gente sconosciuta” un pizzico della mia vera vita, vorrei fosse meritato. E non so davvero fin dove possiate apprezzarlo. Questo mi fa riflettere e, puntualmente, giungo sempre alla conclusione di non espormi troppo. Quello di cui potrei parlarvi l'ho già scritto in questa risposta e sono le stesse cose di cui scrivo qui, senza pensarci, ogni volta che mi passa per la testa. Non so se possa piacere, ma continuo a scriverlo comunque, perché non m'importa. La verità é che tutto dipende… stavolta non da me.
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Vedere Vedersi Essere visti per guardare il mondo!
Al convegno della Federottica interviene Santa Fizzarotti Selvaggi, Vice Presidente Nazionale dell’Associazione Crocerossine d’Italia Onlus
(di Santa Fizzarotti Selvaggi) Il mio saluto è a nome della Presidente nazionale della Associazione Crocerossine d’Italia Onlus Donna Mila Brachetti Peretti e di tutte le Socie e i Soci della sezione di Bari guidata da Grazia Andidero. L'Associazione Crocerossine d'Italia Onlus che fu fondata da Mila Brachetti Peretti nel 2014, in quel tempo Ispettrice Nazionale del Corpo delle Infermiere Volontarie CRI, insieme ad un gruppo di donne, ora sul territorio nazionale opera in diverse realtà. L'Associazione è aperta alle II.VV. non in stato attivo e a tutti coloro che credono nei valori dell'umanità quale ponte tra generazioni, popoli e civiltà. Il riferimento alle Crocerossine si inscrive esclusivamente nella forte motivazione di ricordare il ruolo storico delle stesse nella più ampia storia d'Italia, nel rispetto anche poi di quelli che sono stati i cambiamenti. È stato pertanto immaginato uno sviluppo di questa radice capace di aprirsi a tutti coloro che desiderano donare il loro tempo a favore di coloro che sono in stato di disagio in un mondo così complesso. Offrire, cioè, la possibilità di una nuova visione del mondo. Grata al la Federottica e al Dott. Sorrento per aver richiesto un mio contributo Negli occhi, nello sguardo è sempre il riflesso dell’anima e del mondo. Noi siamo i nostri sensi che il cervello, questo organo meraviglioso e in parte sconosciuto elabora dando luogo alla mente il cui prodotto sono i pensieri non disgiunti dalle emozioni. È l’emozione la madre del pensiero, scrive I Matte Blanco. Tutti i sensi, quali estensioni dell’organo centrale collaborano nel farci orientare nel mondo. Sono tutti egualmente importanti ma l’udito e la vista sono quelli che ci consentono l’uno di essere vicino alle persone e l’altro vicino alle cose. Con lo sguardo si possono toccare le cose, con l’occhio attiviamo lo sguardo della mente. “Vedere” cioè la natura delle cose con l’occhio e con l’intelletto: ovvero con un intelligere complesso e totale, che scaturisce dalla percezione. L’occhio conserva il suo ruolo di comunicazione privilegiato. Lo sguardo consente di vivere qualsiasi esperienza… Quando per esempio i genitori “guardano” il proprio bambino confermano il suo senso di sé, il suo sentirsi parte del mondo. Uno sguardo può cambiare la percezione di sé riconoscendo il suo mondo interno mentre sente di essere riconosciuto dall’altro. Quando il bambino vede se stesso riflesso nello specchio, necessita sempre dello sguardo dell’altro per riconoscersi. È il tratto unario teorizzato da Lacan che fa sì che il soggetto non senta di essere in frammenti Ci si sente “degni di esistere” così come si è senza veli o maschere: si tratta del vero Sé. Lo sguardo dell’Altro, e in questo caso della madre da forma all’informe, a quel mondo magmatico che abita dentro di noi. Il luogo del divieto (rappresentato dall’inconscio forcluso) diviene tollerabile e attraverso lo sguardo si possono contenere le angosce, gli aspetti incontrollabili. Il bambino vuole essere visto e riconosciuto dallo sguardo della madre per sentire di esistere. Merleau-Ponty riconosce nell’occhio il fattore portante. In una sua opera, “La fenomenologia della percezione”, sostiene che l’occhio presiede alla regolazione della forma. In “Il visibile e l’invisibile”, afferma che bisogna tener conto anche della parte invisibile, vale a dire di quel mondo che si percepisce con un senso altro. L’Occhio è lo strumento attraverso il quale il soggetto ordina e riordina continuamente il mondo. Picasso operò una inversione prospettica: da figurativo che era inventò il Cubismo, ovvero incominciò a guardare dentro le cose e gli esseri umani. Lo sguardo senza occhio è una condizione assolutamente contemporanea: dominati dal visuale siamo assolutamente accecati. Il cervello non vede più nulla e non si accorge delle cose. (P. Virilio) Urge dunque rieducare lo sguardo per vedere il mondo da altre prospettive. “L’occhio può perdersi, può smettere di funzionare, ma la visione è un’altra cosa, appartiene a un ordine totalmente differente”, afferma Derrida. Che cosa significa davvero vedere? Quanto sappiamo degli occhi come strumento percettivo che il cervello utilizza per ricevere le informazioni insieme a tutti gli altri sensi? Cosa significa non vedere bene? La psicoterapia, il sostegno, il prendersi cura dei disturbi visivi sono un vero e proprio “viaggio affettivo e emozionale condiviso” dove persona in difficoltà e operatori sono insieme ad esplorare la propria anima, le angosce in un gioco di transfert e controtransfert assai complesso. Percepire e vedere il mondo facilita la costruzione della mente ad opera del cervello. Si dà un senso alla realtà, a quella realtà che il cervello vede e che vede in relazione alle emozioni. I circuiti cerebrali si sviluppano diversamente a seconda degli stimoli, delle immagini, dei suoni, delle parole. Queste ultime con il loro corpo sonoro e le immagini che evocano possono distruggere come possono facilitare la guarigione. Le esperienze possono influenzano le connessioni neurali e l’organizzazione del nostro cervello. L’esperienza dà forma al cervello attraverso la neuroplasticità (cambiano le connessioni e questo cambia il cervello stesso) Siegel D. 2002. Occorre essere consapevoli che, nel buio, ci manca assolutamente l’Altro, quell’altro che può rischiarare le notti. Per un bambino l'esperienza più atroce che determina la sensazione incontenibile dell’angoscia è quella di non essere tenuto dalle mani della madre, di non essere accudito, contenuto e sostenuto, di non essere visto. Nota è l’angoscia dell’ottavo mese quando il bambino si accorge di un volto estraneo che non è quello della madre (R. Spitz) “Non vedere l’amore”, “non essere visto”, significa esperire il senso della solitudine, una condizione disperante nel cuore della propria notte. Essere in una stanza buia da bambini ci faceva paura, non eravamo scomparsi, ma ci faceva paura: era necessaria la mano della madre, la sua ninna nanna. Non vedevamo nulla, sentivamo noi stessi e il nostro essere inermi dinanzi al mondo, sgomenti. La luce dell’amore della mamma rischiarava il buio ed è di questo amore che si nutre l’Associazione Crocerossine d’Italia onlus, un "amore agapico" che dona agli altri. Siamo consapevoli della necessità di giungere al cuore, all’anima delle persone in stato di fragilità vedendo il mondo da un’altra ottica, con uno sguardo altro, uno sguardo che accarezza le ferite di ciascun essere umano per facilitarne, se possibile, l’accettazione e talora la guarigione. Il bambino si perde e si ritrova nello sguardo della madre che riconoscendolo assume una funzione speculare: si struttura la funzione dell’Io. Si tratta di una metafora per dire che tentiamo di riconoscere le difficoltà per far sì che queste possano essere affrontate per aiutare a guardare la realtà interna in relazione con la realtà esterna e con la luce ritrovata in sé rendere luminoso il mondo. Read the full article
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Di due guerre nel giorno 25 novembre.
Penelope X è il mio eroe mascherato. Ma ha fatto il contrario di quello per cui l'avevo creata.
L’avevo creata per vendicarmi, e invece è più costruttiva di me, più matura. Rischia quasi di risolvermi i problemi.
Recentemente ho avuto modo di constatare la schiacciante differenza che corre tra vendetta e soluzione di un problema. Sia chiaro: la vendetta ha una sua nobiltà, siamo mica Dalai Lama qua. Se provi a stuprarmi, io ti meno: non ascolto certo i tuoi problemi di relazione con le donne. E va bene così.
Eppure c’è una siderale distanza tra vendicarsi e realmente risolvere un problema.
Me ne sono accorta ora che i miei genitori sono anziani e un po’ svitati. In un primo momento, quando ho deciso di occuparmi di loro, ho cercato di sistemare le cose, ma non mi veniva. Ho capito, dopo un po’, che stavo, sì, “sistemando le cose”, ma lo stavo facendo in un modo inefficace. Stavo ri-sistemando le cose, più che altro. Mi stavo vendicando. Stavo, segnatamente, cercando di fare per mio padre quello che, a suo tempo, non era stato fatto per me: fermare mia madre e costringerla a curarsi. Solo che il disturbo di mia madre non rappresenta, per mio padre, un problema grande quanto lo era per me a suo tempo. Così mi ero armata ed ero scesa in battaglia, ma, come tutte le guerre, anche questa ha iniziato a logorarmi, e come tutte le guerre, dopo un po’ ho visto che non portava a niente. Mi stavo vendicando, stavo combattendo, è vero: ma non stavo risolvendo.
Recentemente è stata la giornata mondiale contro la violenza sulle donne: anche in Italia, come in altri Paesi, le donne (ma anche tanti uomini e persone transessuali) sono scese in piazza aggregate nel movimento NonUnaDiMeno (NUM). Io non ho partecipato a nessuna manifestazione. Non che sia favorevole alla violenza sulle donne, chiaro. Qualcosa, però, non mi ha convinta nel metodo del Movimento. Qualcosa, nel modo in cui NUM comunica, mi sa di vendetta, il che andrebbe anche bene, se solo la vendetta fosse la mission dichiarata di NUM.
E invece la sua mission sembra (dovrebbe?) essere politica. Eguaglianza nei diritti e pari opportunità, annientamento della cultura patriarcale e relativo abbattimento del numero di reati commessi da uomini a danno di donne (e trans? Non è chiaro) in quanto tali. No?
E allora cos’è che non mi convince di NUM? Perché la loro comunicazione mi pare aggressiva, quasi come se l’intento fosse mettere paura? E a chi, poi? Serve, incutere timore, a una mission politica? Serve gridare “lo stupratore sei stato tu” (nonostante la ragionevole motivazione che c’è dietro questa frase) o “guai a chi ci tocca” o, ancora, produrre manifesti con un indice puntato contro chi guarda o usare l’immagine di una lottatrice di wrestling? Sortirà qualche effetto oltre a fare -legittimamente e nobilmente- sfogare le donne che sono o sono state vittime e farle sentire meno sole? E quale effetto sortirà?
Forse per raggiungere il necessario obiettivo dell’annientamento del patriarcato, dovremmo chiederci quale sia il mezzo più efficace per farlo. Andare contro mia madre, anche se ho ragione nella sostanza, era solo vendetta, non un metodo efficace per ottenere l’obiettivo di assistere il mio padre anziano e disabile conservando la salute mentale.
NUM, almeno nella sua comunicazione al “grande pubblico”, appare più come un movimento di vendetta e di mutua solidarietà -istanze condivisibili, ripeto- più che politico: siamo coscienti del fatto che le due cose sono distinte, però? Siamo consapevoli della fase in cui siamo, di che obiettivi abbiamo e di come ci proponiamo di raggiungerli? Vogliamo prendere il potere o rovesciare la logica del potere? Io la seconda. E per farlo temo ci voglia una strategia diversa. E porsi delle domande.
Innanzitutto: sulle donne bisogna intervenire o no? Sono un gruppo omogeneo di persone tutte correttamente educate, informate e meramente vittime di un agente malvagio contro cui nulla potevano? No. "È la madre che insegna alla figlia la legge dell'uomo". È stato così nel mio caso, lo è in molti altri. E se lo è, anche le donne devono riflettere, devono evolversi e devono cambiare.
Sono da sempre scettica, poi, sui movimenti di appartenenza di massa. È così difficile rispettare la complessità del tutto quando devi parlare per slogan e coalizzarti con altri centomila in una lotta per schieramenti. Potrei essere antisessista eppure critica nei confronti del metodo NUM? Sembra di no. Sembra una questione alla “con noi o contro di noi”. E vaglielo a spiegare che trovo riduttivo aggregarmi con qualcuno sulla base del mio sesso. Io questa cosa che prima di essere Io, Me, dovrei definirmi come Donna, la rifiuto! Non sono parte di un gruppo omogeneo, un gruppo di vittime alla vendetta. Sono stata vittima, e quando lo sono stata mi avrebbe fatto comodo una banda per vendicarmi, ma mi rifiuto di identificarmi con questo, oggi. Oggi preferirei cambiare le cose in modo serio, sul lungo periodo. Mi rifiuto di essere e di agire la mia ferita. E non è una questione di fare la valchiria del cazzo: è questione di integrità, conosco la mia ferita, ma non sono lei. L’aplombe da guerrieri generalmente appartiene a chi ha paura. E la violenza sulle donne fa paura. E le diseguaglianze basate sul genere fanno sentire frustrate e impotenti. Incazzate insomma. Queste emozioni però vorrei affrontarle andando alla radice dei problemi: l’educazione tossica che subiscono sia uomini che donne (Devi essere forte! Solo le femminucce piangono! Sei l’uomo di casa! Fai l’uomo! Suona familiare?), la politica, la comunicazione.
L’appartenenza, dunque. Io sono io, prima, me stessa, sono una scrittrice e una poetessa, una assistente sociale, una pensatrice, se volete, sono Penelope, sono le mie idiosincrasie, le mie fragilità e le mie qualità, e poi, dopo tante altre cose che sono, mi è capitato anche di essere una femmina. Non è il mio tratto saliente e non voglio che lo sia. Sono una persona e come tale voglio essere considerata. Non mi occorrono quote rosa e non voglio che occorrano a nessuno. Ho più cose in comune con alcuni uomini, del resto, che con certe donne, e mi rifiuto di porle su un piedistallo tutte in blocco solo perché condividiamo un utero. Quasi fosse una segregazione al contrario. Alcune femministe (tutte? No?) dichiarano che le donne hanno delle qualità, genetiche, che gli uomini non hanno, che le rendono migliori, ergo bisognerebbe dare loro più spazio. Per dimostrare che non siamo inferiori in quanto donne, quindi, diciamo che siamo superiori in quanto donne. Geniale! Le qualità femminili, l’accoglienza, l’ascolto… balle! Il genere influenza meno roba di così. Trasversalmente tutti abbiamo la potenzialità di essere sensibili e accoglienti o ottusi e violenti, in modi diretti o indiretti.
Poi c’è, appunto, la riduzione della complessità, che mi rimane sempre un po’ indigesta.
La prima violenza domestica a cui ho assistito io è stata quella agita da mia madre, tanto per cominciare. Se la prendeva con mio padre, mio fratello mediano, me e mio fratello grande, in questo ordine di preferenza. Poi, molto poi, io stessa ho dato più di una sberla e di uno spintone non necessari al fidanzato del momento. Una volta, invece, ho preso addirittura una testata da un altro fidanzato, bravissima persona normalmente: la violenza da parte sua non si ripeté più. Così come non si ripeté più la sberla che presi, in quel caso, da un altro grande amore (in entrambi i casi avevo rotto i coglioni, intendiamoci, ma non così tanto da meritarmi di essere menata, diciamo). La violenza, poi, è stata anche velate minacce, intimidazioni, assenze, ricatti -da ambo i lati; per non parlare delle molestie subite quando sei più bambina che donna, degli abusi da parte di ragazzi che ti sembra di voler conquistare, dei tradimenti inferti e di quelli subiti.
Sono stata io la prima a dover capire e poi decidere e poi trovare un modo di non esprimere la mia paura e il mio dolore con le mani. Perché la verità è che il dolore, la frustrazione, l'impotenza, la paura, sono emozioni umane: non maschili o femminili, e che, se non le esprimiamo in modo sano perché ci hanno educato a farlo, avremo davvero poche scelte, tutti. Diventeremo subdoli, vendicativi, manipolatori, o violenti; oppure ci ammaleremo. Tertium non datur. Pensare che le donne siano immuni, mi sembra proprio un cazzo di stereotipo, un cazzo di pregiudizio, insomma un cazzo di incasellamento del cazzo. E sì: NUM, almeno da fuori, pare un movimento di persone coalizzate contro, non proprio intente a coltivare il dubbio e l’autocritica. E non venitemi a dire “devi entrarci per capire che non è così”. Se devo entrarci e non mi viene da entrarci forse la comunicazione è sbagliata. Per me che sono sensibile al problema: figuriamoci per “l’uomo della strada”, che anche lui mi serve per cambiare.
Dopo un bel po’ a sbattere contro un muro, quindi, ho cambiato strategia con mia madre: le ho impedito di avere controllo sulla mia vita, ho preso una distanza emotiva diciamo, ho rispettato le scelte di mio padre accettandone la diversità rispetto a me, sono stata presente non nel modo che sembrava giusto sulla carta, ma nel modo che funzionava con loro per ottenere il miglior risultato possibile. Ho smesso di cercare la vendetta -per poi accorgermi, tra l’altro, che si stava lo stesso pagando per il male che mi si era fatto, solo che in un modo diverso da quello che avevo in mente io. Non è una questione chiusa, questa, ma la riduzione del mio stress parla chiaro: sono sulla strada giusta, e forse sarà proprio questa la soluzione. Non sfogo la mia rabbia, non mi accanisco sul mio aguzzino: mi salvo il culo e salvaguardo la mia relazione con mio padre, però.
Quindi: se provi a stuprarmi io ti meno, forse ti ammazzo. E se sono con qualcuno/a che mi aiuta a farlo, meglio. Ma se voglio, politicamente, definitivamente, annientare il patriarcato, cerco di essere ascoltabile da chi condivide il mio contesto reale, non di scatenare una guerra partigiana; cerco di costruire ponti, cerco ciò che ci unisce per coinvolgere tutti, sensibilizzare tutti, uomini e donne; investo massicciamente in educazione; contengo chi è pericoloso, do a chi è malato l’opportunità di venire curato, di imparare nuove maniere a chi si è reso conto di usare vecchie maniere. E tengo sempre un occhio alla violenza come fatto trasversale non reprimendo ma costruendo, non escludendo ma includendo. Perché la guerra logora me e logora gli altri. Mi sfogo, ma non vinco. E perché se voglio annientare un fenomeno di enormi dimensioni, ho bisogno di forze unite, e nessuno che si senta aggredito o escluso o non rappresentato dalle mie modalità sosterrà la mia causa. Se voglio risolvere, la pianto di cercare di incutere a loro la paura che fanno a me; mi metto a parlare con tutti e ogni giorno cerco di smontare i pezzetti del mosaico. Non contro, ma insieme. Nessuno di meno.
Allora: in che fase siamo? Vendetta o soluzione?
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(via https://www.youtube.com/watch?v=MEYJbyqQQbY)
Formarsi all’amore
È Cristo il grande maestro dell’amore, dell’amore vero, forte, costante. Cristo è molto esigente in fatto di amore: lui ci ha amati fino a dare la sua vita per noi. L’uomo che non sa formarsi all’amore non può risolvere i problemi della sua sessualità. Non illudiamoci: la formazione all’amore è una scuola ardua, ma se ci fidiamo di Cristo, lui saprà guidarci alla meta.
Amare è voler bene, è volere il vero bene ed è fare il vero bene della persona amata. Amare è elevare, mai abbassare; è rafforzare, mai indebolire; è comunicare felicità, mai sprofondare la persona che si ama nella frustrazione e nella colpa. Amare è medicare la fragilità di chi si ama, è colmare il vuoto, è dare un ideale, è trasmettere fede e speranza.
Amare non è mai cercare il proprio interesse, non è mai sfruttare, non è mai strumentalizzare la persona amata. L’amore esige prima di tutto di vincere il proprio egoismo. Amare è donarsi.
Piange il cuore al vedere tanti fallimenti nell’amore, tanti matrimoni sfasciati, tante famiglie distrutte. Perché succedono questi disastri? Per un motivo molto semplice: all’origine di questi matrimoni non c’era sufficiente formazione all’amore; c’era dell’attrazione, della simpatia, c’erano degli interessi di vario genere e a vari livelli, ma il tutto era inquinato da una dose più o meno grande di egoismo e di strumentalizzazione dell’altro.
Amare è donarsi. Ma come può donarsi chi non si possiede, chi non sa controllare e gradatamente diminuire, fino a farlo scomparire, il proprio egoismo?
Donarsi è vivere per la persona amata, è sacrificarsi per la persona amata.
L’amore che non è eterno, non è amore.
L’amore che non è esclusivo, non è amore.
L’amore che non è puro, non è amore.
L’amore che non impegna tutta la vita, non è amore.
Sono necessarie due tappe nella formazione all’amore:
1) bisogna formarsi nel dare;
2) bisogna formarsi nel ricevere.
Bisogna formarsi a dare senza impoverire, senza abbassare, senza regredire.
Bisogna formarsi a ricevere, ad accogliere il dono dell’altro senza strumentalizzarlo, senza defraudarlo, senza impoverirlo.
Bisogna imparare a dare e a ricevere per progredire insieme nel dare e nel ricevere.
Formarsi alla libertà
Finché uno è schiavo di se stesso non è preparato per amare. Finché predominano in lui la volgarità e la sensualità è immaturo all’amore. Fino a quando uno non sa comandare a se stesso non è capace di amare. Sono verità dolorose e doverose che bisogna ribadire con coraggio alla gente di ogni età, sesso e vocazione. Gesù Cristo è esigente con la nostra formazione all’amore: per questo è esigente con la nostra formazione alla libertà interiore. È alla sua scuola che impariamo la vera libertà, quella interiore, profonda.
Cristo parte dal cuore, dal pensiero, dal più profondo dell’uomo. Ci insegna che è lì che bisogna combattere la prima battaglia della nostra libertà: "Avete inteso che fu detto: non commettere adulterio. Ma io vi dico: chiunque guarda una donna per desiderarla ha già commesso adulterio con lei nel suo cuore" (Mt 5,27). Il tradimento e la sensualità hanno un’origine profonda: non cominciano dagli atti, ma dai pensieri, dal cuore. Dunque è lì la prima libertà da conquistare: il dominio del proprio pensiero. Cristo l’ha spiegato chiaramente: "Ciò che esce dall’uomo, questo sì contamina l’uomo. Dal cuore degli uomini escono le intenzioni cattive: prostituzione, adulteri, cupidigie, malvagità, impudicizie... Tutte queste cose cattive vengono fuori dal di dentro e contaminano l’uomo" (Mc 7,20-23).
La prima conquista per la libertà è la pulizia nei pensieri. Piaccia o non piaccia, questo è l’insegnamento di Cristo. Chi è sporco nei pensieri non è un uomo libero. E l’uomo che non è libero è immaturo per l’amore: cercherà sempre e soprattutto se stesso.
Gesù condanna la sensualità quando questa imprigiona la libertà dell’uomo. Ascoltiamo la parola di Dio: "O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: né immorali, né adulteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio" (1Cor 6,9-10). "Quanto alla fornicazione, e a ogni specie di impurità o cupidigia, neppure se ne parli tra di voi, come si addice ai santi" (Ef 5,3). "Questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione: che vi asteniate dall’impudicizia, che ciascuno sappia mantenere il proprio corpo con santità e rispetto, non come oggetto di passioni e libidine, come i pagani che non conoscono Dio; che nessuno offenda e inganni in questa materia il proprio fratello" (1Ts 4,3-6).
Il cristianesimo non scende a patti con l’impurità e neppure con i compromessi del lassismo sessuale. Il pensiero di Dio è chiaro a questo riguardo: "Le opere della carne sono ben note: fornicazione, impurità, libertinaggio, idolatrìa, stregonerie, inimicizie, discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie, ubriachezze, orge e cose del genere; circa queste cose vi preavviso, come già ho detto, che chi le compie non erediterà il regno di Dio" (Gal 5,19-21).
La vita dell’uomo deve spaziare in orizzonti diversi. Dio ha dettato con chiarezza il cammino per l’uomo ragionevole: "Il corpo non è per l’impudicizia, ma per il Signore, e il Signore è per il corpo. Non sapete che siete tempio dello Spirito e che non appartenete a voi stessi?" (1Cor 6,13). Perciò Gesù Cristo dice no alla masturbazione quando è colpevole, volontaria, cosciente, perché lede profondamente la libertà dell’uomo. La masturbazione (anche la psicologia lo conferma) è lesiva della personalità, è un ripiegamento egoistico, è una deturpazione della natura, è un segno grave di immaturità.
L’impurità è una devastazione grave della libertà. Noi pensiamo, parliamo, operiamo secondo quello che siamo. L’istante in cui diventiamo schiavi dell’impurità non siamo più liberi nel pensare, nel parlare e nell’agire.
La masturbazione si può vincere. La sincerità con se stessi e la volontà decisa di correggersi sono le prime condizioni richieste per la riuscita. Può essere di grande aiuto il dialogo con un sacerdote o con altra persona degna della nostra fiducia: essi possono insegnarci a lottare nel modo giusto e a non perderci d’animo per gli eventuali insuccessi.
Chi lotta con metodo e intelligenza, chi prega, chi celebra frequentemente e con fede i sacramenti, può uscire in breve tempo da questa cattiva abitudine. È urgente cominciare subito, perché la masturbazione è diseducazione all’amore e crea una psicologia egoistica, incapace di amare: fa evadere dalla realtà e butta in uno squallido mondo di egoismo. Così parla la Chiesa sulla masturbazione: "La masturbazione costituisce un grave disordine morale principalmente perché fa uso della facoltà sessuale in un modo che contraddice essenzialmente la sua finalità, non essendo al servizio dell’amore e della vita secondo il disegno di Dio" (Sacra Congregazione per l’educazione cattolica, Orientamenti educativi sull’amore umano, n. 98). "La masturbazione è un atto intrinsecamente e gravemente disordinato. In generale l’assenza di grave responsabilità non deve essere presunta; ciò significherebbe misconoscere la capacità morale delle persone" (Sacra Congregazione per la dottrina della fede, Dichiarazione circa alcune questioni di etica sessuale, n.9).
Formarsi al sacro
È la mancanza di formazione al senso del sacro ciò che manca maggiormente nell’etica sessuale. Quando si pensa che Dio ha legato all’atto sessuale il miracolo della trasmissione della vita, non si può prendere con leggerezza il problema sessuale. Chi profana la sessualità, compie un delitto, perché Dio l’ha coordinata con tutto l’essere umano, l’ha legata al fisico, alla psiche, al mondo affettivo: l’ha innestata alle ricchezze più profonde dell’essere.
Nel progetto di Dio l’essere umano è un miracolo di sapienza, e la sessualità è uno degli aspetti più nobili dell’uomo, perché Dio l’ha voluta come mezzo per la trasmissione della vita umana.
L’atto sessuale è un atto sacro perché Dio l’ha fatto sacro. Nella spiritualità indù, gli sposi sono invitati a compiere l’atto coniugale come un rito sacro, nella preparazione spirituale e nella preghiera. Se Dio stima così l’atto sessuale, nessuno deve profanarlo o farlo oggetto di sfruttamento, di egoismo, di volgarità. L’atto sessuale non è un gioco e tanto meno un atto di egoismo: può essere vero, umano, dignitoso e secondo la volontà di Dio, solo se è un atto di amore.
Gli sposi cristiani compiono l’atto sessuale come espressione di amore a Dio, al coniuge e ai figli. Per arrivare a questo livello di significato e di contenuti, bisogna pregare e purificarsi dai propri egoismi. Vista in questa luce, la sessualità diventa esigente, bella e santa.
È per questo che la Chiesa ha sentito il bisogno di scrivere un documento specifico sulla sessualità ("Orientamenti educativi sull’amore umano") dove è detto con chiarezza e solennità che "compito della catechesi è illustrare i valori positivi della sessualità". È proprio in questo documento che si lamenta l’assurdità di fare della preparazione al matrimonio una catechesi "occasionale". No! Il fidanzamento va vissuto come un itinerario di fede, un catecumenato: "Questa catechesi deve essere convenientemente continuata, così da diventare un vero e proprio catecumenato".
Il GRANELLINO (Mt 5,17-19) Il Signore ci chiama ad una santità alta. Egli vuole che noi diventiamo perfetta immagine di Cristo Gesù. Non siamo chiamati ad essere corvi dello spirito, ma aquile. La mediocrità non appartiene al vero cristiano. Chi è il cristiano mediocre? È colui che dice: "Osservo i comandamenti e questo mi basta!". Certo, il cammino di conversione inizia osservando i Dieci Comandamenti. È un qualcosa, ma non è tutto. Nel Discorso della Montagna Gesù Cristo, il Volto e la Voce del Padre celeste, ci rivela che non basta evitare il peccato mortale (grave) per avere la vita eterna. Cristo Gesù è venuto ad insegnarci che bisogna odiare profondamente anche il peccato veniale (lieve). Ma cos'è il peccato veniale? Ecco cosa dice il Catechismo della Chiesa Cattolica: "Il peccato veniale indebolisce la carità; tuttavia esso non rompe l'alleanza con Dio, però il peccato veniale deliberato ci dispone poco a poco a commettere il peccato mortale". Siamo esortati da Gesù Cristo a non dover dare poco peso ai peccati veniali deliberati che si definiscono lievi. Molti granelli di sabbia, messi insieme, fanno un mucchio pesante. I santi ci esortano a confessarli spesso. Un peccato veniale deliberato indebolisce il nostro amore verso Dio e il prossimo. Esso è come una piccola ferita che, pur non essendo mortale, ci fa male. I cristiani che si sforzano di evitare solo i peccati mortali senza sforzarsi di evitare quelli veniali hanno una relazione con Dio simile a quella di marito e moglie che, pur vivendo insieme, litigano incessantemente. Il loro amore è debole e statico. Chi ha capito cos'è l'amore evita di dire anche una parola sgarbata. Avere una coscienza delicata significa odiare anche il peccato veniale deliberato. Se il tuo confessore ti deride mentre gli confessi un tuo peccato veniale significa che lui non ha nessuna intenzione e volontà di farsi santo. Amen. Amen. (P. Lorenzo Montecalvo dei Padri Vocazionisti)18 +
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Bordeggiando tra i colori verso una meta
E oggi vi condurrò in un bordeggio tra i colori verso un’insospettata meta! Immaginate di avere davanti la più grande tela da pittura che possiate concepire... Immaginate di osservarla e di cominciare a visualizzare quello che potrebbe essere il dipinto. Ora cercate di percepire la natura dei colori: a ciascuna sfumatura corrisponde un’emozione, un sentimento... Ci saranno pennellate arancioni come la forza creativa e la gioia. Altre blu e azzurre, come la serenità, la capacità di comunicare e la fantasia che accompagna le serate d’estate... E poi rosa, come l’amore, la fiducia e come la capacità di tirare fuori il meglio dalla realtà. Ancora ce ne saranno di viola come la capacità di espandere la propria coscienza, di avere pensieri profondi... e gialle come il calore del sole, come la propria personalità vibrante, o rosse come il desiderio, la passione, la forza vitale... O ancora verdi, come la speranza, l’appagamento, l’equilibrio. Se io chiudo gli occhi, vedo quella tela...attraversata da una sorta di onda leggermente obliqua che occupa quasi l’intera superficie sfumando dal rosa al lilla all’azzurro, che poi, nelle aree più esterne, lascia spazio a verde smeraldo, arancione, viola scuro, blu intenso, rosso e giallo...il tutto con cerchi bianchi di misure diverse, come i crateri della luna... Mi da una gran sensazione di pace, di armonia, di leggerezza e di spiritualità, senza escludere la gioia creativa della vita. Ma questa è la mia immagine personale, o forse i miei stessi colori... In ogni caso, sarà attraverso la relazione tra colori e le loro sfumature che si potrà dar forma a cieli, mare, stelle, vegetazione, che si potranno ricreare immagini e tonalità così arcaiche da evocare vibrazioni primordiali come la Terra stessa sulla quale viviamo... Saranno colori forti e decisi, come quelli dei dipinti sudamericani e dei fiori tropicali, o quelli intensi, nitidi e mediterranei come appaiono nei tipici quadri di paesaggi greci, o saranno la somma della delicatezza delle sfumature dei capolavori di Monet o della nebbia in Val Padana... Se vi soffermate a immaginare o guardare un qualsiasi paesaggio della Natura, che sia un prato, un monte, un fondale marino, una foresta o un tramonto, saranno proprio le quantità di diverse tonalità e sfumature a rendere quell’immagine completa, nitida, ricca... abbacinante per la sua bellezza!!! ...e quanti più colori vi saranno, tanto maggiori saranno la vividezza e le cose che attireranno la nostra attenzione e il piacere del nostro guardare. Ma se la tela fosse così grande da aver bisogno non di pennellata, ma di persone per essere coperta di colore? E se quei colori non fossero dati tanto dalle tinte degli abiti, dei capelli o della pelle, ma dal colore delle proprie emozioni, dei propri sentimenti? Creatività, fiducia, collaborazione, sostegno, accoglienza, amore, speranza, cura, apprendimento, sperimentazione, complementarietà, armonia, crescita, inventiva, condivisione, informazione, solidarietà, difesa dei diritti, rispetto, comprensione, amicizia, passione, allegria, gioia, euforia, arte, comunicazione, divertimento, espressività, libertà, fratellanza, guarigione, contemplazione, reciprocità, poesia, musica, danza, competizione, competenza, impegno... Mamma mia! Avete idea di quante e quante e quante sfumature ci sarebbero? Saremmo come pixel colorati di un enorme monitor! Se seguiamo questo parallelo, ossia che ciascuno di noi rappresenta un punto colore all’interno della propria società, possiamo percepirci come una splendida quanto caotica euforia di coriandoli colorati e disordinati. Allo stesso modo di quanto avviene su un monitor, però, a seconda della percentuale di punti colore di uno stesso tipo, avremo una tonalità dominante sullo schermo. E soprattutto dove si formano immagini definite, i punti colore di uno stesso tipo saranno necessariamente numerosi e ravvicinati. E tutto ciò, ovviamente, senza mai divenire un unico colore, perché allora, perderemmo qualsiasi immagine e profondità, che come si è detto, sono frutto della differenza. Se avete seguito il mio ragionamento fino a qui, e se avete presente che in origine ho parlato di colori come emanazioni di sentimenti e emozioni, non vi sarà affatto difficile comprendere che i punti colore saranno assolutamente variabili e per nulla immutabili. Restando nel linguaggio collettivo, possiamo pensare a quando si dice “un mondo tinto di rosa” o “rosee prospettive” per indicare la visione possibilista di una situazione positiva, armoniosa, feconda, piacevole, ricolma di speranza, una primavera nel suo divenire. Certamente con uno stato d’animo “rosa”, saremmo tutti portati a una maggior apertura verso il futuro, verso la collettività, verso il sorriso: avremmo la serenità e la fiducia sufficienti a non farci sentirci sopraffatti dalle bollette o dall’incombere degli eventi. A quel punto, se la maggior parte delle persone non vivesse nell’ansia e nello stress, non peserebbe sulla vita degli altri portando loro ulteriore ansia o stress, ma avrebbe anzi la forza e il coraggio necessari per stimolare anche chi è in un momento di debolezza a trovare il proprio rosa sentimento di speranza. E dalla sfumatura rosa, in modo contagioso, fiorirebbero altre rosee emozioni, perché, torno a dire, il punto fondamentale è che le emozioni non sono statiche, quindi noi non siamo statici nel nostro sentire e nel nostro risplendere, e quindi i nostri stessi colori sono assolutamente mutevoli. Di conseguenza, quale somma dei nostri colori, la società stessa è mutevole. Torniamo alla nostra famosa tela: ormai dovremmo aver costruito in noi un’immagine-ideale vivida e coloratissima. Trasponiamola sul monitor. Immaginiamo che, improvvisamente e in modo disordinato, comincino a far capolino pixel neri e che questi pixel neri cominciassero a fiorire e a crescere in misura e in numero come macchie di leopardo, sempre più grandi, sempre più vicine. Vedremmo sparire poco a poco tutti i colori, anche i più belli. Vedremmo sparire poco a poco, tutte le emozioni, anche le più belle. Vedremmo sparire poco a poco, tutti i migliori sentimenti. Il nero diventerebbe dominante, soffocante, totale. E non ci sarebbero più sfumature, immagini, vitalità. Il nero in questione è il colore osceno della paura, della sfiducia, dell’impotenza, della caduta, della chiusura, dell’assenza di luce interiore, della rivalsa, della prepotenza, dell’egoismo, della prevaricazione...è il colore di tutto ciò che può, semplicemente e amaramente, manifestarsi come odio. Ora, è verissimo che in certe situazioni, la nostra fragilità umana ci fa scivolare con estrema facilità nell’onda del sospetto, della sopraffazione, della apparente necessità di controllare e difendere ogni cosa a ogni costo... ma in tutti questi casi, se noi ci lasceremo prendere da questo sentire, saremo noi stessi uno dei troppi pixel neri che ricoprono l’esistenza. Anche se può essere difficile, anche se può sembrare solo una simpatica interpretazione della realtà, la mia, di fatto non costa nulla cercare di prendere coscienza delle nostre emozioni e cercare di liberarle dal nero che ci appartiene per lasciar emergere tutti gli altri colori della nostra Umanità... E se è vero - e che è vero lo possiamo verificare tutti, con un po’ di attenzione a quanto ci circonda - che gli stati d’animo e l’ambiente si influenzano reciprocamente, non ci resta che assumerci la responsabilità di accettare che il colore e la sostanza della società sono il frutto della somma di tutti i suoi elementi. Per questo motivo tutti dovremmo volontariamente assumerci il compito importantissimo di decidere di quali colori risplendere, sforzandoci di trasformare ogni volta quel malessere che ci trascinerebbe così facilmente ad esprimere odio, disprezzo, superiorità facendoci diventare complici di quel nero osceno che potrebbe inghiottirci tutti. from LetteralmenteRadio YogaNetwork https://ift.tt/2tWf2zm via IFTTT from CoscienzaSpirituale.net Associazione "Sole e Luna" via Clicca
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PESARO – Il FAI con il contributo di tutti: cura in Italia luoghi speciali per le generazioni presenti e future, promuove l’educazione, l’amore, la conoscenza e il godimento per l’ambiente, il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione, vigila sulla tutela dei beni paesaggistici e culturali, nello spirito dell’articolo 9 della Costituzione.
La grande famiglia della Fondazione è oggi composta da oltre 170.000 iscritti, che condividono valori, obiettivi e la stessa idea di futuro: un’Italia vitale, consapevole della propria ricchezza e impegnata per proteggere e dare valore ai luoghi che raccontano la nostra identità.
Il FAI lo fa da oltre 40 anni: ha raccolto e investito in restauri e manutenzione oltre 93 milioni di euro; ha aperto al pubblico, dopo averli recuperati, 30 beni; ne sta restaurando 10 oltre a tutelarne altri 21, tra i quali ricordiamo, nelle marche, il Colle Dell’Infinito a Recanati; ha segnalato quasi 38 mila luoghi a rischio a Comuni e Soprintendenze competenti nelle 8 edizioni del censimento “I Luoghi del Cuore”; ogni anno coinvolge oltre 290.000 studenti in progetti educativi in difesa di arte e natura e, solo nel 2017, 860.000 persone hanno visitato i suoi beni.
Pochi giorni fa il nostro presidente Andrea Carandini, in occasione della conferenza stampa nazionale di presentazione delle giornate fai d’autunno, ha voluto porre l’attenzione su un unico grande concetto: salvare è mantenere!
In una realtà del nostro Paese che ha ancora davanti agli occhi il ponte crollato di Genova ed il soffitto sfondato della chiesa di Roma, la manutenzione ordinaria, una pratica tradizionale virtuosissima e poco costosa con la quale il FAI cura tutti i suoi beni, è stata invece sempre più soppiantata da restauri molto onerosi.
La vastità e la sostanziale fragilità di un patrimonio che invecchia sommate a incuria, negligenza, inconsapevolezza, perdita di antichi saperi, indolenza mettono sempre più a rischio i nostri beni artistici e paesaggistici, insieme alla nostra storia, alla nostra identità e alla nostra sicurezza.
Il FAI in questo mese di ottobre chiama a raccolta tutti noi italiani per ricordarci che l’Italia ci appartiene e tutti possiamo fare qualcosa per renderla migliore, e possiamo farlo insieme. A ottobre infatti torna “Ricordiamoci di salvare l’Italia”, la campagna nazionale di raccolta fondi che punta ad allargare la grande famiglia della Fondazione. Un mese per prendersi cura del nostro patrimonio comune. Ecco perché, eccezionalmente in piazza domenica 14 ottobre e fino al 31 ottobre su www.fondoambiente.it, sarà possibile iscriversi con una speciale quota per i nuovi iscritti di 29 euro anziché di 39.
Si può contribuire alla campagna “Ricordati di salvare l’Italia” anche in tre altri modi:
* inviando dal 3 al 21 ottobre un SMS solidale al numero 45592 del valore di 2 euro da ogni cellulare
* effettuando una chiamata allo stesso numero per donare 5 euro con una telefonata da rete fissa
Durante le Giornate FAI d’Autunno all’accesso di ogni bene sarà richiesto un contributo facoltativo, preferibilmente da 2 a 5 euro, a sostegno dell’attività della Fondazione. Per gli iscritti FAI e per chi si iscriverà per la prima volta durante l’evento – a questi ultimi sarà destinata la quota agevolata di 29 euro anziché 39 – saranno dedicate visite esclusive, accessi prioritari ed eventi speciali.
Chi non trovasse la tessera può scaricarla sul proprio cellulare, andando sul sito tesserafai.it, oppure può scaricare la APP e da lì scaricare la tessera sul proprio cellulare. O telefonare al call center (tel. 02 4676151) attivo dalle 9 alle 18, anche domenica. Il call center verificherà in tempo reale l’effettiva iscrizione e manderà subito un SMS o un’email all’iscritto con la conferma di effettiva validità dell’iscrizione.
Iscriversi al FAI vale un patrimonio. È un atto concreto per dimostrare il proprio amore per l’arte, la storia e la natura del nostro Paese e per diventare “custodi” e al tempo stesso promotori delle nostre bellezze. È un modo per esercitare il proprio ruolo civile di cittadini, contribuendo alla cura e alla valorizzazione di beni culturali e paesaggistici speciali, che potranno così essere tramandati alle future generazioni. Ma permette anche di godere subito dei tanti vantaggi offerti agli iscritti: in tutta Italia presentando la propria tessera FAI è possibile entrare gratuitamente nei beni della Fondazione e usufruire di più di 1500 sconti e convenzioni con musei, teatri, giardini, dimore storiche.
Sicuramente la Giornata FAI d’Autunno sarà un bel momento per unirsi a noi, conoscerci e continuare ad apprezzarci, ma vogliamo sottolineare che è anche frutto di un grande lavoro di organizzazione e collaborazione, per il quale vorremmo ringraziare la Provincia di Pesaro Urbino, il Comune di Pesaro, Assessorato alla Bellezza e Assessorato all’Ambiente, l’ASUR Area Vasta n. 1 (Direttore Romeo Mangioni, Direttore Galantara Dott. Giuseppe Bonafede, Centro Permanente di Promozione della Salute, Dott.ssa Clizia Pugliè), il Quartiere di Montegranaro-Muraglia (Presidente Luca Pandolfi) ed il Quartiere delle Colline e dei Castelli (Presidente Nicholas Blasi) per aver accolto, condiviso e collaborato al nostro progetto.
Il Parroco della parrocchia di Cristo Risorto, Don Adelio, che ci ospiterà nella sua bella chiesa in occasione della nostra anteprima, evento per il quale vorremmo ringraziare anche Lucia Ferrati per i testi, Silvia Melini, Luigi Sica e Eleonora Gambini per la lettura, Leonardo Gubellini (Direttore) e Sandro Di Massimo per la visita al centro Florovivaistico.
Un ringraziamento particolare anche alla Professoressa Maria Chiara Mazzi, storica e musicologa, appassionata ideatrice e guida della visita nel centro storico, ad Anna Maria Benedetti da sempre nostro riferimento storico e culturale, alla nostra preziosa e sapiente guida naturalistica Andrea Fazi che in una bella collaborazione con altre associazioni cittadine (Lupus in Fabula – Legambiente Pesaro – WWF Pesaro) ci guiderà per i colli e nel parco Galantara, alla nostra cara amica Elena Bacchielli, che si occuperà delle visite guidate a Villa Cattani Stuart, al Prof. Roberto Vecchiarelli, nella veste di volontario FAI d’eccezione, e la Dott.ssa Clizia Pugliè che ci introdurranno al delicato argomento della malattia mentale al Museo delle Stufe.
Vorremmo ringraziare la sensibilità della famiglia Tomassini, proprietaria di Villa Cattani Stuart, vero primo impulso di questa giornata, per l’empatia alla nostra causa, per la disponibilità ad aprire a tutti il meraviglioso giardino all’italiana della villa, ed a riservare agli iscritti FAI – volendo tutelare un bene prezioso e fragile – gli interni seicenteschi affrescati.
Infine un grazie immenso va ai volontari del verde per la cura dei sentieri e del parco, alla protezione civile e a tutti i nostri numerosi volontari FAI, che da sempre ci seguono, ci aiutano, sostengono e accolgono con il sorriso tutti i visitatori: con la loro disponibilità sono sempre fondamentali nella realizzazione di queste giornate.
Il FAI GIOVANI, vuole promuovere, in occasione dell’evento nazionale GIORNATE FAI D’AUTUNNO, una giornata che, ancora una volta, ha l’obbiettivo di valorizzare il nostro patrimonio culturale cittadino. Sono ormai due gli appuntamenti annuali nazionali del FAI che coinvolgono tutta italia e che, come voi sapete, sono le Giornate di Primavera e le Giornate d’Autunno.
Nell’ormai nota giornata di Primavera, organizzata dalla Delegazione fai di Pesaro Urbino, si aprono luoghi che definiamo, secondo il format del FAI, aperture “eccezionali”, ovvero luoghi particolari, eccezionali, da valorizzare, oppure da far scoprire, ma anche, perché no, riscoprire.
Nella Giornta Fai d’autunno, invece, organizzata dal Fai Giovani, sempre in stretta collaborazione con la delegazione, quella su cui viene posto l’accento è l’esperienza. Vengono proposti percorsi dove la scoperta è di tipo tematico, sensoriale, e spesso legata a luoghi, personaggi, storie…
Quest’anno, a guidare la nostra proposta, due impulsi, due percorsi che hanno permesso di diversificare la nostra giornata.
Il primo impulso è nato sui nostri colli a cavallo tra Novilara e Trebbiantico, dove l’incontro con la famiglia Tomassini e la sua proposta di inserire villa Cattani Stuart nelle GFA hanno portato a riscoprie ed indagare queste zone ricche di storia, con origini antichissime, immerse in uno splendido paesaggio naturale ed una splendida vegetazione, alberi monumentali e meravigliosi scorci panoramici. Percorrere queste strade è sempre di notevole suggestione e le storie che si intrecciano così appassionanti che tutto questo ci porterà sicuramente a ritornare in queste zone con progetti ancora più completi e coinvolgenti. Dai margini della città questo percorso si snoderà alternado verde e memoria per raggiungere ville adagiate sulle colline dove parchi, giardini e antiche dimore raccontano di storie illustri.
Verranno proposte tre aperture:
il Centro Ricerche Floristiche Marche “Brilli Cattarini” in via Barsanti, con i suoi archivi di erbari di importanza nazionale, la biblioteca e l’orto botanico. Il Parco di Galantara, già Villa Guerrini ed oggi residenza sanitaria assistita, con la bella fontana restaurata dal Soroptimist e dal FAI nel 2011 ed il Museo alle Stufe inaugurato nel 2017, un delicato percoso di conoscenza dedicato alla memoria del San Benedetto, l’antico manicomio di Pesaro. Verrà infine aperta Villa Cattani Stuart, splendida villa seicenesca con giardino all’italiana e interni riccamente affrescati e decorati.
SABATO 13 ottobre avremo l’anteprima della GFA, che dedicheremo al Centro Ricerche Floristiche Marche ed in particolare ad Aldo Brilli Cattarini, appassionato botanico e ideatore del Centro, per far conoscere un patrimonio prezioso di cui non tutti conoscono l’esistenza ed il grande valore. Non avendo il Centro Floristico locali adatti all’evento che vogliamo proporre, la storia e la vita di Brilli Cattarini raccontata attraverso un importante lavoro di ricerca svolto da Lucia Ferrati con letture a cura di Silvia Melini, Luigi Sica e Eleonora Gambini, ci incontreremo alle ore 16,00 presso la Chiesa di Cristo Risorto. Proseguiremo con la visita al Centro Floristico Regione Marche guidati di Leonardo Gubellini, Direttore del Centro, e Sandro Di Massimo (il centro sarà raggiungibile anche a piedi attraverso il sentiero San Francesco).
DOMENICA 14 ottobre, per quanto riguarda L’ITINERARIO DELLE COLLINE, la giornata partirà alle 9.00 da piazza Alfieri a Muraglia con una passeggiata guidata con Andrea Fazi e Massimo Pandolfi.
Infatti saranno con noi anche le associazioni ambientaliste, ideatrici del progetto “la Verde Pesaro” (WWF, Legambiente, la lupus in fabula), perché per una coincidenza, sia loro che noi avevamo pensato di fare questa passeggiata proprio il 14 ottobre, quindi abbiamo pensato che fosse una bella occasione per unirci e di fare la passeggiata tutti insieme!
Si percorrerà la strada ed il sentiero di San Nicola per arrivare a Galantara (10:00 – 13:00 / 15:00 – 18:30 – ultimo ingresso 17:30), dove si potrà visitare il Parco, sempre accompagnati da Andrea Fazi, ed il Museo alle Stufe, con visite a cura del Prof. Roberto Vecchiarelli e della Dott.ssa Clizia Pugliè (gruppi da 15 ogni mezz’ora).
Si potrà poi visitare Villa Cattani Stuart, orari 10:00 – 13:00 / 15:00 – 18:30, visita del giardino per tutti, visita della villa riservata agli iscritti FAI (possibilità di iscriversi sul posto), con visite guidate a cura di Elena Bacchielli alle ore 11,00 e alle ore 16,30 – su prenotazione al 3917916846 (orario prenotazioni 09:30/12:30-15:30/19:00)
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Equivoci e forzature: il peggior gesuitismo di James Martin
La relazione di James Martin a Dublino è veramente del peggior gesuitismo e addirittura oggettivamente diabolica. Inoltre non ha nulla da spartire con sant’Ignazio di Loyola. Per quattro motivi che evidenziano gli equivoci gravi nei quali il gesuita "omoeretico" è incappato al Meeting della famiglia. Vediamo perché.
di P. Riccardo Barile OP (31-08-2018)
Credo di essere tra i pochi domenicani che hanno letto con attenzione gli Esercizi spirituali di sant’Ignazio di Loyola († 1556), di averne tratto ammirazione nonché utili insegnamenti e addirittura di aver sottolineato il testo con matite di diversi colori. Non mi ritengo dunque affetto da “sindrome antigesuitica”, ma proprio per questo so che esiste una perversione di certi elementi che generano poi la caricatura del gesuita in senso peggiorativo.
Questo per dire che la relazione di James Martin a Dublino “Come possono le parrocchie accogliere le persone LGBT?” è veramente del peggior gesuitismo e addirittura oggettivamente diabolica e, mi permetto di aggiungere, non ha nulla da spartire con sant’Ignazio di Loyola. “Oggettivamente diabolica” perché dice cose belle, giuste e pastoralmente praticabili, ma con studiata noncuranza pone qualche affermazione di principio e di metodo che scardina tutto e trasforma affermazioni che in se stesse potrebbero essere intese in senso positivo in affermazioni negative o per lo meno equivoche sia a livello teorico che pastorale.
Presupposta l’analisi Roberto Marchesini, vorrei collocarmi a un livello più pratico individuando alcuni grimaldelli attraverso i quali Martin apre le porte e scardina l’edificio.
PRIMO EQUIVOCO: la Chiesa (cattolica?) ha trattato male e tratta male le persone LGBT. Ecco un’affermazione sintetica: «Negli ultimi anni ho sentito storie aberranti di persone LGBT cattoliche che sono stati respinte dalle parrocchie». Naturalmente Martin porta qualche esempio, ma appunto “qualche” esempio. Ora, una affermazione così deve essere sostenuta da tanti esempi, molti di più di quelli portati, altrimenti siamo nella generalizzazione.
Oltre al numero maggiore di esempi da addurre, si tace sul comportamento di tantissimi preti che non discriminano le persone omosessuali, le trattano bene, indicano loro una via di salvezza nel sacramento della confessione e, quand’anche non le assolvano, non interrompono un buon rapporto pastorale e orante con loro. E poi vi sono iniziative diocesane. Giustizia vuole che si tenga conto di tutti costoro e non solo di qualche comportamento eccedente.
Inoltre non si può valutare il passato con le acquisizioni culturali del presente. Nel passato, certo anche a seguito della dottrina della Chiesa, il comportamento omosessuale era marginalizzato anche dalla società: le ipotesi sulla morte di Tchaikovsky († 1893) avvelenatosi su richiesta per mantenere la buona reputazione di un giovane amante, anche se non documentabili del tutto, testimoniano delle reazioni di allora circa l’omosessualità. La Chiesa viveva in questo mondo e non reagiva né più né meno della società. Anzi, nel caso di abilità tecnica non si andava troppo per il sottile e anche gli ecclesiastici si servivano del pittore Giovanni Antonio de’ Bazzi soprannominato... il Sodoma († 1549), nonché di altri sommi e chiacchierati come un Leonardo da Vinci († 1519).
Oppure di un Michelangelo Buonarroti († 1564), che affrescò la Cappella Sistina tra le proteste di diversi cardinali per quei nudi maschili troppo esibiti - e si sospettava il perché - e senza che il Papa Paolo III intervenisse. Il suo cerimoniere Biagio da Cesena († 1544), infatti, dopo aver litigato con Michelangelo per tutti quei nudi, si trovò - e si trova - dipinto lui stesso nudo, con le orecchie da asino e avvolto da un serpente che, insinuando la testa sotto l’inguine, gli mordeva il membro virile! Dunque andiamoci adagio prima di affermare che la Chiesa ha sempre trattato male le persone omosessuali o non ha apprezzato le loro doti in questo caso tecniche.
SECONDO EQUIVOCO: le persone LGBT «fanno parte della Chiesa tanto quanto papa Francesco, il loro vescovo o il loro parroco. Non si tratta di farli diventare cattolici: lo sono già». Certo che sono battezzate e il carattere rimane. Ma l’appartenenza alla Chiesa non è solo misurabile con un sì o un no: esiste anche una intensità del sì. E le persone omosessuali “attive” sono in una condizione di peccato oggettivo che, a meno di ritenerle tutte ingenue e cretine, nella normalità dei casi è anche un peccato soggettivo. E questo peccato non appartiene alla Chiesa e, considerata la persona nel suo insieme, rende più debole l’appartenenza alla Chiesa. Non si può ascoltare la Parola, cercare Dio, avvicinarsi a Gesù Cristo ecc., come sostiene Martin, restando attaccati a questi comportamenti. Si può invece e si deve supporre che papa Francesco, il vescovo, il parroco, non siano abitualmente in condizione di peccato grave, per cui la frase citata all’inizio del paragrafo, nella concretezza della vita cristiana risulta inammissibile. A meno di sostenere che gli atti omosessuali non sono peccato.
TERZO E FONDAMENTALE EQUIVOCO: ��Non riducete i gay e le lesbiche alla vocazione alla castità che riguarda tutti noi cristiani. Le persone LGBT sono più della loro vita sessuale, ma alcuni sentono parlare solo di quella». Se così fosse, viene da pensare che le insistenze sulla castità rivolte a queste persone dalla pastorale di un tempo e di oggi derivano da pastori che non hanno il senso pastorale o addirittura risultano essere dei maniaci sessuali. La verità è più semplice: essendo diversi i peccati e i peccatori, a ogni peccatore si chiede di convertirsi dal peccato concreto in cui è immerso e non da tutti gli altri. Non si può partire unicamente da ciò che è buono e valido nella loro vita perché è appunto “quel peccato” che rischia di compromettere quanto c’è di buono arrestandone o deviandone la maturazione.
Si obietterà: santo cielo, è mai possibile che tutti i peccati si riducano al sesso e su questo sempre si debba insistere? No, ci sono peccati ben più gravi come l’omicidio, il cuore duro verso il prossimo, la superbia della vita, la bestemmia ecc. Ma quello del sesso è il peccato più facile e più diffuso ed è il grimaldello attraverso il quale si apre la porta di una vita difforme al progetto di Dio su di noi; il resto verrà dopo. Sant’Atanasio, nella Vita di Antonio - sono reduce da un trasferimento e ho i libri ancora in scatola e non posso citare con esattezza, ma assicuro che così è - fa parlare il demonio che si lamenta di non aver sconfitto Antonio attraverso le armi che sono “sotto l’ombelico”, armi con le quali ha sconfitto tantissimi giovani. Dunque è “normale” l’insistenza sulla castità e ancora oggi sant’Atanasio lo conferma.
Ma non solo. Un pastore deve sin dall’inizio fare un “coming out pastorale”, cioè chiarire a chi gli sta davanti quale è il senso dell’accoglienza, precisando: “Caro/a, la via della salvezza alla quale Gesù Cristo ti chiama passa attraverso la castità, cioè l’astensione da atti omosessuali. Certo, potrai ricadere per fragilità e verrai a confessarti con il proposito di ricominciare. Gesù Cristo è contento della battaglia che stai iniziando e ti darà l’aiuto. Soprattutto, proibendoti questi atti, Dio non vuole limitare la tua felicità, ma condurti alla felicità vera».
Dunque il consiglio di Martin «Non riducete i gay e le lesbiche alla vocazione alla castità» va rigorosamente ribaltato con la frase appena formulata.
Se si crea questo contesto (ribaltato), allora tante positività che appaiono nella relazione di Martin possono essere accolte in senso giusto e proficuo: i valori delle persone omosessuali, la loro ricerca di Dio, una capacità maggiore di perdonare, doti tecniche al servizio della comunità ecc. Valga per tutte questa considerazione di Martin: «Dio le ama, e dovremmo amarle anche noi, e non di un amore avaro, obtorto collo, pieno di giudizi e di condizioni, solo con una parte del cuore: intendo di amore vero. E cosa significa amore vero? La stessa cosa che significa per chiunque: conoscerle nella complessità della loro vita, festeggiare con loro i momenti belli, soffrire con loro le amarezze, come farebbe un amico. E dirò di più: amarle come Gesù amava gli emarginati: follemente ed eccentricamente». Così come suonano, sono parole pienamente accettabili, ma nel contesto del coming out pastorale sulla castità. Se invece la proposta e l’esigenza della castità non è chiarita, in realtà non amiamo cristianamente le persone omosessuali e annunciamo loro un falso amore di Dio... e Dio ne chiederà conto.
QUARTO EQUIVOCO: qualche allegro stravolgimento della Scrittura. Martin conclude con un’icona evangelica: l’incontro di Gesù con Zaccheo in Lc 19,1-10 pensando «a Zaccheo come a un simbolo delle persone LGBT cattoliche». E qui iniziano una serie di allegorie, alcune delle quali stanno in piedi, mentre altre sono una frana.
Bene sottolineare che Zaccheo cercava di vedere Gesù e Gesù, saltando le persone normali e costituite in autorità, si rivolge a lui che era a suo modo marginale. A dire il vero, se il paragone calza nella seconda parte per la Chiesa, quanto alla prima parte tutti gli omosessuali che “fanno rumore” desiderano vedere Gesù? Ci sono forti dubbi...
Osserva giustamente Martin che «per Zaccheo, convertirsi significa dare ai poveri», perché è il contrario del suo peccato e così facendo non solo vi rimedia, ma esprime la verità della conversione. Applicato a chi pratica l’omosessualità, ci aspetteremmo un proposito di castità.
E invece «Zaccheo scende dall’albero; il testo greco ha un’espressione molto forte, statheis: mantenne la sua posizione»: che cosa significa se non che non ebbe l’intenzione di cambiare? E da qui è ovvio transitare alla considerazione che Gesù non gli propose di certo «terapie di conversione».
Infine Martin interpreta il tutto con una considerazione d’insieme che non ha nessun riscontro nel brano evangelico: «Il modello di Giovanni Battista (...) prevedeva che prima ci si convertisse, poi che si venisse accolti nella comunità. Per Gesù, prima viene la comunità, poi la conversione. L’accoglienza e il rispetto sono prioritari». No, è il contrario e ne fa fede il cammino penitenziale nonché l’attuale sacramento della Penitenza: proprio per essere accolti nella comunità nella quale c’è la salvezza si veniva e si viene perdonati dai peccati e, in antico “assolti” dalla penitenza in quanto le opere di penitenza compiute manifestavano la verità della conversione e dell’appartenenza alla Chiesa.
Insomma, pur non essendo gesuita ho provato a fare un discernimento sulle parole di un gesuita - operazione quasi surreale! - nel senso indicato dall’Apostolo: «Vagliate ogni cosa e tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21), fermo restando che «se in qualche cosa pensate diversamente, Dio vi illuminerà anche su questo» (Fil 3,15).
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IL CANTO VEDICO
Il canto vedico, ancora sconosciuto in Occidente, è la pura essenza dello yoga: si tratta di mantra cantati con gli speciali suoni e respirazioni del sanscrito, che creano nuove connessioni mentali, spazi interiori, silenzi. E’ particolarmente indicato in ambito terapeutico o per potenziare concentrazione, memoria, meditazione e per aprire all’ascolto. I canti sono tratti dai Veda. I Veda sono una vasta collezione di inni uditi dagli antichi saggi indiani mentre erano in profondo stato meditativo. Insieme formano la più autorevole fonte della saggezza indiana dato che contengono informazioni su di ogni argomento immaginabile: dalla relazione fra insegnante e studente alla struttura del sistema umano, dalla importanza della natura e degli elementi della nostra vita alla conoscenza tecnica necessaria per costruire case, dalla origine dell’universo alla etichetta sociale, da come guarire le varie malattie agli incantesimi per garantire protezione. Di conseguenza i Veda sono stati per migliaia di anni la fonte primaria di riferimento per la vita indiana. La lingua dei Veda è il sanscrito, la lingua classica indiana.
La vasta informazione contenuta nei Veda fu preservata e trasmessa da una generazione di insegnanti e studenti alla successiva in forma orale. Tutto avveniva oralmente grazie alla concentrazione e soprattutto con un ascolto profondo che aiutava la memorizzazione. Le regole di pronuncia nel canto vanno rispettate senza eccezioni: proprio grazie a ciò i Veda sono cantati oggi come migliaia di anni fa.
Nell’apprendere il canto vedico lo studente ora come allora, deve ascoltare il suo insegnante e poi cantare esattamente come il maestro: questo processo è chiamato ‘Adhyayanam��� o Canto Vedico. Era parte integrante della educazione tradizionale antica e ancora oggi i Veda sono una delle più importanti fondamenta sulle quali riposa l’intera gamma del pensiero, sapere, cultura e credo indiani.
parte 2
Nella musica abbiamo bisogno d 5 a 10 o 12 toni per creare una melodia. Il Canto Vedico invece usa solo tre toni. Il tono di base (svarita); un tono ad una nota più alta del tono neutrale (udatta) e un tono ad una nota più bassa del tono neutrale (anudatta). Esiste anche una combinazione (nigadha) dove il tono inizia con svarita e finisce con udatta.
I suoni dell’alfabeto sanscrito hanno una relazione con i 5 elementi della natura così che si possono percepire i significati profondi del canto anche senza conoscere il significato della lingua. Il suono, unito al ritmo e alla pronuncia accurata, ci apre così ad una comprensione che è al di là delle parole. E’ importante però che chi canta sia attento e in grado di riprodurre il canto con la pronuncia e le respirazioni esatte della tradizione.
Il processo dell’apprendimento segue una formula molto semplice: ascoltare e ripetere. Ci vuole molta pratica affinché l’allievo impari ad ascoltare esattamente ogni suono e a ripetere ciò che ha sentito. Dovrebbe diventare in grado di riprodurre la stessa chiarezza e purezza del suono, le stesse pause, fino allo stesso modo di respirare dell’insegnante, tanto da diventare una sola voce.
L’ascolto profondo è una sfida. Non siamo più abituati ad ascoltare e a dare una attenzione piena anche al singolo suono, i suoni che percepiamo sono mischiati con la nostra memoria, coi nostri sentimenti ed emozioni, con quello che amiamo o rifiutiamo.
Quando l’allievo impara l’ascolto attento, comincia anche a sentire alcuni dei benefici del Canto Vedico. La sua mente ora riesce a restare focalizzata e la sua attenzione ha una diversa qualità. Questa nuova abilità si manifesta anche nel quotidiano, lavorando, studiando, così che le distrazioni diventano via via meno forti.
Anche la riproduzione dei suoni è una sfida. All’inizio è impossibile riprodurre i suoni senza sbagliare e sbagliare ci fa sentire male, ci mette in discussione, espone le nostre fragilità, le nostre paure. L’insegnante però procede, non lascia spazio alle giustificazioni, alle scuse e piano piano si impara ad accettare i nostri sbagli, le disattenzioni, la pronuncia approssimativa. Impariamo che sbagliare non solo è naturale, ma è l’unico modo che abbiamo per conoscere e per cambiare. Le giustificazioni, rimanerci male, sentirsi in colpa, sono inutili : basta riprovare con più attenzione a riprodurre il suono, ascoltare e ripetere.
Questo processo sviluppa in noi un nuovo atteggiamento verso i nostri errori: invece di bloccarci nel giudizio negativo di noi stessi, impariamo a muoverci. L’errore non blocca, ma diventa uno stimolo per procedere con più attenzione. Così si affina il vero ascolto e la forza interiore, sia durante il Canto che nella vita.
parte 3
La gioia del cantare è molto stimolante e tonificante: chi canta sente la gioia del cuore.
E’ importante saper distinguere il Canto Vedico dalla religione e riconoscere che il Canto Vedico è diverso dal cantare e ripetere bhajan o kirtan.
Il Canto Vedico appartiene all’antica tradizione vedica pre-religiosa e universale: tratta dei modi della percezione, della conoscenza e dell’azione cosciente. L’abilità di creare attraverso la disciplina del suono un legame con quello che abbiamo in profondità è attraente per persone di diverse tradizioni, che proprio grazie al canto riscoprono la propria tradizione e i suoi valori. Il beneficio della attenzione e quello di mantenere un nuovo atteggiamento rispetto al problema di sbagliare, sono ricercati da chi vuole introdurre una nuova qualità nella propria vita.
Se oggi anche le donne possono praticare il Canto Vedico lo si deve al prof. T.Krishnamacharya (1888-1989). Era un bramino ortodosso, ma in tarda età ebbe paura che il Canto si perdesse perché gli uomini sono troppo indaffarati nei tempi attuali. Consapevole di quello che faceva, aprì il Canto Vedico alle donne e più tardi agli stranieri. La società ortodossa non vide di buon occhio questa novità così Krishnamacharya annunciò pubblicamente che se l’attività del Canto Vedico implicava un peccato lui era pronto a prenderlo sulle sue spalle.
Il figlio TKV Desikachar ha continuato questo lavoro. Chandra Klee Cuffaro lo ha poi diffuso in Italia.
Gabriella Tardozzi, insegnante di yoga da oltre 20 anni, studia il Canto Vedico dal 1997, sia a Madras (India) presso il Krishnamacharia Yoga Mandiram che in Italia con Chandra Klee Cuffaro. Nel corso dei seminari lo trasmette così come lo ha appreso dai suoi maestri.
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Sani e Fragili. “L’arte di essere fragili” di Alessandro D’Avenia.
A spiegarla, la poesia, perde il suo mistero. Scema la magia, come fosse una bacchetta magica difettosa. Alessandro D’Avenia non ostruisce il messaggio del poeta Leopardi con una retorica inutile, melensa e gratuita; anzi, prega i lettori di non confondere il suo L’arte di essere fragili, edito da Mondadori, per una mera opera di critica letteraria: questo lungo epistolario con uno dei maggior poeti della Letteratura italiana è un’accorata richiesta di restituire passione all’insegnamento e di comprenderne il ruolo imprescindibile per lo sviluppo di individui sociali sani e fragili. Sani e fragili: potrebbe suonare come un’antinomia; viceversa, è l’ambizione senza inganno: si è sani quando si accoglie la propria fragilità e se ne fa un’arte.
Ingabbiato soltanto come “il pessimista”, nessuno ha più acceso i riflettori sulla parola “poeta”: Giacomo Leopardi cantava la vita e la vita a volte ha sguardo truce e severo. Liquidato come sfortunato, infelice, sventurato, egli ha colto più di ogni altro la verità di ciascuno di noi e l’ha declinata nei più bei versi mai scritti. Battuto dai dolori impietosi che colpirono persino la vista, tanto da costringere Giacomo a dettare gli ultimi versi all’amico Antonio Ranieri, la sua poetica custodisce messaggi d’amore, solidarietà e speranza – oggi tanto necessari – che si mescolano ai fili d’erba come gramigna nel vasto prato dell’esistenza umana: infestano, hanno radici forti, attecchiscono su qualsiasi terreno, sottraggono ossigeno all’indifferenza e all’odio, le due vere bestie di cui siamo prede in natura.
La Letteratura è bella, lasciatemelo dire. È bella perché ripara: “è dei poeti riparare – cito dal testo – cosa tutt’altro che comoda, così come lo è delle persone e dei mestieri pazienti. Per loro è evidente che non si creano le cose dal nulla, ma che vanno custodite e coltivate, rimesse a nuovo.” Con il tempo impariamo a riparare noi stessi e dunque in noi abita il poeta. Tuttavia negli ultimi anni mostrarsi fragili pare sia diventato un disonore. Ricordo gli anni adolescenziali, e questi ultimi, in cui i versi mi sono venuti in soccorso rivelandomi la verità delle cose pur nella loro ambigua complessità: “Da insegnante e da scrittore, sono chiamato a custodire, curare, riparare alunni e parole, proprio perché sono preziosamente fragili.” Lettera dopo lettera D’Avenia racconta il suo mestiere di insegnante, lo sguardo vigile su ogni seme, che per sbocciare dovrà superare il primo inverno aspro e spietato: l’adolescenza. Ma chi più di Giacomo Leopardi ha raccontato i drammi, i vuoti, i salti, gli entusiasmi della grande trasformazione? Chi più di lui ha descritto il buio dell’incomprensione, della solitudine, della sofferenza, della malattia? Chi più di lui è stato ed è vicino ai ragazzi di ogni tempo, specchiandosi negli stessi occhi confusi e impauriti? Perché allontanare i ragazzi da questa visione preziosa secondo la quale la vita è fatta di buio per vedere le stelle e di luce per godere del sole, senza omettere l’uno e l’altra, il dolore e la gioia, la morte e la vita? Per decenni gli insegnanti si sono fermati alla schiena curva dell’autore de L’infinito senza entrare nel verso e donarlo con la dovuta comprensione a schiere di allievi devastati da famiglie infuocate da tensioni, litigi, contrasti, dissapori. “Spaccare il guscio e lasciare che ogni fiore sia, questo è il compito di ogni maestro.” Spaccate i gusci, andate al di là, navigate oltre le rime. Ed è la scuola il luogo per spaccare i gusci, per seminare, riparare, sfrondare, rinascere. Accade spesso il contrario, ovvero che la scuola diventi il luogo del guscio per eccellenza attorno cui sappiamo bene come costruire muri nell’età adulta. E rischiamo così che il fiore muoia e il pianeta inaridisca.
“Sogno una scuola in cui la letteratura valga più della storia della letteratura, leggere più del dover leggere, la parola più del programma.” Approvo e applaudo. Ho come l’impressione che persino la scuola sia vittima del “presto” e del consumo. Non si può consumare la poesia, non si può fare presto mentre si legge o si spiega. Bisogna fermarsi, comprendere, riflettere, approfondire, ragionare. La scuola deve insegnare a vivere, non a omologarsi: a questo pensano già i mass media. “La letteratura è custode di questo fuoco costante, è il racconto che consente di realizzare il nostro compito, anche quando abbiamo dimenticato tutto e ci sentiamo smarriti.” La questione non è Leopardi, la questione è tornare a insegnare Leopardi con la passione che gli è dovuta, quella passione che brucia e marchia a fuoco per la vita. D’Avenia scrive: “Sono le cose inutili, come i sogni, come la letteratura, che dobbiamo salvare, soprattutto a scuola”. Ci è stato dato il dono di esistere, vivere è un atto di responsabilità. Insegnare richiede lo stesso impegno, poiché deve mantenere issata la vela della conoscenza e della fiducia in un mondo migliore.
Questo è il fulcro dell’opera e qui torna più volte lo scrittore, che parla ai ragazzi, affinché imparino a fare della propria fragilità, dei propri buchi, il volto sano di se stessi, e parla ai docenti, affinché risveglino il desiderio di foggiare ogni studente con amore e lealtà, come fosse qualcosa che appartiene loro. La scuola non può salvare senza passione. Rispondere con altrettanti dubbi alle domande della vita e comprendere qual è il nostro ruolo è il vero compito in classe da svolgere con dedizione e coscienza. Dirsi a gran voce che bisogna ripartire dalle aule per una società migliore – ho sempre amato quell’ora, scarsa e rubata, di educazione civica – non è sufficiente se il ruolo del docente è svilito agli occhi degli alunni e se gli allievi vengono privati della loro personalità. Non è sufficiente se si interpreta la scuola come un ricovero per adolescenti e genitori, anziché una baita in cui imparare a godere delle vette più alte e da queste trarre ispirazione. Attraverso il giovane Leopardi D’Avenia porta tra le pagine la sua esperienza di insegnante di Lettere, senza dubbio da esempio. Quel che può apparire un restauro della poetica leopardiana è invece una profonda riflessione sull’insegnamento, un mestiere cui è stata più volte messa la minigonna e gettato in mezzo a una strada. Non soltanto: è un’acuta osservazione dei giorni durissimi dell’adolescenza con la quale D’Avenia, professore e scrittore, ha saputo costruire ponti di versi e pagine.
L’arte di essere fragili è un amabile dialogo: tra adulto e adulto, tra adulto e ragazzo, tra la realtà del Sé e la finzione della maschera. Uno dei ritratti più vivi di Leopardi, un omaggio autentico – e per questa ragione popolare, compreso ai più – che fino a oggi la Letteratura non ha saputo fare, chiudendo Giacomo, per l’ennesima volta, in una biblioteca. E lui invece desiderava parlare a tutti. Agli adulti in fuga dal proprio destino, a quelli boicottati dalla vita, a quelli rotti, a quelli braccati. Il poeta si rivolgeva e si rivolge a tutti quei giovani mai ascoltati con le orecchie, mai sentiti con il cuore, come lui. Per questa ragione, l’amato saggio-epistolario è per i ragazzi e per i genitori, per gli allievi e per i docenti. “Creare è sinonimo di amare.” Parole dell’autore, ed è forse questo il basamento di ogni principio o insegnamento. Se vogliamo ragazzi in vita, non soggetti di Natura ma protagonisti di Storia, insegnare ad amare è tutto ciò che dobbiamo fare. Amare è l’unica istruzione. Ha un “che” di francescano la poesia di Leopardi e su questo appunto, che sento veritiero, mi trovo d’accordo, perché tutto intorno a noi – dal cinguettio sui rami denudati dall’inverno all’acqua fresca dei fiumi, sino alla luna che veglia con pace eterna – si fa poesia agli occhi delle anime gentili e tormentate. Dobbiamo ripararci, ha ragione Alessandro D’Avenia. Tutti nasciamo con quel terribile difetto, citando Tiziano Terzani, della mortalità e ciò ci rende fragili e sani, umili e fortissimi, come una ginestra.
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Intorno alla sostanza volontaristica. "Covivialità delle differenze"
"Convivialità delle differenze". Racchiude un po’ tutte le linee fondamentali dell’edificio della pace. (Don Tonino Bello) (di Santa Fizzarotti Selvaggi) L’azione volontaristica è una scelta che potrebbe appartenere a tutti: così come le terre dei valori umanitari appartengono alla storia dell’umanità! Una scelta colma di speranza: è, infatti, la speranza la password che consente di “affrontare” la realtà. È evidente che si tratta innanzitutto della salvaguardia della vita in cui così tanto hanno creduto i grandi Maestri di verità e non ultimi F. Palasciano , F Nightingale , H. Pavlovna, H . Dunant e altri ancora: ma la cultura della vita che scaturisce dalla costruzione della coscienza fa parte integrante della struttura dell’essere umano sin dall’alba dei secoli. Educare oggi alla pratica costante e quotidiana dell’atto volontaristico, della solidarietà quale elemento fondante la civiltà, non è cosa facile poiché nella nostra contemporaneità la vita sembra non avere più senso se non quello del profitto e dell’utilitarismo economico. D’altra parte l’orrore al quale spesso assistiamo è il risultato della tragedia di un mondo privo di parola: cioe ‘ incapace di comunicare con sé e con l’Altro. Si assiste quasi ad una preoccupante “mutazione genetica “capace di snaturare l’atto volontaristico ponendolo al servizio del profitto . In tal modo perde quella spontaneità necessaria accompagnata dall’assoluta gratuità e totale disponibilità nella piena sospensione di ogni giudizio nei confronti di chiunque. Di qui l’azione educativa che tende alla “presa di parola” da parte dell’associazione Crocerossine d’Italia-Onlus per immaginare e realizzare i luoghi del bene, del curare e del “prendersi cura” dell’Altro in una rinnovata visione del mondo. È evidente che non è facile riscoprire tale interiore apertura alla relazione d’aiuto per riappropriarsi della cultura della dignità dell’essere umano e della reciprocità in una società che spesso non percepisce il significato profondo della solidarietà. Una parola , quest’ultima ,spesso abusata e logora che ha perso di pregnanza emotiva e ha quasi oscurato l’identità originaria dell’impegno volontario quale scelta di vita. In tal senso la sfida del Volontariato significa spostarsi verso una soglia molto più ampia del cosiddetto altruismo: in tal senso le relazioni vengono trascese, poiché si collocano nella dimensione dell’incontro con l’Altro. È evidente che in tale dimensione il Volontariato non ha distinzioni di generi, ma appartiene a uomini e donne indistintamente, mentre si colora di una forte eticità , intesa in senso Kantiano : “Due cose riempiono l'animo di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale dentro di me". Si tratta, in verità, di un modo più profondo di ripensare l’essere umano all’interno di una realtà talvolta persa nei paradigmi dell’onnipotenza, dell’eccesso di narcisismo altamente lesivo dell’Altro al quale si nega ogni sua considerazione e proposta con il dileggio, l’indifferenza, talora il cinismo. Il pensiero appare unico e non già plurale nel rispetto delle diverse identità. Invero e’ possibile scoprire la disponibilità verso l’Altro soltanto se si è consapevoli e sicuri della propria identità. Possiamo cambiare se rimaniamo noi stessi nella dinamicità propria del divenire delle cose. La coscienza della “frontiera identitaria” permette di stabilire un dialogo, di accettare l’Alterità che apparentemente viene dall’esterno, ma che in realtà dimora da sempre dentro di noi, relegata nell’ombra dei nostri pensieri più reconditi. Fondamentale è l’idea di intersoggettività quale base per la formazione dell’identità che si nutre della memoria e della coscienza di sé nella continuità, nella condivisione di luoghi, affetti, storie. Di qui la possibilità di un cambiamento che strutturi e ristrutturi la realtà in un processo continuo alla luce del passato verso un progetto aperto ad un’epoca di avvento.Ma in realtà sembra che angosce profonde sempre accompagnino i comportamenti contemporanei insieme alla percezione di antiche scissioni e processi molto problematici che fanno sì che nulla riesca più a “commuovere” se non l’uso estremo della violenza quale espressione di rabbie profonde e massive proiezioni verso coloro che ci appaiono diversi, compresa forse la persona della porta accanto. Oggi la società, proprio attraverso le manifestazioni di quella eccessiva violenza, (agita anche da coloro che dato il loro ruolo dovrebbero essere in grado di gestire le pur proprie naturali pulsioni quale bisogno compulsivo di provare emozioni e sensazioni di potenza ), ci appare smarrita alla ricerca di quella sostanza identitaria ,indispensabile base di un’antica e nuova coscienza. E tale compulsività viene spesso utilizzata in situazioni in cui forse la logica economica finisce per dominare sovrana. In tale contesto, che giunge finanche a livelli dissociativi notevoli, rappresentati in parte dal mondo mediatico e virtuale facilitante l’emergere e il consolidarsi dell’infantile pensiero magico, risulta molto difficile per l’essere umano riconoscere la realtà e della storia degli individui e delle associazioni e della sofferenza con la conseguenza di massive negazioni dell’esistere altrui. D’altra parte dinanzi ai nostri schermi televisivi, al riparo da insulti e oltraggi, spesso assistiamo ai massacri in diretta. Tutto ciò determina una sorta di anestesia dei nostri sensi e fa si’ che finanche gli orrori più atroci sembrano appartenere alla quotidianità in modo del tutto abituale. Ed è così che la “mutazione genetica “ piano piano riesce a rendere deforme qualsiasi forma armoniosa. Il che non significa che non bisogna essere flessibili ai cambiamenti che la società richiede purché non si sradichi la storia e si stabilisca invece una feconda continuità ricordando che l’emozione la madre del pensiero , come di legge in M . Blanco . Ricominciare ad ascoltarsi, a sentire, a ricentralizzare il valore della persona nella sua totalità e della storia è veramente fondante per un Volontariato che deve anche riflettere e continuamente vigilare sulle ragioni profonde e sulle modalità esistenziali della stessa oblatività di cui si compone, vale a dire sulle motivazioni che determinano la scelta dell’essere volontari e dell’atto volontaristico. Fondamentale, infatti, è la consapevolezza delle proprie scelte affinché la logica volontaristica si inscriva nella dimensione della effettiva solidarietà come tale. Di qui la necessità di una diversa costruzione di una rete di relazioni e di condizioni in cui chiaramente si disveli a noi la possibilità di accogliere le varie realtà che in ogni caso rappresentano sempre una parte di noi. Siamo come un mosaico in divenire che si costruisce stabilendo legami interculturali,intersoggetti , affettivi ed emotivi in modo da poter affrontare la dimensione del futuro che, pur non appartenendoci ancora, germina dal nostro presente le cui radici sono nel passato. Ed è all’interno della costruzione di tali connessioni che possiamo provare ad immaginare un progetto di luoghi condivisi in un discorso progettuale di rete associativa : si tratta di facilitare lo sviluppo del pensiero creativo che consente gli attraversamenti più arditi e la capacità di riconoscere parti nuove di se stessi attraverso l’Altro-da-sé. Il Volontariato dell’Associazione Crocerossine d’Italia-Onlus può rappresentare una possibilità di ideazione di questo luogo utopico che si pone tra terre diverse e realtà differenti e che pertanto non può essere il risultato di una imposizione o di messaggi manipolativi, bensì il frutto della consapevolezza. Si tratta di imparare a pensare per interconnessioni indispensabili per il nostro esistere nel mondo. Siamo tutti, infatti, immersi in un processo co-evolutivo in cui l’Uno è parte dell’Altro. È forse in tale dimensione che si inscrive il senso del Volontariato quale testimone di un modo spontaneo e consapevole di relativizzare e decentrare il proprio pensiero, di contenere gli eccessi con la giusta distanza , di sostenere con amore coloro che esperiscono e vivono in una condizione di estrema fragilità. Read the full article
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